La parola ai greci: prima e dopo la cura della Troika

Li avevamo incontrati quando Syriza stava per salire al potere, nel gennaio 2015. All’epoca Irini, Dimitris, Maria, Christos, Yannis, Annita, Diana, Vanguélis e Katerina ci avevano raccontato le difficoltà a cui dovevano far fronte, ma anche le loro convinzioni e aspettative. Quattro anni dopo, quale è la loro situazione? Siamo andati dunque ad Atene e in regione per incontrarli di nuovo. Dai loro racconti emerge che la loro situazione sul piano economico è globalmente migliorata, ma tante sono le delusioni e le difficoltà che talvolta persistono.

 

Maria, 46 anni, impiegata

Quando l’abbiamo incontrata nel gennaio 2015, Maria era molto arrabbiata. Dopo cinque anni di crisi finanziaria, aveva raggiunto Syriza e cominciato a militare nel sindacato dell’Olpe, l’azienda leader in Grecia nella raffineria di petrolio dove Maria lavora. Lo stipendio le era stato tagliato del 15% e diversi dipendenti erano stati licenziati. Oggi l’azienda è diventata una gallina dalle uova d’oro. La direzione è cambiata, siamo riusciti a recuperare gli stipendi di prima della crisi e stiamo anche negoziando nuovi aumenti. Sono molto fiduciosa per i miei figli e il loro futuro”.

Sul futuro dell’Olpe resta tuttavia un punto interrogativo: il governo riuscirà a impedire che venga interamente privatizzata? Maria ha scritto due lettere al primo ministro per difendere la partecipazione statale nell’azienda. Penso che il governo farà il possibile. Nel 2015 non avevo capito perchè aveva trasformato il No al referendum in un Si ai creditori, invece, ha seguito la strada giusta”.

 

Vanguélis, 30 anni, cuoco

Dopo aver aperto un’osteria con la zia, nel 2014, Vanguélis ha dovuto cedere l’attività che non andava bene e, dopo un breve periodo di disoccupazione, durante il quale ha cercato attivamente lavoro, due anni e mezzo fa, ha finalmente trovato un posto in un ristorante di Psyri, nel centro di Atene. “Sul piano economico, la mia situazione è migliorata molto. Non ho più lo stress dell’imprenditore e per me è meglio così. Ma se riesco a cavarmela non è certo per merito dei nostri dirigenti che non hanno fatto niente per le classi popolari”. Se il governo ha di recente preso delle misure per aumentare il salario minimo, non ha modificato invece la soglia del reddito imponibile, che resta sempre molto basso, secondo Vanguélis. “Tsipras aveva promesso che avrebbe soppresso l’imposta fondiaria sulla prima casa e non lo ha fatto. Segue le istruzioni del Fondo Monetario Internazionale e di Angela Merkel e cura gli interessi dei grandi gruppi”. Nel 2015, Vanguélis era andato alle urne per la prima volta e aveva dato il suo voto a Syriza. Quest’anno non voteròper le elezioni europee né per le municipali”.

 

Annita, 44 anni, giornalista

Una delle prime promesse elettorali di Alexis Tsipras a essere stata mantenuta una volta al potere è stata la riapertura dell’Ert, la radiotelevisione pubblica greca, chiusa dal governo Samaras, nel 2013. Anche Annita, giornalista nell’azienda pubblica, ha ritrovato il suo lavoro. Ma dopo essersi battuta per quasi due anni per salvare la sua tv, ha deciso di cambiare posto di lavoro. Da redattrice web è passata a occuparsi della produzione e realizzazione delle trasmissioni. Lavora tanto, fino allo sfinimento, per uno stipendio inferiore a quello che prendeva prima della crisi. Sola con tre figli a carico, ha bisogno di aiuto per pagare l’affitto. “L’incubo ora, per quanto mi riguarda, è Kyriakos Mitsotakisa”. Ovvero il leader della destra, e presidente del partito Nuova Democrazia, che sta adottando una linea politica sempre più dura e potrebbe vincere su Syriza alle prossime elezioni.

 

Christos, operaio, 41 anni

Christos risponde con entusiasmo al telefono quando riprendiamo contatto con lui dopo quattro anni. “La mia situazione non ha più niente a che vedere con quella del 2015”, esclama. Christos era stato licenziato nel 2009 all’inizio della crisi. Dopo sette anni di disoccupazione, aveva ricominciato a trovare qualche lavoretto nel 2016. Dall’inizio del 2018 lavora in un’azienda di calcestruzzo. Si tratta di contratti alla giornata, come spesso accade in Grecia nel settore delle costruzioni, ma il lavoro è in regola: Christos versa contributi per la pensione e ha di nuovo la copertura sanitaria. Nel frattempo si è anche allontanto dal collettivo in cui militava prima dell’arrivo di Syriza al potere e che aiutava numerose famiglie in difficoltà con la colletta e la distribuzione di prodotti alimentari. Ormai ha meno tempo a disposizione e ritiene inoltre che la gente ha meno bisogno dell’aiuto delle associazioni. Christos e la compagna, che invece è ancora disoccupata, possono permettersi ormai di andare al cinema o al teatro di tanto in tanto. Quest’anno sono riusciti a prendere dei giorni di vacanza che hanno passato sull’isola di Egina, una delle più vicine da Atene. Hanno anche di nuovo voglia di fondare una famiglia, un’idea abbandonata quattro anni fa.

 

Irini, 36 anni, analista

Nel 2014 , Irini e il compagno, Yorgos, avevano partecipato alla creazione di una cooperativa per la vendita diretta di prodotti alimentari a Exarchia, il quartiere di Atene culla della sinistra e dell’anarchismo e vivaio di artisti. Ma l’attività non ha funzionato come speravano. Irini e Yorgos oggi hanno due figli. Entrambi continuano a lavorare nel settore informatico che non è stato colpito dalla crisi e che è in gran parte finanziato da sovvenzioni europee. Un tempo Irina era vicina a Syriza. Ma l’evoluzione della società greca degli ultimi anni le ha lasciato l’amaro in bocca. “Fino al 2015 speravo che la Grecia sarebbe diventata il paese della mobilitazione sociale, che la popolazione avrebbe mantenuto un atteggiamento radicale. Invece oggi la mobilitazione è inesistente, la sinistra è frantumata e a Exarcheia si vedono solo turisti! L’esperienza di Syriza al potere ha rivelato quanto lo spazio per una politica di sinistra nei fatti resta limitato”.

 

Dimitris, 35 anni

Dimitris non lavora da quattro anni. Nella cittadina del Peloponneso dove vive, Aigio, sente di girare a vuoto. Si occupa degli ulivi di famiglia, ma quest’anno la raccolta è scarsa. Ha anche lavorato in nero a giornata in alcuni ristoranti, ma a un certo punto ha deciso di smettere: “Non voglio più lavorare senza versare contributi per la disoccupazione”. In tanti, tra le conoscenze di Dimitris e della moglie, si sono esiliati, chi nelle isole per lavorare nel turismo, chi ad Atene o all’estero. L’ultimo, lo scorso settembre, ha preso un volo per la Germania per andare a lavorare come infermiere in un ospedale. Dimitris però non ha perso le speranze.

 

Katarina, 57 anni, ingegnere

Katarina, ingegnere specializzata nell’alimentazione, non ha mai perso il suo lavoro, neanche negli anni dell’austerità. Ma la crisi ha risvegliato in lei una coscienza militante e politica. Nel 2011 ha partecipato al movimento degli Indignati. Poco tempo dopo ha raggiunto Syriza. A inizio 2015, quando l’avevamo incontrata per la prima volta, militava in un caffè associativo che tentava di ricreare il legame sociale in un quartiere difficile di Atene. “Quando Syriza è arrivato al potere, pensavamo che le iniziative basate sulla solidarietà sarebbero scomparse. Invece c’è ancora bisogno di aiuto e molte persone restano mobilitate”. Katarina ritiene che, nonostante i compromessi a cui ha dovuto piegarsi, il governo Tsipras sia rimasto fedele ai suoi valori.

Oggi è candidata al consiglio municipale di Atene sulla lista di Syriza. “Non per essere eletta – precisa -, ma per apportare il mio sostegno”.

 

Yannis, 62 anni

Dal 2015 Yannis alterna contratti a tempo e periodi di disoccupazione. Ha lavorato come imbianchino in un municipio, poi a giornata sul cantiere navale di Perama, nella periferia del Pireo. Ora è senza lavoro ma, rispetto alla prima volta che lo abbiamo incontrato, dice che economicamente sta meglio. Grazie agli assegni di disoccupazione che riceve nei mesi di inattività e le sovvenzioni sociali instaurate dal governo Tsipras, riesce a mantenere la famiglia: la moglie, i tre figli, di cui due vivono ancora con i genitori e una nipote. Ci mostra con un certo orgoglio le due card a cui ha diritto, una per gli acquisti alimentari, l’altra per i prodotti di altro genere. Tutti i mesi le carte vengono ricaricate di 250 euro ognuna. Come disoccupato, Yannis ha anche diritto alla gratuità dei trasporti ad Atene e provincia e, poiché non è proprietario, riceve un sussidio casa che copre quasi la totalità dell’affitto. “Ormai mi avvicino alla pensione, che non sarà superiore ai 600 euro”

(traduzione Luana De Micco)

L’intellettuale conformista è inutile: “Meglio delinquente che borghese”

A un certo punto, in Cyrano mon amour – il film di Alexis Michalik dove si racconta com’è nato il capolavoro di Edmond Rostand – c’è una battuta che parla al nostro tempo: “Gli artisti devono essere dei fuorilegge, ricordatevi che all’epoca di Moliere gli attori venivano seppelliti in terra sconsacrata”. E il punto è proprio questo: l’arte – e dunque l’immaginazione, la fantasia e la creazione – soccombe sotto la cappa del moralismo.

Tutti i protagonisti dello starsystem fanno a gara per farsi sotterrare all’ombra di lapidi rispettabili mentre un Woody Allen – un genio della cinematografia – è già un ceffo rattuso su cui sputacchiare, con le sentenze definitive, scaracchi di oblio. E chissà cosa ne sarebbe stato, di questi tempi, di un Federico Fellini – orgiastico tra le dilaganti tette della tabaccaia – oppure di un Carmelo Bene pronto a sbottonarsi sul palcoscenico per marcare, nel tracciato animalesco, il territorio dell’eros tra scena e o-sceno. Nessuno tra gli artisti – e così gli scrittori, ma anche gli intellettuali – si azzarda a sconfinare oltre il recinto perbenista. Il ceto dei colti in Italia è un monolite di compassata ragionevolezza; a guardarli in faccia, infatti, a leggerne i libri e a vederne i film, tutti gli autori della scena a noi contemporanea non somigliano agli artisti fuorilegge evocati nel Cyrano, tutt’altro.

Le figurine nell’album degli alfabeta sembrano ambire a una caserma dove ognuno gareggia a essere uguale. E sono tutti dei carabinieri a cavallo i registi, i grandi musicisti, gli intrattenitori e perfino le porno star, premurosamente devote al dildo equo-solidale. Dall’alto dei loro premi, dei loro giornali e dalle loro prebende – nelle casematte residue dell’egemonia culturale che fu – è certo che se si facesse l’esperimento di chiamarli a scegliere tra Pinocchio in catene e le guardie, i suddetti graduati dell’élite culturale se ne starebbero dalla parte dei mustacchi in uniforme e giammai con la trasgressione. Un mio amico iraniano spiega la difformità tra il loro mondo chiuso e il nostro – così libero, così emancipato – in questo modo: la differenza è che a Teheran c’è la censura mentre da voi ci sono i tabù; la censura si può aggirare ma i tabù, purtroppo per voi, no, non si possono evitare, sono inviolabili”. Non c’è posto peggiore, per chi ama i libri, delle librerie le cui vetrine traboccano delle porcherie più conformi al dettato ciripiripì monocratico; non esiste più l’istinto sovvertitore e l’anima dionisiaca della nostra schiatta è conculcata dallo gnao-gnao dell’etica, quell’etichetta di correttezza cui i parrucconi della cultura sono riusciti a relegare la parola, l’invenzione, lo stupore e l’attesa.

Ebbene sì, quell’istante in cui la mano mette “mano” alla rivolta: Rissa in Galleria di Umberto Boccioni, La Rissa di Fortunato Depero, le tele di Francis Bacon poi, oppure – indietro nel tempo – l’opera pittorica del Caravaggio o, saltando di palo in frasca, di nota in note, quel repertorio degli Area oggi impossibile già immaginare se tra i rapper prevale il formaggino buono al più per i Giamburrasca dell’adolescenza e non certo per un Albert Camus (o per un Ernest Junger il cui monito è sempre quello: “Meglio delinquente che borghese”). La famosa libertà è vigilata, ed è consacrata. Al dildo equo-solidale. A un certo punto è finita così.

Africana, santa e sposata: Perpetua martire e leader ad appena 22 anni

Santa e martire. Ma moglie e madre, non vergine. È la straordinaria vicenda dell’africana Perpetua, venerata sia dai cattolici sia dagli ortodossi. Una storia che risale a più di milleottocento anni fa, quando i romani imperavano su Cartagine (inglobata dall’odierna Tunisi). Perpetua era di Thuburbo, a più di cinquanta chilometri dall’allora Cartagine. Aveva ventidue anni.

Era cristiana: “Furono arrestati alcuni giovani catecumeni: Revocato e Felicita, sua compagna, Saturnino e Secondolo e, tra di loro, Vibia Perpetua, proveniente da una famiglia altolocata, colta, che aveva contratto un matrimonio di rango. Aveva (…) un figlio che ancora allattava”. In realtà, del marito s’ignora tuttora l’identità. Era il 7 marzo 203 dopo Cristo e un provvedimento dell’imperatore Settimio Severo impediva la conversione al cristianesimo e anche al giudaismo.

Perpetua e gli altri affrontarono allegri e coraggiosi il martirio più feroce: la condanna ad bestias nell’anfiteatro di Cartagine, che poteva contenere da 30mila a 50mila spettatori: “Brillò il giorno della loro vittoria, e procedettero dalla prigione all’anfiteatro, come andassero in cielo, allegri”. Contro gli uomini leopardi, orsi e cinghiali affamati; contro le donne “il diavolo preparò una vacca inferocita”.

La Passione di Perpetua e Felicita (Il Pozzo di Giacobbe, 186 pagine, 15,90 euro) è un documento più unico che raro che viene riproposto con un denso saggio interpretativo a più livelli e un ricco apparato bibliografico dalla storica Anna Carfora della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia meridionale. Al netto di tutte le ipotesi sulla sua redazione, comunque contemporanea al martirio, emerge il ritratto di una donna eccezionale che durante la prigionia, oltre alla preoccupazione per il figlio neonato, afferma dinnanzi al procuratore romano la sua leadership in un gruppo composto prevalentemente da uomini. Con lei c’è anche Felicita, incinta e che partorisce poco prima del martirio: “Vennero portate nell’arena spogliate e avvolte in reti. La folla rabbrividì, vedendo che una era una ragazza di fine bellezza (Perpetua, ndr) mentre l’altra aveva i seni che gocciolavano latte per via del parto recente”.

Nascite in calo in Italia? Colpa delle feste dei più piccoli

Pasqua è appena alle spalle quando i cellulari delle madri cominciano a vibrare all’impazzata. “Sei stato aggiunto al gruppo Festa di Filippo”, “Questa chat è per il compleanno di Martina” etc. Eh già, perché, alla faccia della liberazione sessuale, ancora oggi i figli continuano a nascere tutti nove mesi dopo l’estate, unico tempo semi-libero dei genitori (ma c’è anche chi programma apposta in maggio la nascita del bambino). Il problema, comunque, non è l’affollamento di date, ma il fatto che ogni festa di compleanno è un vero evento, che spesso può addirittura svolgersi su più giorni, se dopo la festa vera e propria subentra un pigiama party magari con cena fuori; e pure una giornata successiva all’acquapark del momento. Per organizzare il party del ragazzino, oggi, servono almeno un mese di tempo, uno stipendio e un paio di giorni di ferie per coprire l’evento. E poi occorre scovare un’attività inedita e brillante per intrattenere i partecipanti: via i vecchi animatori col telone e il karaoke, oggi si festeggia andando al museo, allo zoo o in ludoteca, affittando un teatro, un set fotografico o un campo di calcio, andando al bowling o al percorso sugli alberi. Anche il buffet cambia: non solo pizzette ma anche succhi di verdure e alternative bio, anche se l’attenzione è tutta su di lei, la costosa, sbalorditiva, torta a tema, immangiabile ma perfetta per Instagram. Immutato, invece, il mesto gioco di “scarta la carta”, dove l’invitato apre dai venti ai trenta regali (minimo) mentre la madre occhiuta controlla se ci siano bambini venuti a mani vuote. Insomma, è vero: mancano il welfare e i servizi per l’infanzia, gli assegni familiari e i congedi di paternità. Ma non c’è dubbio che una delle cause del calo demografico siano le feste di compleanno. E condividere con un altro bambino? Non se ne parla. Si è mai vista una cerimonia per due re?

Comunioni, solo consumismo: il catechismo serve ai grandi

Qui in Romagna “ostia” è usato come imprecazione. Ma sospettiamo che a maggio lo diventi un po’ in tutta Italia, specie quella di provincia: è il mese delle prime comunioni, che dopo il matrimonio sono il sacramento che fa tirare più sacramenti, per i costi e l’impegno (non spirituale) che comporta per le famiglie dei piccoli comunicandi. Se il Pil di maggio si alzerà di qualche decimale, sarà per l’indotto fatto di vestiti da cerimonia, feste e pranzi al ristorante, coronati dal vero evento della giornata: il ragazzino che riceve in regalo il suo primo smartphone. Chiariamo subito: per chi ci crede, l’eucaristia è il momento fondante dell’essere cristiani, il mistero dei misteri, per questo il Cristianesimo delle origini prevedeva che venisse somministrata in età adulta, come il battesimo. Da un secolo la Chiesa ha abbassato l’età minima per la comunione a sette anni, quando si sa distinguere un’ostia da un Pringle, e oggi il primo “corpo di Cristo” si riceve in quinta elementare, seguito a breve dalla cresima (meglio non aspettare, dalle medie in poi i ragazzi in parrocchia chi li vede più?). Ma non prendiamocela con i preti, poveretti, che fanno quel che possono per arginare la trasformazione di un evento mistico in potlatch (cerimonia in cui si elargiscono o si distruggono beni di valore come prova del proprio status): da anni, per dire, in genere prescrivono a tutti i bambini una semplice tunica bianca per la cerimonia in chiesa e vietano mise imbarazzanti da sposini in miniatura. Sono le famiglie (genitori, più nonni tradizionalisti e parentame competitivo) a ritrasformare la carne e il sangue di Gesù in pane e vino profani e costosi. Niente pauperismi inutili, l’eucaristia è stata istituita su una tavola imbandita festosamente. Ma forse un po’ di catechismo pre-comunione andrebbe fatto anche ai genitori, per ricordare loro che il Verbo che si fa carne non è il verbo “spendere”.

Nuova Champions: noiosa e redditizia

Ancora non è finita, visto che la finale tra Liverpool e Tottenham andrà in scena a Madrid l’1 giugno, e però l’hanno pensato, detto e scritto tutti: la Champions 2018-2019 è stata la più bella, entusiasmante e accecante di sempre. Le emozioni estreme, da cardiopalmo, che il torneo Uefa ha regalato non solo ai tifosi ma a ogni appassionato le avvertiamo a fior di pelle tutti, addetti ai lavori e non, anche a distanza di giorni. Eppure sapete cosa sta succedendo nel carrozzone del pallone europeo?

Tenetevi forte: questa Champions sta per essere rottamata. Vogliono gettarla nella spazzatura i club più ricchi, riuniti nell’Eca presieduta da Andrea Agnelli, club a cui interessa solo guadagnare più soldi dei tanti che già incamerano oggi; e che però, non potendo ammetterlo, raccontano in giro che la formula dell’attuale Champions non è più all’altezza, è obsoleta, va cambiata nientemeno. Nel format attuale vengono schierate al via 32 squadre divise in 8 gruppi di 4; ogni gruppo dà vita a un mini-torneo con partite A/R della durata di 6 giornate, dopodiché i 16 club qualificati iniziano le sfide a eliminazione diretta, quelle che da sempre riservano le emozioni vere e che quest’anno hanno mandato tutti al manicomio regalandoci Real Madrid-Ajax 1-4, PSG-M. United 1-3, Juventus-Atletico M. 3-0, M. City-Tottenham 4-3, Juventus-Ajax 1-2, Barça-Liverpool 3-0, Liverpool-Barça 4-0, Ajax-Tottenham 2-3; emozioni non riproponibili, per pathos, nelle partite dei gironi iniziali.

Ebbene, sapete qual è l’idea meravigliosa dei Cesare Ragazzi dell’Eca? Raggruppare 32 partecipanti in 4 gruppi da 8 per far giocare loro campionati lunghi 14 partite invece che 6. Motivo dichiarato: aumentare il numero di sfide tra i club della crème europea; motivo vero: vendere a maggior prezzo i diritti tv del torneo (ballano 8 turni in più, mica noccioline) e avere più incassi al botteghino. In realtà, già i gruppi a 4 attualmente in vigore si rivelano a volte totalmente privi d’interesse per lo squilibrio delle forze in campo; si formano gruppi con classifiche sconsolanti (un anno fa: PSG e Bayern 15 punti, Celtic e Anderlecht 3; quest’anno: Dortmund e A. Madrid 13 punti, Bruges 6, Monaco 1); e anche quando capita che un top club perda una partita contro un outsider (Real Madrid-CSKA Mosca 0-3, Young Boys-Juventus 2-1) l’emozione è nulla perchè il top club è di norma già qualificato.

Immaginate la noia di gironi interminabili di 14 giornate piene zeppe di partite senza storia e per il 90% senza pathos, visto che a due club su tre l’Eca intende garantire, per regolamento, la qualificazione alla Champions dell’anno successivo. Avete capito bene. Se l’Ajax che tanto ha entusiasmato il mondo ha potuto farlo quest’anno partendo da lontano e superando ben tre preliminari (Sturm Graz, Standard Liegi e Dinamo Kiev), con la riforma-Eca avrà ora meno chances di farsi spazio: i cervelloni Eca vogliono infatti che le prime 5 classificate di ogni gruppo (appunto 20 su 32) passino direttamente alla Champions dell’anno dopo. Posti realmente a disposizione per i club “diseredati”, tipo l’Ajax della scorsa estate: 12. Insomma: i Marchesi del Grillo gonfieranno ancor di più il loro portafogli e noi ci annoieremo a morte non per 3 ma per 6 mesi. Tre Pater Ave Gloria.

Il diritto all’immaginazione ci salverà dai totalitarismi

Senza libertà morale, la libertà politica muore. In estrema, ma spero fedele, sintesi, il libro Spiritualità e politica di Luciano Manicardi, Priore di Bose, ci ricorda questa antica massima di saggezza. La persona moralmente libera è la persona che vive secondo i principi e i valori che ha cercato e trovato attraverso un dialogo serio con la propria coscienza: saper parlare con parole nostre e saperci vedere con i nostri occhi, come ha scritto l’autrice iraniana Azar Nafisi, che Manicardi opportunamente cita.

La persona moralmente libera ha un profondo senso della propria dignità e quindi non accetta di essere serva o schiava di altri. Non diventerà mai serva volontaria di un potente, per quanto grandi possano essere i favori che può ottenere; se è costretta con la forza a vivere in schiavitù, cercherà di liberarsi con qualsiasi mezzo. A queste perle di saggezza antica Manicardi ne aggiunge un’altra di ugual pregio che merita essere citata per intero: “Coltivare l’interiorità è il primo passo per la costruzione e per la partecipazione feconda alla vita della polis, perché luogo dove si forgia la libertà, dove si elabora la convinzione che conduce a scelte e decisioni, dove matura la forza di dire di no, dove si pensa l’oggi e si immagina il futuro.

Difficile da definire, la libertà morale, o interiore, si riconosce facilmente. La persona moralmente libera vive secondo i propri principi con assoluta coerenza, anche a costo di grandi sacrifici; non vive per il giudizio degli altri, ma pone sempre al primo posto il giudizio della propria coscienza; cerca il dialogo, ma solo con chi parla con sincerità; detesta i buffoni che parlano per far ridere e le persone banali che parlano per luoghi comuni. A questa lista minima Manicardi aggiunge tre importanti segni distintivi della libertà morale – l’immaginazione, la creatività e il coraggio – e spiega che queste qualità sono oggi particolarmente importanti per affrontare le sfide della politica.

Disprezzata, derisa, dimenticata, l’immaginazione è invece segno di libertà interiore, forza potente che contrasta il totalitarismo e punto di partenza per l’emancipazione politica e sociale. Le parole di Azar Nafisi sono ancora una volta illuminanti: “Mi sono convinta che la vera democrazia non può esistere senza la libertà di immaginazione e il diritto di usufruire liberamente delle opere di fantasia. Per vivere una vita vera, completa, bisogna avere la possibilità di dar forma ed espressione ai propri mondi privati, ai propri sogni, pensieri e desideri.” La creatività consiste essenzialmente nella capacità di vedere e di rispondere, dove capacità di vedere significa consapevolezza, coscienza. La persona creativa si muove nel mondo, sa uscire dal banale. È capace di creare futuro, di usare la propria parola e il proprio pensiero anche davanti a chi la pensa diversamente, sa nascere a se stessa, nascere ogni giorno.

Il coraggio è la virtù di dare inizio, è atto creativo, forza che spezza le corazze difensive della paura e della viltà e osa cominciare qualcosa di difficile; è un’energia che fa passare dall’intenzione all’atto; è un gesto rischioso che va oltre il calcolo razionale delle perdite che esso può comportare; ha il potere di concentrare tutte le energie di una persona, fisiche e psichiche, razionali ed emotive, indirizzandole verso un atto che presenta rischi ma che può avere buon esito. In questo vi è la dimensione di razionalità del coraggio, il quale non è mai sconsideratezza o gesto inconsulto.

Il dramma è che le persone che hanno vera vita interiore e vera libertà morale sono ormai scomparse, sembrano un retaggio del passato: “Noi siamo sempre gettati fuori di noi stessi dai troppi stimoli, dalle troppe cose che ci abitano, dal diluvio di informazioni che ogni giorno ci sommerge, dall’invadenza della pubblicità, dalla sovrastimolazione sensoriale, dalla “connessione” continua”. Siamo circondati da milioni di persone superficiali, vuote, banali. Una vera e propria degenerazione antropologica. Fin troppo facile prevedere che persone moralmente serve possono essere facilemente dominate da demagoghi.

Per fare rinascere la libertà morale e difendere la libertà politica servirebbero maestri, meglio ancora profeti, come i profeti biblici di cui parla Manicardi, che “spesso nella solitudine e nell’emarginazione, nel misconoscimento e nell’opposizione, in situazioni storiche di tenebra, hanno saputo creare futuro e dare speranza grazie alla loro immaginazione e alle loro parole, alla loro fede e alla loro convinzione.” Ma di profeti non se ne vedono.

Al credente Manicardi offro da non credente (nella religione cristiana) le parole di Benedetto Croce: “L’entusiasmo morale ora si avviva ora si smorza, ora balza energico ora si distende nell’abitudine e nel comodo e nel lasciare andare; e che perciò occorre, nella società laica come già in quella della Chiesa, che di volta in volta apostoli e martiri e santi intervengano, i quali non si può di certo fabbricarli artificialmente, ma bisogna confidare nella Provvidenza, che, come li ha sempre mandati sulla terra, così li manderà ancora.” In attesa, non resta che operare per fare rinascere un poco di libertà morale, non perché pensiamo di farcela, ma perché dobbiamo.

La cannabis medica: il piano Unipol e i privati che sperano

Unipol, il colosso finanziario e assicurativo, ha un piano per produrre cannabis medica. “Possiamo garantire una lavorazione h24 su 4mila metri quadrati”, si legge nel documento. Il titolo è: “Cannabis terapeutica, un progetto italiano per la comunità”. L’istituto guidato da Marco Cimbri punta in alto; letteralmente, fino al sesto piano. È la vetta dello stabile milanese di Rogoredo (oggi in disuso) che potrebbe ospitare coltivazioni di microalghe e marijuana terapeutica. Il documento è arrivato in regione Lombardia a dicembre e al comune di Milano ad aprile. Unipol prima nega, poi conferma l’interesse: “Il nostro patrimonio immobiliare vale 4 miliardi di euro e vorremmo metterlo a frutto. Ma il piano per Rogoredo è stato abbandonato – dice l’ufficio stampa – per motivi di business”. E se il governo coinvolgesse i privati nella produzione di cannabis medica? “Non sappiamo”, risponde la società, senza escludere nessuna ipotesi.

Solo i militari producono l’erba terapeutica in Italia. La pianta viene coltivata a Firenze, nello Stabilimento chimico farmaceutico, sotto l’ala del ministero della Difesa. I militari, per il 2019, ne produrranno 150 chili. Nemmeno un quarto dei 700 in arrivo dall’Olanda. Il fabbisogno dei pazienti è una tonnellata, dichiara pubblicamente il governo. Ma all’Organismo di controllo internazionale degli stupefacenti (Incb), l’esecutivo ha comunicato una cifra superiore: 1600 chili. La stima è online (incb.org).

Al ministero della Difesa, intanto, il bando per l’apertura ai privati è pronto: lo scopo è trovare investitori per potenziare lo Stabilimento fiorentino. Il ministro Giulia Grillo vuole aumentare la produzione per rispettare le necessità dei pazienti. Ma all’Agricoltura (Mipaf) siede il leghista Marco Centinaio: senza il suo via libera, niente bando. Per coltivare la pianta infatti servono le talee (il genitore del seme) e quelle le produce il Crea (l’ente per la ricerca agricola del dicastero). L’istituto è in crisi: agli arresti domiciliari sono finiti il direttore generale, Ida Marandola, ed il presidente Salvatore Parlato. L’accusa è peculato e abuso d’ufficio. Senza un finanziamento, il Crea chiuderà a giugno. La gara, per ora, è ostaggio del Mipaf.

Le aziende fervono, intanto. “Quando arriverà il bando, noi saremo pronti”, promette Marcus Benussi, a capo di Aurora Italia, filiale europea del colosso canadese. Le multinazionali Wayland, Tilray, Spectrum, Canopy, attendono solo il via libera. “Non mi aspetto di trovare concorrenti italiani, quasi impossibile: noi abbiamo un business avviato e un prodotto certificato”, dice Benussi. Le aziende Canadesi e americane, per via della legalizzazione, producono cannabis da anni. Coldiretti però scommette sulla filiera italiana. Guardando al Canada, ha elaborato stime, un filo ottimistiche: “1,4 miliardi e 10mila posti di lavoro dai campi alla farmacia”. Le imprese italiane accettano la sfida. Come l’abruzzese Enecta, specializzata nell’estrazione del Cbd (un componente non psicotropo), con un fatturato di oltre 6 milioni di euro. O Eusphera, azienda romana. Salars, nel ramo degli oppioidi, di Como, sarebbe in pista con un vantaggio: è l’unica autorizzata dall’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) insieme allo Stabilimento fiorentino, come officina farmaceutica. Ad Enecta ed Eusphera il ‘bollino’ manca, ma hanno certificati Gacp (per la coltivazione) e Gmp (dal fiore alla vendita) di grado farmaceutico. In Germania e Grecia, dove lo Stato ha aperto ai privati, basta per ricevere l’autorizzazione. In Italia no: “Solo le officine farmaceutiche possono produrre cannabis medica”, dice Antonio Medica, direttore dell’Istituto fiorentino. Alcune multinazionali temono che il timbro dell’Agenzia del farmaco del loro Paese non basti. Lorenzo Calvi, medico chirurgo e visiting professor all’Università di Milano, sospetta che si voglia strozzare la concorrenza: “Le certificazioni Agcp e Gmp garantiscono qualità e sicurezza, chi le possiede è in grado produrre cannabis medica”.

Il rischio è che le imprese italiane perdano il treno dell’oro verde. Acef, azienda farmaceutica di Piacenza, ha già rinunciato: “La cannabis è un gran mercato, ma i canadesi sono avanti e hanno prezzi concorrenziali”, dice il dirigente Giovanni Braccioli. Nel 2018, il mercato della cannabis medica in Italia valeva 11,8 milioni di euro, per Marijuana Business Daily. SecondoProhibition Partners entro il 2028, in Europa, arriverà a 58 miliardi. Magari Unipol ci ripensa.

Tutti per il fiore: enti locali pro canapa

La carenza del farmaco l’anno scorso è stata drammatica: molti pazienti hanno rischiato il carcere, pur di curarsi, comprando marijuana dagli spacciatori o coltivandola in casa. Alcuni sono finiti dietro le sbarre. In provincia di Trento, uno di loro è scampato al carcere in virtù della grazia del Quirinale, il 13 marzo dell’anno scorso. La domanda di cannabis medica cresce troppo in fretta e il monopolio arranca. Il comitato dei pazienti è favorevole a coinvolgere i privati. Gli enti locali (di ogni colore) pure. Il 9 maggio, il consiglio comunale di Torino ha approvato all’unanimità una mozione per produrre cannabis medica su terreni pubblici. La Regione Toscana, con il Pd, indica il Centro militare veterinario (CeMiVet), per ospitare gli impianti. In Puglia, Michele Emiliano sogna da anni una coltivazione locale. In Sicilia, l’ESA (Ente Sviluppo Agricolo) sarebbe lieto di coltivare cannabis per i pazienti. Anche il comune di Milano, il primo ottobre scorso, ha approvato una mozione per produrre la pianta medica in collaborazione col Politecnico. Il forzista Giorgio De Chirico, lancia l’appello al sindaco Beppe Sala: “Milano sia capofila della richiesta di abbattimento del monopolio militare”. La Lombardia del governatore leghista Attilio Fontana ci crede: il 4 dicembre l’assemblea regionale ha approvato all’unanimità la mozione del radicale Michele Usuelli. Ma senza il via libera del ministero, il monopolio militare non si tocca. Molte aziende, frenate dall’incertezza politica, chiedono lumi proprio ai radicali. La presidente Barbara Bonvicini ha raccolto l’interesse di diverse aziende, italiane e straniere.

“Caro Salvini, ecco perché sulla canapa ti sbagli”

“Non avevo un lavoro, non sapevo come pagare le bollette. Oggi, con il mio piccolo negozio, certo non sono diventato ricco ma almeno insieme a mia moglie riesco a badare alla casa e a quello che serve a mia figlia”: Giovanni gestisce un piccolo Cannabis shop a Roma, la città con la maggiore densità di negozi di questo tipo in Italia. Partecipa alla manifestazione di protesta che si è tenuta a Roma sabato, in piazza San Giovanni. Racconta che gli introiti maggiori arrivano dalla vendita dei fiori della pianta. “Certo, chi compra i fiori a volte è anche attratto dagli altri prodotti e li prova – spiega – ma alla fine quasi tutti cercano le infiorescenze”. Gli oli, i lecca lecca, gli infusi, sono per intenditori (la pasta a base di cannabis, iperproteica, è utilizzata soprattutto da chi frequenta le palestre).

Tecnicamente, i fiori della canapa a basso contenuto di sostanze psicotrope (per legge se ne può produrre con un Thc tra lo 0,2 e lo 0,6% mentre di solito quella che si compra in strada ne ha per circa il 12%) sono definite infiorescenze. Mentre parliamo con Giovanni, un’oretta circa, nel suo negozio entrano almeno tre persone. Non ci sono ragazzini, hanno tutti tra i 30 e i 40 anni, spendono intorno ai 30 euro. “Credere che questi negozi aiutino a diffondere le droghe tra i giovani è assurdo – dice il titolare –, qui vengono soprattutto adulti, con molti soldi da spendere e che hanno magari deciso di smettere con le canne illegali perché hanno messo su famiglia o perché l’erba spacciata ha cominciato a fargli male, ma non vogliono rinunciare al sapore e alla sensazione di relax. Inutile dirlo, poi: l’erba illegale costa molto, molto meno”.

La polemica sulla cannabis light va avanti da mesi ed è una guerra combattuta sin dall’emanazione della legge che ne ha dato il via. La coltivazione di quella che in realtà è definita “canapa industriale” in Italia è prevista dalla legge 242 del 2016. La norma regola la coltivazione delle piante, ne descrive tipologie ammesse e limiti, ma non parla di vendita né della produzione dei fiori, la parte che viene fumata. Vulgata vuole che questo riferimento sia assente per volere del centrodestra che lo ha fatto escludere durante la discussione della legge in commissione. È infatti solo una circolare del ministero dell’Agricoltura del 22 maggio 2018 a specificare che “pur non essendo citate espressamente dalla legge n. 242 del 2016 né tra le finalità della coltura né tra i suoi possibili usi, le infiorescenze rientrano tra le coltivazioni destinate al florovivaismo, purché derivino da una delle varietà ammesse”. I negozi possono quindi venderle ma “ad uso tecnico”. Cosa poi ne faccia il consumatore è un problema suo.

A luglio dello stesso anno, però, il ministero dell’Interno tenta un’altra mossa e fa la guerra alle percentuali: spiega che se la legge prevede che i coltivatori possano produrre canapa con Thc fino allo 0,6% a patto che abbiano piantato semi da 0,2, lo stesso non vale per il venditore che invece deve rimanere sotto il limite più basso. Un’altra interpretazione. La norma , infatti, è bacata: tanto che le sentenze arrivate finora sulla questione e sui sequestri effettuati in tutta Italia sono contrastanti. A fine maggio dovrà essere la Corte Costituzionale a sezioni riunite a mettere chiarezza.

Intanto, però, il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha inviato una direttiva ai prefetti con indicazioni precise su come procedere nei controlli ai negozietti. Sostiene che in generale la vendita delle infiorescenze sia illegale, ordina una stretta sui controlli, prevede “un’approfondita analisi del fenomeno”, “una puntuale ricognizione di tutti gli esercizi e le rivendite presenti sul territorio”, “una verifica del possesso delle certificazioni su igiene, agibilità etc” e poi la vicinanza a “luoghi sensibili” come scuole, ospedali, parchi giochi e così via. Una mossa che sa di propaganda: se un canapa shop ha in vendita prodotti che rispettano le soglie di legge (che dovranno essere confermate dalla Cassazione) e rispetta le certificazioni di igiene, come si potrà vietarne l’apertura dove vuole? Su quali basi?

Nel balletto politico, che vede sull’altro fronte il Movimento 5 Stelle (che ha più volte ribadito che negli shop non si vende droga e che è promotore di una legge sulla legalizzazione) ha preso posizione in questi giorni anche il Partito Democratico: “Critico la guerra che Salvini ha iniziato a fare contro i canapa shop – ha detto sabato il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, intervistato da Maria Latella su Sky tg24 – la lotta allo spaccio va fatta alla mafia, per le strade, combattendo il traffico di droga”. Nella stessa giornata, a Roma e a Torino, in centinaia sono scesi in piazza. “Salvini continua a ripetere che chiuderà i negozi – spiega Giovanni Foresti, referente del Coordinamento piemontese unitario per la legalizzazione della canapa – ma con queste affermazioni rovina un mercato legale”. Un mercato da 40 milioni in Italia, con oltre mille shop aperti negli ultimi due anni e 10mila tabaccai che vendono i prodotti (la community italiana è ben raccontata nel libro di Matteo Gracis, “Canapa, una storia incredibile”, Chinaski Edizioni con la prefazione di Beppe Grillo). A Torino, dopo le parole del ministro, è stato annullato il “Salone internazionale della canapa”. Salvini lo aveva definito “uno scempio”. E in molti hanno rinunciato al proprio stand.