Ma mi faccia il piacere

Nunzia vobis gaudium magnum. “I 5S stoppano la De Girolamo a Linea Verde Estate. Di Maio: ‘Cosa c’entra un’ex parlamentare con la tv pubblica?’” (Repubblica, 11.5). Trattandosi di Linea Verde, c’entra eccome: in qualità di braccia rubate all’agricoltura.

Se questo è un ministro. “Una preghiera per quella bambina ferita a Napoli… almeno si sparassero tra di loro senza rompere le palle alla gente che non c’entra… i camorristi s’ammazzassero tra di loro!” (Matteo Salvini, Lega, ministro dell’Interno, in campagna elettorale a Foligno, subito dopo la sparatoria di Napoli col ferimento della piccola Emma, 5.5). Il guaio è che Emma è stata ferita proprio dai camorristi che si sparavano fra loro.

La canna del gas. “Non vorrei che ci fossero colleghi parlamentari che frequentano questi cannabis shop” (Salvini, 8.5). Tranquillo, Matteo, quelli tirano direttamente di coca.

The Democratici. “Chi è che rompe le balle? Dài, veloce, fammi andare a correre dài, non rompere le palle. Stavo sentendo una canzone meravigliosa dei The Giornalisti, ‘Zero stare sereno’! Ciao ragazzi, buon lavoro. Zero stare sereno!” (Matteo Renzi, senatore Pd, inseguito da Luca Bertazzoni mentre fa footing, Piazzapulita, La7, 1.5). Testo e musica di Enrico Letta.

Non c’è più religione. “Più giornalisti cattolici in Rai” (Marcello Foa, presidente Rai in quota Lega, 9.5). Ora sono tutti testimoni di Geova e Avventisti del settimo giorno.

La Grande Sorella. “Mio marito Francesco Rutelli era contrario alla partecipazione di nostra figlia Serena al Grande Fratello. Abbiamo chiesto l’aiuto dello psichiatra. Ci ha detto di mandarla, perché l’avrebbe rafforzata” (Barbara Palombelli, Costanzo Show, Canale5, 3.5). Noi siamo curiosissimi di conoscere il nome dello psichiatra. Ma soprattutto del paziente.

Colpa di Virginia. “Rom, i romani sono furiosi: inseguono la Raggi col forcone” (il Giornale, 9.5). “Cosa abbia spinto la Raggi a una mossa così plateale quanto rischiosa, in una campagna elettorale avvelenata dalle polemiche sull’immigrazione, se lo sono chiesto a lungo al vertice 5Stelle” (Marcello Sorgi, La Stampa, 9.5). “L’autogol. Blitz dai rom, Raggi contestata”, “Il malessere dei romani non accetta passerelle” (il Messaggero, 9.5). Vergogniamoci per loro.

Tutti contro uno. “Votare per Cinquestelle è come votare per il Pd” (Libero, 11.5). “Chi vota il M5S dà forza alla Lega” (Nicola Zingaretti, segretario Pd, Corriere della sera, 10.5). Vabbè, dài, mettetevi d’accordo.

Dove andremo a finire. “Siri, precedente molto pericoloso” (Matteo Salvini, La Stampa, 8.5). In effetti, se passa il principio che un bancarottiere e marchettaro in pieno conflitto d’interessi, per giunta indagato per corruzione, deve dimettersi, gli si svuota il partito.

Chi lo dice lo è. “L’ultima lezione di Pignatone: ‘Non fate politica con le indagini’” (Il Dubbio, 7.5). Senti chi parla.

Danni retroattivi. “Classe media più povera. Il miracolo alla rovescia del governo gialloverde. In un decennio il potere d’acquisto fa -10%” (il Giornale, 7.5). Quindi il governo gialloverde fa miracoli: faceva danni già nove anni prima di nascere.

Il titolo della settimana/1. “Corruzione, assalto M5S alla Lega. L’inchiesta di Milano travolge Forza Italia” (La Stampa, 8.5). Però, questi 5Stelle: si sono messi a fare gli arresti e gli avvisi di garanzia al posto dei pm di Milano.

Il titolo della settimana/2. “Le accuse della Lega. Una lista nera in 17 punti su tutti i ‘no’ del Movimento 5Stelle in un anno di governo. Dalle tasse ai cantieri, tutti i veti dei grillini” (Repubblica, 10.5). Ma come, i grillini non erano succubi di Salvini?

Il titolo della settimana/3. “L’incorruttibile Attilio Fontana” (Libero, prima pagina, 8.5). “Il governatore leghista della Lombardia Attilio Fontana indagato per abuso d’ufficio: nominò in Regione il suo ex socio di studio” (dai giornali del 9.5). È ufficiale: Libero porta buono.

Il titolo della settimana/4. “Fontana non è corrotto. Lo indagano lo stesso” (Libero, 9.5). Qualcuno informi la redazione di Libero che, oltre a quelli sulla corruzione, il Codice penale ha altri 730 articoli.

CasaPound piagnucola, e “Bella ciao” li azzittisce

Si conclude col saluto dei militanti antifranchisti, il pugno chiuso alla fronte, e quattro persone che intonano Bella ciao. Così un libraio della Feltrinelli e tre visitatori del Salone del libro rispondono a Chiara Giannini, l’autrice del libro-intervista a Matteo Salvini pubblicato da Altaforte, la casa editrice legata a Casapound. Ieri pomeriggio la giornalista si è presentata da sola, senza l’editore Francesco Polacchi e il direttore editoriale Andrea Antonini, al Salone del libro di Torino. Circondata da fotografi e cronisti ha fatto una “sfilata” nei padiglioni con l’obiettivo di arrivare alla Feltrinelli. Davanti alla fotografia di Inge Feltrinelli ha esibito il suo libro. Uno dei librai dello stand è uscito, si è messo sulla soglia facendo il saluto e poi, mentre Giannini spiegava di non aver chiesto nulla dei 49 milioni di euro a Salvini (nonostante le ben 100 domande dell’intervista), è partito il coro. A quel punto lei ha lasciato il Lingotto. “Mi sento vittima in questo momento. Il mio libro è stato censurato e ogni volta che sarà censurato mi rivolgerò all’avvocato”, aveva detto la mattina in un hotel del centro di Torino insieme a Polacchi e Antonini. Nonostante la “censura”, però, il suo libro va tantissimo: “Un exploit assoluto”, dice il direttore editoriale spiegando che le 5mila copie stampate sono tutte in mano ai distributori e altre andranno in stampa martedì. “Sapevamo che questo libro avrebbe potuto generare profitti notevoli”, dichiara Polacchi.

Nel nome del padre (che sia Salinger o uno sconosciuto)

“Io e Holden siamo figli dello stesso creatore”. Così, Matthew Salinger – l’ospite più atteso di questa edizione del Salone del libro di Torino – durante l’incontro “JD Salinger, mio padre. E Holden Caulfield” ricorda quello che per tutti noi è l’autore de Il giovane Holden. Le due figure, lo scrittore che “scriveva dappertutto e abbandonava ovunque fogli e quaderni, anche in macchina” e il padre “amorevole, autentico e divertente”, si sovrappongono e si ritrovano nel vivo racconto di Matthew (che si sta adoperando sui materiali inediti del padre, che verranno presto pubblicati “inalterati”).

Quante cose può, allora, essere un padre? Sono molti i libri alla kermesse torinese che provano a rispondere a tale domanda, esplorando il confine dell’orizzonte che si profila dietro il concetto di “padre”. C’è chi rintraccia i frammenti biografici del padre come Daniel Vogelmann, che ricuce gli scampoli del genitore scomparso scrivendo in un’asciutta prima persona Piccola autobiografia di mio padre (Giuntina), un po’ per salvare il suo ricordo, un po’ per salvare se stesso. Mentre la raffinata autrice cilena Nona Fernández con il suo perturbante Fuenzalida (GranVía), ricostruisce la figura di un genitore che l’ha abbandonata tra i ricordi di figlia e le ipotesi dell’immaginazione, a partire da una polaroid sbiadita: “I miei libri sono permeati dalla presenza-assenza di mio padre, perché mentre ricostruisco le vite degli altri, cerco sempre anche la sua”. Anche Vibeke e Jon (madre e figlio) – i protagonisti di Amore (Ponte alle Grazie) di Hanne Ørstavik – sono stati abbandonati da un padre assente, e si ritrovano così spezzati nel condurre esistenze parallele, in un racconto costellato da quelle che Musil chiama “percezioni finissime”.

Giulia Corsalini in La lettrice di Cechov (nottetempo), Premio Mondello 2019, indaga invece un’altra delle declinazioni dell’idea del padre: Nina è una donna ucraina, che si salva dalla solitudine per aver lasciato la sua terra in favore di un lavoro da badante in Italia attraverso la passione per Anton Cechov. E se Cechov è il nume tutelare che offre la possibilità di una nuova vita a Nina, il poeta Arthur Rimbaud è in qualche modo il padre letterario di Philippe Forest: in Un destino di Felicità (Rosenberg e Seiler) gli consacra un affabulante e delizioso esercizio di stile tra il divertissement di un abbecedario e l’emozione di una lettera a cuore aperto a un poeta, che è tutt’altro che maledetto. Il rapporto con le figure al di sopra di noi è sempre difficile: lo sa bene Björn Larsson che in La lettera di Gertrud (Iperborea) racconta lo sconcerto di Martin quando alla morte della madre scopre di avere origini ebree. La sua “reciproca indifferenza” con Dio, tra avvicinamenti e allontanamenti, inizierà a cambiare volto via via che scopre la presenza di un padre eterno.

Ma “anche una patria può fare da padre” scrive Giovanni Verga, riferendosi alla sua Sicilia. È, dunque, plausibile provare per essa sentimenti filiali di rabbia, paura e amore. Basti pensare all’impegno letterario di Leonardo Sciascia, che per cambiare la terra natia (sua e di Verga) si profuse anche in un’intensa attività editoriale per la Sellerio, oggi ricordata in Leonardo Sciascia scrittore editore ovvero La felicità di far libri (Sellerio). Ma la lotta contro i padri e la patria ha sempre un caro prezzo. Nel toccante Fuori di sé (Marsilio) di Sasha Marianna Salzmann, la profuga Alissa deve cambiare corpo per sopravvivere.

Tuttavia, una patria è anche “una terra in cui sentirsi liberi” come sostiene Gertrude Stein, e la si sceglie per scrivere. Ne sono un esempio Jhumpa Lahiri, autrice americana che decide di esprimersi in italiano dal 2015 per i suoi ultimi libri, che cura per Guanda, Racconti Italiani – una raccolta di racconti di grandi scrittori italiani un po’ obliati dal tempo, introdotti da un luminoso paratesto –, e Ilja Leonard Pfeijffer, il cui La Superba (Nutrimenti) è ambientato a Genova, per lui “la città più bella del mondo”.

“Mi leccavano il culo, da me dipendevano le carriere. Eppure ero solo un timido”

Il suffisso “ino” nel nome d’arte di Albertino è inversamente proporzionale alla sua fama e alla sua altezza (artistica). Dalla fine degli anni Ottanta cresce generazioni a colpi di musica trasmessa per radio e poi suonata nelle discoteche; con lui una generazione di fenomeni, Fiorello e Jerry Scotti, Jovanotti e suo fratello Linus, con Cecchetto come Grande Puffo; nei Novanta diventa osannato, anzi venerato da migliaia e migliaia di ragazzi (“sono arrivato a riempire il Forum di Milano”). Quindi più di diecimila persone, paganti. L’Alberto Di Molfetta nato a Paderno Dugnano “non bello, non alto, che non sa giocare a pallone, né ballare, né cantare” è improvvisamente Re. Se il suo “piatto” proponeva un disco, quel disco diventava un successo, l’autore improvvisamente famoso, e con un conto in banca importante “anche perché come noi di Radio Deejay, c’eravamo solo noi di Radio Deejay”. Il suo “bollino” non si discuteva e per questo “in molti mi hanno accusato di lucrarci sopra”.

Per lui l’alba era la buonanotte, il buon pomeriggio il buongiorno, il pranzo la cena, la cena chissà, “magari la saltavo e chiudevo con un aperitivo. Mi sfamavo con l’adrenalina”; tutto senza soluzione di continuità, così le stagioni non erano divise secondo la comune logica, ma come apertura e chiusura delle discoteche d’Europa. Ibiza la seconda casa. Donne, amici, alcol (“per gli altri”), e qualche canna (“niente di più, giuro”).

Oggi a 56 anni, quasi 57, veste sempre con il giubbino di pelle e le scarpe da ginnastica, si è tagliato i capelli lunghi fino alle spalle (“ero terrorizzato, le mie figlie mi hanno preso per il culo, ma a un certo punto sembravo Pocahontas”), da poco tempo è diventato il direttore artistico di Radio m2o, è quasi astemio, e ha definitivamente acquisito una suprema consapevolezza: “Sono un uomo fortunato”.

In cosa?

Ho capito in tempi molto brevi la mia attitudine, ho individuato il mio piccolo talento nel mixare la musica e sono andato diritto.

A che età?

A 16 anni ascoltavo Alto Gradimento e sognavo, poi ho scoperto le radio private, quelle semi clandestine, quando il segnale arrivava distorto, l’immaginazione compensava, e ho deciso di tentare.

Come?

Con strumenti da Neanderthal: registravo brani e li mischiavo, interrompevo e riprendevo, creavo; poi un giorno una delle mie cassette l’ho consegnata in una piccola radio privata dove già lavorava mio fratello (Linus, attuale direttore di Radio Deejay”).

E…

Il direttore l’ascolta, resta zitto, io sudato, quasi intimorito, poi alza gli occhi e incredulo lui, peggio io, mi domanda: “Ma come ci sei riuscito?”.

Ha ancora quelle cassette?

Qualcosa, molto è andato perso, e non sono male, c’era un senso, un percorso mentale, comunque un’idea compiuta.

Lei a 16 anni.

Mi è andata bene.

In che senso?

La formula “non sono bello, né alto” e tutto il resto, non è autocompiacimento, è realtà. Poi aggiungo una famiglia decisamente proletaria, immigrata dal sud (Canosa di Puglia), pochi soldi a casa, poca possibilità di sognare, la concretezza come legge di sopravvivenza, e gli anni Settanta dove era obbligatorio scegliere.

Cosa?

Da che parte stare, quindi come vestire: Eskimo o giacchetto, kefiah o sciarpa, jeans o pantaloni.

Lei?

Non capivo molto, da proletario figlio di immigrati, e senza grandi strumenti culturali, scimmiottavo i modelli sociali che mi offrivano maggiori speranze evolutive, quindi meglio il giacchetto.

Politica?

No, davvero, non ero preparato, non studiavo, certe corde delle vita non riuscivo a sentirle dentro il mio orecchio.

Un esempio.

Ricordo quanto detestavo mia madre quando il sabato sera mi obbligava a vedere in televisione Mina o Alberto Lupo: era come mangiare un piatto indigesto. Oggi quei sapori li capisco e apprezzo.

Cos’altro?

Non aprivo mai un libro, non me ne fregava un cazzo di alcuna materia, e certe basi poi non le recuperi più, e me ne rendo conto quando adesso mi entusiasmo per la storia, soprattutto il Rinascimento, e vorrei leggere e capire più di quello che riesco.

I suoi genitori cosa pensavano di lei e di suo fratello?

All’inizio non capivano se eravamo due geni o due disgraziati. Ma loro erano due semplici, due veri meridionali.

Fino a quando…

Sono entrati i primi soldini a casa, poi dopo il debutto in televisione mio padre ha iniziato ad andare in giro con le nostre foto raccolte con l’elastico: le distribuiva ai vicini.

Il primo acquisto.

Una Vespa usata.

Le sue figlie.

Poco tempo fa hanno ritrovato il mio diario delle superiori, ancora ridono: non c’era scritto nulla se non titoli di canzoni.

Neanche numeri di ragazze?

Ero di una timidezza assurda, e la radio il posto perfetto per uno come me; tu e il microfono; tu e il silenzio mentre il disco suona; tu e la possibilità di apparire all’esterno quello che in realtà non sei.

Poi però sono arrivate le discoteche.

E lì è scattata la violenza su me stesso: nella mia testa non avevo previsto di diventare famoso. Forse anche per questo mi sono lasciato crescere i capelli, servivano a filtrare lo sguardo del mondo.

È sempre timido?

Ora non me ne frega niente, invecchiare a qualcosa serve.

Fa parte di una generazione di fenomeni: lei, Fiorello, Linus, Jovanotti, Baldini, Jerry Scotti, Amadeus e altri, tutti insieme nella stessa radio.

Un gruppo pazzesco, senza competitor, il migliore dopo quello “assemblato” da Arbore, e tutto nato con Claudio Cecchetto. Una situazione del genere non accadrà mai più.

Ieri è quasi sempre meglio dell’oggi.

No, qui la riflessione è oggettiva: con quello stile c’eravamo solo noi, praterie incontaminate della sperimentazione, nessuna concorrenza, i social non esistevano, e non è poco. Oramai è impossibile ricreare l’interesse di allora.

La sua forza?

La totale incoscienza, si accendeva la lucina dell’on air e andavo diritto, poi con gli anni prendi atto della realtà, arrivano le bollette, magari qualche multa, i figli e realizzi che non puoi più sbagliare.

Quanti ragazzi la vogliono imitare?

Anche in questo caso i tempi sono cambiati, oggi il deejay è associato alle discoteche o ai festival, meno alla radio; puntano ai soldi facili e al successo, per questo la professione di speaker non attira molto. E mancano le nuove generazioni di voci.

Come ha capito di essere famoso?

Quando Cecchetto mi ha spedito in tv a Deejay television, un programma seguito da cinque milioni di ragazzi, ma sono durato poco, forse un anno.

Solo…

Avevo 21 anni e non era la mia dimensione, sempre per via della timidezza.

Il successo sbalestra.

Gestire la notorietà è complicatissimo, ti cambia troppo la vita, ti vesti di una realtà distorta, dove tutti ti guardano, ti imitano, ti cercano, ti incensano indipendentemente dalle tue qualità.

Va bene sempre.

Grazie alla radio sono arrivato a riempire il Forum di Milano, io solo davanti ai miei piatti, i dischi, e migliaia di persone pronte a reagire a ogni mio input.

Da uscire di testa.

Eccome! Vivevo in una condizione da principino, il consentito non aveva limiti, improvvisamente ero pure diventato bello.

Droga?

Ora non mi crederete.

Proviamo.

Giusto le canne, non oltre.

Alcol.

Il bicchiere in mano aiuta il personaggio, ma non mi piace molto, più forma che sostanza. Oggi sono quasi astemio, ogni tanto accetto un po’ di champagne.

Come si è salvato?

La chiave è dividere la persona dal personaggio, per fortuna mi sono fidanzato e sono nate le mie due figlie, in questo modo non sono scappato dalla realtà.

Senza di loro?

Sarei stato un disgraziato.

E suo fratello Linus?

Anche, è servito: è da sempre il più placido dei due, il classico fratello maggiore bravo a proteggere e responsabilizzare, se serve.

Torniamo alle figlie.

Due iene e complici di 24 e 16 anni.

Studiano?

Per fortuna sì. Poi mi sfruttano per i benefit, quindi entrare in discoteca, il privè e tutti gli ammennicoli. La grande veniva a vedermi pure da piccola, a tre anni stava sulle gambe di J-Ax.

Ha scoperto molti artisti, tra questi gli Articolo 31.

Con loro a un certo punto abbiamo scazzato, ma succede quando sei travolto dai riflettori; poi però ci siamo ritrovati e J-Ax ha una qualità rara in questo mondo: sa cos’è la riconoscenza, dà valore alla memoria.

Quando ha sentito per la prima volta gli Articolo 31?

Mi sono innamorato immediatamente del loro pezzo, e quando lo mettevo in radio scoppiava il bordello.

Decideva la vita o la morte degli artisti.

Per questo ero molto amato o odiato, e in tantissimi mi leccavano il culo e, come dicevo all’inizio, tante persone dell’ambiente iniziarono a dire in giro che prendevo le stecche sui musicisti.

E invece?

Avrei dovuto, tanto le cattiverie esistono comunque, almeno avrei incassato bei soldoni.

Lorenzo Jovanotti agli esordi.

Personalità straordinaria, e una capacità incredibile di capire, apprendere e sintetizzare. Quando arrivò a Milano non era un deejay, eppure capì subito quali sono i tempi giusti (ci pensa). È uno che conosce i propri limiti e sa colmarli.

Jerry Scotti.

È stato il primo che ho incontrato quando a 16 anni sono arrivato in quella radio milanese e due anni dopo l’ho ritrovato a Radio Deejay; per me è un fratellone maggiore, ancora oggi ogni tanto ci vediamo, Linus presente, per la cena dei cretini.

Fiorello.

Eh. Lui è incredibile.

Quanto?

È sempre come lo vedete, non solo quando è in trasmissione; non finge, non si atteggia, è dotato di un’umanità che sorprende. Gli voglio bene manco a un fratello.

Pure a lui!

Quando mi hanno nominato direttore di Radio m2o mi ha chiamato subito: “Albe, qualunque cosa ci sono, chiamami, e mi collego”.

Il suo target.

Ecco, in questo caso ci ho messo un po’ ad accettare che molti dei miei fan sono oramai degli adulti: magari li incontro e sono in giacca e cravatta, io mi ostino con i miei soliti panni.

Cosa le dicono?

Amo la frase “sei colonna sonora dei miei anni più belli”. Io sono la loro adolescenza, per questo mi guardano e sorridono, sono l’eco della spensieratezza. Uno è arrivato a baciarmi in aereo.

Quanti come lei si sono persi?

Tanti. Anzi tantissimi. Ragazzi che ho visto entrare, gasarsi, e sparire. Se le dico dei nomi manco li ricorda, non li ricorda nessuno. Eppure per un attimo sono stati famosi.

Oltre alla musica, oggi di cosa ama parlare?

Di piante e fiori, quando non sarò più nel delirio voglio tornare alla terra.

Ha bisogno di radici.

La mia vita è come volata via, ho corso, ho ribaltato il fuso orario dell’esistenza, magari avrò voglia di rallentare. (Arriva un amico, sorride e interviene: “È vero, è fissato”).

La prendono in giro.

I miei amici ridono, ma un giorno ci arriveranno anche loro.

Il New York Times accusa: “Torture e sparizioni nelle prigioni di Assad”

Il potere del presidente siriano Bashar al-Assad viene mantenuto da anni grazie a un segreto sistema di arresti e torture. La denuncia arriva dal New York Times, che ha raccolto le testimonianze dei cittadini sopravvissuti alle prigioni di Damasco. Il governo sembra aver iniziato una sommersa lotta contro i cittadini: si sono perse le tracce di quasi 128.000 di loro. Il Syrian Network of Human Rights, un gruppo indipendente che monitora la situazione e offre il conteggio più rigoroso, suppone che siano tutti morti o segregati, e che in almeno 14.000 casi i decessi siano avvenuti a causa delle torture. Inoltre, 5.607 arresti l’anno scorso – più di 100 a settimana – sono stati classificati come “arbitrari”. Il governo siriano smentisce le accuse: secondo il presidente, ogni abuso è un episodio sporadico inevitabile in guerra. Ha dichiarato: “Capita qui, in altre parti del mondo, dappertutto”. Tuttavia, recentemente sono stati scoperti degli appunti in cui gli ufficiali notificavano direttamente a lui le detenzioni di massa. E neanche le atrocità che venivano commesse erano un mistero per i piani alti, secondo la Commission for International Justice and Accountability: nelle celle si consumavano orrori che alcuni sopravvissuti hanno raccontato. È il caso di Muhammad Ghabbash, studente di giurisprudenza: il suo reato consiste nell’aver organizzato manifestazioni pacifiche contro il governo. La sicurezza siriana lo ha catturato e poi appeso per i polsi, tenendolo in quella posizione per 12 ore mentre lo picchiava a sangue e gli infliggeva elettroshock. Le torture sono continuate fino a quando lui non ha scritto una finta confessione in cui dichiarava di aver progettato un bombardamento. E questo, racconta Ghabbash al New York Times, è stato solo l’inizio. È stato poi trasportato in un’altra prigione, a Damasco, in cui c’era un ufficiale soprannominato “Hitler”. Per intrattenere i colleghi, costringeva i detenuti a recitare la parte dei cani e delle scimmie, punendo chi non si impegnava per offrire uno spettacolo credibile o soddisfacente. Anche il signor Darwish, avvocato dei diritti umani, ha vissuto l’incubo della prigionia: si è ritrovato “nudo, senza acqua, senza sonno, costretto a bere la mia stessa urina”, racconta alla testata americana. Quanto accade rappresenta un’emergenza, non solo per i siriani: senza riforme per la sicurezza, i 5 milioni di profughi sparsi nel resto del mondo difficilmente potranno tornare nella loro terra.

La Svezia e la testa di Assange: i giudici decidono sugli “stupri”

La magistratura svedese deciderà domani se rilanciare, o lasciare definitivamente cadere, le accuse di violenza sessuale presentate da due donne nei confronti di Julian Assange: accuse che risalgono a sette anni or sono e che avevano all’epoca innescato una richiesta di estradizione del fondatore di Wikileaks dalla Gran Bretagna. Al termine dell’udienza, il vice-procuratore Eva-Marie Persson farà una conferenza stampa. L’avvocato delle due donne, Elisabeth Massi Fritz, un legale molto in vista e che cura molto la sua immagine, chiede che la causa, che pareva essere stata abbandonata, vada avanti: un processo ad Assange in Svezia sarebbe molto mediatico e le garantirebbe molta visibilità.

Se la Svezia dovesse ripresentare la richiesta di estradizione per Assange, la giustizia britannica dovrebbe decidere se affidare l’australiano alla giustizia svedese o a quella degli Stati Uniti, che lo vogliono processare perché avrebbe violato siti riservati e diffuso informazioni lesive della sicurezza nazionale. L’iniziativa americana è relativamente recente e crea tensioni nell’Amministrazione di Washington: i funzionari del Dipartimento della Giustizia vogliono sentirlo e giudicarlo, mentre il presidente Trump non spinge in quella direzione. Nel 2016, Wikileaks rese servizi significativi alla campagna del magnate candidato alla presidenza degli Stati Uniti.

A Londra, Assange sta scontando la condanna inflittagli il primo maggio da un giudice britannico: 50 settimane di carcere – poco meno di un anno –, per avere violato i termini del rilascio su cauzione, quando, nel giugno del 2012, anziché consegnarsi alle autorità britanniche per essere estradato in Svezia, si rifugiò nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra e chiese protezione. Una tutela venuta meno il mese scorso, quando l’Ecuador ha lasciato che la polizia britannica penetrasse nell’ambasciata e prelevasse l’ospite divenuto indesiderato.

A emettere la sentenza contro Assange è stata la Southwark Crown Court di Londra: il fondatore di WikiLeaks era presente in aula. La condanna era ampiamente attesa, ma è stata particolarmente severa: il giudice Deborah Taylor non ha tenuto il minimo conto delle tesi della difesa e ha anche ricordato che Scotland Yard ha speso 16 milioni di sterline per sorvegliare per sette anni l’ambasciata ecuadoregna.

Il giorno dopo, c’è stata la prima udienza sulla richiesta di estradizione negli Stati Uniti, cui la difesa di Manning s’oppone. E, in questo intreccio giudiziario, c’è chi introduce l’ipotesi di un asilo in Svizzera per il fondatore di Wikileaks.

Le vicende giudiziarie di Assange condizionano quelle di Chelsea Manning, l’ex soldato Bradley Manning. Venerdì, Chelsea, una ex analista militare, è stata scarcerata dopo avere scontato 62 giorni di detenzione per oltraggio alla giustizia: non aveva voluto testimoniare contro il fondatore di Wikileaks davanti a un gran giurì. Ma il calvario di Chelsea rischia di proseguire: la prossima settimana potrebbe tornare dietro le sbarre. Ha infatti ricevuto un nuovo mandato a comparire davanti a un gran giurì il 16 maggio, fa sapere The Sparrow Project, gruppo di sostegno che lo assiste. Se non testimonierà di nuovo, tornerà in galera.

Nel 2010 l’allora soldato Bradley aveva trafugato centinaia di migliaia di documenti militari e cable diplomatici riservati, alcuni top secret, mentre svolgeva il suo incarico di analista di intelligence a Baghdad. La giustizia Usa persegue Assange per averlo aiutato in quella impresa.

Martedì scorso, l’attrice Pamela Anderson, ex star di Baywatch, sentimentalmente legata al giornalista australiano, aveva definito “ingiusto e inumano” il trattamento inflitto dalla giustizia britannica ad Assange, dopo avergli fatto visita nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, che sua madre ha definito “la Guantanamo britannica”. Il gruppo di lavoro dell’Onu sulla Detenzione arbitraria s’è dichiarato “profondamente preoccupato” per la condanna “sproporzionata” inflitta ad Assange, che “non ha compiuto alcun atto violento”.

È ora di distruggere Facebook

“Mark è la stessa persona che ho visto abbracciare i suoi genitori , che procrastinava lo studio, che si è innamorato della moglie in fila per il bagno e che ha dormito su un materasso per terra in un piccolo appartamento anni dopo che avrebbe potuto permettersi molto di più. In altre parole, è umano. Ma è la sua stessa umanità a rendere così problematico il suo potere incontrollato”: inizia magistralmente così l’editoriale del New York Times firmato da Chris Hughes, co-fondatore di Facebook che nel 2012 ha lasciato la società per seguire Obama. Un testo denso e lungo, che ripercorre con dovizia l’ascesa del social e le distorsioni (sue e della storia) per affermare un concetto: Facebook è pericoloso e deve essere “smembrato”.

Hughes è meticoloso. Ricorda che Zuckerberg, con il 60% delle azioni con diritto di voto, ha il pieno dominio del gruppo che a sua volta controlla le tre principali piattaforme di comunicazione digitale del mondo (Facebook, Instagram e WhatsApp). “Solo lui può decidere come configurare gli algoritmi”. Si dice arrabbiato: “Mark è una persona buona. Ma il suo interesse per la crescita lo ha portato a sacrificare sicurezza e civiltà” circondato da “una squadra che ne rafforza le convinzioni invece di sfidarle”. Un pericolo per la democrazia e la concorrenza.

Le accuse. L’editoriale è infatti la nemesi della guerra al monopolio dei giganti del web, che deve approfittare dell’assist dello scandalo Cambridge Analytica. “Bisognava chiedergli di fare davvero i conti con i suoi errori – dice – invece i legislatori che lo hanno interrogato sono stati derisi come troppo vecchi e fuori dal mondo per capire la tecnologia. È esattamente l’impressione che Mark voleva che gli americani avessero”.

I monopoli. L’analisi ripercorre l’impianto economico americano. “Dagli anni 70 – scrive – un piccolo gruppo di economisti, giuristi e responsabili delle politiche ha finanziato una rete di think tank, riviste, centri accademici per insegnare che gli interessi privati dovrebbero avere la precedenza su quelli pubblici”. Poi la politica fiscale e normativa favorevole alle imprese ha inaugurato un periodo di fusioni e acquisizioni. Le dimensioni medie delle aziende sono triplicate. Anche nel digitale.

I social. “Fin dai primi giorni – racconta Hughes – Mark ha usato la parola ‘dominazione’ per descrivere le ambizioni, senza ironia o umiltà”. Prima la gara con Myspace, Friendster, Twitter, Tumblr, poi l’acquisizione di altre società, tra cui Instagram e WhatsApp nel 2012 e 2014. “Ora che impieghiamo così tante persone, non possiamo proprio fallire” avrebbe detto Zuckerberg una notte. “Avevamo circa 50 impiegati – dice Hughes – Ho pensato: non si fermerà mai”.

La crescita.E così è stato. Instagram gli ha garantito il predominio nel photo networking, Whatsapp nella messaggistica mobile. Entrambi guidano la crescita della società. “Facebook ha usato la sua posizione di monopolio per chiudere società concorrenti o ha copiato la loro tecnologia” dice Hughes . Ha dato priorità ai suoi prodotti sulla sua piattaforma, impedito l’uso dei suoi servizi. Nessuna importante azienda di social networking è così nata dal 2011 mentre sono cresciute nei settori del lavoro e dei trasporti. E nessuno l’ha fermato. Dagli anni 70, spiega Hughes, i tribunali sono sempre più riluttanti a bloccare le fusioni se non portano a un aumento dei prezzi per i consumatori. E Facebook è gratis per gli utenti. Il soffocamento dell’innovazione e del controllo non sono più considerati motivi validi per fermare le mega aggregazioni. E così, se gli utenti non sono d’accordo con il modo in cui i loro dati sono trattati, non possono neanche cambiare piattaforma.

Controllo.Facebook ha poi un immenso controllo. “Le regole (degli algoritmi, ndr) sono proprietarie e così complesse che molti dipendenti non le capiscono” spiega Hughes, che ricorda un altro passaggio: la decisione di bloccare (e quindi anche intercettare) i messaggi privati che incitavano al genocidio in Myanmar. “Non è più una piattaforma neutrale ma prende decisioni sui valori”, dice.

Le soluzioni. Commenta poi le ultime scelte di Facebook, dall’aumentare la crittografia alla richiesta di più regole governative. Zuckerberg “non ha paura di regole in più – dice Hughes – ma di un caso antitrust e del tipo di responsabilità che la vera supervisione del governo potrebbe portare”. Lui, che non ha mai avuto né voluto capi. Hughes ricorda che quando Yahoo aveva offerto 1 miliardo per Facebook, Zuckerberg rifiutò. “Non so se voglio lavorare per Terry Semel”, avrebbe detto.

La proposta. Per il co-fondatore, dunque, bisogna annullare le acquisizioni di Instagram e WhatsApp, vietare acquisizioni per diversi anni, sostenere la proposta di legge della senatrice Elizabeth Warren (una task force per monitorare la concorrenza tra le società tecnologiche), unirsi al movimento di intellettuali e politici che si stanno impegnando su questo fronte, dar vita a un’agenzia che tuteli la privacy. O almeno provarci per mettere paura a Facebook&C. come successo in passato per Microsoft e Ibm. Ma serve velocità: “Fino a poco tempo fa, WhatsApp e Instagram venivano amministrati come piattaforme indipendenti. Facebook sta lavorando rapidamente per integrarle”.

Allerta arancione su gran parte del centro sud Italia

Forti temporali con raffiche di vento che hanno raggiunto i 75 chilometri orari ieri hanno creato problemi in Lombardia. Alberi caduti e precipitazioni di intensità tropicale anche a Milano Sud. Un albero è caduto su un’auto di passaggio a Locate Triulzi, sulla provinciale 28. Ferito lievemente il conducente. Solo contuso anche un alpino 46enne (è in corso il raduno delle penne nere) che, nel tentativo di trattenere una tenda che stava prendendo il volo per il vento, ha preso un colpo in testa. Dalle prime ore di oggi sono attesi venti di burrasca settentrionali, con rinforzi di burrasca forte, su Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna, in estensione dalla tarda mattinata a Toscana, Marche, Umbria e Lazio. Dal primo pomeriggio, il rinforzo della ventilazione fino a burrasca forte interesserà Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia. Sulla base dei fenomeni previsti è stata valutata allerta arancione su gran parte dei settori centro occidentali dell’Emilia Romagna e sulle Marche. L’allerta gialla sarà, invece, sul Veneto, sui bacini emiliani centrali in Emilia Romagna, sulla Toscana meridionale, su Umbria, Lazio, Abruzzo, Molise, gran parte della Campania, su Puglia, Basilicata, Calabra e Sicilia.

Il nipote del bandito Giuliano arrestato per violenza sessuale

Di giorno riceveva i turisti nel suo ristorante albergo di Montelepre (Palermo) ‘’Il Castello di Giuliano’’, intrattenendoli sui misteri ancor irrisolti della morte del bandito che si intrecciano con quelli della nascente Repubblica. Di sera, secondo l’accusa, ospitava prostitute, anche minorenni, con la complicità di un sedicente esorcista e di una ragazza di 20 anni. Con l’accusa di favoreggiamento della prostituzione e violenza sessuale aggravata finisce ai domiciliari il nipote del celebre bandito Giuliano, Giuseppe Sciortino, 71 anni, per il quale, come ha rivelato l’ex pm Carlo Palermo, si mosse la loggia massonica dei Rosacroce d’America con una raccomandazione per accedere ad una loggia successiva alla scoperta della P2, come si evince da un documento sequestrato da Palermo nel 1983 e trasmesso alla commissione P2.

Ieri Sciortino è finito in carcere insieme a Salvatore Randazzo, 62 anni, inchiodato da numerose intercettazioni da cui emerge, secondo l’accusa, il suo ruolo di finto esorcista e medium, organizzatore di riti in cui sosteneva di essere in grado di comunicare con i defunti, di scagliare anatemi ed esercitare poteri oscuri, finalizzati a intimorire le vittime, appartenenti “ad un contesto socio–culturale particolarmente arretrato”, per piegarne la volontà e indurle alla prostituzione. In cella è finita anche Marina Spinnato di 20 anni, incaricata di contattare le ragazze da far prostituire, e a entrambi i carabinieri di Montelepre, coordinati dalla Procura di Trapani, contestano i reati di violenza sessuale aggravata nei confronti di giovani ragazze e di un minore di 14 anni, truffa aggravata e induzione e sfruttamento della prostituzione. Sciortino è accusato anche di violenza sessuale aggravata nei confronti di una donna affetta da gravi disturbi psichici e ricoverata presso una struttura sociosanitaria semi-residenziale.