Un voltagabbana, ma per ripicca: vicesindaco rosso va con la destra

Uno stuolo di politologi di tutto il mondo, sta confluendo a Fratta Todina, duemila anime scarse tra Todi e Perugia, dove dal Medioevo governa la sinistra o il centrosinistra (oggi Pd+Psi, con rapporti di forza 90 a 10, grosso modo), feudo non rosso, ma rossissimo. Sembra Lilliput, tutto è bonsai, i rimborsi son pochi spiccioli, il governo son tre-persone-tre: il sindaco, il vicesindaco e un solo assessore.

L’attuale primo cittadino, Giuliana Bicchieraro, ha deciso di non ricandidarsi, così la scelta del successore è “caduta” (pilotata, certo) sull’assessore ai lavori pubblici, Gianluca Coata, pure Pd, in nome della continuità e a capo di una lista civica con solito nome a calembour: “Democratici uniti per il bene Comune”. Il programma è basico: scuola, strade, fogne, sport, giovani. Il colpo d’ala è un “tavolo con Regione e Anci per modificare il pareggio di bilancio imposto a livello nazionale ed europeo”. Anche se, a Bruxelles, nessuno perde il sonno per il monito che arriva da Fratta. Quest’anno, c’è una novità. Il vento sovranista-leghista soffia forte anche sui campi coltivati a grano che circondano il piccolo borgo e la contesa non ha più il risultato scontato come un tempo. La novità è una lista ambiziosa che riunisce Lega (fin qui inchiodata allo zero virgola), Fratelli d’Italia, alcuni dissidenti del Pd (tra i quali anche il capogruppo consiliare negli ultimi 15 anni, Stefano Rubeca), e con un candidato “forte”: Paolo Pascocci, area socialista, nonché – e siamo arrivati al punto – attuale vicesindaco. Nelle ultime tre legislature è stato consigliere, assessore e vice sindaco, sempre di maggioranza. Non bastasse: Pascocci non si è dimesso e così in queste settimane ha uno sfasamento bipolare: da candidato che si ritrova all’opposizione… di se stesso. Una carrellata di pareri. Coata, candidato Pd: “Paolo voleva fare il sindaco, capito che la coalizione avrebbe puntato su di me, è andato con la destra”. La quale, in espansione e inneggiando al “rinnovamento”, non è riuscita ad individuare un candidato diverso dal vicesindaco. Mah. Pascocci invita a superare gli schemi mentali: “Bisognava ribaltare un sistema dove le decisioni venivano prese dal direttivo del Pd e uno doveva solo assecondare”. Nessun problema a candidarsi con la destra? “Non siamo la destra, siamo e sono oltre le ideologie. Il fascismo è morto. Ma se il voto di un Casapound servisse a fare il bene della mia comunità, ben venga”. Il sindaco uscente Bicchieraro rivendica successi: l’adeguamento della scuola elementare (alla fine il vero “scoglio” politico: 622 mila euro, con socialisti e opposizione contrari), i lavori per quella nella frazione Pontecane, l’uso di Palazzo Rivelloni e cose cos. Diversamente da ovunque, nemmeno i migranti (una ventina di colored spediti dalla prefettura e ospitati in un hotel dismesso), qui a Fratta sono diventati “il” tema. Anzi, l’unica infuocata, assemblea pubblica svoltasi, era stata (strategicamente) indetta dal Pd. Non era più giusto dimettersi, Pascocci? “No, sono rimasto per coerenza e responsabilità verso chi mi ha eletto. Senza di noi, non si sarebbe potuto votare nemmeno il bilancio preventivo, e ci avrebbe rimesso solo la comunità, perdendo fondi”.

Il sindaco Bicchieraro, sorride: “Il bilancio preventivo, in effetti, è stato approvato grazie alla serietà delle opposizioni, che hanno votato contro, ma garantito il numero legale. Quel giorno, però, il vicesindaco con delega al Bilancio, era assente”.

Milano chiama Napoli nel nome dei Prisco. E spunta Tony Dallara

Ma allora non è una diceria. Allora il sangue napoletano a Milano scorre davvero. Ed è capace, alla fine, di tirar fuori dal cilindro il più sorprendente dei conigli, di cui tra poco vi dirò. Il luogo in cui tutto accade è il più lombardo possibile: il circolo Alessandro Volta. Antico, quasi un secolo e mezzo di storia, essendo stato fondato nel 1882. Sobrio ed elegante, con saloni su più piani. Qui viene ospitata in un pomeriggio di pioggia battente la presentazione di un libro dedicato a uno scrittore del nostro Novecento, Michele Prisco. Napoletanissimo, in rapporti stretti con Milano. Professionalmente, perché era una firma d’eccellenza del “Corriere della sera”. Umanamente, perché suo cugino, lo strepitoso Peppino Prisco, avvocato, alpino, è stato vicepresidente e icona dell’Inter (e dunque anche della città) per decenni. Il libro lo ha scritto la figlia di Prisco, Annella, signora della cultura napoletana, manager di eventi culturali. Che ha voluto ricordare il padre con delicata malinconia. A fare da anfitrione, uno dei commercialisti più noti di Milano, Carlo Bozzali.

La sala diventa in pochi minuti una specie di gemellaggio Napoli-Milano. Inaspettato, spontaneo. Il sociologo rivà d’istinto a quando al Nord gli immigrati che giungevano per lavoro, e a cui spesso non si affittavano le case, venivano chiamati spregiativamente i napuli. E a quando più recentemente sulla sponda calcistica opposta a quella di Prisco i tifosi (tra cui anche un futuro ministro) cantavano “puzzano come cani, stanno arrivando i napoletani”. Il gemellaggio spontaneo realizza il suo punto più alto quando in sala compare un signore con girocollo scuro e giacca blu.

Chissà perché, forse per le movenze inquiete, non dà l’aria di essere del pubblico. L’età è la stessa, splendidamente alta, ma dev’essere lì per qualcosa d’altro. E infatti è un cantante. Invitato dal generoso anfitrione a celebrare la musica cara ai Prisco.

Si chiama Vincenzo Puma, intorno a lui che incede è tutto un sussurrare: “Ha cantato con Pavarotti”. Al piano una giovane orientale, pezzi di soprano di una altrettanto giovane matrona est europea. E poi lui. Con qualche pezzo del grande repertorio napoletano, che Annella Prisco e altri vanno suggerendo emozionati e impazienti. La voce è potente, le note dolci. Do un’occhiata alla platea. Sotto un grande girasole in quadro, omaggio ai girasoli della copertina del libro, vedo signore con gli occhi chiusi, sognanti, altri con le labbra che accompagnano le parole.

L’acuto finale della penultima canzone viene applaudito con trasporto competente da un signore in prima fila, tra due donne molto più giovani. “Bravo”, grida al cantante. “È Tony Dallara”, mi illumina l’anfitrione. Tony Dallaraaaa? Come ho potuto non riconoscerlo? Silenzioso, modesto, un maglione blu sotto un grande foulard dalle fantasie azzurre, capelli neri come tanti cantanti dell’età dell’oro (il boom economico nazionale), ho davanti uno dei fondatori della generazione degli “urlatori” che cambiarono la musica italiana. Lui, Celentano, Mina, anche se la sua onda durò meno. Ma fu tra i primissimi e tra i più noti. Quando viene fatto il suo nome, la platea lo invita subito ad esibirsi. “Come prima!”, “Romantica!”, la canzone con cui vinse nel ‘60 il festival di Sanremo in coppia con Renato Rascel. Qualcuno, più preparato, azzarda “Ti dirò”, “Brivido blu”. Il cantante si alza, si concede la civetteria di un breve pezzo in giapponese per la pianista; ha fatto 23 tournée in Giappone, non inventa le parole, ci tiene a far sapere. Alla fine regala “Come prima”. E funziona benissimo. Qualcuno controlla stupito: “Ha passato gli ottanta”. Lui fa gli acuti sferzanti di allora, passa con il microfono di bocca in bocca, tutti sanno tutte le parole, va in onda un incredibile, commovente, bagno generazionale. Mi spiegano che viene spesso alle presentazioni dei libri. Che dipinge quadri. E questo mi fa provare quasi un sentimento di ammirazione. Per i divi di grande successo, vivere la dimensione ordinaria senza inseguire ovunque scampoli di gloria non è così comune. Solo un fatto lo amareggia, mi spiegano Patrizia e Natasha (la figlia), le due donne che lo accompagnano. Non essere ricordato quando si parla di quei favolosi anni sessanta. “Eppure fu tra i primi”. E questo posso qui testimoniarlo senza dubbio. Tanto che da bambino lo imitavo. E vi giuro che dirglielo e vedere un sorriso raggiante è stato tutt’uno.

Il club delle amiche milfone: “A 52 anni, sesso con 29enne dolce come un Happy Meal”

 

Cara Selvaggia, quasi un paio di anni fa ho iniziato una relazione con un ragazzo molto più giovane di me (52-29), evenienza che fino ad allora avevo ritenuto non nelle mie corde. Ma ovviamente mai dire mai. Il tipo di rapporto era occasionale, ma ci vedevamo tutti i giorni in palestra. Da che era iniziato come un passatempo ludicissimo, si è trasformato in un affetto sincero e al contempo decisamente passionale. In quel contesto, era tutto perfetto. Le dinamiche erano le seguenti: appena io mi allontanavo un po’ (figlio, trasloco, separazione…) lui mi riportava a sé. In un modo o nell’altro. A febbraio 2018 inoltre ho avuto un intervento chirurgico piuttosto impegnativo e lui, ti assicuro, è stato delicato e mi ha accudito. Molto più di tanti ‘adulti’ di mia conoscenza. Mi ha aiutato a rimettermi in forma, mi ha ‘aspettato’ con dolcezza e perseveranza. Nel club delle mie amiche milfone, viene chiamato Happy Meal. Lui si dichiarava molto affascinato da me e, con asciutte e sporadiche esternazioni, parlava di sentimenti. Sono certa che fosse sincero. A Natale ha insistito molto per incontrarci per gli auguri (tutto sempre nella sua ‘cameretta’ in casa dei suoi dove vive ancora…). Il nostro incontro è stato appassionato ed intenso (ti assicuro non lo direi mai se così non fosse stato). Ma, al contempo, a cadavere ancora caldo, mi dice che “si sente” con una. Diciamo che non mi ero mai fatta illusioni sulla sua monogamia, ma questa era una novità. Per fartela breve, dopo un confronto (anche questo a caldo) piuttosto movimentato e un paio di lunghi messaggi in cui lui si diceva dispiaciutissimo per avermi fatto stare male e in cui manifestava comunque un forte legame con me, io mi sono ritirata in buon ordine (praticamente era fidanzato…). Continuo a vederlo con assiduità in palestra. Il mio saluto è secco e educato, lui invece sembra sempre attento a scrutare il mio mood o ad approcciare verbalmente non appena si presenti l’occasione (le sue comunicazioni hanno un contenuto assolutamente superficiale e ridanciano). Io sono sempre gelida (in attesa di chissà quale reazione che non arriva mai). Non è più successo niente. Le amiche più severe sono convinte, dalla prima all’ultima, che a lui non sia passata per niente, che è sicuramente fidanzato e che ha cercato un assestamento più adeguato alla sua pur giovane età.

Lo so che la verità è sempre che non gli piaci abbastanza, ma, tu che hai esperienza di un rapporto con un uomo più giovane di te, mi sai dare qualche spunto di lettura solo per capire se mi devo ‘regolare’ diversamente, se posso intimidirlo o metterlo in difficoltà con la mia rigidità (anche questo mi viene appuntato dal club delle milfone che mi amano e che sostengono a gran voce un divario intellettuale esagerato tra me e lui) se, tutto sommato, devo addolcirmi o cosa devo pensare. Io gli voglio ancora bene e mi piaceva il nostro rapporto light ma non troppo. Soprattutto in questa fase della mia vita. Grazie dell’attenzione che vorrai darmi. Sei forte tu. Love you.

Michela

 

Cara Michela, tanto per cominciare non si può avere un rapporto light con un Happy Meal, mi pare evidente. In secondo luogo, se i vostri incontri si svolgevano nella sua “cameretta” di casa dei genitori nonostante il giovane abbia quasi trent’anni, devo pensare che lui più che un Happy Meal sia un biscottino Plasmon. Dammi retta, il divario non è mai un discorso di anagrafe, ma di evoluzione e di sentimenti.

 

“Aiuto, mia figlia laureata si fa i selfie con Salvini”

Ciao Selvaggia, ho letto il tuo simpatico appello su come guastare il momento del selfie a Salvini. Volevo dirti che mia figlia era una di quelle in fila, tempo fa, in una grande città del centro Italia per fare il selfie con lui. È finita pure in qualche foto sul internet, indicata come un’adoratrice scema del leader della Lega, sebbene mia figlia sia diplomata col massimo dei voti e sia prossima alla laurea. Io vivo altrove (le paghiamo gli studi in un’altra città), non sapevo che fosse andata in piazza ad applaudire Salvini e a dire il vero non sapevo neppure fosse leghista. Io e mio marito siamo sempre stati abbastanza disinteressati alla politica, abbiamo votato di rado e comunque sempre e solo a sinistra. Che fosse andata lì l’ho scoperto appunto dalla telefonata di una mia cugina, che l’aveva vista in una foto di un noto sito di informazione. Ho chiamato mia figlia stupita e mi ha spiegato che ha l’età per maturare le sue convinzioni, che la città in cui studia è invasa da stranieri e che lei, ha detto proprio così, è convinta che in politica conti l’autorevolezza ma anche e soprattutto l’autorità, altrimenti il disordine prende il sopravvento. Ha aggiunto che il selfie è un gesto di semplicità, di vicinanza con i cittadini. Io sono rimasta molto perplessa, così come mio marito, che ha lavorato tutta la vita per una nota associazione umanitaria e ora è convinto, come me, di aver cresciuto una figlia che a 23 anni chiede “autorità”, non umanità. Mi chiedo come sia possibile che Salvini abbia seminato così bene da rendere degli estranei perfino i propri figli.

Daniela

 

Se vostra figlia ha così bisogno di autorità, esercitatela. Smettetela di pagarle gli studi e invitatela a pagarseli da sola, lavorando. Magari chiederà un selfie anche a voi, quando avrà il giorno di riposo.

 

 

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il Fatto Quotidiano
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Risparmiatori truffati, i nuovi rimborsi non piacciono a tutti

Dopo un lungo tira e molla sono stati modificati gli indennizzi per gli azionisti e obbligazionisti delle banche “fallite” gli anni scorsi. Cioè le due venete, le quattro liquidate all’unisono nel 2016 e altre minori: Veneto Banca, Popolare di Vicenza, Banca Etruria, Banca Marche ecc.

La legge di Bilancio per il 2019 prevedeva entro fine gennaio l’emanazione di norme attuative. Invece si è arrivati a fine aprile con un decreto legge che ha cambiato le carte in tavola. E hanno una bella impudenza a cantar vittoria varie associazioni di consumatori a fronte di modifiche sostanzialmente peggiorative. In particolare con la formulazione precedente era automatico un indennizzo del 30% per tutti gli azionisti e del 95% per tutti gli obbligazionisti coinvolti. Ora l’automatismo c’è solo avendo un reddito imponibile 2018 sotto i 35 mila euro e/o un patrimonio mobiliare sotto i 100 mila. Per altro molti in tali condizioni già prima godevano di una priorità temporale nei rimborsi.

Ma tutto ciò non piace all’establishment e, in particolare, al Corriere della Sera che s’impegna per mettere sotto cattiva luce gli indennizzi. Tirano in ballo la speculazione e la solita pretesa ignoranza finanziaria, che non c’entrano, passando invece sotto rigoroso silenzio la loro vera giustificazione.

I rimborsi ai risparmiatori coinvolti non sono stati una liberalità strampalata del governo in clima natalizio. Essi traggono origine e giustificazione nelle responsabilità di chi aveva il “dovere di disciplinare, coordinare e controllare l’esercizio del credito” e nelle “violazioni massive degli obblighi di informazione, diligenza, correttezza, buona fede oggettiva e trasparenza”, come scritto nella legge di Bilancio. Ma di questo il Corriere della Sera non parla. È poi totalmente falso che “qualche speculatore realizzi così invidiabili plusvalenze”. Con formulazione chiarissima la legge prevede indennizzi sempre rigorosamente inferiori al costo d’acquisto!

Semmai è vergognoso che avendo immobili per due milioni di euro e 90 mila euro sul conto spetti comunque il rimborso automatico, negato invece ad altri che neppure posseggono la loro casa ma hanno titoli per 110 mila euro. Alla faccia della tiritera che lo Stato vesserebbe la proprietà immobiliare.

A ogni modo, visti i precedenti, prima di mettersi il cuore in pace o dare tutto per perso, sarà meglio aspettare la conversione del decreto legge e, per gli interessati, le disposizioni dettagliate per i rimborsi non automatici.

 

La carne rossa fa bene, specie agli anziani

La demonizzazione della carne nell’epoca delle diete vegan potrebbe avere le ore contate. “Un consumo ragionato di carne non solo rende sostenibile la filiera produttiva ma aiuta a rimanere meglio in salute, soprattutto gli anziani”: Francesco Landi, primario di Riabilitazione geriatrica al Policlinico Gemelli di Roma, sfata i pregiudizi sui pericoli delle proteine di origine animale con uno studio pubblicato sul Journal of gerentology and geriatrics in cui viene dimostrato che il basso consumo di carne negli over 50 incide negativamente sulla performance muscolare.

“Invecchiando c’è la tendenza a mangiare di meno questo alimento o addirittura ad abolirlo. E i muscoli ne risentono – spiega Landi, che con il suo team da Expo 2015 ha raccolto dati su dieta e stili di vita in 10mila soggetti tra 18 e 98 anni –: si fa più fatica a fare le scale, sollevare pesi, sedersi e alzarsi dalla sedia”. Secondo una ricerca uscita su Lancet il 3 aprile e condotta in 195 Paesi, la dieta che più è correlata al rischio di mortalità è quella ricca di sale. Mentre quella a base di carne rossa o processata risulta essere tra le più salubri.

Contribuenti a rischio evasione. Caccia grossa ai conti correnti

“Non faremo pesca a strascico, ma un’analisi preventiva di rischio mirata. E, in base ai risultati, si va a fare il controllo”. Così, negli scorsi giorni, il direttore dell’Agenzia delle Entrate Antonino Maggiore, ha annunciato l’avvio del risparmiometro che, tante paure evoca nei contribuenti. Anche se questo nuovo strumento dovrebbe mettere in guardia solo gli evasori. Si tratta, infatti, di una nuova superanagrafe dei conti correnti – quella voluta dal governo Monti e inserita nel decreto Salva-Italia del 2012 – che ha il compito di controllare le “anomalie” nei risparmi dei contribuenti. Con un meccanismo chiaro: privilegiare situazioni ritenute ad alto rischio di evasione, partendo da chi ha ricevuto ingenti accrediti e ha omesso di presentare la dichiarazione dei redditi oppure l’ha presentata in parte non compilata. “Ma gli incroci – ha sottolineato Maggiore – si fanno e si faranno solo dove vale la pena, con una precisa analisi del rischio”.

Un’arma contro l’evasione che, dopo la sperimentazione avviata lo scorso settembre nei confronti delle società (ne è venuto fuori un elenco di 1.200 posizioni potenzialmente a rischio che hanno movimentato sui conti oltre un milione di euro), può ora essere utilizzata anche per le persone fisiche. Il direttore delle Entrate non si è sbilanciato sui tempi di attuazione (“arriverà”, ha detto), ma la road map è tracciata: manca solo la circolare con la firma di Maggiore. Lo schema di provvedimento è stato, infatti, già inviato al garante della Privacy che ha dato parere favorevole. E questo non era scontato. Basta ricordare il niet arrivato dall’Authority sulla prima versione della fatturazione elettronica che ha avuto il via libera a fine 2018 solo dopo che il fisco ha escluso dalla banca dati l’archiviazione delle fatture elettroniche, evitando così che il Grande Fratello sappia informazioni, non rilevanti a fini fiscali, relativi ai beni e ai servizi acquistati, come i pedaggi autostradali, i biglietti aerei o i pernottamenti.

Anche se i dettagli del funzionamento della procedura dell’analisi di rischio di evasione non sono ancora noti, in base alla sperimentazione sulle società, si sa che l’enorme mole informativa di dati di sintesi (per essere chiari non ci sono i singoli movimenti in entrata o in uscita sui conti correnti ma solo i saldi a inizio e a fine anno, la somma degli addebiti e degli accrediti e la giacenza media, i deposito titoli, i conti deposito, le azioni, le obbligazioni, le polizze assicurative, i fondi pensione, i libretti postali, i buoni fruttiferi o le carte di credito) servirà a creare delle liste selettive di contribuenti che poi saranno condivise con gli uffici locali del Fisco per procedere ad approfondimenti e controlli. Si partirà, quindi, da quei contribuenti che presentano un profilo di rischio elevato. Ad esempio, quando risultano acquisti importanti con flussi di denaro rilevanti, ma apparentemente non giustificati dal normale tenore di vita.

Per scoprirlo il fisco utilizzerà la dichiarazione dei redditi, dove emerge che metà dei contribuenti presenta redditi lordi annuali tra 15 e 50mila euro, il 5,3% dichiara oltre 50mila euro di reddito, mentre 12,9 milioni di italiani sono Irpef-esenti (hanno cioè redditi fino a 8.174 euro). Così se nel 730 o nel modello Reddito (l’ex Unico) si dichiara un patrimonio basso, ma nella vita di tutti giorni si va a lavoro con un superbolide o si va in vacanza in barca, il sospetto che quel contribuente abbia speso più di quanto abbia incassato farà scattare la verifica. L’obiettivo del Fisco è capire se i soldi derivino da un’attività in nero. In tal caso seguirebbe la contestazione e l’eventuale sanzione. Del resto da diversi anni, accantonata la caccia agli evasori con i blitz fuori dai negozi alla caccia degli scontrini (basta ricordare l’operazione del 2012 a Courmayer), la lotta contro il nero passa più per la collaborazione che per la repressione. Tanto che tra compliance (le lettere inviate ai contribuenti per chiedere di saldare eventuali incongruenze tra quando dichiarato e i dati risultanti all’ente), il ravvedimento (è possibile pagare una minore sanzione purché si paghi quanto omesso) e i versamenti diretti (somme versate a seguito di atti emessi dall’Agenzia), il Fisco nel 2018 ha recuperato 16,2 miliardi di euro di entrate. E di contribuenti da “controllare” non ne mancano.

L’Istat certifica che l’Italia resta il Paese dell’economia sommersa, stimata intorno a 210 miliardi (dato del 2016), compresi i ricavi dell’economia criminale, pari al 12,4% del Pil. Inoltre, come ha recentemente certificato il ministero dell’Economia, questo equivale a 108 miliardi di euro evasi. Ma dal momento che la ricchezza immobiliare equivale a 5.246 miliardi di euro e quella finanziaria a 4.374 miliardi (secondo quanto evidenzia la nuova indagine congiunta Banca d’Italia-Istat), è indubbio che gran parte di queste ricchezze derivino da entrate nascoste al Fisco.

Privacy al volante, c’è da fidarsi della connettività?

Ogni giorno si creano 2,5 milioni di terabyte di dati, dalla provenienza più disparata, tra cui quelli provenienti dal settore automotive. Ciò ha fatto sì che, negli ultimi anni, il baricentro dell’intera filiera automobilistica si sia spostato sempre più dalla produzione industriale verso la fornitura di servizi legati ai veicoli: significa che l’auto tout court rischia di interessare sempre meno. E del prodotto, l’aspetto più rilevante è diventato la connessione. Secondo un’indagine di Aniasa (associazione interna a Confindustria), sul ruolo e i rischi dei dati nell’industria dell’auto, un automobilista su tre è alla guida di un veicolo connesso, mentre quasi il 60% è intenzionato ad acquistarlo: c’è, però, un 12% che non si fida a mettere i propri dati in “mani” sconosciute.

Dal sondaggio è emersa una forte propensione alla condivisione dei dati (se il 50% è abbastanza disposto a farlo, il 20-30% lo è “molto”), purché ne benefici l’automobilista stesso ottenendo in cambio più sicurezza. La condivisione dei dati che il veicolo connesso può gestire, infatti, è usata per servizi come la localizzazione – in caso di furto o emergenza – per la manutenzione predittiva, per la diagnostica da remoto e la navigazione intelligente.

Un punto che pare mettere tutti abbastanza d’accordo è, invece, lo scetticismo verso la cessione di dati personali contenuti nel proprio smartphone, come ad esempio i contatti della rubrica: i più hanno paura di attacchi informatici e, in generale, di violazione della privacy. Non a caso, il 70% degli intervistati ritiene la legislazione in vigore non in grado di tutelare i consumatori.

L’Italia non è un Paese per auto elettriche

Nonostante il mese scorso l’ecobonus abbia prodotto una piccola scossa nelle vendite di auto elettriche (1.190 vetture contro le 261 di aprile 2018, pari allo 0,7% del totale immatricolato), l’Italia continua a non essere un Paese per veicoli a batteria. A sostenerlo è l’Acea, l’associazione dei costruttori europei, con un’analisi che mette in relazione le vendite di questi ultimi con il prodotto interno lordo dei membri dell’Unione europea.

Ebbene, la doppia velocità di crociera economica tra ricchi e poveri nel vecchio Continente influenza, e non poco, le immatricolazioni a elettroni. Non è un caso che le nazioni in cui la fetta di mercato riservata all’elettrico sia inferiore all’1% sono quelle che nel 2018 hanno avuto un Pil pro capite inferiore ai 29 mila euro all’anno. E parliamo dell’Italia, della Spagna e della Grecia, ma anche dell’Est Europa, se è vero che nel computo entrano ad esempio anche Lituania, Bulgaria, Slovacchia, Lettonia e, da ultimo, Polonia, che ha la più bassa percentuale di elettriche vendute con lo 0,2% del totale. Al contrario, le nazioni più virtuose (quelle con percentuale intorno al 3,5% a fronte di una media comunitaria del 2%) sono Paesi Bassi, Svezia e Finlandia, dove l’asticella del prodotto interno lordo pro capite sale a 42 mila euro. Un’ulteriore conferma, ove mai ce ne fosse bisogno, che parliamo ancora di una tecnologia da ricchi. E noi non lo siamo.

Ford Ranger Raptor, pick-up estremo in salsa europea

Anche il deserto può avere una frontiera, suggestioni più forti dei contrasti. A Castle made of sand, i castelli di sabbia che cadono nel mare, come quel successo mondiale del 1967 di Jimi Hendrix, un americano di Seattle venuto a cercare tra le spiagge sterminate sull’Oceano Atlantico di Essaouira le leggende di pescatori dalle barche di legno blu e senza paura. E della loro musica a ritmo di tamburi, in uno spicchio di Marocco 170 km a Nord di Agadir diventato per anni più hippie di San Francisco. Dove gli eccessi avevano il posto per una loro libertà. Quella che in fondo ci siamo presa noi, oggi che la sabbia poteva diventare una pista per un altro genere di protagonista. Ford Ranger diventa Raptor, quella sigla che negli States già esalta la provocazione di un pick-up estremo e sportivo come il modello F-150 e che ora si appoggia anche al Ranger. Più piccolo, per come può esserlo un mezzo lungo 536 cm e largo 203.

Non è questa l’idea del Team Ford performance, responsabile delle elaborazioni ufficiali più piene di mordente e delle compatte sportive che immaginiamo.“La versione Raptor rappresenta il fiore all’occhiello del rinnovato Ford Ranger e testimonia il nostro impegno per offrire ai consumatori europei una gamma completa di suv e crossover”, ci racconta Fabrizio Faltoni, presidente e ad di Ford Italia. “Seguiranno il lancio della Puma, il suv crossover compatto in arrivo a fine anno anche in versione ecoboost hybrid, e a gennaio quello della Nuova Ford Kuga che verrà offerta già dal lancio in versione plug in hybrid. In primavera arriverà quindi il Ford Explorer, un suv 7 posti con motorizzazione ibrida plug in e chiuderà il cerchio l’attesissimo crossover Full Electric ispirato alla Mustang”.

Tornando al Ranger Raptor, le sospensioni rialzate e un assetto degno di uno stile molto più libero che mai, potremmo definirlo l’anello più vicino ai fuoristrada capaci di tutto. Diesel, con un motore 2 litri da 213 cavalli e 500 Nm di coppia motrice, un cambio automatico a 10 rapporti degno di una sportiva, ma anche con la trazione 4×4 inseribile con ridotte e bloccaggio del differenziale centrale, il tutto gestito da un’elettronica con diverse modalità di guida fino a quella regolazione Baja che ricorda il rally su terra che si disputa in Messico.

L’eccesso della velocità non convenzionale, con un controllo assoluto sullo sterrato, sospensioni in grado di assorbire qualsiasi ostacolo nonostante le andature sul filo dei 100 orari. Liberi di provocare sovrasterzo di potenza, spostando costantemente la forza motrice dall’anteriore al posteriore sulla sabbia più soffice. Un potenziale che costa 62.851 euro a listino ma vale ancora un sorriso. Un castello di sabbia, accanto al mare.

La sfida in bici sui Pirenei. Il Tour di Lawrence d’Arabia

Questa è una storia di ciclismo, a suo modo: sono i giorni giusti per raccontarla, il Giro d’Italia oggi affronta la terza tappa che parte da Vinci, in onore di Leonardo. Il protagonista è un giovane britannico, schivo, all’apparenza mingherlino, non molto alto (un metro e 63), però in bicicletta è forte e resistente. Il giovane, in realtà, si chiama Thomas Edward Lawrence. Sì, quel Lawrence. Non ancora Lawrence d’Arabia.

Il nostro Lawrence frequenta il Jesus College. Studia storia e archeologia. Il padre gli inculca la passione delle due ruote. Il suo animo avventuroso – che diventerà avventuriero – si forma pedalando. La prima bici gliela regalano nel 1901. La seconda, una splendida Morris modello 1906, se la fa allestire dal geniale William Richard Morris che ha bottega ed officina (Cycle Market) al 48 della Oxford High Street, ed ha cominciato la sua attività con un capitale di…4 sterline. Smetterà di produrre biciclette nel 1908 per passare alle moto e poi alle autovetture. Il marchio della Mini. Diventato, per meriti industriali e patriottici, Lord Nuffield, non rammenterà mai di aver preparato quella “special” per il futuro Lawrence d’Arabia. Al contrario dei compagni di scuola, che invece se lo ricorderanno bene: “Era davvero fiero della Morris speciale: pareva addirittura un’estensione della sua personalità”.

In effetti, lo stesso Lawrence ne vanterà le particolari caratteristiche: telaio a diamante (inventato da da Henry Lawson nel 1877, che tuttora usiamo) robusto, ma leggero. Pesa appena 7,5 chili, per l’epoca un exploit tecnico. La Gran Bretagna, in quegli anni, è infatti all’avanguardia nell’industria ciclistica, concentrata tra Coventry e Birmingham. Lawrence ha fatto montare un manubrio da corsa e un deragliatore che gli consente tre differenti velocità e che lo agevola nelle salite.

La inforca e comincia a sognare il suo grand tour a pedali. È affascinato dalle trame della Storia. Propone una tesi: “L’influenza delle Crociate sull’architettura militare dei Franchi in Europa e nel Vicino Oriente”. Vuole sviscerare l’arte di assediare le città. La Francia è il suo primo terreno di caccia. In bici ci va nel 1906 e nel 1907. Ma la prova più ardimentosa inizia martedì

14 luglio 1908, quando sbarca a Le Havre dal vapore “Vera”, sorreggendo la preziosa Morris. Il comandante Howe gli augura buona fortuna.

Il giorno prima è scattato il sesto Tour de France. I “forzati della strada” hanno lasciato Parigi diretti a Roubaix, 272 chilometri di polvere e pavé infami. Ha vinto il francese Georges Passerieu detto “l’inglese di Parigi” perché nato a Londra. Ottimo pistard, fulminante in volata. La Francia festeggia il 14 luglio e il Tour riposa: la corsa prevede altre 13 tappe per 4.488 chilometri. Trionferà per la seconda volta Petit-Breton. Il piano di Lawrence è altrettanto ambizioso. Prevede il Massiccio Centrale, l’Est e l’Ovest. Vuole saggiare le pendici dei Pirenei, prima del Sud.

Nell’aspra salita di Le Puy, soffre, tiene duro e scollina orgoglioso dei suoi “bicipiti”. Si tuffa in discesa verso la vallata del Rodano. Ad Arles visita il chiostro di Saint-Trophime, di “una bellezza assolutamente inimmaginabile”. Oltre la vicina abbazia di Montmajor, scorge per la prima volta il Mediterraneo. Da buon allievo di Oxford, cita con enfasi Senofonte, “thalassa thalassa”. Percepisce il suo destino: “Ho infine raggiunto la strada del Mezzogiorno e di tutto il glorioso Oriente (…) è necessario che io vada oltre, più lontano”. Lo farà.

Detesta i cani, nemici dei ciclisti. Odia le zanzare che a Cahors l’hanno divorato (gli ricordano i tormenti del Prometeo incatenato di Eschilo). Il 16 agosto arriva a Châlus, nel Limousin: “Non capita tutti i giorni di compiere vent’anni dove fu colpito a morte Riccardo Cuor di Leone”. Alloggia all’hotel du Midi. Quella sera scrive due lettere, una all’amico Scroggs Beeson, l’altra alla madre. Elogia le virtù di re Riccardo, grande stratega, ingegnere e guerriero. A Châlus, nell’agosto del 2009, Raymond Poulidor, il corridore che non ha mai vinto un Tour ma è il più amato dai francesi, porrà una targa commemorativa del soggiorno di Lawrence. Che concluse il suo Tour dopo 4mila chilometri, il 5 settembre, “100 miglia al giorno, con punte oltre le 150” annotò. L’individualismo rivendicato – da inglese più inglese degli inglesi – prefigurò la tendenza che prevalse per decenni nel ciclismo britannico, patria di corridori essenzialmente solitari e non a caso specialisti delle prove individuali, uomini che preferivano di gran lunga le sfide a tempo di record che non mettersi dentro un plotone di gregari. Chris Boardman, David Millar o Bradley Wiggins sono in fondo gli eredi del Lawrence in bicicletta, prestigioso servitore della “petite reine” (la bici, come viene chiamata in Francia) e della “grande reine”, la Gran Bretagna.