A Rienzi piacciono le spese legali solo se le incassa lui

La complicata storia delle querele intimidatorie con cui i potentati economici e politici cercano di spaventare i giornalisti si arricchisce di un nuovo capitolo. L’associazione di difesa dei consumatori Codacons, guidata dall’avvocato Carlo Rienzi, accusa Il Fatto Quotidiano di minacciare la sua stessa esistenza “impedendo all’associazione di svolgere il proprio compito”. Infatti, protesta Rienzi, l’avvocato del giornale Caterina Malavenda si è permessa di chiedergli “con toni perentori e minacciosi” di versare 15 mila euro di spese legali dopo una doppia condanna del tribunale di Roma. “Per il giornale sono una piccola somma ma per il Codacons rappresentano una risorsa fondamentale per la propria attività a tutela dei più deboli”, sostiene Rienzi. La foga polemica, stigmatizzata dallo stesso tribunale, lo trascina in un mondo fantasioso in cui difende i deboli dai ricchi giornalisti del Fatto. Siccome due pronunciamenti del tribunale non lo scoraggiano dalle sue elucubrazioni, spieghiamo ai lettori come stanno le cose. Il 31 ottobre scorso Il Fatto ha raccontato di un accordo tra Monte dei Paschi e Codacons con cui la banca ha rinunciato a una causa per diffamazione contro Rienzi – il quale in cambio non si è costituito parte civile in un processo contro gli ex vertici Mps. Codacons ha così ottenuto, tra l’altro, 612 mila euro per le spese legali, mentre Rienzi personalmente ne ha avuti 291 mila: in tutto oltre 900 mila euro, 60 volte i 15 mila che non vogliono pagare al Fatto.

Rienzi ha chiesto al giornale di pubblicare una lunga rettifica, pretendendo anche un titolo in prima pagina. A nulla valendo le richieste di restare nei limiti di legge, la pubblicazione non è avvenuta. Rienzi si è allora rivolto al tribunale con un ricorso d’urgenza (art. 700 codice di procedura civile), chiedendo che venisse ordinata al giornale la pubblicazione. Il giudice Damiana Colla gli ha spiegato, in un’articolata sentenza, come funziona le legge sulla stampa e in particolare che, nel caso specifico, la richiesta di rettifica “è priva dei requisiti di legge che possano aver determinato l’insorgenza di qualsivoglia obbligo di pubblicazione”.

Allora Rienzi ha fatto un ulteriore ricorso e si è preso un’ulteriore lezione, visto che il tribunale presieduto da Luigi Argan ha stabilito che, a parte le questioni sulla lunghezza e sulla collocazione del testo, risultava dirimente il fatto che il direttore del Fatto non poteva neppure volendo pubblicare la rettifica, che peraltro nulla rettificava, limitandosi ad accusare di gravi omissioni e di etica traballante l’autore dell’articolo. La legge infatti vieta la pubblicazione di rettifiche che contengano possibili reati, e in questo caso il giudice ha rilevato “la natura diffamatoria del testo della rettifica in quanto idonea a recare nocumento all’onore ed alla reputazione del giornalista”. Da qui la doppia condanna a pagare le spese legali, come accade di regola a chi perde una causa civile. E la singolare richiesta del presidente del Codacons Giuseppe Ursini di soprassedere alla richiesta di pagamento “in virtù anche della collaborazione tra il quotidiano e il Codacons”. L’avvocato Malavenda, rilevando che “il riferimento all’esistenza di una querela e all’intenzione di proporre eventualmente anche giudizio in sede civile non è esattamente un segnale di collaborazione tra le parti”, ha chiesto di pagare i 15 mila euro avvertendo che, “in mancanza di adempimento spontaneo”, procederà “in via esecutiva”. Tanto, se il Codacons può permettersi di pagare 900 mila euro agli avvocati “anche esterni e costosi” per una causa, i ricchi sono loro. E i giornalisti del Fatto i deboli da tutelare, anche solo smettendo di tormentarli per aver dato una notizia sgradita.

Conosco il fascismo e riconosco i fascisti

Avvertenza. Nel testo che segue, la parola “fascista” non è mai un insulto. È la definizione precisa di fatti o la registrazione di dichiarazioni di protagonisti di fatti narrati. I giudizi sono fondati esclusivamente sulle dichiarazioni e sulla evidenza.

Il fascismo è assassino. Non ha una ideologia ma progetti di morte. A partire da questa affermazione brutale e semplice, in cui ho vissuto e conosco come tanti italiani che c’erano, dal fascismo di governo a Salò, cercherò di affrontare le distorsioni con cui, a volte con buone intenzioni o desiderio di concordia nazionale, si sta affrontando un fatto ovvio eppure duramente discusso, del fascismo che torna. Comincerò col dire che “il ritorno del fascismo” non è il sentore o l’umore di guastafeste (o – come dicono alcuni storici – di persone male informate) che insistono in un loro lugubre presentimento. No. Sto parlando di italiani che hanno ancora in mente, ben chiara, l’immagine del regime assassino, lo riconoscono e, per ciò che hanno visto e vissuto, rifiutano la affermazione non vera secondo cui tutte le idee si equivalgono e tutte devono essere rispettate. Non tutte. Non la Shoah. Gente come me, che da bambino ha dovuto camminare accanto ai cadaveri di giovani abbattuti a raffiche davanti alla porta della scuola, sa, e riconosce, gli esecutori di allora e gli osservanti di oggi. Che questa non sia una disturbante distorsione dovuta al passare del tempo lo dice con spavalda franchezza l’uomo-Pound Francesco Polacchi, editore che ha occupato (poi cacciato) uno stand al Salone del Libro per la ignota casa editrice fascista Altaforte, celebre da questo momento per avere annunciato di pubblicare l’autoritratto del noto ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini. Ma proprio nelle stesse ore, a Roma, la polizia del ministro dell’Interno deve far fronte all’editore del ministro dell’Interno, ovvero i militanti razzisti del gruppo editoriale di CasaPound. Infatti quei giovani fascisti sono presenti dovunque si dia la caccia a rom e immigrati, contro cui è facile creare un’atmosfera di linciaggio.

Nell’ultimo episodio, il secondo di Casal Bruciato, a Roma, un nutrito presidio fascista era sul posto per incitare la folla di abitanti e inquilini a cacciare una famiglia di rom (dodici figli, metà bambini), a impedirle di entrare in una casa legittimamente assegnata dal Comune. I CasaPound della nuova alleanza difendono e scortano chi grida ai bambini della famiglia “Vi vogliamo vedere impiccati, bruciati”, e dedicano alla loro madre, con l’assenso dei fascisti, la frase: “Troia, ti stupro”.

La sindaca Raggi – unica ad avere coraggio – è andata a difendere i rom a cui aveva assegnato la casa. Ha gridato a nome di tutti i politici assenti: “La legge è uguale per tutti” fra derisione e spintoni debitamente incoraggiati.

Ma in quelle stesse ore un’altra manifestazione si sta svolgendo al Salone del Libro di Torino, sconvolto dalla accoglienza ai fascisti (CasaPound non è ancora stata cacciata). Iniziano due diverse storie che bisogna seguire con attenzione. Nella prima si dice che tutte le idee sono altrettanto rispettabili. Nella seconda il CasaPound editore Francesco Polacchi è meno ipocrita e ha due cose da dire, con franchezza: “Io sono fascista” e “l’antifascismo è il vero male di questo Paese”. Diciamo che un editore fascista con quel nuovo autore in catalogo (Salvini) si sente ragionevolmente più forte. Diciamo, anche, che quella dichiarazione ha offerto alla sindaca Appendino e al presidente Chiamparino la necessità di chiedere l’attenzione della Magistratura e poi di deciderne l’esclusione. Infatti l’accoglienza al fascismo che torna non tocca agli antifascisti. Infatti le parole dell’editore fascista si fanno rivelatrici e cruciali. Dal suo punto di vista ha ragione.

L’antifascismo è lo sbarramento che impedisce a lui, agli altri fascisti e ai nuovi associati, di essere legittimi attori della vita democratica. Se sei fuori gioco, di là da una trincea di cadaveri, resti fuori gioco. Che fai, arrivi tranquillamente al Salone del Libro dopo avere votato per unanime alzata di mano le leggi razziali gridando “viva il duce”? Può reclamare il comando, mentre si dichiara fascista, chi ha assassinato Gramsci, Gobetti, Matteotti, i fratelli Rosselli, i fratelli Cervi? “Può la celebrazione della Liberazione d’Italia, che ha fatto di un lager un paese orgoglioso e libero, essere descritta da un suo ministro come ‘un derby fascisti-comunisti’”? Se lo chiede Roger Cohen sul New York Times del 29 aprile (prima pagina), a nome delle decine di migliaia di morti americani per l’Italia libera. Alla trasmissione di Lilli Gruber Salvini dice: “Ma no, il fascismo non torna”. Ora sappiamo che è vero e che abbiamo bisogno di tutta la forza dell’antifascismo che ci ha salvati nel 1945.

Il problema sono i poveri ancora fuori, non i furbi

In questi giorni molti si interrogano sul numero di domande di reddito di cittadinanza all’Inps che è un po’ sotto le attese. Tra le spiegazioni più gettonate c’è quella secondo cui, siccome molti lavorano in nero, preferiscono non chiedere il sussidio per evitare controlli fiscali e sanzioni penali. Quindi, è il corollario, in Italia non c’è poi tutta la povertà che pensavamo.

Ma la povertà assoluta è una misura che si basa sulla spesa effettiva della famiglia per consumi (differenziata per tipologia del nucleo, ripartizione geografica di residenza e ampiezza del Comune), non sul reddito presunto. Le famiglie povere – secondo l’Istat 1,8 milioni (5 milioni di individui) – sono quelle che spendono in maniera insufficiente per il sostentamento, a prescindere dalla fonte dei loro magri redditi. Magari questi poveri lavorano in nero, ma hanno comunque dei consumi da poveri.

I motivi per cui il reddito di cittadinanza non decolla sono altri. Nei primi due mesi sono state presentate oltre un milione di domande, un quarto delle quali destinato a essere rigettato dall’Inps per la mancanza di uno o più requisiti. Rispetto alla platea delle famiglie in condizioni di povertà assoluta, le domande presentate sono sotto le attese proprio a causa dei requisiti troppo stringenti per la richiesta del beneficio. In assenza di informazioni più precise per identificare il mismatch tra reddito di cittadinanza e povertà, si può ritenere che a pesare maggiormente siano i criteri di calcolo della scala di equivalenza del reddito (il richiedente vale 1, ogni altro adulto 0,4, ogni minore 0,2 con un massimo di 2,1 aumentato a 2,2 in presenza di disabili) che penalizzano le famiglie numerose; il tetto a 6.000 euro sul conto in banca soprattutto per l’integrazione della pensione di cittadinanza; il requisito della residenza e dell’attestazione del patrimonio che impedisce a molti dei 500 mila nuclei di stranieri poveri (il 28% del totale) di accedere al beneficio.

Il numero di domande pervenute finora all’Inps è pari al 57% delle famiglie in povertà assoluta, con differenze regionali notevoli. In Sardegna sono state presentate 46.335 domande a fronte di 35.011 famiglie povere (il 132%), mentre in Trentino Alto Adige la sovrapposizione è solo del 23%. Anche in Abruzzo il numero di domande per il reddito di cittadinanza supera la povertà (103%) e tassi elevati si registrano in Campania (85%) e Toscana (84%). Tra i valori inferiori alla media prevalgono le regioni del centro-nord, con l’eccezione di Calabria e Molise (entrambe 43%).

Il motivo di tale disparità territoriale può essere spiegato in termini di diverso tasso di accettazione delle domande, con un numero di rifiuti maggiore laddove la percentuale è più alta, ma potrebbe anche risiedere nella misura statistica. In Sardegna le soglie di povertà assoluta prese a riferimento potrebbero essere troppo basse o la copertura campionaria (le famiglie intervistate per sapere come spendono i loro soldi) non adeguata.

Poiché l’obiettivo del reddito di cittadinanza è il contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale e le regole rischiano di penalizzare alcune categorie di indigenti, è già chiaro che serve qualche aggiustamento. Ciò sarà possibile grazie ai risparmi sullo stanziamento inizialmente previsto, che andrebbero destinati ad ampliare la platea dei beneficiari, con correttivi che permettano di raggiungere il maggior numero di poveri.

Bollette, dignità e cure mediche: le storie di chi l’ha già ricevuto

primi 500 mila beneficiari del reddito di cittadinanza hanno da pochi giorni la PostePay; alcuni hanno raccontato al Fatto dell’effetto che questo ha avuto nella loro vita, di come ora possono permettersi cose alle quali hanno sempre rinunciato, beni di prima necessità, cibo e medicinali. Non mancano però le critiche per gli importi esigui o le difficoltà a pagare certe spese.

 

Sono un 58enne disoccupato da più di due anni e vivo con mia moglie e due figli maggiorenni all’Università. Quando ho ricevuto l’accredito sulla carta, ho inviato un bonifico al proprietario dell’abitazione aggiungendo una parte per rientrare a rate di alcune mensilità arretrate. Non credevo più di farcela e temevo lo sfratto. Non oso neanche parlare di tutto il resto a cui abbiamo rinunciato, come la salute, l’acquisto di medicinali e le cure dentistiche. Ora riesco a guardare alle giornate con meno angoscia.

Maurizio

 

Sono una madre e la mia è una famiglia monogenitoriale e da 12 anni vivo nella precarietà assoluta. Col reddito ho affrontato spese che finora ho faticato a onorare se non grazie a persone di cuore. Farmaci, affitto, bollette, generi alimentari… tutto ciò che rende la vita dignitosa. Spero ora di trovare un lavoro dignitoso.

Antonella (Toscana)

 

Sono rimasta senza lavoro nel 2010 dopo che Microsoft ha acquistato l’azienda in cui lavoravo. Da allora non sono riuscita a trovare più un lavoro duraturo; l’ultimo è stato al limite dello sfruttamento. Ora ho ricevuto 500 euro con cui posso pagare le bollette, l’affitto, le spese mediche, gli acquisti in farmacia e parafarmacia.

Mara

 

Sono una donna sola con una bambina, sono in affitto e senza lavoro. Ora posso migliorare la mia situazione e garantire a mia figlia qualcosa da mangiare in più e un tetto. Ho già pagato una bolletta.

Elemond77 (Sicilia)

 

Anni di difficoltà a ritrovare un lavoro tra Caritas e Banco alimentare con un figlio che studia. La vergogna e la difficoltà quando devi prendere un pacco di pasta e non avere quei centesimi. Non potersi sedere a un tavolo di una pizzeria, mentre triboli per le bollette. Poi c’è la faccia dell’assistente sociale che in fondo te ne fa una colpa, perché la mia invalidità non colpisce l’estetica. Prendevo 289 euro di Rei; ora con il Rdc quasi 600 euro. Mi sono messa a piangere. La prima cosa che ho fatto? Mi sono comprata occhiali da vista da 29 euro e ho pagato la visita per rinnovare la patente. Mi sento più forte e magari un giorno potrò avere una piccola auto e la possibilità di un lavoro.

G. B. (Toscana)

 

Sono un 58enne disoccupato da anni per la crisi nel settore della sedia; ho perso l’azienda e vivo in una casa popolare. Mi sono arrangiato, negli ultimi 4 anni accettando lavori pagati dalla Regione. Ti garantiscono 6 mesi per 6000 euro annui. Pensavo che con il reddito le cose in Italia sarebbero cambiate, invece mi sono ritrovato con 40 euro sulla carta. Una presa in giro, mi sento offeso nella mia dignità (…). Sarebbe stato meglio che non avessero accettato proprio la domanda o che l’avessero accompagnata con una spiegazione sul perché di questa cifra. Io aspettavo di curarmi i denti e di pagare lo Stato a rate, avendo accettato l’accordo sulla pace fiscale, così invece non potrò farlo.

Stefano (Friuli)

 

Grazie al reddito ho potuto fare varie spese: dagli alimentari alle bollette, passando per oggetti per la casa tipo lenzuola, cuscini e utensili per la cucina. Ma ho anche acquistato abbigliamento dai cinesi per risparmiare il più possibile i soldi.

Rosa (Sicilia)

 

Ho speso il reddito di cittadinanza tra bollette arretrate, vestiario e beni di prima necessità. Provo sollievo, non tanto per me quanto per le persone che mi sono state accanto in questi anni difficili senza farmelo pesare e che cercherò di ripagare. Finalmente non dovrò più sottostare a ricatti e umiliazioni: non accetterò mai più lavori in nero o sottopagati.

Orazio (Sicilia)

 

Vivo solo e sono in attesa di una prima occupazione, ho fatto richiesta del Rdc ricevendo 500 euro. Mi sono accorto però di poter pagare le bollette, ma non i bollettini di condominio, acqua e Tari. Ora mi chiedo quale è la funzione morale ed educativa se con il Rdc posso pagare una elegante cena, ma non i tributi statali.

Giovanni

 

Ho 55 anni, sono un operaio. Da 3 anni sono senza lavoro, da quando la mia azienda è andata in crisi e ha licenziato. Mi sono arrangiato con lavoretti stagionali in Riviera, ma gli stipendi sono sempre più bassi. Grazie al Rdc ho potuto contribuire a far festeggiare la comunione a mia figlia che altrimenti sarebbe stata solo a carico della mia ex moglie. E per una volta non mi sono sentito un fallito.

Giorgio (Emilia Romagna)

 

Ho 64 anni e vivo con mia moglie in una casetta da 50 mq aggiustati con pazienza e qualche spiffero, ma l’estate si vive bene. Sono disoccupato, a seguito di un grave infortunio, dal 2012, e da allora mi sono arrangiato con lavoretti; l’ultimo, a chiamata, da 600 euro al mese per 6 mesi. Da maggio 2018 non lavoro più. Finita la Naspi, campiamo con 5-10 euro a settimana, non chiedetemi come. Adesso ho ricevuto il Rdc e in virtù di quel famoso lavoro a chiamata, ammonta a 125,90 euro. Pensavo di arrivare almeno a 500 e avevamo programmato gli occhiali da vista nuovi per me e per lei, un paio di scarpe, dei pantaloni. Quelli della Caritas certe volte sono impossibili da indossare… Bah, sarà per la prossima volta.

Roberto (Abruzzo)

 

Abitiamo in cinque in un monolocale in affitto a Napoli. Siamo io (54 anni), mia moglie (52 anni) e tre figli di cui una maggiorenne. Non possediamo nulla e conosciamo la fame. Prima di avere un incidente alla schiena mi chiamavano a volte per scaricare camion e tiravo avanti in mille modi, anche con l’elemosina. Adesso non cammino facilmente, ma sono pronto a qualsiasi lavoro. Con i soldi che mi hanno accreditato sulla PostePay abbiamo fatto la spesa, pagato la luce e acqua. Ma la cosa bella è che possiamo curarci, perché sia io che mia moglie abbiamo delle patologie. Avere la possibilità di comprare qualcosa da mangiare o riuscire a pagare la pigione ci dà una realtà diversa. Cambia tutto, anche se difficilmente chi non ci passa riuscirà a capire cosa si prova. Una vita diversa per la prima volta.

Lettera firmata (Campania)

 

Per la prima volta , grazie al Rdc, mi sento di essere aiutato e considerato dal mio Stato. Sono riuscito a pagare le bollette e gli altri soldi li ho utilizzati per fare la spesa.

Raffaello (Toscana)

Ex atleta morta: fermato l’uomo che l’avrebbe spinta giù

Imen Chatbouri, l’ex atleta e personal trainer tunisina precipitata dal muraglione del lungotevere dei Vallati nella notte tra l’1 e il 2 maggio, e morta sul colpo, sarebbe stata uccisa da un uomo, 26enne di nazionalità romena, Stefan Catoi, senza fissa dimora a Roma. La svolta grazie a un filmato in mano agli investigatori, in cui si vede esplicitamente l’uomo afferrare per le caviglie la tunisina e lanciarla di sotto.

L’accusa è di omicidio premeditato, il movente potrebbe essere passionale. I due avrebbero trascorso alcuni momenti di quella nottata insieme in giro per il centro della Capitale. Non si esclude che il delitto sia avvenuto in seguito ad avances respinte dalla donna.

Le indagini, a cui ha partecipato anche il personale dell’Ufficio prevenzione generale soccorso pubblico della Questura, si sono concentrate nel quadrante nord-ovest della città, zona frequentata dal romeno. Il 26enne è stato fermato ieri pomeriggio a Roma, mentre camminava in strada. Verrà trasferito nel carcere romano di Regina Coeli.

Buona la prima: è subito duello tra lo sloveno e Squalo Nibali

Clément Guillou, su Le Monde, si è chiesto perché il Giro d’Italia stia diventando più attrattivo del Tour de France. Gli hanno risposto che il Giro è più difficile e meno monotono. Thibaut Pinot, che l’ha corso, ha aggiunto “la semplicità, l’autenticità, la bellezza, la passione”. Le qualità del Giro.

Esibite ieri a Bologna, dove è cominciato il Giro numero 102. Gli organizzatori hanno allestito una cronoscalata breve, double face. Sei chilometri piatti, o quasi, partendo da piazza Maggiore. Gli ultimi due, in salita, sulle micidiali rampe del santuario di San Luca. Con la curva velenosa delle Orfanelle che spacca le gambe, tanto è ripida. Spettacolo.

Coreografia: la fantastica infilata dei bellissimi portici, i più lunghi del mondo. Sedussero Stendhal. Non i corridori. Quei portici, infatti, hanno 666 arcate: il numero del diavolo. E diabolica è stata la tappa. Con la trappola delle Orfanelle: un “muro” che stronca, e che setaccia i concorrenti. Risultato: subito una classifica vera, non banale. Anzi. Ecco perché il Giro piace sempre di più, caro monsieur Guillou.

Ha dominato lo sloveno Primoz Roglic, 29 anni, nel nome un auspicio. Era il favorito. Quest’anno ha già spazzolato il Tour degli Emirati, la Tirreno-Adriatica e il Giro della Romandia. È l’uomo da battere: domina le crono, vola in salita. il primo sloveno a indossare la maglia rosa. Fino a sei anni fa saltava con gli sci. Poi si è rotto. Ora fa saltare gli avversari. Ha battuto Simon Yates, britannico combattivo e indomito, rifilandogli 19’’. Terzo, un ottimo Vincenzo Nibali, a 23’’. Lo Squalo ha più classe. Roglic ha più freschezza. Yates più fantasia. Tom Dumoulin, l’olandese volante ma ieri non troppo, altro favorito dei bookmakers, ha buscato 28’’ da Roglic, come il colombiano Miguel Lopez Moreno. Sono loro gli Avengers del Giro 2019.

Controinchiesta su Pantani: “Fu ucciso e il corpo spostato”

Marco Pantani non era solo quando morì il giorno di San Valentino del 2004 in una stanza del residence di Rimini “Le Rose”. Questo è quello che, meno di un mese fa, hanno sostenuto i consulenti della famiglia Pantani – tra cui il generale Umberto Rapetto – davanti alla Commissione parlamentare antimafia e in una memoria di 56 pagine, consegnata in quell’occasione a deputati e senatori, e che Il Fatto ha potuto leggere integralmente. “Risulta evidente che non si sia suicidato, ma sia stato vittima di morte violenta e per opera di terzi, verosimilmente connessa ai molteplici interessi della criminalità organizzata nel campo delle scommesse illecite e nel traffico di stupefacenti”. “Qualcuno era con lui quando la morte è arrivata, c’è il segno evidente che il corpo sia stato spostato”, spiega Rapetto riferendosi ad alcune macchie di sangue fresco rinvenuta sul luogo.

 

Quello che non torna

Sono passati 15 anni da quando il “Pirata” fu trovato morto. I genitori non hanno mai accettato le verità processuali, che raccontano di un decesso per overdose (chiuso con un processo a tre spacciatori, di cui due hanno patteggiato, mentre l’ipotesi dell’omicidio è stata archiviata per richiesta del gip di Rimini e confermata dalla cassazione nel 2017). E oggi, assistiti dall’avvocato Antonio De Rensis, chiedono di riaprire ancora una volta il caso.

Tante cose non sono mai state spiegate. I segni sul volto del ciclista, descritti come “microlesioni” ma impressionanti e poco compatibili con una caduta. Il presunto isolamento del campione nel residence, su cui si basa la tesi del suicidio: è stato dimostrato, però, che alla stanza di Pantani si poteva accedere anche passando dal garage, senza essere visti. E poi le stranezze nella stanza, a soqquadro ma senza alcun arredo rotto, una specie di “finto caos”. I sanitari, primi a trovare il cadavere, ricordano distintamente di aver notato il lavandino del bagno divelto per terra, e nessuna traccia di droga; nel filmato girato dalla polizia due ore dopo, invece, il lavabo è di nuovo al suo posto, e al fianco del cadavere c’è un “bolo” di cocaina completamente bianco pur essendo al centro di una pozza di sangue. Sono questi gli elementi che spingono Rapetto a parlare di una “scena alterata in almeno due circostanze”. Un’ipotesi che adesso sembra trovare conferma anche nella testimonianza inedita che verrà mostrata stasera nel corso della trasmissione tv Le Iene. Nel servizio di Alessandro De Giuseppe, per la prima volta parla un esperto di investigazioni elettroniche che ha lavorato come consulente per la procura di Rimini e che era in quella stanza del residence “Le Rose”, insieme alla polizia, il giorno in cui fu ritrovato Pantani. L’uomo svelerebbe dei nuovi dettagli sul filmato girato dalla scientifica: mostrerebbe diversi elementi che non combacerebbero col racconto fornito dai primi soccorritori. “Mi portano la cassetta con tutto il nastro fuori. ‘L’hanno rovinata’, mi dicono, era inutilizzabile.”, spiega l’ex consulente della procura. Un tentativo di manomissione? “È evidente”, conclude.

 

Commissione Antimafia

Perché i consulenti della famiglia Pantani siano arrivati fino in Antimafia lo spiega il senatore M5S Giovanni Endrizzi, coordinatore del gruppo sulle scommesse clandestine che curerà l’istruttoria. “Il nostro interesse non è strettamente sul suicidio: noi vogliamo capire se le mafie abbiano avuto un ruolo in questa vicenda, il resto verrà di riflesso”. Tutto parte dal famoso controllo del 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio, in cui Pantani fu trovato con un valore di ematocrito troppo alto (52%, oltre il limite di 50) e per questo escluso dal Giro d’Italia che si apprestava a conquistare. Una vittoria che, secondo l’ex bandito Renato Vallanzasca, sarebbe stata impedita dalla camorra, preoccupata dalle troppe scommesse sul suo successo. Si è parlato e indagato tanto su quella rivelazione, che sembra trovare riscontro anche in un’intercettazione dell’ex camorrista Rosario Tolomelli. Lo stesso vale per i valori sballati del ciclista: secondo i periti della difesa il sangue fu deplasmato, privato della sua parte liquida per far salire l’ematocrito. Un complotto, insomma. A riguardo, la sezione di Polizia giudiziaria ha messo per iscritto che “non è escluso che il campione di sangue prelevato a Marco Pantani a Madonna di Campiglio possa essere stato sottoposto ad una manipolazione”. Ma nemmeno si è mai riuscito a provarlo: per questo anche il secondo fascicolo, aperto a Forlì, è stato archiviato nel 2016. Da Madonna di Campiglio, Pantani non si sarebbe più ripreso, scivolando nella depressione e nella droga, fino alla morte nel 2004.

 

Nella memoria, i misteri

“Macroscopiche lacune investigative e forme di trascuratezza marchiane”, come le definisce la memoria, facendo riferimento ad esempio alla mancata rilevazione delle impronte nella stanza. “Con gli occhi del poi, poteva essere utile rilevarle”, ammette Paolo Giovagnoli, procuratore che ha curato il secondo fascicolo sul decesso, nel documentario Giallo Pantani andato in onda su Nove. “Non è più possibile far finta di nulla: nuove testimonianze richiedono nuove indagini”, l’appello dell’avvocato della famiglia, Antonio De Rensis. “Ripartiamo da questi elementi di contorno: da qui possiamo provare a capire cosa è successo in quella stanza quel giorno, chiediamo solo questo. Magari così scopriremo anche come è morto davvero Marco”. E forse persino cosa è accaduto quella famosa mattina a Madonna di Campiglio, l’inizio della fine della storia, ancora irrisolta.

Chi li ha visti. I volant di Della Valle, Dudù e i riccioli di Lampadina-Lotti

Gli Ei Furono.Repertorio delle personalità illustri scomparse, sebbene viventi, svanite nell’arco di un anno. Dal 4 marzo 2018 al 4 marzo 2019.

 

Matteo Orfini

Statista

Come di Amintore Fanfani – leader della Democrazia Cristiana che fu – non resterà altra immagine che quella del pacco di giornali ai piedi per consentirgli di arrivare all’asta del microfono, così Orfini, ex dirigente del Partito Democratico, avrà uno scatto a garanzia dell’eterna memoria: attaccato al joystick della playstation per sentirsi coerente con lo Spirito del Tempo. In quella foto sta aspettando i risultati elettorali delle regionali 2015. Con lui, nell’epifania dei Titani, il suo diretto principale: Matteo Renzi, il mancato Fanfani del Pd che le cronache raccontano essere il mancato Mara Carfagna di Forza Italia.

 

Diego Della Valle

Imprenditore

I pallini alle suole delle sue celebri scarpe Tod’s furono, per l’Italia smart a cavallo tra l’epoca di Silvio Berlusconi e quella di Paolo Gentiloni, ciò che le ali ai piedi erano per Hermes, o Mercurio che dir si voglia, e propriamente nel senso del dio dei mercanti, degli estrosi venditori e sognatori partiti allegri con Forza Italia di Berlusconi e poi finiti cupi e tristi al fianco della mesta Scelta Civica di Mario Monti. Ambito ospite nei salotti tivù, è stato anche il contraltare marchigiano dell’albagia piemontese dei Gianni Agnelli. Tanto questi vestiva col gusto del gangster, con regolamentare orologio allacciato sopra la manica, quanto lui – adornato di ampi colletti e volant – ostenta al polso braccialetti, sonaglini e pendagli di varia foggia.

 

Rosario Crocetta

Rivoluzionario

Uomo che emana fascino, reclutatore di legalità a getto continuo, star nella scena internazionale per aver colorato con l’arcobaleno la mascolissima Sicilia coi baffi, Crocetta è sparito dai radar – dopo aver fatto costruire agli americani quello del Muos a Niscemi, quello che lui aveva promesso di non fare mai installare – per ritirarsi nel suo eremo ad Hammamet. Amico degli amici dell’antimafia, già presidente della Regione Siciliana, Rosario non è stato sostituito dal suo successore bensì direttamente da Gianfranco Micciché, l’uomo forte dell’isola. L’attuale presidente del parlamento regionale, in virtù dell’antico adagio borbonico – sopra il Re c’è sempre il Viceré – comanda e quindi alimenta l’inaspettata vampata di nostalgia, quella che fa dire a tutti i siciliani: “Torna, Crocetta, tutto ti è stato perdonato”.

 

Carlo Rossella

Lo chic & lo charme

Comunista di comprovata ortodossia, fedele alla linea di Armando Cossutta – il leader dell’ala sovietica del fu Pci – Rossella ha avuto cancellata la sua rubrica sul settimanale Chi e perciò cade vittima del pregiudizio russofobo tipico di questa stagione politica, stretta tra la padella europeista e la brace atlantista. Alfonso Signorini, togliendola, ha dovuto eseguire un ordine impartito dall’amministratore delegato di Mondadori e comunque Rossella – elegantissimo e informatissimo inviato di Esteri – funestato da questa prepotenza non ha accampato gli onori tributati ai perseguitati politici, anzi. Come l’uomo in frac, col cilindro per cappello, il diadema di cristallo e col candido gilet di seta blu ha detto addio a quel mondo ma non a Berlusconi: “È molto più a sinistra di tanta gente di sinistra”. Se non è Stalin, Silvio è comunque Breznev.

 

Chicco Testa

Ex fidanzato di A. Chirico

Squillante mente della classe dirigente che fu, manager d’azienda formatosi nella militanza del più grande partito comunista d’Occidente, Testa ha sbagliato i conti sul Ponte Morandi di Genova, ma per fortuna solo su Twitter da scatenato troll qual è del nostalgismo renzista. Già presidente del cda di Enel, membro di Wind, bello come pochi tra i reduci della Fgci dove comunque anche Walter Veltroni faceva la sua figura, Chicco che all’anagrafe è Enrico è anche un frequentatore di Capalbio. Tra i più charmant dell’irraggiungibile tribù degli abbienti dove c’è anche Luca Cordero di Montezemolo, altrettanto sparito, ma suo successore al fianco di Annalisa Chirico (praticamente spariscono tutti eccetto lei), Testa resta comunque l’ambientalista di sempre. Presidente di Fise-Assoambiente, ormai single punta su Greta Thunberg (aspettando, da gran signore qual è, che la ragazza compia la maggiore età).

 

Fabio Fazio

Bravo presentatore

Conduttore di Che tempo che fa su Rai1, ghostwriter di Carlo Cottarelli, preparatore atletico di Roberto Saviano, assistente di laboratorio del virologo Roberto Burioni, spalla di Luciana Littizzetto, primo tra i promoter di Matteo Salvini, Fazio è – di fatto – sparito. Quando Rosario Fiorello dal palco del Festival di Sanremo aveva scherzato con Mario Orfeo parlando del “periodo trolley” in vista del 4 marzo – “fatte le valigie?” – non si preparava solo l’addio del direttore generale della Rai; c’era anche il ciao-ciao dell’ilare Claudio Baglioni, dittatore artistico all’Ariston ma, soprattutto, il mai più rivederci (finché il gialloverde gialloverderà al governo) dello stesso Fazio e del suo cospicuo compenso, amorevolmente sparito nelle sue beate tasche.

 

Nanni Moretti

Regista

Si nota di più proprio ora che non c’è più nel paesaggio dell’Italia prima dei girotondi contro lo strapotere della destra. Finita la stagione del ceto medio riflessivo, esaurita la richiesta di far dire qualcosa di sinistra a D’Alema (che non è propriamente sparito, avendo scelto il palcoscenico del Vinitaly a Verona, con un suo superbo vino), Moretti è diventato afono e invisibile malgrado il suo ultimo docu-film su Pinochet, Santiago, Italia. Esercitandosi sul parallelismo distopico, quello tra il golpe sanguinario della Cia e l’attuale deriva populista dominata “da rigurgiti di intolleranza e di razzismo”, Moretti si sarebbe notato se fosse da qualche parte – o al Sacher, oppure al seguito di Marzullo – ma resta il fatto che l’unico a farsi notare di più senza esserci nella scena d’Italia non è più lui, ma Alessandro Di Battista.

 

Dudù

Canuzzo

Compagno di giochi di Vladimir Putin – ebbe a fargli il riporto di ben due palle, con elegante slalom sul parquet di casa Berlusconi – l’amorevole Dudù non s’è visto più. Protagonista della svolta Lgbt del Cavaliere – celebre fu il selfie con Wladimir Luxuria e Francesca Pascale – Dudù ha raccontato i giorni felici di Forza Italia meglio di un Samuel Beckett. E figurarsi cosa poteva fare un Empy, il cagnetto che Daria Bignardi, a suo tempo, propinò in diretta tivù a un attonito Mario Monti affinché aiutasse l’austero premier ad avere maggiore empatia coi suoi governati tartassati. L’unico che ha saputo tenergli testa è stato Aiace. Quest’ultimo è il cane di Massimo D’Alema – benemerito rosicchiatore dei polpacci di Alan Friedman, incauto intervistatore tra i vitigni del già citato vino – che comunque, non ha avuto la vita difficile del dimenticato Dudù.

 

Clemente Mastella

Neo dadaista

Il ricordo vivido e sempre attuale dei torroncini, il dono più dolce che la politica italiana abbia saputo concedere ai suoi narratori, è tributo perenne a Clemente Mastella, re di Ceppalonia. Ha sempre percorso gli scalini della clientela, e grazie al suo talento ha reso possibile una permanenza in Parlamento, in tv e negli uffici di vari ministeri per un quarantennio. Ha fondato e rifondato partiti, associazioni, sodalizi di variegate virtù, ha preteso per Sandra, sua diletta sposa, un impiego da senatrice. Non è detto che la sua compagna, accampata attualmente nei pressi di Forza Italia, non possa prossimamente valutare un trasferimento dalle parti della Lega, considerato che al Sud Salvini raccoglie entusiasmi e anche Mastella vuol bene al Mezzogiorno. Lui, cioè Clemente, si è accontentato di fare il sindaco in disgrazia di Benevento, giacché la città ha dichiarato fallimento. Le ultime più rilevanti e afflitte dichiarazioni (“Ho il conto in rosso e ho capito chi pensa al suicidio”) sono state ingiustamente censurate dal regime gialloverde. Si apre forse per lui un nuovo impegno, meno politico e più artistico: la rivisitazione concettuale del futurismo e anche del dadaismo.

 

Angelino Alfano

Avvocato d’affari

Resta quella parola, quel quid mancante, a tenere accesa la fiammella del dolore, e resta, come ricordo di un affetto che non scompare nei gorghi della politica, quel biglietto che il Cavalier Berlusconi fece recapitare al suo più fedele collaboratore. Farsi visitare subito dal tricologo e procedere con l’innesto. Purtroppo le incomprensioni hanno avuto il sopravvento e Angelino Alfano, senza partito, senza quid e anche senza capelli, ora ha scelto la via della lobby. Agevola i passi di un importante studio d’affari mentre ripensa a cosa è stato e cosa può ancora essere. Ci auguriamo che questo purgatorio sia solo pro tempore e domani, chissà, Alfano possa ritornare in scena, financo con Forza Italia. Magari con tanti capelli in testa e finalmente un quid in tasca.

 

Luca Lotti

L’organizzatore

I riccioli, quelli mancano più di ogni altra cosa. Di Luca Lotti si può pensare tutto il male possibile ma non essere addolorati della scomparsa dal panorama del potere di una testa così fortunatamente scapigliata. Luca è l’uno e il suo opposto. Esistono infatti due Lotti. Il primo, legato ai piaceri della comunella, al tiki taka nei campetti di calcio, al chiasso della periferia fiorentina. Il secondo invece, algido programmatore, geometrico misuratore di preferenze, voti e poteri. Il tramonto renziano conduce Lotti nel buio della penitenza e (forse) della irrilevanza. Al popolo mancheranno i suoi riccioli. E anche questo, volendo spaccare il capello in quattro, è un problema politico.

 

Niccolò Ghedini

Utilizzatore finale

C’è stato un tempo che l’avvocato Ghedini era così tanto indaffarato a seguire i processi berlusconiani e le attività di governo da non poter gioire dei pochi piaceri che si concedeva. Tra questi la guida delle auto d’epoca, ben sette nel suo garage padovano. Gli impegni si fecero così pressanti che Niccolò, per non rubare neanche un minuto agli affari di Stato, inventò un nuovo modello esperienziale per dare un po’ di pace alla sua anima. Si mise a fantasticare, al mattino presto, ma per non più di cinquanta secondi, se stesso alla guida di una delle sue meravigliose auto. Chiudeva gli occhi, e fingendo di essere al volante, sibilava: “Wrooom, wrooom”. Ogni bambino ha provato a correre con la spider dei sogni, e lui si faceva bambino e se ne rallegrava. Adesso, declinati il forzismo e l’agorà, si prende cura del grano, che coltiva in gran quantità, e dell’olio, di cui resta l’utilizzatore finale.

 

Fedez e Chiara Ferragni

Marito e moglie

Lo spirito del tempo ha interrotto la poetica del cantante e un po’ silenziato le scelte da influencer di Chiara. La coppia, poco sintonizzata sul grilloleghismo, ha scelto un periodo di sabbatico per riflettere bene su come dare senso al futuro che è lì che aspetta. Un tema sottaciuto ma ugualmente rilevante per Fedez e per noi che siamo suoi ammiratori è se proseguire con i tatuaggi oppure farla finita, così come è stato per X Factor.

 

Lele Mora e Emilio Fede

In attesa di redenzione

Il primo, meticoloso organizzatore di feste, il secondo, irraggiungibile pokerista e giornalista, sono sulla via della grazia. Fede ha intenzione di parlarne con Mattarella per via di una condanna al carcere che nell’ultimo tratto della vita appare sommamente ingiusta. C’è da dire che insieme hanno formato la coppia perfetta: speso e arraffato, goduto e sprecato. Anche un po’ bugiardi. Non resta che la grazia. Amen.

Gli anni ruggenti, poi quella sera al Jackie o’…

La prima volta che ho visto De Michelis è stata negli anni Settanta. I personaggi di spicco della Prima Repubblica ne combinavano un po’ di tutti i colori, ma erano molto attenti a non mostrare quello che facevano, ci tenevano a che le loro azioni restassero nascoste. De Michelis e Renato Altissimo, invece, andavano apertamente nei night club

e non si vergognavano di comportarsi come giovani normali. Li chiamavamo “avanzi di balera” e fu allora che iniziai a fotografarlo. Inizialmente non mi sembrò un donnaiolo, poi cominciò a frequentare i locali e divenne un playboy: tutte le ragazze gli stavano addosso, ballavano… ebbe una trasformazione.

La gente gli voleva bene, perché fondamentalmente era un buono. Alle feste era immancabile, sempre al centro del gossip. Il suo punto forte non era certo il fisico: non era un uomo bellissimo o in forma, ma era carismatico, simpaticissimo, si divertiva e stava ovunque.

Era famosa la festa che teneva per carnevale nella sua casa sul Canal Grande a Venezia. Quando uscirono gli scatti su quel che avveniva lì dentro, sullo stile di vita del ministro socialista , ci fu un grande scandalo e da allora De Michelis impedì ai fotografi di entrare. Poi arrivò il terremoto di “Mani pulite” e cambiò tutto. Ho un ricordo emblematico di De Michelis e del tramonto di quell’era: durante una cena al Jackie O’, qualcuno gli prese la sedia e lui andò per terra con tutto il cibo che gli cadeva addosso. Pensai: “Adesso sì che è finita davvero la Prima Repubblica”.

Poi si ritirò dalla politica, più o meno, ma lo si vedeva ancora in giro. L’ultima volta l’ho incontrato tre anni fa, alla presentazione di un libro di suo fratello Cesare. Aveva già da tempo problemi di salute e, salendo le scale, cadde a faccia in avanti. Non ebbi il coraggio di fotografarlo.

Addio a De Michelis, portò a ballare la sinistra socialista

“Tu di politica non capisci un cazzo”. Gianni De Michelis – che per un po’ ne fu il vice “generoso, intelligente e pasticcione” – non era d’accordo con l’icastico giudizio che gli riservava a volte Bettino Craxi: “Se Craxi era Garibaldi, io ero il suo Cavour”, sostenne poi non peccando, come mai gli capitò in vita, di modestia. Nato a Venezia a fine 1940, figlio di due impiegati della Montedison, entrambi valdesi, De Michelis se n’è andato ieri nell’ospedale della sua città dopo un lungo calvario e ad appena nove mesi dalla morte di suo fratello Cesare, intellettuale che, tra le altre cose, ha segnato mezzo secolo di vita della Marsilio.

Ministro per oltre un decennio, deputato dal 1976 al 1994, eurodeputato dal 2004 al 2009, il non craxiano De Michelis assurse a immagine plastica del craxismo e non per un equivoco, ma perché nella sua stessa persona riassunse – lui figlio della sinistra “lombardiana” del partito – quella “mutazione genetica” del Psi denunciata proprio da Riccardo Lombardi: l’appetito rabelaisiano, il dongiovannismo, le grandi feste sul Canal Grande, le notti in discoteca – celebre il suo Dove andiamo a ballare stasera? Guida a 250 discoteche italiane – e la corte riunita nell’appartamento al Plaza da sei milioni al mese che era la sua casa romana ne fecero una sorta di uomo-immagine di quegli anni “da bere”.

Tutto questo, unito ai capelli lunghi fin sulle spalle e non sempre impeccabili, gli valse soprannomi memorabili: “l’illustre forforato” e “avanzo di balera”, per dire, sono di Enzo Biagi. Lui, finché è rimasto potente, se ne curava il giusto: “Io mi differenziavo dagli altri – ha spiegato nel 2003 – Andavo a ballare. Giravo con belle donne. Perché no? Ero single e avevo un comportamento trasparente. È più disdicevole l’ipocrisia”. E poi: “Ho fatto il ministro 12 anni. Ho ricevuto un migliaio di lettere anonime: l’80% erano sui miei capelli”.

C’è stato molto di più dei capelli e delle discoteche, però, in Gianni De Michelis ed è questo che lo ha reso davvero un simbolo: laureato in chimica industriale, s’iscrisse al Psi a 19 anni, entrò in direzione a 29 e poi occupò quel ruolo centrale che era il “responsabile organizzazione”. La svolta – ancora simbolicamente – nel 1980: mentre Ronald Reagan vinceva le elezioni Usa, il vecchio Lombardi – dopo averlo appoggiato alla segreteria quattro anni prima – tentava di disarcionare Craxi (“guida il partito coi criteri del Fuhrerprinzip, fa tutto di testa sua senza consultare i dirigenti”). Il colpo non riuscì: i giovani leader “lombardiani” – De Michelis e Claudio Signorile – abbandonarono infatti il vecchio capo scegliendo Bettino.

Nel 1982 – con la conferenza programmatica di Rimini (quella “dei meriti e dei bisogni”) – la trasformazione anche ideologica era conclusa: la liberazione dei corpi segue e completa quella politica con cui i nuovi capi socialisti spostano il partito al centro abbracciando una sorta di “terza via” ante litteram. Dal punto di vista dei voti andò benino (dal 10 al 14%); da quello della conquista del potere, dei suoi orpelli, della sua spregiudicatezza e arroganza fu un trionfo durato un decennio e finito, come si sa, nelle aule dei Tribunali: lo stesso De Michelis, ai tempi di “Mani pulite”, fu coinvolto in decine di procedimenti e condannato in un paio di casi (le tangenti in Veneto, dove ammise di aver ricevuto qualche miliardo, e lo scandalo Enimont) per una corruzione che, scrisse il Tribunale, “alimentava il suo principesco stile di vita sia pubblica sia privata”. Disse lui: “Certi comportamenti la gente li accettava perché voleva evitare i cosacchi a San Pietro. Ma quando fu chiaro che i cosacchi non c’erano più, avremmo dovuto adeguarci”. Non ce ne fu il tempo, ma a differenza di certi habitué dell’hotel Rafael non tradì mai Bettino.

Prima di cadere comunque, il 7 gennaio 1992, da ministro degli Esteri firmò per l’Italia il Trattato di Maastricht che creò l’Ue: Craxi se ne pentì presto (“nella migliore delle ipotesi sarà un limbo, nella peggiore un inferno”), mentre De Michelis attribuiva gli esiti non brillantissimi “alle scelte di Prodi con il Patto di stabilità e crescita del 1997” e alle “nuove condizioni imposte per l’ingresso nell’euro”.

Gli anni della Seconda Repubblica lo videro impegnato nella malinconica diaspora socialista, ma non aveva perso il senso di sé: “Gli uomini si dividono in due categorie: i laser e i dispersivi. Alla prima apparteneva Craxi: sceglieva un obiettivo e si concentrava su quello senza curare i dettagli. In politica è un sistema efficacissimo. Alla seconda appartengo io: sono un curioso, vado in tutte le direzioni e mi disperdo. Ma nel momento della disgrazia è più facile reggere essendo fatti come me. Infatti Bettino si è spezzato. Io no”.