La Corte dei Conti condanna la “valorizzazione” di Pompei

Francamente non ho mai esultato per una condanna, e anche stavolta non provo nessun particolare piacere al pensiero che Marcello Fiori, già potentissimo commissario berlusconiano di Pompei, dovrà versare allo Stato 400.000 euro. Ma la sentenza (definitiva) della III sezione giurisdizionale centrale d’appello della Corte dei Conti stesa dalla consigliera Cristiana Rondoni e firmata dal presidente Angelo Canale è davvero importante, per il governo futuro del patrimonio culturale italiano e per la linea culturale e giuridica che afferma. Come ha scritto Gian Antonio Stella, commentandola sul Corriere, la condanna di Fiori potrebbe “far passare finalmente la voglia, ai soprintendenti di manica troppo larga, di dare la precedenza alle baracconate che odorano di soldi invece che alla custodia del nostro immenso patrimonio”.

Il risultato si deve alla tenacia della Procura contabile della Campania, e in particolare al viceprocuratore generale Donato Luciano. Devo subito dire che in questa vicenda non sono neutrale, perché fui io a scrivere la perizia per la procura, sostenendo la tesi ora accolta in toto dal tribunale: e cioè che non si può valorizzare un bene culturale impedendone la fruizione culturale, e danneggiandolo materialmente. Bella forza, direte voi: ma non è (o almeno non era) per nulla evidente che fosse così.

La storia è nota. Nel maggio 2010 il Teatro Grande di Pompei viene investito da una specie di tsunami che il commissario Fiori sostenne essere “valorizzazione”: martelli pneumatici e colate di cemento abilitarono il teatro antico a diventare location di spettacoli. Mentre incombeva la prima diretta da Riccardo Muti (che manco rispose agli intellettuali napoletani che gli scrissero chiedendogli di non legittimare quello scempio con la sua presenza) si costruirono dal nulla una cavea di tufo e un palcoscenico con le sue sostruzioni, si assediarono le rovine con orridi containers di metallo (ancora lì), si montarono enormi torri sceniche per le luci. Un insensato disastro.

Un caso isolato? Purtroppo no. Dalla realizzazione di ascensori in palazzi storici (per esempio sul Vittoriano, ma anche nello stesso Collegio Romano, sede del ministero per i Beni Culturali) alla costruzione di oscene biglietterie in chiese storiche (dal portico gotico di Santa Croce a Firenze, a San Biagio a Montepulciano), dalla ‘vetrificazione’ di monumenti nati senza chiusure (come la Loggia del Tiratoio a Gubbio) alla cementificazione di castelli storici (come quella del Maniace a Siracusa), alla destinazione di monumenti a spettacoli a ciclo continuo che di fatto li divorano (è il caso della bella chiesa romanica di Santo Stefano al Ponte a Firenze), a ciò che potrebbe toccare al Colosseo per ricostruirvi la mitica arena, o a San Bernardino all’Aquila per realizzare un parcheggio sotterraneo. Ciò che unisce tutti questi “attentati” al patrimonio culturale è riassunto nella litania che sale incessantemente dalle bocche degli zelanti sacerdoti del culto del mercato: “Valorizzazione, valorizzazione, valorizzazione…”.

Ebbene, oggi la Corte dei Conti zittisce la litania: non tutto è ammissibile, nella valorizzazione. Si prende finalmente atto che il fine che il Codice dei Beni culturali assegna alla valorizzazione è quello di “promuovere la conoscenza del patrimonio” stesso, allo scopo di “promuovere lo sviluppo della cultura”. Il metro per stabilire se un atto rientri o meno nell’ambito della valorizzazione è dunque quello della conoscenza: se vi è un aumento di quest’ultima (in termini di apertura ad un più vasto numero di cittadini, o in termini di incremento della quantità e qualità della conoscenza del monumento), si tratta di valorizzazione. Se, al contrario, la fruibilità, la visibilità, la conoscenza del monumento diminuiscono, o risultano addirittura impedite (in tutto o in parte, permanentemente o per un certo lasso di tempo), non si può parlare di valorizzazione, ma anzi di negazione del valore culturale, e dunque di annientamento della funzione di quel ‘bene’.

La sentenza della Corte dei Conti va anche oltre, smentendo orde di ministri, assessori e giornalisti per cui la valorizzazione significa monetizzazione (in ossequio al fatto che l’unico “valore” riconosciuto è quello del soldo): “La valorizzazione del bene culturale non può essere assimilata al mero ‘sfruttamento’ dello stesso per fini di natura imprenditoriale-commerciale, né deve in alcun modo alterare le caratteristiche fisiche del bene o ridurne la fruibilità pubblica, posto che il bene culturale, e soprattutto quello archeologico che cristallizza la nostra storia, resta sempre il bene pubblico per eccellenza”. Quest’ultima affermazione, per quanto lapalissiana per chi abbia letto anche solo di sfuggita l’articolo 9 della Costituzione, è costantemente smentita dai fatti, e rappresenterebbe di per sé un compiuto programma di politica del patrimonio culturale. Dopo la stagione di Dario Franceschini e della sua variopinta corte, in cui la retorica della privatizzazione e della valorizzazione raggiunse l’apice in parole e opere, oggi assistiamo di fatto a un vuoto politico: quale l’idea, quale la direzione, quale la visione del Movimento 5 Stelle attualmente al governo dei Beni Culturali? Tra segnali contrastanti e marce indietro, tocca come sempre alla magistratura riempire il vuoto.

“Cibo, clima e migrazioni: 11 anni all’Armageddon”

se il mondo farà sboom?

Enrico Giovannini, ministro del Lavoro nel governo Letta, già presidente dell’Istat, docente di statistica economica a Tor Vergata (“Un professorone!” direbbe Salvini) si occupa di ciò che sta accadendo nel mondo. “Era il 1972 e il cosiddetto Club di Roma, un pool internazionale di esperti, ci disse ciò che avremmo visto nel 2030”.

Undici anni ancora, ci siamo quasi

Non maghi, ma economisti dello sviluppo e scienziati, avvertirono che la crescita sarebbe stata frenata da tre fattori: mancanza di cibo, eccessivo consumo di risorse e inquinamento dovuti ai grandi mutamenti climatici, all’aumento della popolazione mondiale e al tipo di modello economico.

Temi che divengono palline da ping pong nei talk show.

Per le organizzazioni internazionali tra dieci anni toccheremo la cifra record di oltre otto miliardi di abitanti. Accanto al degrado ambientale, le mutazioni climatiche ridurranno alla fame un popolo di dimensioni mai viste spingendo verso migrazioni di massa alimentate anche da decine di conflitti regionali. L’acqua sarà l’oggetto prevalente delle contese.

Stiamo andando a sbattere, e piuttosto allegramente.

Ricordi che i politici non amano parlare di cose per le quali non possono millantare di avere una soluzione. Quindi si fermano ai problemi di piccola taglia.

Lei non ha di questi obblighi e può guardare al dopodomani.

È un principio di salvaguardia della nostra intelligenza illustrare soluzioni possibili alle questioni che stringono alla gola la nostra età.

Abbiamo conosciuto una vita verticale. Una porzione del mondo ha issato la bandiera della crescita come traguardo esclusivo.

L’Ocse stima che nei prossimi quarant’anni il Pil dei Paesi industrializzati aumenterà mediamente dell’1,75% annuo. Una cifra insufficiente a fronteggiare la povertà che già esiste e a trasformare i sistemi produttivi come dovremmo. Poi abbiamo davanti un’ulteriore sfida: la quarta rivoluzione industriale con la digitalizzazione e l’automazione.

La distruzione infinita del lavoro tradizionale.

Sempre secondo l’Ocse, il 10% dei lavori esistenti saranno mangiati dai robot, mentre il 40% degli impieghi attuali sarà stravolto.

La metà di noi dovrà farci i conti.

Direi di sì e non è certo che, in un mondo globalizzato, i nuovi lavori verranno creati laddove i vecchi verranno distrutti.

Temo che le cattive notizie non siano finite.

Il clima muta nelle forme oramai conosciute. Se in questo secolo la temperatura media aumenterà di due gradi, o ancora di più, ci sarà una parte del mondo che si riscalderà in modo insopportabile. L’Europa sarà più calda di altri continenti e il suo Sud, Italia compresa, subirà un aumento maggiore della media, mentre il suo Nord, penso alla Scandinavia, godrà di un beneficio con importanti ricadute economiche e sociali.

Di nuovo la mente va alle migrazioni.

Ah, di certo anche i ricchi migreranno. Sa che già sono in atto disinvestimenti immobiliari nell’area meridionale dell’Europa? Si compra in Norvegia, perché lì il clima sarà più favorevole. L’Indonesia progetta di spostare la sua capitale, Giacarta, destinata per una metà a rimanere sott’acqua entro questo secolo? I grandi viticoltori australiani stanno investendo nel loro sud, nei territori dove il clima sarà più favorevole?.

Sembra un disastro senza fine.

Alcuni ricconi d’America si stanno facendo costruire bunker in Nuova Zelanda. Ma questa non sembra una soluzione praticabile da tutti. L’unica strada è avviare un percorso di sviluppo sostenibile. Compatibile cioè con la nuova realtà che non aspetta il nostro tempo, la nostra reazione. L’Agenda 2030, predisposta dall’Onu, alla cui preparazione ho avuto modo di contribuire, elenca 17 obiettivi da raggiungere, nei diversi campi dell’attività umana, e pone 167 target da centrare se non vogliamo conoscere un arretramento degli stili di vita, milioni di morti per fame, grandi territori desertificati, le guerre locali.

Lei è portavoce di una associazione che ha l’obiettivo di realizzare modelli di sviluppo sostenibile.

Alleanza Italiana per lo Sviluppo sostenibile (ASviS). L’Agenda 2030 è uno straordinario piano di trasformazione, l’unico che abbiamo, e la questione investe anche la geopolitica. Le faccio un esempio. Il futuro prossimo dell’auto è elettrico. La Cina detiene il monopolio delle batterie al litio. La Commissione europea ha invitato i potenziali produttori europei di batterie, proponendo di unire gli sforzi come è stato fatto nel campo aeronautico con Airbus. La Mercedes ha deciso di sottrarsi al monopolio cinese e di investire miliardi nelle batterie al potassio, presente in Europa. Come vede si parla di migliaia di posti di lavoro e di rapporti di forza internazionali. Lo sviluppo sostenibile non è solo una questione ambientale, ma anche economica, sociale e istituzionale.

Lo sviluppo sostenibile sembra uno slogan già consumato. Ne parliamo ogni giorno, e poi puntualmente ce ne dimentichiamo.

Invece non possiamo fare più gli gnorri. Siamo obbligati a fronteggiare i mutamenti climatici, a investire nella cosiddetta economia circolare, a rivedere in profondità il nostro modello di sviluppo economico e sociale. Non è più un’opzione. Ora è divenuta un’urgenza.

“La sedazione degli arrestati si fa in carcere, non in questura”

“Gli accertamenti di persone arrestate che hanno contrasti con la polizia devono essere fatti in carcere, non nelle camere di sicurezza”. Il procuratore reggente di Torino, Paolo Borgna, non entra nello specifico del caso di Ndiaye Migui, ma sottolinea che “al momento è stato soltanto aperto un fascicolo modello 45, cioè nessun poliziotto risulta indagato”. Per capire cosa è successo nel commissariato Dora Vanchiglia ci vorrà tempo. Finora sappiamo che, il 21 aprile, la polizia è stata aggredita da un senegalese irregolare, Ndiaye Migui, già depositario di due provvedimenti di espulsione. L’uomo viveva ancora in una baracca ed era armato di oggetti contundenti. A farne le spese è stato un agente. Portato in commissariato, l’uomo si sarebbe rifiutato di farsi identificare e avrebbe dato in escandescenza. A quel punto, stando alla ricostruzione del Corriere di Torino, sarebbe stato chiamato il 118 il cui personale lo avrebbe sedato per permetterne il prelievo delle impronte. Una procedura, la sedazione, che anche in Piemonte richiede la presenza di un medico, di concerto con il magistrato. La Procura adesso dovrà chiarire chi ha disposto la sedazione – secondo il questore De Matteis esiste un vuoto normativo – e se la sedazione di un arrestato è consentita per le impronte. La questione, in realtà, è più ampia: “Ci sono molti aspetti da mettere a punto – dichiara al Fatto Borgna, che ha incaricato l’aggiunto Patrizia Caputo di aggiornare il protocollo in uso –. Quando ci sono contrasti, gli accertamenti vanno eseguiti in carcere, dove c’è personale preparato, medici e psicologi. Con il Garante dei detenuti e la Regione, stavamo già rivedendo le pratiche di chi ingoia ovuli di cocaina. Ora abbiamo allargato la discussione”.

L’elemosiniere del Papa ridà luce agli okkupanti. Salvini contro la S.Sede

“Anche i musulmani si sono inginocchiati per ringraziare l’elemosiniere del papa. Dopo sei giorni al buio, le 400 persone di cui 100 minori hanno pianto lacrime di gioia. Tra loro c’erano malati a cui era mancato l’ossigeno: senza il suo intervento non sarebbero più su questa terra”.

Racconta così suor Adriana il gesto del cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere del papa, che sabato ha riallacciato l’elettricità all’edificio di via Santa Croce in Gerusalemme 5 nel rione centrale dell’Esquilino a Roma, occupato dal 2013. Suor Adriana sostiene ogni giorno i residenti: per la religiosa “quello di Krajewski è stato un gesto di umanità. Senza il Vaticano che assicura la medicina solidale qui si morirebbe. Loro non hanno pagato le bollette, ma come si fa a staccare la corrente senza preavviso?”, continua. “L’elemosiniere è arrivato e, dopo aver verificato la situazione, ha chiamato le istituzioni che gli hanno assicurato che in 24 ore la fornitura di corrente sarebbe tornata, invece così non è stato. Alle 22 è sceso lui stesso e l’ha riallacciata”, racconta. In realtà la società elettrica, Areti Spa – che nei giorni scorsi si era detta obbligata a interrompere la fornitura su incarico dell’emiliana Hera, cui fa capo il contratto del palazzo – quando si è accorta dell’anomalia, si è presentata sul posto con la polizia, e solo il presidio degli occupanti durato fino alle tre di mattina ha impedito all’azienda di staccare di nuovo la corrente. Sulla vicenda sarà presentato un esposto in Procura contro ignoti. Eppure il cardinale Krajewski detto “Corrado” – che gira per Roma a bordo della sua Fiat Qubo con 4 guardie svizzere per aiutare ai bisognosi – sostiene di aver lasciato il suo bigliettino da visita sul posto, come scrive su Facebook Spin Time Labs, che gestisce l’occupazione con il movimento Action che fa sapere che si autodenuncerà. Si tratta di un gruppo legato all’estrema sinistra, come altri che gestiscono gran parte delle occupazioni in cui vivono oltre 10 mila persone a Roma, ma i rapporti con i cattolici sono eccellenti. “Non l’ho fatto perché ero ubriaco”, ha dichiarato Krajewski. Il gesto, dicono dal Vaticano, “è stato compiuto dal cardinale nella piena consapevolezza delle possibili conseguenze d’ordine legale cui ora potrebbe andare incontro, nella convinzione che fosse necessario farlo per il bene di queste famiglie”.

“Ora riceviamo solidarietà da tutti, ma al Comune e alla Regione abbiamo chiesto invano un tavolo sul progetto di riqualificazione dell’immobile a cui hanno collaborato le tre università romane. Non è vero che non vogliamo pagare le bollette, anzi chiediamo di avere le utenze a nostro nome ma fin qui non è stato possibile. La proprietà? Con noi non parla”, spiega Andrea Alzetta di Action. Quanto all’immobile – ex sede dell’Inpdap, da anni abbandonata – è di proprietà di InvestiRe Sgr Spa., ramo immobiliare della Banca Finnat.

Al suo interno Spin Time con un cantiere di rigenerazione urbana ha riqualificato diversi spazi: centri di assistenza, anche alimentare e integrazione; laboratori; una falegnameria e un’osteria. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini, in polemica con l’elemosiniere gli ha chiesto di “pagare anche i 300mila euro di bollette arretrate”, mentre l’estrema destra con Forza Nuova ha esposto uno striscione vicino a San Pietro: “Bergoglio come Badoglio. Stop immigrazione”.

Destra, sinistra e verdi: ecco come vedono il futuro della Ue

Quando si parla di elezioni, le sorprese arrivano di solito il giorno dopo il voto, magari con i risultati reali a smentire i sondaggi. Con queste europee, invece, una grande sorpresa è arrivata prima che gli elettori si recassero alle urne: il caso Brexit. All’appuntamento sono chiamati circa 380 milioni di cittadini dei Paesi Ue e il voto è spalmato su quattro giorni, tra il 23 e il gran finale di domenica 26 maggio: giorno in cui si esprimeranno la maggior parte dei cittadini europei, italiani compresi.

Era tutto pronto per un voto a 27 Stati, con un Parlamento più piccolo (i seggi dovevano passare da 751 a 705) e i posti del Regno Unito parzialmente ripartiti (all’Italia ne sarebbero toccati 3 in più: dai 73 di oggi a 76). Invece, date le indecisioni di Londra su tempi e modi di Brexit, i britannici dovranno votare. Oltretutto inaugurando proprio loro giovedì 23 maggio la maratona elettorale della più grande democrazia transnazionale del mondo. La partecipazione al voto dei britannici cambierà sensibilmente, anche se non drasticamente, gli equilibri politici continentali, nel quadro di un’Eurocamera che si preannuncia frammentata. E che nascerà, stavolta, senza maggioranza preordinata. Abbiamo intervistato cinque esponenti di primo piano di questa corsa elettorale, in rappresentanza delle famiglie politiche europee. Dai liberali al raggruppamento di Le Pen e Salvini, dai Verdi e sinistra radicale, fino ai Conservatori e Riformisti a cui ha recentemente aderito Fratelli d’Italia. A tutti loro è stata rivolta la domanda sul futuro dell’Europa in termini di proposta politica, alleanze possibili e prospettiva di formazione del nuovo “governo” dell’Ue.

 

Nico Cué (Gue)

Combattiamo l’austerità, vogliamo più politiche sociali e meno evasione

 

Nico Cué, sindacalista belga, è insieme a Violeta Tomic, candidato di punta (o Spitzenkandidat) alla presidenza della Commissione europea per il gruppo della Sinistra Unitaria (Gue)

Che modello di Europa proponete per il futuro?

Un’Europa diversa, che rompe con quella attuale. Siamo di fronte a un deficit democratico: mancano una serie di strumenti che sono essenziali per la vita dei cittadini. Durante la crisi la Bce ha sborsato miliardi di euro per sostenere il mercato e le banche in difficoltà. Lo ha fatto però senza coinvolgere i cittadini e soprattutto non tenendo conto dei bisogni reali delle persone. Le raccomandazioni della Bce, per esempio, vengono sempre fatte in merito alla stabilità dei conti, mentre non toccano mai la necessità di politiche sociali. A questo deficit democratico nel cuore dell’Europa può rispondere il Parlamento europeo, ovvero l’unica istituzione democraticamente eletta dell’Ue. Anche per questo motivo pensiamo che l’appuntamento elettorale sia importante.

Quali sono le vostre proposte?

Combattere l’austerità in nome dell’Europa sociale che negli anni è stata sempre più lasciata da parte, ma che era in realtà all’origine del progetto. Austerità e dumping tra gli Stati – che sia fiscale o sui salari – pesano molto sulla vita delle persone. Ecco perché dobbiamo sospendere l’austerità e lavorare per una piattaforma sociale comune a tutti i Paesi.

Qual è il vostro rapporto con i socialisti e con tutto il resto dello schieramento progressista?

Dobbiamo discutere con i compagni Socialisti ma non si può andare da Macron a Tsipras – come invece propone il segretario del Pd Nicola Zingaretti. I socialisti però devono decidere: o si continua a demolire lo stato sociale e a favorire solo la finanziarizzazione dell’economia, oppure si investe nel servizio pubblico e nello Stato sociale.

Proponete di rappresentare una sinistra vicina al popolo. Eppure sono i populisti che mietono consensi in tutto il continente. Perché è più facile per loro che per voi parlare alla gente?

Perché noi di sinistra esprimiamo il desiderio di vivere insieme, di accogliere gli altri. La destra al contrario fa appello alla chiusura, all’odio, non alla generosità come facciamo noi. Intercettare il consenso è più difficile per noi che per loro: noi parliamo alla ragione, loro alla pancia. Invece di prendercela con i rifugiati, dovremmo cercare di recuperare i soldi che vengono sottratti dall’evasione fiscale: li potremmo utilizzare per costruire scuole, ospedali e infrastrutture.

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Kosma Zlotowski (Ecr)

Spezzare l’asse tra Popolari e Socialisti, le sovranità nazionali tornino al centro

 

Kosma Zlotowski, eurodeputato polacco del PiS (Diritto e Giustizia), è tesoriere del gruppo dei Conservatori e Riformisti (Ecr) al Parlamento europeo.

Quali sono le vostre proposte per l’Europa?

Noi vogliamo riformare profondamente l’Unione Europea, nel senso di una confederazione di Stati sovrani che cooperano su alcune grandi materie ma rimangono liberi di decidere autonomamente su tutto il resto. Per fare questo ci poniamo l’obiettivo di porre fine all’asse popolari-socialisti che ha governato male questa Europa e costruire una nuova maggioranza di centrodestra che possa cambiarla radicalmente.

Tutti voi – nazionalisti, populisti, sovranisti – guadagnerete seggi nel prossimo Parlamento, ma non avrete la maggioranza. Che Commissione vorreste?

Puntiamo ad avere una Commissione che faccia meno cose e le faccia meglio, nel rispetto del principio di sussidiarietà e di sovranità nazionale: non decidano i burocrati di Bruxelles quello che può essere meglio deciso a Varsavia o a Roma.

Salvini è venuto da voi in Polonia per chiedere di forgiare un’alleanza tra tutti i sovranisti. Cosa gli avete risposto? E cosa gli chiedereste in cambio, per accettare la sua offerta?

Il nostro obiettivo è far crescere sempre di più il gruppo Ecr che sarà il perno di tutto quello che si muoverà alla destra del Ppe. Stimiamo Salvini che sta lavorando bene soprattutto sull’immigrazione. In Italia abbiamo un rapporto privilegiato con Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia che hanno aderito al nostro gruppo ormai da mesi e sono un partner affidabile e con le idee molto chiare. Ci auguriamo che possano avere un ottimo risultato il 26 Maggio.

Siete euroscettici?

Ecr si definisce eurorealista. Questa Unione Europea è diventata un mostro burocratico, un super Stato che ha tradito i suoi principi ispiratori. Se vogliamo salvare l’idea di Europa abbiamo bisogno di una profonda riforma che metta al centro i valori e le sovranità nazionali. Altrimenti i popoli smetteranno di credere nell’ideale europeo.

Cosa significa essere “conservatori” oggi? Siete contro l’immigrazione e contro i diritti Lgbt?

Noi non siamo contro nessuno. Essere Conservatori significa difendere la nostra identità culturale e religiosa, la specificità di ogni comunità nazionale, i confini esterni della nostra Europa, la famiglia naturale, la libertà di impresa coniugata con una grande attenzione alla solidarietà. Sono i valori di una moderna Destra sociale e saranno decisivi per cambiare l’Europa.

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Sophia in’t Veld (Alde)

La Ue sembra un conclave Vaticano, servono istituzioni meno tecnocratiche

 

Sophia in’t Veld, eurodeputata olandese è vice presidente dell’Alleanza dei Liberali e Democratici europei (Alde).

Quali sono le priorità di Alde?

Siamo la famiglia più europeista, per un’Europa che possa parlare con una sola voce. Per noi l’Europa non è solo tecnocrazia o mercato, ma una comunità di valori. Quanto all’economia dobbiamo fare attenzione al mercato digitale, siamo indietro a Usa e Cina. Pensiamo solo a quanto Facebook determina il nostro mondo, dovremmo eliminare una serie di barriere nel mercato digitale europeo. In ogni caso la specificità di Alde è quella di dare risposte davvero unitarie per l’Europa. Non bastano quelle degli Stati nazionali. Il Consiglio, che li rappresenta, si esprime con decisioni opache: dovrebbe essere il motore dell’Europa, non il freno come di fatto è diventato.

Parla in questi termini del Consiglio, ma in realtà il leader del gruppo, Guy Verhofstadt, sembra aver cambiato idea sul tema degli Spitzenkandidaten(i candidati espressi dai partiti europei alla guida della Commissione), ovvero l’unico modo per sottrarre agli Stati il potere di decidere chi governerà l’Ue.

Il partito da cui provengo, in Olanda, è a favore del sistema degli Spitzenkandidaten. Abbiamo idee diverse, in Alde, ma penso che il dibattito sia parte della democrazia. Per quanto mi riguarda, la leadership europea deve certamente essere il riflesso del risultato elettorale. Solo in questo modo avremo istituzioni meno tecnocratiche e più democratiche. Non possiamo andare avanti con un sistema di scelta che assomiglia più al conclave in Vaticano che a quello delle democrazie mature.

Gli euroscettici avanzano ovunque. Come pensate di contrasti?

Cominciamo col dire che non si tratta di euroscettici, ma anti-Ue e anti democratici. Non bisogna esagerare la loro importanza, sono i pro-Ue, in realtà, ad essere in ascesa. Così in Inghilterra alle ultime elezioni, o in Spagna, dove in realtà Vox non ha che il 10%, il Ppe crolla, mentre i progressisti crescono. Eppure i media danno molto risalto agli estremisti.

Li considera un bluff?

Non è l’euroscetticismo il cuore del loro programma politico, ma quello che chiamano “manifesto internazionale del populismo”. L’idea è quella di restaurare l’ordine naturale: significa il ritorno al Medioevo in sostanza, donne represse, uomini dominanti, negazione dei diritti Lgbt.

Le risposte degli europeisti le sembrano sufficienti?

Difendere l’Ue parlando di mercato unico non basta. I sovranisti attaccano sempre i loro avversari facendo riferimento a temi culturali e identitari. Lei ha mai sentito Salvini o Orban contestare il regolamento sul roaming?

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Philippe Lamberts (Verdi)

Cerchiamo alleati in (quasi) tutti i gruppi per passare dal neoliberismo all’ecologia

 

Philippe Lamberts è eurodeputato belga è co-presidente del gruppo dei Verdi al Parlamento europeo.

Quali sono le priorità dei partiti ambientalisti in vista delle prossime elezioni europee?

Cambiare modello. A chi ci governerà chiederemo di ridurre le diseguaglianze e di mettere l’economia al servizio delle vita dei cittadini. Inoltre, c’è l’emergenza climatica e ambientale: se come politici europei non siamo capaci di risolvere tutti questi problemi, allora saranno i nazionalisti a guadagnare voti. Dobbiamo ascoltare la voce dei Gilet Gialli e dei protagonisti delle marce per il clima. Insomma, le politiche europee vanno cambiate. L’estrema sinistra vorrebbe farlo riformando i Trattati dell’Ue, ma per questo ci vuole l’unanimità. Noi Verdi pensiamo invece che trovare le maggioranze sia più facile e più veloce.

Appunto parliamo proprio di maggioranze. Proiettiamoci al 27 maggio, quando conosceremo i risultati e l’entità delle forze in campo nel nuovo Parlamento. Voi con chi vi alleerete? E per fare cosa?

La domanda più importante è proprio: cosa fare per cambiare modello, mentre con chi lo faremo, viene dopo. Noi cerchiamo alleati per lasciarci alle spalle le politiche neoliberiste praticate dall’Unione fino a oggi e andare verso la transizione ecologica. All’interno di ogni famiglia politica – popolari, socialisti e liberali – esistono singoli esponenti con cui si può dialogare, nonostante i loro partiti nel loro complesso abbiano sostenuto politiche sbagliate. Il paletto che mettiamo noi Verdi è uno solo: non saremo mai insieme a nazionalisti e populisti, perché noi vogliamo l’esatto contrario di quello che vogliono loro.

Nei mesi passati si è parlato molto dell’ondata ecologista che ha fatto avanzare i partiti ambientalisti dalla Germania al Lussemburgo, dalla Scandinavia alla Francia. Eppure l’Italia non sembra essere coinvolta…

In realtà, la lotta per l’acqua pubblica e della cultura slow food, fanno dell’Italia un Paese culturalmente favorevole alle politiche ecologiste. I M5S hanno provato a intercettare questa sensibilità, ma la loro sudditanza alla Lega dimostra che non sono in grado di rappresentarla. Per questo ho fiducia che i consensi da loro guadagnati sul terreno dell’ambiente possano tornare ai Verdi.

E alla nuova Commissione Europea cosa chiederete?

Accelerare gli obiettivi ecologici, a partire dal riorientamento del budget comunitario. Abbiamo bisogno di finanziare la transizione ecologica, smettendo di sostenere politiche che non portano vero sviluppo.

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Nicolas Bay (Enf)

Più potere agli Stati, frontiere chiuse e stop agli accordi di libero scambio

 

Nicolas Bay, luogotenente di Marine Le Pen in Europa, è co-presidente di Europa delle Nazioni e delle Libertà (Enf) a Strasburgo, gruppo di cui fa parte la Lega di Matteo Salvini.

Quali sono le vostre proposte per le europee?

Si possono riassumere in tre punti. Il primo riguarda il funzionamento dell’Ue, attualmente molto poco democratica, con tutto il potere nelle mani della Commissione e dei suoi membri non eletti direttamente. Dobbiamo cambiare gli equilibri istituzionali: privilegiare la cooperazione tra gli Stati, dare potere al Consiglio e ai capi di Stato, ridurre la Commissione a un semplice segretariato, limitato a coordinare la cooperazione tra nazioni. Il secondo punto programmatico concerne la protezione delle frontiere, sia nazionali che esterne. Il terzo, la protezione delle economie dei Paesi europei, che passa attraverso il respingimento degli accordi di libero scambio.

Siete impegnati a trovare una posizione comune tra tutti i sovranisti? Marine Le Pen ha esplicitamente lodato Orban, che da parte sua è sempre più in rotta con i Popolari (a cui ancora formalmente appartiene, benché sospeso dal partito).

Siamo già noi stessi un’alleanza tra sovranisti, ma abbiamo anche la volontà di allargarci. D’altronde penso che una coalizione estesa ci permetterà di essere i più importanti del Parlamento. Alcuni partiti si stanno già unendo a noi, come il Partito del Popolo Danese e il tedesco AfD. Questo polo potrà ovviamente tendere la mano a Viktor Orban, se vorrà in futuro rompere definitivamente con il Ppe.

Ma come andrete d’accordo, voi amici di Putin, con i polacchi del PiS, in Ecr, che sono nemici di Mosca?

Non c’è bisogno di essere d’accordo su tutto per allearsi. Quanto alla Russia, penso si debba uscire dalla logica della guerra fredda. Ma le differenze su questo punto non ci impediscono una visione comune sul destino dell’Europa con tutti gli altri sovranisti.

Salvini potrebbe essere il leader unitario?

Data la sua posizione in Italia e i futuri risultati elettorali, è naturalmente la figura di punta della nostra coalizione a livello continentale.

Immaginando che, grazie a questa grande alleanza, voi foste parte della nuova maggioranza, che Commissione vorreste sostenere?

In realtà, a noi piacerebbe la soppressione pura e semplice dell’esecutivo Ue. Tuttavia, nel caso in cui si mantenesse il quadro istituzionale attuale, vorremmo commissari che rappresentino direttamente gli interessi dei singoli Stati. Quanto ai temi, noi appoggeremmo tutti i progetti che vanno nella direzione della protezione degli interessi nazionali.

Montesilvano, tutti saltano sul Carroccio

Il caso più emblematico è quello di Stella Cantelli, pattinatrice di mestiere e di fatto: il 10 febbraio scorso si è candidata con il centrosinistra di Giovanni Legnini alle Regionali e poi, con una veloce piroetta, dopo due mesi si è messa in lista con la Lega. Accade a Montesilvano, a due passi da Pescara dove il candidato sindaco è di Salvini. E qui nel giro di due mesi tutto il centrosinistra si è specializzato nel salto sul Carroccio (o nel centrodestra) col candidato sindaco della Lega Ottavio De Martinis. Per primi Pietro Gabriele e il capogruppo del Pd Feliciano D’Ignazio: quando hanno scoperto che non sarebbero stati ricandidati hanno concluso che tanto valeva andarsene. E dicevano male ad Antonio Razzi.

Pescara, la Lega alla riscossa lascia a FI i cocci dei Dem

Non perse tempo Matteo Salvini e due giorni dopo la vittoria di Marco Marsilio alle Regionali, presentò il conto: la scelta del sindaco di Pescara questa volta sarebbe toccata a lui, non si discute. La vittoria in Abruzzo d’altronde è tutto merito suo. È il 12 febbraio e il centrodestra festeggia il risultato elettorale all’Aquila. Tra brindisi e pacche sulle spalle il leader del Carroccio rivendica la piazza più importante d’Abruzzo, Pescara ma non solo, forse anche Montesilvano, se gli gira. Vuol fare l’en plein, così dice. D’altronde la Lega è il primo partito e ha portato alla vittoria il candidato di Giorgia Meloni sul quale non aveva scommesso nessuno: lo straniero, un romano de Roma. Ma a distanza di un mese va a finire che Pescara non tocca a lui, perché la Lega a sorpresa molla la presa e regala a Forza Italia la candidatura nella città adriatica. La regala a uno che sogna di fare il sindaco dal 2003, da quando candidato col centrodestra contro Luciano D’Alfonso, venne sconfitto al ballottaggio: da allora non ha pensato ad altro che a questo giorno, e quale momento più fortunato questo qui, con la Lega che tira come un motoscafo da cento cavalli?

Sì, forse questa volta Masci, 66enne avvocato da sempre in politica con liste civiche ballerine e poi con Gaetano Quagliariello e poi con Forza Italia e poi con l’Udc e poi dove capita, coronerà il suo sogno. Perché nella città più moderna d’Abruzzo in cui i negozi aprono e chiudono con la velocità di un fulmine e con la più grande concentrazione di centri commerciali, dove la vita si consuma tutta intorno alla Piazza Salotto come in un qualsiasi paese di provincia, le amministrazioni hanno fatto come le altalene: cinque anni centrodestra, cinque anni centrosinistra, in una puntuale e ciclica alternanza. E adesso che il sindaco Marco Alessandrini, figlio del magistrato ucciso da un commando di Prima Linea, che il Pd ha portato prima su un palmo di mano e poi lasciato in pasto ai cittadini che gli hanno rinfacciato di tutto e di più, dal mare inquinato al fiume che esonda a ogni pioggia, fino a negargli la ri-candidatura, adesso per Masci tutto è più facile.

La scommessa per lui è vincere al primo turno: perché a Pescara, città che ha dato i natali a D’Annunzio e Flaiano, 120 mila abitanti che vivono per lo più di commercio, edilizia e terziario sempre più in crisi, i candidati alla carica di sindaco sono otto. Il voto quindi sarà parcellizzato e se il centrodestra non farà il pieno subito, tutto potrà essere rimesso in discussione. Perché a parte CasaPound e forse i Cinquestelle, le altre sei liste sono tutte più orientate a sinistra. C’è Stefano Civitarese di “Coalizione civica”, c’è Gianni Teodoro di “Scegli Pescara”, Carlo Costantini di “Faremo grande Pescara”, Marinella Sclocco per il centrosinistra, Erika Alessandrini del M5S, Gianluca Baldini di “Riconquistiamo Pescara” e Mirko Iacomelli di CasaPound.

“Vi regalerò mare e fiume pulito e più sicurezza”, dice Masci, che dovrà però fare i conti con gli effetti del voto disgiunto, visto che tanti suoi alleati gliel’hanno giurata, per primi quelli che si sono visti sfilare la candidatura sotto il naso. Più facile così l’obiettivo ballottaggio per le due donne candidate, l’ex assessore regionale Marinella Sclocco, esponente di Mdp-Articolo 1 candidata dal centrosinistra last-minute ed Erika Alessandrini dei Cinquestelle e anche per Carlo Costantini, il papà della “Nuova Pescara”, il progetto di Area metropolitana approvato tre anni fa col referendum che, se il centrodestra non si metterà di traverso, dovrebbe portare al traguardo la legislatura che uscirà dal voto del 26 maggio nel giro di due anni, non appena sarà pronta la fusione con i comuni di Spoltore e Montesilvano. La Sclocco, ex assessore regionale alle Politiche sociali, viene dagli scout e da Villa del Fuoco, uno dei quartieri popolari di Pescara e strizza l’occhio ai ceti più deboli, parla di inclusione e di riscatto delle periferie. Ma anche per lei è una corsa in salita perché l’effetto Pd e il ricordo dell’ex governatore D’Alfonso sono ingombranti.

L’area di risulta, 14 ettari adibiti a parcheggio che Pescara si trascina dietro da trent’anni e che centrodestra e centrosinistra si palleggiano senza riuscire ad approvare uno straccio di progetto condiviso, è il grande tema che la pentastellata Erika Alessandrini rivendica con orgoglio: è stata lei, ingegnere con la passione per il violino, a evitare che finisse nelle mani dei privati. Però anche a Pescara i grillini scontano la fase calante dei consensi soprattutto dopo il colpo basso tirato da un ex consigliere comunale che è uscito dal Movimento candidandosi con Costantini quando ha scoperto che la piattaforma Rousseau non aveva ammesso la sua lista.

“Ma Tafazzi è di casa anche nel centrosinistra”, commenta un consigliere comunale che vuole restare anonimo. E spiega che con Alessandrini al governo è successo di tutto: per far quadrare gli appetiti di poltrone sono stati messi alla porta due assessori, prima Stefano Civitarese e poi Giuliano Diodati, e prima ancora la figlia di Gianni Teodoro, e ora tutti hanno abbandonato la baracca e si sono candidati o da soli o col centrodestra. Così tra gli otto che corrono alla poltrona di sindaco di Pescara ci sono proprio Gianni Teodoro, ex assessore di Alessandrini, c’è Stefano Civitarese, docente universitario ora candidato sindaco di Coalizione civica mentre Diodati si è limitato a trasferirsi in Forza Italia dove si ricandida come consigliere. “La mia città – spiega Civitarese – riparte dall’ambiente, dai diritti e dalle periferie, riparte dalle donne, riparte dal fiume e dal mare”. Una città che deve ripartire, Pescara, e con il professore la Sinistra conta di fare il pieno di voti.

Il più giovane di tutti è Gianluca Baldini, 37 anni, candidato per il Fronte sovranista italiano, che va in giro facendo comizi in bicicletta. “Un progetto ambizioso che vuole rimettere al centro la Costituzione, e rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”. Declinato per la città adriatica, significa “trasformare gli spazi urbani in realtà vivibili”.

Così, Pescara aspetta tempi migliori. Che però non vengono mai, direbbe Flaiano.

Di Maio: “Conflitto d’interessi da domani”. Lega e Dem in fuga

Si parla di conflitto di interessi, Forza Italia e il Giornale alzano le barricate e chi può, dal Pd alla Lega, scappa. A due settimane dalle Europee Luigi Di Maio ribadisce che domani il M5S chiederà di calendarizzare la legge alla Camera. “È nel contratto di governo”, ripete. E soprattutto fa parte dell’offensiva elettorale del suo partito, insieme al provvedimento con cui i Cinquestelle promettono “un miliardo per le famiglie”, cioè le risorse risparmiate sul reddito di cittadinanza che ora si vorrebbero distribuire con misure di sostegno per l’iscrizione agli asili nido e sgravi sui prodotti per l’infanzia, se non con una revisione più profonda del sistema di welfare dal congedo per i papà come per le mamme all’introduzione di un assegno unico mensile per i figli.

Quanto al conflitto d’interessi, bisognerà capire quale proposta di legge arriverà a Montecitorio. I grillini ne hanno almeno tre: riguardano le attività dei lobbisti da sottoporre a una disciplina rigida, l’ineleggibilità dei possessori di patrimoni sopra i 10 milioni di euro, il limite dei due mandati elettivi, l’incompatibilità tra cariche politiche e ruoli gestionali in aziende controllate dallo Stato, le condizioni per l’eleggibilità dei magistrati e perfino dei giornalisti. Alcune norme sono a evidente rischio di incostituzionalità. Ma il conflitto di interessi, che fu il grande tema dell’Italia berlusconizzata, basta evocarlo per suscitare reazioni. E altrettanto significative non-reazioni. Feroci quelle di Forza Italia – da Gasparri alla Carfagna e alla Gelmini – e del Giornale berlusconiano. Gelide e affidate alle seconde file quelle del Pd, che come Forza Italia invita a guardare ai conflitti d’interessi di Davide Casaleggio, su cui peraltro c’è anche una proposta dei Dem.

Lo scontro tra M5S e la Lega è totale. Sul conflitto d’interessi Matteo Salvini ha detto, un po’ svogliato: “Sì, tutto quello che c’è nel contratto io lo rispetto. Tutto quello che serve a lottare contro la corruzione e l’affarismo io lo condivido. Ma l’emergenza per il Paese, e me lo dicono da nord a sud, sono il lavoro e la riduzione delle tasse”. E intanto punta sul decreto Sicurezza bis con cui multare chi salva migranti in mare e lì porta in Italia anziché in Libia, rievoca la flat tax e le autonomie, ma soprattutto guarda alle Europee del 26 maggio come a “un referendum tra la vita e la morte”. E si è beccato l’ironica replica di Di Maio: “L’ultimo che ha parlato di referendum è stato Renzi e non gli è andata bene”,

Siri, il mutuo a San Marino e la società di Pini e Giorgetti

Da Bresso a San Marino per ottenere un mutuo dalle mille anomalie. Un mutuo che non doveva né poteva essere erogato in assenza di garanzie sia reali che personale, come ha raccontato a Il Fatto nei giorni scorsi una fonte di alto livello della Banca Agricola Commerciale. E su quel mutuo da 585 mila euro, per l’acquisto di una palazzina di Bresso (Milano), concesso dalla banca di San Marino all’ormai ex sottosegretario Armando Siri torna stasera la trasmissione Report su Rai Tre che per prima aveva svelato la strana operazione finanziaria orchestrata tra la banca del Titano e un ex esponente di punta del governo italiano. Revocato dall’incarico dal presidente Conte per l’inchiesta che lo vede indagato per la presunta corruzione da parte di Paolo Arata per favorire con emendamenti gli incentivi ai produttori di eolico.

Nuovi particolari sul mutuo a là carte a favore di Siri emergono dal racconto di Report che ha appurato che già a dicembre del 2018 l’Aif, l’Agenzia di informazione finanziaria di San Marino, segnalò a Banca d’Italia l’anomalia di quel prestito. Ingente, a coprire l’intero valore dell’immobile e senza garanzie da parte di Siri. Non solo. Il mutuo che Report ha potuto visionare ha durata decennale con tre anni di preammortamento. Significa che per i primi anni si pagano solo gli interessi quindi rate basse, ma poi va restituito in pochissimi anni l’intero capitale. Il tutto senza garanzie per la banca che si espone al grande rischio che Siri non riesca a onorare le pesantissime rate di rimborso del capitale. Già ma come è arrivato Siri sul Monte Titano? Chi l’ha portato alla Banca Agricola Commerciale, lui reduce da un patteggiamento per bancarotta di una sua società la Mediatalia? E chi ha avuto ruolo nella concessione del prestito?

Nel suo viaggio inchiesta condotto da Claudia di Pasquale e Giulio Valesini, Report è approdato a Forlì da Gianluca Pini ex senatore leghista che ha importanti relazioni con le banche sanmarinesi. Proprio alla Banca Agricola Commerciale i suoi familiari hanno un vecchio conto. Pini, intervistato, rivela di avere buoni rapporti da anni con Emanuele Rossini, vicepresidente della banca, ma nega qualsiasi rapporto con Siri. E qualsiasi intervento sul mutuo. Anzi rincara la dose. Nessuna buona parola, anzi se Rossini me lo avesse chiesto avrei sconsigliato. Il costo del denaro per un cittadino italiano che fa un mutuo a San Marino è alto, c’è un’imposta di registro elevatissima.

Ma c’è un particolare che emerge e che lega altri protagonisti. Pini ha fondato nel giugno del 2018 una società, la Saints Group di cui è anche amministratore unico. Da statuto si occupa di sistemi informativi, software, telecontrollo e cyber security, capitale sociale 25 mila euro e potrà finanziarsi emettendo bond. Socio senza diritti di voto con il 32% delle quote è un nome importante della Lega, Giancarlo Giorgetti, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Giorgetti che si è dimesso dalla carica di Presidente della Cooperativa di Pescatori del Lago di Varese, appena insediato al governo, ritenendo ci fosse un “conflitto di interessi con la carica pubblica”, non ravvisa la stessa condizione in questo caso. Società privata in un settore delicato come quello dei sistemi informativi. Pini smorza, dice che la società non fa cyber security ma sta brevettando un’applicazione di parental control per i bambini. E Giorgetti stizzito risponde al giornalista “ma quale cyber security? Ma siete matti”. Tutto regolare quindi, anche perché, precisa Pini, Giorgetti ha solo quote societarie, non ha nessun ruolo operativo. Vero, ma c’è una questione di opportunità, rileva Sigfrido Ranucci. Perché Giorgetti ritiene vitale il conflitto d’interessi per una vecchia cooperativa di pescatori di cui ha 10 quote e non per una società che farà business in un settore più delicato?

L’uomo chiave della Lega presso i poteri forti è lo stesso che ha assunto come consulente esterno a Palazzo Chigi Federico Arata, uno dei due figli di Paolo Arata, il presunto corruttore di Armando Siri per gli incentivi sull’eolico. Quel Paolo Arata che avrebbe come socio occulto della sue società il re dell’eolico Vito Nicastri, considerato più che vicino a Matteo Messina Denaro. Saranno ovviamente coincidenze, fatti separati tra loro. Report li ha voluti mettere in fila. Siri che va a farsi fare un mutuo esorbitante a San Marino, lo concede una banca di cui è vicepresidente un amico di vecchia data dell’ex deputato leghista Gianluca Pini che fonda a sua volta una società con Giorgetti socio al 32%, il quale assume il figlio di Arata come consulente a palazzo Chigi. Tutto nel giro di pochi mesi. Sullo sfondo resta il ritratto dell’ex sottosegretario.

Siri come Zelig, l’uomo a tre dimensioni. C’è il Siri olistico e spiritualeggiante con il suo spazio Pin, il Siri politico che incanta Salvini con la sua flat tax; e il Siri imprenditore che lascia dietro di sé più di un fallimento. Oltre a Mediaitalia fondata con i soci Andrea Iannuzzi e Milan per cui ha patteggiato la bancarotta, c’è il fallimento nel 2009 della Mafea Comunication Srl, la società costituita dagli ex soci Iannuzzi e Milan nel 2006 che aveva rilevato contratti e beni senza pagarli dalla Mediaitalia fallita. Il tutto spostando nel paradiso fiscale del Delaware le società. E infine la liquidazione nel giugno 2018 della Mafea re Srl posseduta dai fratelli Milan e con Siri presente nel capitale con una piccolissima quota ma soprattutto amministratore unico dal 2005. Un filotto di società liquidate, bruciate senza più attivi e beni. Solo debiti. Quelli lasciati dietro di sé.