Il cretino prevalente

Salve, sono il Pirla di Sinistra. Non vi dico il mio nome. Ma, appena mi presento, mi riconoscete. Sono entrato in politica nel 1994. Cercavo un posto al sole nella Gioiosa Macchina da Guerra: tutti dicevano che avrebbe vinto di sicuro. Invece vinse B., ma fui felice lo stesso: il Cavaliere Nero, l’autocrate miliardario che sdoganava i fascisti era il nemico ideale per resuscitare la sinistra scampata a Tangentopoli perché Greganti aveva tenuto la bocca chiusa. Bastava ripetere ogni due per tre che era fascista e le masse sarebbero tornate da noi. Purtroppo le cose non andarono proprio così: B. cadde per mano di Bossi, altro fascista. Col quale D’Alema, auspice Scalfaro, si accordò per sostenere il governo Dini. Disse addirittura che la Lega era “una costola della sinistra”, solo perché milioni di poveracci che votavano per noi si erano buttati sul Carroccio per disperazione. Io ovviamente non ero d’accordo, perché noi di sinistra non dobbiamo perdere la purezza governando con altri: o soli contro tutti, o niente. Meglio il peggior nemico che il migliore amico. Nel 1996 arrivò Prodi, l’usurpatore, che non veniva dal Pci, ma dalla Dc. E ci spiegò che per governare dovevamo aprirci ad altre forze: le chiamava Ulivo, sai le risate. Però la gente ci cascò e lui vinse.

Fortuna che D’Alema si mise con B. nella Bicamerale per far la guerra al Prof e ai giudici, che rompevano i coglioni anche ai nostri. Nel ‘98 godetti come un riccio quando il compagno Bertinotti, un vero puro di sinistra, rovesciò l’intruso col pretesto delle 35 ore di lavoro e servì il governo al Lider Massimo su un piatto d’argento. Certo, questi dovette imbarcare Cossiga e Mastella, bombardare la Jugoslavia per ordine degli Usa, comprarsi la finta opposizione forzista con leggi anti-pm e pro-Mediaset, ma almeno ci liberammo di Prodi. Purtroppo gli elettori non capirono la genialità dell’operazione: D’Alema cadde e, dopo la parentesi Amato, tornò B. Meglio così: preferisco mille volte lui alla falsa sinistra. Tanto peggio, tanto meglio. Cinque anni radiosi: B. rovinava l’Italia e noi dall’opposizione a strillare al regime senza responsabilità. Bastava aspettare e avremmo stravinto. Non andò proprio così: nel 2006 tornò Prodi e pareggiò, qualche voto in più grazie agli italiani all’estero. Per fortuna durò meno di due anni. Poi Veltroni lanciò il Pd a “vocazione maggioritaria”, disse che degli alleati faceva volentieri a meno, figurarsi di Prodi. Infatti gli alleati ci mollarono (Turigliatto&C, Mastella&C). Ma sì, molto meglio resuscitare B. e aspettare che spaventasse i nostri elettori per farli tornare all’ovile.

Lui ce la mise tutta: i soliti malaffari e pure i sexy- scandali. Ma nel 2011, quando finalmente cadde, noi – ammazza che volpi! – decidemmo di non andare al voto: un bel governo del compagno Monti sostenuto da Pd e FI, non proprio di sinistra-sinistra, però piaceva tanto al compagno Napolitano. Nel 2013 i nostri elettori si sbagliarono di nuovo: anziché apprezzare le grandi riforme contro i pensionati e i lavoratori, preferirono i 5Stelle. E finimmo pari con loro. Quel tontolone di Bersani tentò di agganciarli, ma per fortuna non abboccarono. Poi Grillo tentò di agganciare noi, per votare il nostro ex presidente Rodotà al Quirinale e poi governare insieme, ma per fortuna non ci cascammo. Molto meglio rieleggere Napolitano a 88 anni per altri sette e rifare il governo con B. Pussa via, populisti. Purtroppo Silvio fu condannato e mollò Letta (Enrico), ma Alfano&C. restarono incollati alle poltrone. Intanto il compagno Renzi, che salì a Palazzo Chigi sempre con gli alfanidi e pure con i verdinidi. Certo, non era proprio di sinistra, infatti completò l’opera lasciata a metà da B. e attaccò pure la Costituzione. Ma in fondo questo è un Paese di destra: la sinistra può governarlo solo se fa la destra. Purtroppo la gente non ci capì neppure nel 2018: chi era di destra, anziché noi, votò Salvini; chi era di sinistra, anziché noi, votò M5S. Di Maio ci offrì un contratto di governo, ma noi furbi lo gettammo tra le braccia della Lega: meglio starcene sull’Aventino con i pop corn a goderci lo sfascio populista-sovranista. Mica scemi: va bene governare con B., Alfano&Verdini, ma con quel figuro di Di Maio proprio no. Così gli elettori imparano.

Ma questi perseverano: ci preferiscono ancora i gialloverdi. Eppure gridiamo al fascismo un giorno sì e l’altro pure, i nostri librai minacciano di non vendere il libro di Salvini, abbiamo cacciato il suo editore dal Salone, mandiamo i nostri agit prop in tv a ripetere che questo è il peggior governo della storia repubblicana, va tutto male, l’Apocalisse è vicina. Che dobbiamo fare di più? Se Salvini diserta il 25 Aprile lo fischiamo, se la Raggi va al 25 Aprile la fischiamo. Se Salvini dimentica la lotta alla mafia lo fischiamo, se i grillini vanno al corteo per Peppino Impastato li cacciamo. Se arriva Greta siamo tutti ultrà ambientalisti, poi tutti a manifestare pro-Tav coi leghisti, i forzisti e Confindustria. Se passano il reddito di cittadinanza, le leggi anti-precari e anti-corruzione, votiamo contro perché non le abbiamo fatte noi. Ora siamo un po’ preoccupati, perché la Lega cala nei sondaggi e i 5Stelle recuperano: la gente, invece di apprezzare la strategia dei pop corn, scambia i grillini per l’opposizione. Altro che dialogare con loro: più Salvini si sgonfia, più lo rigonfiamo, dandogli del nuovo Mussolini anche se non ci crede nessuno, ripetendo che comanda lui anche se non è vero, attaccandolo sulla guerra ai clandestini anche se li moltiplica, difendendo questa Ue che sta sulle palle a tutti. Sennò è capace di non votarci il Tav e di non spaventarci più gli elettori. Se la gente non ha più paura, perché dovrebbe votare per noi?

“Buenos Aires, caso simile a Torino. Niente passi indietro con i fascisti”

Claudia Piñeiro è una delle scrittrici argentine che più vende nel suo Paese e anche all’estero. Intellettuale impegnata sui temi della legalizzazione dell’aborto e della violenza machista in Sudamerica, arriva al Salone di Torino in piena disputa sulla partecipazione dell’editore fascista Altaforte. “Sono stata informata di cosa è successo. Credo che ci sia un filo sottile tra censura e alcune questioni che vanno al di là della libertà d’espressione. La Costituzione italiana vieta chiaramente le manifestazioni fasciste e questa casa editrice pubblica libri che vanno contro questo principio. Quindi mi sembra giusto che una fiera del libro non possa ospitarla”, dichiara diretta. “Alla Fiera di Buenos Aires in questo momento sta succedendo una cosa simile, un uomo condannato per genocidio nel 2014, Jorge Di Pasquale, vuole presentare il suo libro sul tema facendo apologia del crimine. Stiamo raccogliendo le firme perché non partecipi, con il famoso nunca mas coniato dopo la dittatura”.

A proposito di ideologie, nel suo libro racconta della mancanza di contenuti della “nuova politica”.

Racconto come si diventa un politico di questi tempi e certo, qualche anno fa in Argentina come in Italia il discorso politico aveva un altro peso, delle ideologie, una filosofia. Ora è tutto marketing: ciò che i cittadini vogliono sentire.

Pensa che i consulenti dei politici sarebbero bravi scrittori?

Non di romanzi. Forse di pubblicità. Sanno scrivere solo slogan. Vendono un politico come venderebbero uno yogurt o un’auto.


Le maledizioni
racconta la storia di Roman, un giovane che diventa governatore suo malgrado. Per poi scoprire di essere solo un burattino in mano a un professionista dell’antipolitica. Cos’è per lei l’antipolitica?

L’antipolitica è quella che pensa di guidare un Paese come un’impresa. Che non guarda al futuro, ma solo al denaro: a fare in modo che si produca guadagno. Così in educazione, come in cultura o in Sanità, se ci sono debiti si taglia, senza pensare al futuro. Si ragiona sul qui e ora.

A quali maledizioni si riferisce il libro?

Ce n’è una reale, quella storica argentina secondo cui nessun governatore di Buenos Aires diventerà mai presidente, e si avvera anche per il protagonista. Inizio da questa e poi passo alle maledizioni personali che ognuno di noi si tira dietro, che ci portano a ripetere sempre gli stessi errori.

In Argentina è impegnata nella lotta per l’aborto. Ciò che subiscono lì le donne che vogliono interrompere la gravidanza è incredibile. Anche nel suo thriller la vittima è una donna. Che succede?

Il problema è grave. Molte donne muoiono tentando aborti in casa, ma allo stesso tempo ogni 24 ore nel nostro Paese muore una donna per violenza machista. Per questo il movimento femminsta Ni una menos conosciuto ormai in tutto il mondo è più forte ancora del #MeeTo in Europa o negli Usa. Credo che sia questa la nuova politica. Movimenti di idee che uniscono intorno a temi di diritti civili anche chi ideologicamente la pensa in modo diverso.

Lei è per l’impegno degli intellettuali?

È una decisione personale, non credo neanche che gli intellettuali dovrebbero dire la loro su tutto. Se non avessi preso parte alla lotta per la legalizzazione dell’aborto mi sarei sentita a disagio, perché io ho la possibilità di farlo mentre altre persone no. Anche per il Salone di Torino, rispetto chi si era ritirato per la presenza dei fascisti, ma se ce ne andassimo da tutti i luoghi in cui c’è l’estrema destra, lasceremmo tutto nelle loro mani. Abbiamo una grande responsabilità, anche se l’impegno costa in termini di insulti, minacce e anche per la perdita di lettori, a volte.

Alinari, il “ritratto” dell’Italia ora rischia di finire disperso

Clic. Ritratto dell’Italia in 5 milioni di scatti. “La più antica azienda del mondo nel campo della fotografia”, recita lo slogan, ma la Alinari è molto di più. È la storia di un Paese attraverso le immagini. Per capirci: “Il Victoria and Albert Museum di Londra, che si fregia di essere il più grande del mondo in questo campo, ha 800 mila foto”, raccontano alla Alinari. Ecco, questo tesoro oggi è a rischio: la storica sede di Firenze è stata venduta e sarà trasformata in appartamenti, oltre metà del personale entro pochi giorni rimarrà a spasso. Mentre al ministero dei Beni Artistici e Culturali raccontano: “Negli anni scorsi fette importanti della collezione sono state vendute. Durante un controllo alla frontiera è stata fermata una persona che portava all’estero pezzi pregiati. Per questo è stato messo un vincolo sulla raccolta”. Un episodio su cui è stata aperta un’inchiesta, in sede sono arrivati i carabinieri.

Eppure davanti all’obiettivo della Alinari è passata davvero tutta l’Italia. A cominciare da Giuseppe Garibaldi, poi Giuseppe Mazzini. Ogni istante della nostra storia è racchiuso nei primi dagherrotipi su lastra d’argento, poi le lastre su vetro, i negativi su carta. Fino alle pellicole e agli scatti digitali. Ci sono i primi passi del Paese unito con la breccia di Porta Pia del 1870. No, non ritratti, ma foto. Quelle che vedete sono proprio persone vive, quella è la Roma di centocinquant’anni fa. Pensate a ogni tappa del nostro cammino: tragedie, guerre, trionfi, ma anche politica, sport, viaggi, lavoro. La vita, insomma. Un Paese che cresce, soffre, diventa adulto. Il terremoto di Messina del 1908? “Qui trovate gli scatti unici della città il giorno prima del disastro e il giorno dopo”, racconta Paola de Polo. La sua famiglia negli anni ’80 ha acquistato la collezione.

È la magia della fotografia – catturare l’immagine e la vita delle persone – che fu intuita dai tre fratelli Alinari nel 1852. La dinastia rimase al timone della società fino al 1920; nel 1940 il controllo passa al senatore Giorgio Cini, poi ancora cambi di mano fino al 1982 quando subentra la famiglia De Polo. E negli anni agli originali 300 mila negativi su lastra di vetro si aggiungono altre collezioni acquistate dalla Alinari, fino ai 5 milioni di immagini di oggi. Non solo: “Abbiamo una biblioteca tematica di 26 mila volumi e una collezione di macchine fotografiche con centinaia di pezzi”.

Dal 2010, raccontano ancora al ministero, “la Alinari ha cominciato a perdere pezzi per cercare di tenere in piedi i conti; sono state cedute opere preziose, il patrimonio rischiava di restare mutilato”. Poi pezzi fermati al confine e, raccontano le chat dei dipendenti, materiale (stampe e vecchi fondali) che qualcuno avrebbe buttato via nell’urgenza del trasloco. Perché la storica sede di largo Alinari è stata venduta e sarà abbandonata entro giugno: “Il più grande trasloco di fotografia al mondo”, lo ha definito Il Giornale dell’arte. Con tante preoccupazioni per il destino delle opere. “Ma l’attività continua”, assicura De Polo, “e le opere, con le cautele del caso, sono state trasferite in un caveau che garantisce la perfetta conservazione di ogni pezzo”. Ma non sono solo le foto. Ci sono le persone. I dipendenti hanno inviato una lettera alle autorità: “Per il 60% di noi c’è la certezza di una cessazione dei rapporti di lavoro”, scrivono. Da 15 si passerà a 6-7, ma gli altri potrebbero restare a casa a fine anno. “Si tratta di persone con competenze uniche che si sono fatte carico di ritardi di mesi nel pagamento degli stipendi”, assicura Beppe Luongo della Slc Cgil.

Ma poi cosa accadrà alla Alinari? “La Regione Toscana – spiega l’assessore alla Cultura Monica Barni – ha manifestato interesse all’acquisto del patrimonio, ma bisogna verificare cosa c’è oggi nella collezione. Poi il materiale andrebbe riallestito trovando gli spazi. Infine dovrebbe arrivare una gara per la gestione”. È in gioco il destino dei lavoratori e di una collezione preziosissima. Ma anche di un bene che non si può valutare in denaro: la memoria di un Paese.

C’è gran folla, ma restiamo un Paese di ignoranti

Chi è fascista?, sta chiedendo l’editore Laterza – citando Emilio Gentile – ai visitatori del Salone. “Un ignorante”: è la risposta più gettonata, nel Paese in cui solo 4 persone su 10 leggono almeno un libro all’anno (Istat). Un Paese autoironico. E proprio ieri, sempre al Lingotto, l’Associazione italiana editori (Aie) ha presentato gli ultimi “dati e prospettive del libro in Italia”. Diamo i numeri. +0,6 PER CENTO. Tanto (o poco) è cresciuto il fatturato del mercato del libro nei canali trade (librerie, online, grande distribuzione, Amazon) nei primi quattro mesi del 2019: un timido miglioramento dopo la chiusura in rosso (- 0,4 per cento) del 2018. In questo primo quadrimestre si sono fatturati 393 milioni di euro rispetto ai 390 dello stesso periodo dell’anno scorso. Tuttavia, le copie vendute scendono: – 2,2 per cento, ovvero 22 milioni di libri, quasi 500 mila in meno del 2018. “Continuiamo a camminare su una lastra sottile di ghiaccio”: non è una citazione di Wittgenstein, ma l’amara dichiarazione del presidente Aie Ricardo Franco Levi. C’è crisi, si capisce: “Ha, per caso, omaggi per bambini?”, chiede una signora sovraccarica di borse e borsette. Segue il marito, sovraccarico di borse e borsette.

UNO SU QUATTRO CE LA FA. I libri si continuano a vendere perlopiù (2/3) nelle librerie di catena (43,5 per cento); quelle a conduzione familiare (molte delle quali collegate in franchising alle principali catene) arrivano al 24 per cento e gli store online al 26: ciò significa che più di un libro su 4 si vende con l’eCommerce, e meno di un libro su 4 nelle librerie indipendenti. Tipo quella che espone “la saga fantasy più epica (sic) del decennio”. Per non esagerare con le previsioni.

LETTORI CHI? Nelle sue stime l’Aie, a differenza dell’Istat, include anche manuali e libri di genere, dai graphic novel ai ricettari, e non è neppure necessario averli letti fino in fondo: perciò la “penetrazione della lettura” raggiunge il 60 per cento della popolazione tra i 14 e i 75 anni. Tra i titoli più ricercati al Lingotto c’è #Nonostante di Marta Losito (Mondadori), una influencer quindicenne che ha raccolto i suoi pensieri e poesie: “Non in rima ché non mi piacciono”. Versi a parte, restiamo agli ultimi posti nella classifica europea, davanti solo a Slovenia, Cipro, Grecia e Bulgaria. Per questo il Salone offre attività collaterali, quali footing tra un padiglione e l’altro (più un pellegrinaggio per raggiungere l’Oval, la dependance di lusso, dove stanno tutti o quasi i big); food and beverage (not for free); entertainment come il biliardino. Ci si può giocare, ma è vietato chiamarlo calcio “balilla”.

MENO RECENSIONI per tutti. Accanto ai giovanissimi volti della rete, nuove influencer sono le serie tv, un volano in grado di raddoppiare e persino centuplicare l’effetto vendita dei titoli, da Il commissario Montalbano (un Camilleri sottobraccio qui non si nega a nessuno) a L’amica geniale, da Gomorra a Il nome della rosa, da Suburra a Tredici. Cresce anche il potere di blog e comunità online: il 9 per cento dei lettori si fida dei loro consigli (era il 6 per cento nel 2018), così come si lascia guidare dalla disposizione dei volumi in libreria (-4 per cento). Crollano, invece, la credibilità e l’autorevolezza dei media tradizionali: le recensioni pesano solo per il 5 per cento nell’orientamento e acquisto di titoli. Stessa percentuale che sposta la presenza degli autori in televisione. È finito l’effetto Fabio Fazio, non il passaparola. “Hai preso il sole?”, chiede una ragazza all’amica a fine giornata. “No, ho intervistato Erri De Luca”.

ZITTI, SI ASCOLTA. Gli audiolibri sono in crescita, pur non esponenziale come negli Stati Uniti: in Italia rappresentano il 10-11 per cento del mercato digitale per un valore di 7-8 milioni di euro.

Anche i podcast sono sempre più apprezzati: in America si stimano introiti di 650 milioni di dollari entro il 2020.

Da noi è ancora presto per azzardare previsioni, ma è sufficiente ricordare che Morgana – la serie a puntate di Michela Murgia per storielibere.fm – è stata scaricata da oltre 350.000 persone.

PIÙ CHIACCHIERE, più ingressi. Le polemiche su Altaforte, CasaPound, fascisti e dintorni ha rinfocolato gli animi e pure i portafogli: le vendite dei biglietti online di questa 32esima edizione sono aumentate del 24 per cento.

Già al secondo giorno in alcuni corridoi si faticava a camminare. Domanda più frequente: “Dov’è il bagno?”.

Violenza e spettacolo, il califfo col Rolex che domina i media

Dicono fosse un bambino educato e introverso Al Baghdadi, il macellaio in capo del vero Dio, ricomparso in video dopo 5 anni di vuoto riempito con i 500 mila cadaveri della guerra siriana. E dopo che anche le ceneri del suo clamoroso Califfato, esteso tra Siria e Iraq, sono state disperse dal vento. Così come le notizie della sua morte data per certa dai servizi segreti russi un anno fa, probabile dagli americani, auspicabile da tutto il resto del mondo appena imbrattato dal nuovo sangue versato in Sri Lanka. Dicono che da bambino girasse “tutto il giorno da solo in bicicletta” nella polvere di Samarra sua città natale, riva est del Tigri, pochi chilometri da Baghdad, dove il minareto costruito nel IX secolo sale a spirale verso il cielo, come una premonizione del nulla che fronteggia. E dove, lasciata la polvere dei giochi, Al Baghdadi si è fatto dottore in Teologia per trasformare le parole del libro in lame di coltello e tutte le antiche e sussidiarie compassioni in questa moderna crudeltà che loro chiamano guerra santa e noi terrorismo globale. Una metastasi che ci assedia da quando l’Occidente si è messo in testa di esportare la democrazia con le bombe, in cambio del petrolio.

Il califfo – nel video diffuso lo scorso 29 aprile – compare nel colore che gli si addice, l’ombra. È seduto per terra, le gambe incrociate, il corpo appesantito, la barba incolta per metà ridipinta in rosso alla maniera dei salafiti, il Kalashnikov appoggiato alla sua destra, omaggio al suo primo ispiratore, Osama bin Laden. E a tutti gli altri tagliagole liquidati in questi anni dallo stesso odio che ancora lo tiene vivo. Elogia gli attentatori dello Sri Lanka. Dice: “La battaglia contro la croce e i crociati sarà ancora lunga”. Parla come un generale del Dodicesimo secolo, ma agisce come un impresario teatrale del Ventunesimo.

Era sparito dai radar dei suoi inseguitori nei lunghi anni del trionfo jihadista a salvaguardia della sua pelle, oltre che per strategia mediatica. Una sola volta, nel 2016 la sua voce era stata registrata per 45 secondi dalle parti di Mosul, parlava via radio ai suoi ufficiali, e una catena di triangolazioni satellitari aveva provato a stanarlo, salvato all’ultimo da quegli ingranaggi della sua sicurezza che lo hanno tenuto al riparo dai droni fino a oggi. Quell’errore non lo ha più commesso.

La sua catena di comando – secondo i Servizi iracheni – è assicurata solo da messaggeri. Niente telefoni. Gli spostamenti rigorosamente coperti dentro a quei taxi collettivi o carovane, dove si muove la moltitudine delle sue vittime, i 5 milioni di profughi in cerca di acqua e vita. Tutti fuggendo da quell’inferno che le religioni monoteiste prima o poi allestiscono in questa vita, promettendo il paradiso in quell’altra.

Abu Bakr al Baghdadi nasce nel 1971 da famiglia sunnita. Studia, gioca a calcio, si sposa. Nel febbraio 2003, a 32 anni, finisce in una retata degli americani che a ondate perlustrano i quartieri di Baghdad. Ma quando entra a Camp Bucca, lo registrano come “detenuto comune”. È dietro a quel filo spinato che per una dozzina di mesi entra in contatto con tutte le formazioni combattenti, al Nusra, al Qaeda, la Fratellanza musulmana, che scandiscono le giornate di detenzione con preghiere e proselitismo. Si scopre buon mediatore tra le fazioni e un eccellente discepolo degli ex ufficiali di Saddam che insegnano a fare la guerra.

Torna libero un anno dopo. E va a fare quello che ha appena imparato unendosi alle sacche di resistenza che tra Iraq e Siria combattono gli infedeli. Diventa un comandante agli ordini di Al-Zarqawi, giordano, esperto di autobombe e decapitazioni, per un paio di anni re del terrore che firma attentati a Casablanca, Istanbul, Amman, ucciso in un bombardamento degli Usa nel 2006.

Lo sostituisce Al Masri, iracheno, anche lui stratega della “guerra di logoramento” contro gli invasori. Sotto il suo comando, Al Baghdadi fa carriera, entra nel consiglio militare, diventa responsabile degli affari religiosi. È il 2010. L’anno in cui anche Al Masri viene ucciso in uno scontro a fuoco a Tikrit e questa volta tocca a lui il comando. Provando a immaginare qualcosa di più grande dei suoi predecessori.

L’idea di uno Stato islamico era nata nel 2003, subito dopo l’invasione americana in Afghanistan, ma troppe divisioni nello scacchiere degli islamisti e troppe pressioni in contrasto tra loro, lungo i confini di Iraq, Siria, Libano, Iran, l’avevano sempre soffocata. Con Al Baghdadi, l’idea diventa progetto. La rivolta cova nella Siria di Assad, nel Kurdistan iracheno, nell’Afghanistan umiliato, basta soffiare.

Dentro l’eterno gioco di specchi mediorientale non solo i russi e gli americani si confrontano per il dominio dell’area, ma anche la Turchia imperiale di Erdogan, l’Iran sciita di Ahmadinejad, l’apparato militare di Israele, gli incursori inglesi e francesi, i martiri palestinesi. Dalla dissoluzione della Libia di Gheddafi e con l’appoggio delle monarchie del Golfo, affluiscono armi pesanti, denari e la nuova parola d’ordine della riconquista islamica, che sembra avverarsi.

Al Baghdadi sa come accendere tutti i riflettori e moltiplicare la febbre di vendetta. Compare al mondo nella moschea al Nuri di Mosul, proclamandosi Califfo del nuovo Stato: “Affrettatevi o musulmani a venire con noi”. Per il nostro mondo è il 5 luglio 2014. Per il suo è l’anno 1435, inizio del Ramadan. Ha la barba, il turbante, un incongruo Rolex che spunta dalla djellaba nera. Nero diventa il colore del nuovo Stato, “il sogno che vive”, moltiplicato dalla nuova arma, le cento telecamere che in quegli anni cruciali trasformano le esecuzioni di massa in propaganda digitale. Narrando in lunghi piani sequenza le vittorie militari scandite da file interminabili di pick up Toyota armati di mitragliatrici e di bandiere, mentre entrano nelle città conquistate, Abril, Mosul, Homs, con impetuosa colonna sonora di musica e Kalashnikov. Espugnano 27 città, 60 mila chilometri quadrati di territorio, fino ai confini di Giordania e Turchia.

Dove entrano fucilano, impiccano, riducono le donne in schiave e i prigionieri in carne per le fosse comuni. Quelli che servono alla propaganda vengono vestiti con tute arancioni inginocchiati ai loro piedi, decapitati come montoni, oppure bruciati vivi dentro le gabbie. I video fanno il giro del mondo, moltiplicando orrore e proseliti, le decine di migliaia di foreign fighters che affluiscono dalle periferie delle nostre città. Attaccate anche loro con qualunque arma – a Nizza, Parigi, Bruxelles, Berlino, Londra, Barcellona – da piccolissime cellule di convertiti, ma ad alta risonanza mediatica.

L’Isis è una fiammata che dura una manciata di anni. Arruola 100 mila iracheni, altrettanti siriani, 40 mila stranieri. Odia tutti i simboli dell’occidente, tranne i dollari. Incamera centinaia di milioni dalle banche delle città conquistate, dal petrolio venduto di contrabbando, dai rapimenti, dal traffico di migranti e di opere d’arte.

Ma più velocemente di quanto è cresciuto, si sfalda sotto i bombardamenti americani e i reparti speciali che li combattono. Toccherà ai peshmerga curdi – che hanno fermato i jihadisti a Kobane – spazzare via l’ultima roccaforte dello Stato Islamico a Baghuz, sull’Eufrate, come a chiudere il cerchio, dopo il bagno di sangue che ha reso vera l’allucinazione della guerra santa. Durante la quale Al Baghdadi ha recitato poesie della tradizione, ha sognato animali parlanti, come il Profeta, trasformando le parole in sangue e propaganda. Secondo gli analisti i vestiti pesanti che indossa nel video suggeriscono che si sia rifugiato tra le montagne del Sinjar abitate dai pastori Yazidi che le sue milizie hanno sterminato.

Questa volta compare con lo sguardo e la voce dello sconfitto, niente orologio al polso, sopravvissuto a un tempo che non conta più. Sebbene la sua vita valga per gli americani ancora 25 milioni di dollari di taglia, anche senza Rolex.

“L’opposizione a Erdogan ora si gioca tutto”

“Quell’uomo è un genio politico. Ma in questo momento è anche una tigre ferita, e quindi più pericoloso che mai”. Ece Temelkuran, una delle più note giornaliste turche anti-regime, “quell’uomo” lo conosce bene. Da cinque anni è esule in Croazia, trovandosi sulla lista nera di Recep Tayyip Erdogan. Fosse rimasta in Turchia probabilmente avrebbe rischiato la prigione come tanti suoi colleghi, specialmente dopo il fallito colpo di stato di tre anni fa. “Non si è mai capito davvero se è stato un golpe fake o qualcos’altro, ma non ha nessuna importanza: Erdogan ne ha tratto il massimo che poteva trarne”. Temelkuran al Salone del Libro di Torino presenta il suo ultimo saggio Come sfasciare un paese in sette mosse (Bollati Boringhieri), che partendo dall’esperienza turca, e allargando l’obiettivo all’Europa in crisi e agli Stati Uniti trumpiani, mette in fila tutti i passaggi che possono portare i populismi di destra a uno sbocco dittatoriale.

Signora Temelkuran, le elezioni amministrative a Istanbul che hanno visto la sconfitta di Erdogan, e che la Commissione elettorale turca ha ordinato di ripetere, mostrano un inasprimento della repressione o un segnale di debolezza del ‘Sultano’?

Entrambe le cose. Per questo il momento è delicatissimo. L’opposizione sta cavalcando la tigre, forse per la prima volta in diciassette anni, ma adesso non ha più scelta: deve andare fino in fondo e domarla, oppure rischiare di essere sbranata una volta per tutte. È adesso che il potere mostrerà il suo volto più brutale e autoritario. Un ministro ha appena pubblicato sui social una lista di intellettuali e artisti critici verso il regime accusandoli di tradimento. La novità è che oggi Erdogan è attaccato anche da chi non ti aspetteresti, gente che in questi anni è sempre stata zitta quando non connivente. Inoltre sta cominciando a perdere sostegno nella sua base elettorale. Non è più l’uomo del popolo con poteri quasi taumaturgici, è sempre più un Faraone solitario asserragliato nel suo palazzo.

La guerra in Siria ha rafforzato o indebolito la sua posizione, sia internamente che sullo scacchiere internazionale?

Il conflitto siriano, molto più della guerra in Iraq, è stato l’apertura di un vaso di Pandora, un test di moralità chiaramente fallito. Da tutti, non solo da Erdogan. La realtà è che quella guerra ha indebolito tutti i protagonisti in gioco, tranne uno: Putin. È l’unico ad avere un piano.

L’opposizione turca è frastagliata, va dall’esule negli Usa Fatullah Gülen ai curdi. Erdogan chi teme di più?

Gülen è un personaggio ambiguo, il suo movimento è più simile a una setta che a un partito. Per certi versi può ricordare un Opus Dei in versione islamica. Personalmente confido molto di più nel partito curdo dell’Hdp, il cui leader Selahattin Demirtas è stato imprigionato illegalmente. Lui è una figura che potrebbe unire trasversalmente chi si oppone a Erdogan, dai turchi laici ai curdi.

Nella resistenza al regime dell’Akp, le donne hanno sempre avuto un ruolo di primo piano.

Alcune delle più grandi manifestazioni anti-Erdogan nei primi anni del suo governo sono state promosse dalle donne. Nei circoli intellettuali venivano stigmatizzate come filo-forze armate, ma in realtà erano manifestazioni in difesa della laicità. Le donne sono tra i primi bersagli di qualunque populismo fascistoide. È naturale che siano anche le prime a reagire, essendo quelle che sentono in modo più doloroso sulla loro carne gli artigli del potere.

Il danno e la beffa: polveri nocive da Notre-Dame

Il dato è stato pubblicato dall’Agenzia della salute della regione di Parigi (Ars) giovedì sera: dei prelievi effettuati nei pressi della cattedrale di Notre-Dame dopo l’incendio del 15 aprile, che ha devastato i due terzi del tetto e distrutto la guglia, hanno registrato un livello di polveri di piombo nel suolo pari a 10-20 g/kg, di gran lunga superiori alla soglia accettata dalle autorità sanitarie di 0,3 g/kg. Per l’Ars però non c’è da preoccuparsi perché l’area dove sono cadute le polveri tossiche è chiusa al pubblico: “La presenza di piombo, in quantità superiori alla soglia regolamentare – precisa poi l’ente in un comunicato – ha un impatto sulla salute solo in caso di ingestioni ripetute”.

Sulla questione del piombo rilasciato dall’incendio, la parola d’ordine di Parigi è: niente panico. È invece uno “scandalo sanitario maggiore” che si vuole occultare, secondo Jacky Bonnemain, il mediatico portavoce dei Robin des Bois, un’associazione che dagli anni 80 si batte in Francia per la causa ecologista. Sembra quasi di tornare a 33 anni fa quando le autorità francesi avevano garantito che la nube radioattiva di Chernobyl si era “fermata alla frontiera”.

Mentre le autorità rassicurano, il quadro presentato dai militanti ecologisti è molto più scuro. La sera del 15 aprile a Parigi c’era vento. Migliaia di persone si sono raccolte sul lungosenna e molti hanno seguito l’incendio alla finestra. I pompieri sono stati visti in diretta tv senza protezioni speciali. Neanche i poliziotti portavano maschere. Passata l’urgenza sono tornati sui marciapiedi i tavolini di bar e ristoranti. Ma si sapeva che la guglia di Viollet-Le-Duc conteneva 240 tonnellate di piombo e che il tetto era composto da 210 tonnellate di fogli di piombo che bruciando si sono trasformati in polveri tossiche.

Altre polveri ancora depositate sulla cattedrale possono disperdersi, depositarsi altrove, essere respirate o ingerite con danni alla salute. I Robin Hood dell’ecologia hanno cominciato ad allertare le autorità sul rischio piombo subito dopo l’incendio. Il 23 aprile hanno inviato una lettera al governo (senza risposta) per chiedere di effettuare un controllo dell’ovest della capitale perché è lì che il vento avrebbe trasportato le polveri. Il 27 è arrivato il primo comunicato della Prefettura in cui si indicava che “nessun caso di intossicazione da piombo” era stato registrato e si raccomandava ai residenti del quartiere della cattedrale di “fare le pulizie in casa con un panno umido”. Ieri Bonnemain ha riunito la stampa internazionale per denunciare “l’irresponsabilità dello Stato” nella gestione della crisi sanitaria: “Le autorità avrebbero dovuto agire come se Notre-Dame fosse una fabbrica Seveso. Bisognava vietare il lungofiume ai pedoni – ha detto –. Le polveri hanno contaminato la Senna e si sono posate nei giardini. Bisognerebbe fare prelievi anche all’Eliseo”.

Viene criticata anche la “legge Notre-Dame”, esaminata proprio ieri in Assemblea, che permette di snellire le procedure per la ricostruzione della cattedrale, ma anche di intervenire per decreti aggirando i regolamenti. “Il governo vuole buttare giù tutte le barriere che mettono un freno all’inquinamento. Notre-Dame è un sito contaminato e constatiamo che il governo, non prendendo le misure necessarie, mette in pericolo la salute delle persone”. Secondo i Robin des Bois lo Stato dovrebbe ispirarsi a quanto è stato fatto dalle autorità sanitarie americane dopo l’attentato al World Trade Center di New York. Dovrebbe cioè effettuare un “censimento delle popolazioni esposte” e una “cartografia dei luoghi esposti” alle polveri tossiche e mettere in pratica un “protocollo di monitoraggio”. Per “2-3 anni” chi vive e lavora intorno alla cattedrale dovrebbe prendere precauzioni, ovvero “migliaia di persone”.

Commercio d’armi. L’Italia vende ancora le bombe dello Yemen

L’Italia continua a esportare verso l’Arabia Saudita quote consistenti di bombe Rwm fabbricate nello stabilimento di Domusnovas in Sardegna e utilizzate nella guerra in Yemen contro i civili. E questo nonostante il governo avesse assicurato che, sulla base della legge 185, che regola il commercio di armi, non sarebbero più state rilasciate autorizzazioni verso Ryad. Scorrendo la relazione annuale del governo al Parlamento sul commercio di armi, che il Fatto ha potuto leggere in anteprima, le autorizzazioni in effetti non ci sono più e l’Arabia Saudita, che nel 2016 era il sesto Paese per esportazione, non compare più. Ma nel 2018 verso l’Arabia Saudita sono comunque state effettuate 816 esportazioni del valore complessivo di 108.700.337,62 euro, di cui 42.139.824,00 per bombe aeree classe Mk80 prodotte dalla Rwm Italia (la cui autorizzazione all’esportazione per 411 milioni di euro, è bene ricordarlo, risale al 2016, governo Renzi). Il problema è che un conto sono le autorizzazioni concesse, che quest’anno ammontano a 5,246 miliardi di euro, un altro è quanto effettivamente transita tramite l’Agenzia delle Dogane: 2,225 miliardi di cui, appunto, 108 milioni riguardano l’Arabia Saudita. Gli effetti delle autorizzazioni, infatti, si realizzano su più anni e le bombe verso Ryad, che questo governo non ha autorizzato, potrebbero però viaggiare ancora per 7-8 anni.

Il problema delle esportazioni verso la monarchia saudita, in cui il dominus assoluto è Mohamed bin Salman, riconosciuto pubblicamente come il regista dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, potrebbe allora costituire un nuovo terreno di scontro nel governo tra Lega e M5S. La prima, con il suo sottosegretario agli Esteri, Guglielmo Picchi, ha la delega sulla 185: è infatti alla Farnesina, sotto il controllo del ministro, che è collocata l’Uama, l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento diretta dal ministro plenipotenziario, Francesco Azzarello. Il secondo, con un altro sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano e con il senatore Gianluca Ferrara, sta cercando di modificare la legge 185 per garantire una revoca delle autorizzazioni pregresse. Un assaggio del confronto si potrebbe avere la settimana prossima visto che nel M5S si sta studiando la possibilità di un’interrogazione parlamentare che avrà come destinatario proprio il sottosegretario Picchi. Oggetto: se e come modificare l’iter previsto dalla 185.

Il tema è delicato e le imprese degli armamenti sono in fibrillazione tanto da aver segnalato le proprie preoccupazioni allo stesso Azzarello. Fonti diplomatiche spiegano che in caso di modifica degli orientamenti del ministero ci saranno annunci pubblici da parte del governo e questo basta a far ritenere, chi lavora nell’industria della Difesa, che qualcosa in effetti potrebbe cambiare.

Come realizzare le modifiche non è però chiaro e sarà su questo punto che dovrebbe vertere l’interrogazione del M5S. Oggi il potere delle autorizzazioni è nelle mani del ministero degli Esteri che lo esercita tramite l’Uama, istituita dopo la soppressione del Comitato interministeriale per gli scambi di materiali di armamento per la difesa (Cisd). La legge, nonostante la soppressione del Cisd sia avvenuta nel 1993, prevede ancora che le revoche siano “disposte con decreto del ministero degli Affari esteri sentito il Cisd”. Che però non c’è più e che il pentastellato Ferrara vuole restituire in modo da “assegnare maggiori poteri di indirizzo e controllo al Parlamento e responsabilizzare nuovamente il governo sulla materia”.

Ma prima che si possa avviare la modifica legislativa le vecchie autorizzazioni continueranno a fare il loro corso. La Rete Disarmo, con Francesco Vignarca e Paolo Beretta, propone un iter più veloce, conferendo immediatamente il potere di revoca al ministro, come previsto dall’articolo 15 della legge, e ignorando il riferimento al Cisd oppure, dice Vignarca, “facendo valere il Cipe che fu indicato come sostituto del Cisd”. Nel M5S dubitano che questa strada sia legalmente percorribile e ricordano che il problema vero sono i contratti secretati cosicché non è chiaro a quali condizioni procedere con la revoca.

Resta il problema, come nota ancora la Rete Disarmo, dell’opacità complessiva della relazione sulla 185 che non aiuta a capire dove le singole commesse vengono realmente esportate. E che conferma lo scambio con Paesi compromessi.

Nel 2018, ad esempio, i primi quattro destinatari di armi italiane sono il Qatar, il Pakistan, la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti. Il Paese di Erdogan è il più democratico. E, a parte la commessa, molto vistosa, degli elicotteri NH-90 ottenuta da Leonardo in Qatar per 1,6 miliardi, è difficile ricostruire gli altri legami.

Le prime 25 società esportatrici pesano per il 97,18% sul valore esportato ma sono i primi quattro – Leonardo, Rwm, Mbda e Iveco Defence – a rappresentare l’83% del totale.

Mail box

 

Il Vinci-Salvini ci fa capire quanto siamo caduti in basso

Ho visto lo spot del concorso “Vincisalvini”, dove in cambio di like, l’attuale vicepremier e ministro degli Interni, si concede ai “fortunati vincitori” con una telefonata o un caffè. La desolante questione mi ha riportato alla memoria una vecchia barzelletta contro i comunisti risalente ai tempi del compianto Berlinguer, dove i premi delle tombola alle feste dell’Unità erano degli approcci con l’allora segretario. Quelle erano barzellette, ora sono tristi realtà.

Mauro Chiostri

 

Il ministro Salvini “lavora” solo in campagna elettorale

“Io lavoro”, è il ritornello del ministro del mitra e della legittima paura, per sfuggire alle domande più imbarazzanti e per non rispondere a quelle che lo mettono in difficoltà. A volte aggiunge: “Bacioni” da cui tanti beneficiari spesso si ritraggono. Lavora “fuori sede”, sede nomade, il colmo per un ministro anti-nomadi. Quando dichiarava di lavorare al Parlamento europeo (percependone regolare retribuzione) dicono, in tanti, di averlo visto poco. Stesse cose che si sentono affermare se si va al ministero dell’Interno. Lavora, coincidenza casuale, in Abruzzo per rassicurare sulla ricostruzione de L’Aquila, quando ci sono le elezioni regionali. Si occupa, coincidenza casuale, della questione della giusta retribuzione del latte ai pastori sardi in occasione delle elezioni regionali sarde. Si mobilita improvvisamente, coincidenza casuale, della lotta alla mafia, scendendo a Corleone il 25 aprile, in occasione delle elezioni regionali siciliane. Da Ministro dell’Interno ha trasgredito le norme del suo stesso Ministero violando il silenzio elettorale e c’è da sperare che tutti i partiti, d’ora in poi, lo imitino, perchè “cornuti e mazziati”, a nessuno piace. Quando trasgredisce le regole non lo fa da Ministro. Quando qualcuno gli si oppone, anche in manifestazioni elettorali, scatta il vilipendio a organo dello Stato. Situazione non più tollerabile. Come sarebbe bene chiarire, in questa confusione tra ruolo istituzionale e partitico se l’Assenteista europeo si muove in tutta Italia per suo ruolo istituzionale (dunque legittimamente a nostre spese) o per fare campagna elettorale di parte. Sarebbe opportuno distinguere per fare chiarezza su chi paga la lista delle spese. Ci sono funzionari della Pubblica Amministrazione che, per molto meno, debbono rispondere di peculato davanti ai giudici. La risposta “attesa” è: “Già che ero lì per fini istituzionali ho fatto anche un po’ di propaganda elettorale. Che male c’è?”. Il terreno misto è pieno di insidie e sarebbe bene vigilare, perché spesso può cominciare da lì il degrado di un Paese democratico che accetti che si confondano i ruoli tra Stato e partito e non chiede conto della commistione tra interessi privati e pubblico servizio.

Melquiades

 

DIRITTO DI REPLICA

In relazione all’articolo Bugie e affari in conflitto d’interessi, due donne ora imbarazzano l’Eni pubblicato mercoledì, precisiamo che: 1) Claudio Descalzi non è attualmente indagato in alcun procedimento legato alle attività di Eni in Congo. Né l’ad né la società hanno ricevuto nessun atto dalla Procura di Milano dal quale risulti che l’ad sia indagato nell’ambito del procedimento penale in oggetto. 2) In relazione ai rapporti con i fornitori del gruppo Eni in Congo richiamati nell’articolo e nell’inchiesta dell’Espresso cui l’articolo fa riferimento, Eni conferma che gli acquisti di beni e servizi effettivamente completati presso tali società (e le corrispondenti procedure di approvvigionamento) sono state oggetto di più ampie verifiche affidate congiuntamente dal Comitato Controllo e Rischi, Collegio Sindacale e Organismo di Vigilanza a consulenti terzi indipendenti. Le verifiche non hanno rilevato evidenze di commissione di reati da parte di manager/dipendenti di Eni a favore o a danno della società, né riscontrato condotte volte a favorire i fornitori richiamati nell’articolo.

3) Le ricerche effettuate dai consulenti sulla base dei documenti disponibili hanno confermato che l’8/04/14 Haly acquisiva le quote di Cardon, ma non hanno dato evidenza dell’identità del cedente.

4) Ricordiamo, dato che non è nell’articolo, che la Signora Madeleine Ingoba ha esplicitamente smentito il proprio presunto coinvolgimento come detentrice di quote di proprietà tramite la società Cardon Investments.

5) Infine, anche riguardo i rapporti tra Eni e società che, da notizie di stampa, sarebbero “vicine” a Montante, è stato svolto un intervento di audit interno dal quale non sono emerse evidenze di un presunto schema illecito nell’assegnazione di appalti a tali società.

Erika Mandraffino, senior vice president, global media relations & crisis communication, Eni

 

Sappiamo bene che, allo stato, l’ad Descalzi non è indagato nel procedimento per corruzione internazionale di Eni in Congo. L’articolo evidenzia l’insuperabile conflitto d’interessi che si manifesta negli affari che Eni conclude con società che risultano controllate
dalla signora Descalzi: secondo le rogatorie della Procura di Milano, ma non secondo i consulenti terzi indipendenti attivati da Comitato controllo e rischi, Collegio sindacale e Organismo di vigilanza.

Gia. Bar. e Gio. Mel.

Viareggio, morto campione paralimpico Probabile il suicidio

Si chiamava Lorenzo Major, 48 anni, campione paraclimbing originario di Ferrara e residente a Forlì, l’uomo che ieri mattina a Viareggio (Lucca) è stato trovato privo di vita sulla sedia a rotelle, accanto alla sua auto, in un parcheggio vicino all’ingresso dell’Agenzia delle Entrate. Anche se per ora sembra prevalere l’ipotesi del suicidio, sarà comunque l’autopsia a chiarire le dinamiche che hanno causato il decesso del 48enne. Al momento gli investigatori non escludono nessuna pista. Nel frattempo si stanno ricostruendo gli ultimi spostamenti dell’uomo, che ha lasciato la sua casa in Romagna per raggiungere la Versilia, per cercare di capire i motivi del gesto, qualora venisse confermata l’ipotesi del suicidio. Accanto alla sedia a rotelle è stata trovata una pistola di piccolo calibro, legalmente detenuta, e con la quale potrebbe essersi sparato alla testa. I poliziotti in queste ore stanno cercando di capire anche perché Major sia arrivato in Toscana per uccidersi. Al momento non sono stati rinvenuti messaggi o biglietti che spieghino il gesto. Escluso ogni collegamento tra l’uomo e l’Agenzia delle Entrate.