Il Consiglio di Stato al Viminale: “Rivalutare la scorta a Ingroia”

Nei confronti di Antonio Ingroia, “padre” del processo sulla Trattativa Stato-mafia, “non può escludersi il compimento di azioni criminose” e per questo il Consiglio di Stato ripristina la scorta (misura di tutela 4) che il Viminale aveva tolto un anno fa. Nel suo provvedimento il Consiglio di Stato invita il Viminale a un “riesame” della decisione, trasmettendo contestualmente l’ordinanza al Tar per una fissazione “sollecita” dell’udienza di merito. A decidere, per un curioso gioco del destino, un collegio presieduto dall’ex ministero degli Esteri dei governi Berlusconi, Franco Frattini. I giudici amministrativi hanno sospeso il provvedimento del ministero degli Interni accogliendo il ricorso dell’ex pm, dopo un primo rifiuto del Tar Lazio. A convincere i magistrati a concedere la sospensiva anche le relazioni delle prefetture di Milano e Roma che hanno segnalato l’attualità dei pericoli corsi da Ingroia, anche nella sua nuova veste di avvocato, a differenza della Prefettura di Palermo allineata alle valutazioni del Viminale.

“Con una battuta direi che la politica mi ha tolto la scorta, la giustizia me l’ha restituita – dice Ingroia –. Mi aveva lasciato l’amaro in bocca per una decisione che non aveva riconosciuto il mio lavoro di oltre 25 anni da pm al servizio dello Stato. Oggi lo considero un risarcimento dopo le mie inutili sollecitazioni ai ministri Minniti e Salvini”. Considerando ormai cessati i pericoli di una ritorsione mafiosa nei suoi confronti, il Viminale decise di togliere la scorta a Ingroia quindici giorni dopo la sentenza sulla Trattativa, a maggio 2018, e in quell’occasione il pm Nino Di Matteo contestò la decisione facendo notare che “la mafia e i potenti non dimenticano”. Alla fine del novembre scorso, infatti, l’ex pm subì uno strano furto nella sua abitazione romana sul quale indaga la procura di Roma.

Due ragazzine al compagno sullo scuolabus: “I negri siedono davanti”. Ma poi il paese si ribella

Malmenato da due ragazzine sullo scuolabus e costretto a sedere sui posti anteriori perché “i negri si siedono davanti, i bianchi dietro”. A raccontarlo, sulla pagina Facebook “Cara Italia”, dedicata all’integrazione degli immigrati, la mamma del bambino che vive in un paese del trevigiano. “Ieri mio figlio è stato bullizzato nel pulmino della scuola media. Oltre a essere stato malmenato da due ragazzine più grandi di lui, una di esse gli ha detto: ‘I negri si siedono davanti, i bianchi dietro’. Mio figlio ha detto che non si è difeso sennò rischiava di far loro del male, e perché aveva paura di passare dalla parte del torto”.

Ma in questo caso, racconta la stessa mamma, la storia ha avuto un epilogo positivo grazie a scuola e comune che hanno agito da anticorpi.

Arrivato a scuola “molto turbato”, il ragazzino subito “ha ricevuto il sostegno e l’attenzione da professori e compagni che insieme sono andati a denunciare il fatto alla direzione della scuola”. Nel pomeriggio, racconta ancora la madre, “sono stata contattata dall’assessore all’istruzione del comune perché una cosa così grave non era mai successa. Questa mattina nello scuolabus era presente il comandante dei vigili urbani che ha seguito tutto il giro spiegando a tutti i bambini e ragazzi che atti del genere non sono tollerati. Io ho ricevuto telefonate e contatti da tantissimi genitori, soprattutto italiani, pronti ad appoggiarmi per non lasciare in sordina questa storia perché convinti di non voler vivere in un paese dove si possano verificare episodi del genere”. Dunque la donna conclude il suo post con un messaggio positivo e di speranza: “Abbiate fiducia nel bene, nella comunità e nelle istituzioni locali fatte di persone per bene”.

Riders, in 20 con contratto a tempo indeterminato: è il primo caso in tutta Italia

Venti che nelle prossime settimane diventeranno duecento. È questo il numero dei fattorini fiorentini in bicicletta o scooter che saranno presto assunti a tempo indeterminato in base ad un accordo pilota firmato l’8 maggio tra i sindacati Filt-Cgil, Fit-Cisl e Uiltrasporti con l’azienda di food delivery Laconsegna Srl, attiva a Firenze e provincia da due mesi per consegnare pizze, panini e pasti dei ristoranti a domicilio. È il primo caso in Italia in cui i fattorini che consegnano cibo vengono assunti a tempo indeterminato con il contratto nazionale Merci, logistica e spedizioni. Nella nota con cui i sindacati illustrano i termini del contratto si legge che i lavoratori avranno ovviamente anche “il riconoscimento di tutti i diritti e tutele che il contratto nazionale attribuisce a tutti i lavoratori del settore (busta paga, ferie, malattie)”. Non solo: i sindacati spiegano che con questo accordo pilota, i rischi di impresa legati alle consegne e alla vendita del cibo non sarà a carico dei lavoratori ma dell’impresa stessa.

Nel frattempo è già stata attivata la Rsa aziendale e chi ha portato avanti la trattativa e firmato l’accordo spera di poter applicare le nuove regole anche a tutte le altre aziende del settore, sia a Firenze che nel resto della Toscana. “Dopo mesi di trattative – scrivono i sindacati nel comunicato – siamo riusciti a far emergere tanti ciclofattorini dal lavoro nero, sottopagato o con forme contrattuali sbagliate e improprie”. Martedì scorso Union Rider di Bologna aveva denunciato, rilanciato dalla Cgil, le condizioni di lavoro a cui sono sottoposti i fattorini di Glovo: pagamenti a cottimo senza alcuna garanzia. In una mail mandata nei giorni scorsi ai dipendenti, infatti, era stata annunciata l’eliminazione del minimo garantito (4,40 euro netti l’ora) in tutte le fasce orarie, tranne 10-11 e 00-01 con una riduzione a 3,20 l’ora. Per questo ieri dalle 18 alle 22, i ciclofattorini di Bologna hanno scioperato.

Preso il feritore di Noemi. Stava scappando. La bimba si è svegliata e risponde ai medici

Tra il far west di piazza Nazionale a Napoli e il fermo del presunto feritore di Noemi, la bambina di 4 anni coi polmoni trapassati da un proiettile vagante che proprio ieri ha riaperto gli occhi dal coma farmacologico ed ha iniziato a gesticolare per comunicare coi medici e i familiari, sono trascorsi solo sette giorni. Una settimana durante la quale dalle intercettazioni disposte dalla Procura di Napoli è emerso che Armando Del Re, 28 anni, stava organizzando insieme al fratello Antonio, 18 anni compiuti da pochi mesi, la ricerca “di un rifugio sicuro fuori Napoli”. Di qui il pericolo di fuga alla base del decreto di fermo eseguito ieri. Armando Del Re, colui che materialmente avrebbe esploso i colpi, è stato ammanettato in un autogrill verso Siena, era con la madre e la sorella, stavano andando a trovare il genitore detenuto nel penitenziario di San Gimignano. Forse voleva chiedergli qualche consiglio su come agire, se era possibile trovare riparo in Toscana. Antonio invece è stato preso a Nola: è accusato di aver partecipato all’ideazione del delitto e avrebbe protetto il fratello dalle indagini. I due sono originari delle Case Nuove e hanno precedenti per droga, sarebbero stati incastrati da intercettazioni che erano già in corso prima del 3 maggio. Tre annotazioni di polizia giudiziaria “dai convergenti esiti investigativi”, scritte dagli agenti della Mobile, dai finanzieri del Gico e dai carabinieri del Roni, come si sottolinea nel decreto, hanno consentito “di ricostruire i movimenti degli indagati prima e dopo i delitti” e di “delineare i collegamenti” tra i fratelli Del Re e i contesti di criminalità organizzata in cui è maturato il tentato omicidio del 32enne Salvatore Nurcaro, il vero obiettivo del raid di otto giorni fa. Nurcaro è rimasto ferito gravemente e tuttora i pm non hanno potuto interrogarlo.

Procura e investigatori sono certi che l’agguato è avvenuto con premeditazione “mediante attività di controllo dei movimenti della vittima (Nurcaro, ndr) protratte per più giorni” e si è compiuto in un contesto camorristico, contestandone l’aggravante. Ma non trapela il movente della sparatoria, del perché i fratelli Del Re volessero uccidere Nurcaro, ritenuto collegato al clan Reale-Rinaldi, sparando proiettili 9×21 fino a mettere a repentaglio la vita della piccola Noemi. Qualcosa potrebbe emergere dalla richiesta di convalida del fermo che i pm Antonella Fratello e Simona Rossi, coordinati dall’aggiunto Giuseppe Borrelli e dal procuratore capo Giovanni Melillo, stanno perfezionando per poi inoltrarla nelle prossime ore al Gip. L’udienza di Armando Del Re, difeso dall’avvocato Claudio Davino, avverrà oggi a Siena.

L’altra buona notizia di ieri è arrivata dall’ospedale pediatrico Santobono. Noemi ha aperto gli occhi, ha iniziato a respirare autonomamente e sta riconoscendo le persone intorno al suo lettino. “Ha voluto vedere subito la mamma” ha detto una zia. La bimba si sta esprimendo a gesti, alzando o abbassando le mani alle domande seguendo le istruzioni dei medici, ed in questo modo avrebbe chiesto una bambola per giocare. Piccoli ma importanti segnali di ripresa che inducono a un cauto ottimismo.

Stupro di Viterbo, chat e foto nel mirino del perito dei pm

Proseguono le indagini sui telefonini sequestrati a Francesco Chiricozzi e Riccardo Licci, rispettivamente consigliere comunale di Vallerano e militante di Casapound espulsi dal movimento dopo l’arresto per il presunto stupro di una donna di 36 anni all’”Old Manners” di Viterbo. Serviranno fino a due mesi di tempo al perito, incaricato dalla procura, per estrapolare foto, video e dati utili anche a ricostruire quante persone facevano parte delle chat in cui le immagini della presunta violenza sessuale sarebbero state condivise.

Intanto la procura di Viterbo ha deciso di richiedere l’incidente probatorio per ascoltare la 36enne. “Accogliamo benissimo questa richiesta – afferma l’avvocato Giovanni Labate, legale di Chiricozzi – per noi è importante, anche perché non era stata ancora sentita”. I due ragazzi sono rinchiusi dal 29 aprile scorso nel carcere Mammagialla di Viterbo ed è stata respinta dal gip la richiesta dei domiciliari: “Sono particolarmente provati”, sottolinea l’avvocato. Lo stesso legale della vittima, Franco Taurchini, nei giorni scorsi si era espresso a favore dell’incidente probatorio, iter previsto in casi simili di violenza quando la vittima è particolarmente vulnerabile.

Tentata “rapina” di atleti al Villaggio Olimpico

“Ma sei sicuro che quelle statue sono beni vincolati, volevo metterne una in salotto”. “Too dico perché quella che avevo preso io ad agosto l’ho dovuta riportare”. Le cose più serie, benché ridanciane, sulla strana storia di un tentativo di prelievo di alcune sculture storiche, sono gli sfottò dei romani, tra bar e chat. I quali, per intenderci, non sono i militanti di estrema destra che catturano l’attenzione mediatica con minacce a famiglie rom a Casal Bruciato e altrove (e che anche qui, al Villaggio Olimpico, nei mesi scorsi avevano tentato un’occupazione abusiva, con tanto di bandiere nere sventolate in faccia ai bambini in Piazza Grecia, l’isola pedonale da loro frequentata). Né sono quelli del “tutto va male”, del lamento a prescindere. Felici, anzi, di abitare in un’area amena e anomala, a pochi passi dal centro eppure piena di verde, come concepito per le Olimpiadi del 1960.

Incazzati semmai perché basterebbe davvero poco, un briciolo di presenza pubblica. Invece il sottotitolo, anche di questa storia, tremendamente italiana, è che non c’è. L’unico a prendersela, paradossalmente, è la persona che ha avuto l’idea. È un professionista riconosciuto. Si chiama Simone Ferrari, “curatore culturale”, già animatore di operazioni di rilievo quali la recente ricollocazione dei gruppi scultorei di Francesco Mochi, maestro del barocco, sempre a Roma. Che si è presentato in questi giorni, al Villaggio, con una squadra di operai nell’obiettivo, respinto dagli abitanti, di prelevare i muscolati atleti scolpiti dall’artista Amleto Cataldi e portarli al Foro Italico, per la vetrina degli Internazionali d’Italia di tennis e altri eventi nei prossimi mesi. “Per ridare un significato al Villaggio Olimpico”, dice Ferrari. “Per valorizzare il quartiere ci portano via le statue?”, si chiede Enrico Basilico, dell’associazione Villaggio dei Bambini, e animatore della locale Banda che riunisce gente di ogni età a fini di promozione sociale, oltre che artistici. “Progetto senza autorizzazione”, protesta anche l’assessore municipale Rino Fabiano. Al di là del merito, quel che fa imbestialire i cittadini è la zero informazione da parte del committente, il Coni, e dei costi.

Roba da decine di migliaia di euro, mentre lo stesso Coni risulta formalmente impegnato col locale municipio nella ristrutturazione di un’area bambini e di un campetto di basket, attesa da tempo a cifre ben inferiori. “Pronti a fare quei lavori domani – ci dice il Coni – se ci arriva l’autorizzazione dal Campidoglio”. Sì, perché per le iniziative spot i soldi spuntano, ma se si tratta delle esigenze ordinarie, che sia un angolo o l’altro dei pochi metri quadrati del Villaggio Olimpico, scatta il rimbalzo: chiamare il Municipio, il Coni, il Campidoglio, la Regione, lo Stato, perfino il Vaticano. La risposta è la stessa: “Non è nostra competenza”.

Internazionali di tennis: guerra sui biglietti omaggio

Politici, calciatori, imprenditori, soubrette, banchieri, funzionari, manager. Per una settimana la Roma che conta si ritrova sul campo da tennis: i vip appaiono in tribuna, ricercati dalle telecamere e dagli obiettivi dei paparazzi, osservano con fare distratto la partita atteggiandosi ad esperti, sfilano sullo splendido viale del Foro Italico. Non sei nessuno nella Capitale se almeno per una giornata, meglio se per la finale, non vai agli Internazionali di tennis. Ad una condizione ben precisa, però: non pagare, grazie ad uno dei preziosi biglietti omaggio che gli organizzatori concedevano agli eletti. Oggi inizia il torneo e questi ingressi gratuiti sono talmente ambiti che quest’anno sono diventati oggetto di una vera e propria guerra tra la FederTennis di Angelo Binaghi e il Coni di Giovanni Malagò, ormai ai ferri corti ma fino a ieri pur sempre soci al 50 e 50 nell’evento. Simbolo di prestigio, fonte di potere, gli “omaggi” sono ormai merce rara. Andare agli Internazionali è uno “status”, ma riuscirci senza acquistare un regolare biglietto (sempre più cari anno dopo anno, subito sold-out per le partite di cartello) non è semplice.

Lontani i tempi in cui al Foro entravano tutti: il sardo Binaghi, noto per i fatturati record e il suo carattere scontroso, li ha praticamente messi al bando. Pare che qualche anno fa persino il sindaco Ignazio Marino si sia visto rifiutare sette biglietti, e da allora i due non si siano più rivolti la parola.

Strette le maglie sugli accrediti ai giornalisti, ridotti i pass per sponsor e hospitality, restano poche migliaia di ticket il cui valore lievita nell’immaginario collettivo. E non solo in quello: tra tribuna vip e ground, parliamo di circa 4 mila ingressi gratuiti, dal valore commerciale di 200mila euro. Un bel tesoretto da distribuire fra amici degli amici. Il problema è di chi.

Il comitato organizzatore è infatti composto dalla Federazione e dalla Coni Servizi, che si sono sempre spartiti oneri, oneri e pure gli omaggi del torneo, divisi per contratto in parti uguali fra i due enti. Oggi, però, la Coni Servizi non esiste più, si è trasformata in “Sport e Salute spa”, la nuova società statale che non fa capo a Malagò ma direttamente a Palazzo Chigi e al sottosegretario Giancarlo Giorgetti. Di qui l’inghippo: a chi spettano i biglietti?

Domanda complicata. Per il presidente Binaghi non c’erano dubbi: l’era di Coni servizi è finita, lui di Malagò e i suoi soci dell’Aniene non vuole più sentir parlare; di quei ticket si sarebbe discusso semmai con la nuova governance.

Formalmente, però, il consiglio di amministrazione presieduto dal manager Rocco Sabelli non si era ancora insediato nella fase di preparazione del torneo. Lo ha fatto solo ieri pomeriggio, con la prima riunione del cda che è servita pure a scacciare i sospetti che qualcuno della vecchia guardia cercasse di far slittare il più possibile il passaggio di consegne. Magari anche per mantenere il controllo su quei ticket che da contratto spettavano effettivamente all’amministrazione in carica. Ovvero al Coni.

Ultimi scampoli di potere. Ne è nata una lite furibonda, in cui per poco non rimaneva invischiato persino il governo. Alla fine una specie di accordo pare essere stato trovato: oltre ovviamente alle autorità istituzionali, è stata stilata una lista di nomi concordati da inserire nell’elenco degli invitati. Poi basta, stavolta niente biglietti omaggio. O quasi: qualcuno che alla fine riesce a imbucarsi a Roma si trova sempre.

Tercas, Pop Bari vuole il risarcimento dall’Ue Truffati, ok a rimborsi

Il cda della Banca Popolare di Bari ha deciso all’unanimità di avanzare richiesta di risarcimento danni alla Commissione europea per la vicenda Tercas (la Cassa di risparmio di Teramo) dopo che il Tribunale dell’Ue lo scorso marzo ha annullato la decisione di Bruxelles che vietava l’intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd) a sostegno dell’istituto di credito pugliese. Divieto che obbligò poi la costituzione dello “schema” volontario dello stesso Fitd.
Altra novità sul fronte banche: al via i rimborsi per i risparmiatori coinvolti nelle crisi bancarie, dalle due venete alle 4 banche andate in risoluzione. Il ministro dell’Economia Giovanni Tria, secondo l’annuncio del sottosegretario M5S Alessio Villarosa, ha firmato il decreto che rende operativo il Fondo per l’indennizzo dei risparmiatori creato con l’ultima manovra, che ha a disposizione un miliardo e mezzo in tre anni. Sarà la Consap, entro 20 giorni dalla pubblicazione del decreto in Gazzetta Ufficiale, a mettere a punto una piattaforma web apposita, dove si potranno trovare tutte le informazioni al riguardo, a partire dalla documentazione da raccogliere e dalle modalità per fare la domanda di indennizzo.

Carige e spread, il doppio ruolo di BlackRock

La decisione del fondo BlackRock di ritirarsi dal salvataggio di Carige ha innescato un certo panico nei corridoi della politica. A poco più di due settimane dalle elezioni europee, il governo Conte si trova ora a dover valutare un imminente salvataggio pubblico dell’istituto genovese, con una ricapitalizzazione precauzionale sul modello Monte Paschi. Ci sono già 3 miliardi pronti per intervenire, anche se prima bisognerebbe dimostrare che la banca ha una rilevanza sistemica, cioè che la sua crisi mette a rischio tutto il sistema bancario.

Da Genova già filtrano voci di altri fondi interessati, ma sembrano tentativi di rassicurare i depositanti per evitare la corsa a ritirare i risparmi (che comunque non sono a rischio in nessun caso sotto i 100.000 euro). Perché BlackRock prima ha dimostrato interesse e poi si è sfilato, mettendo in imbarazzo il governo che aveva benedetto il suo ingresso? Ufficialmente è una decisione solo finanziaria.

Negli ambienti di governo però tutto assume inevitabili connotazioni politiche: BlackRock, con 6.000 miliardi di dollari gestiti, è una potenza autonoma della finanza internazionale. Ma il suo ad, Larry Fink, è anche una delle voci più influenti sulle prospettive dell’economia e di Wall Street. Se Fink dice che le cose andranno meglio, che non ci sono segni di recessione globale, quelle parole influenzano il mercato. Visto il peso anche politico di Fink negli Usa, c’è chi al governo vede anche nella ritirata di BlackRock l’ennesimo segnale che qualcosa si è rotto nei rapporti tra Italia e Stati Uniti. Dopo la scelta un po’ brusca del governo Conte di firmare il protocollo d’intesa della Via della Seta con la Cina di Xi Jinping, gli Usa hanno reagito male. Anche lo spostamento del contingente militare dalla Libia proprio nel pieno degli scontri è sembrato un modo di segnalare all’Italia freddezza. Il premier Conte sperava di aver convinto il presidente Usa Donald Trump a sensibilizzare i grandi investitori americani sulla necessità di sostenere l’Italia. Ma la vicenda BlackRock dimostra che tale moral suasion – se mai c’è stata – non ha dato risultati.

C’è poi un altro dettaglio. BlackRock, tra le sue tante attività, opera anche sui titoli di Stato italiani. Avere l’ultima parola su una crisi bancaria a due settimane dalle elezioni mentre con l’altra mano si possono vendere titoli allo scoperto, scommettendo sulla salita dello spread, può indurre in tentazione, maligna qualche politico gialloverde. La crisi Carige può indebolire il governo e spingere lo spread, tutte opportunità per chi è ben posizionato.

La governance di BlackRock è però costruita con “muraglie cinesi” che la società assicura essere invalicabili: i suoi 15.000 dipendenti lavorano per team e aree senza contatti diretti tra quelle in potenziale conflitto d’interessi, proprio per evitare che ci sia il rischio di passaggi di informazioni privilegiate (un reato finanziario grave). Ma se qualcosa dovesse andare storto nei prossimi giorni, il governo ha già il capro espiatorio pronto: BlackRock.

La Nigeria trascina Eni e Shell davanti alla Corte inglese

Il governo della Nigeria ha aperto una causa civile davanti all’Alta corte di giustizia di Londra chiedendo a Eni e Shell i danni per la corruzione che ritiene di aver subito a proposito del grande campo petrolifero denominato Opl 245. Chiede anche che alle due compagnie petrolifere sia revocata la licenza concessa nel 2011. “L’acquisizione di Opl 245”, sostiene oggi il governo nigeriano, fu frutto “di un piano fraudolento e di corruzione, che ha compreso anche il pagamento di tangenti a dirigenti di Shell ed Eni”. La causa è stata avviata ad aprile a Londra secondo il diritto anglosassone e si aggiunge al processo penale in corso a Milano, in cui Eni, Shell, i vertici delle due società, alcuni mediatori e uomini del passato governo nigeriano sono accusati di corruzione internazionale.

Il nuovo governo del Paese africano, guidato dal presidente Muhammadu Buhari, vuole dare un segnale chiaro di aver intrapreso una decisa lotta contro la corruzione, mostrando una netta discontinuità con il governo precedente, dominato fino al 2015 da Goodluck Jonathan, accusato di aver svenduto agli stranieri le risorse del Paese, non senza intascare robuste tangenti.

La licenza per Opl 245 è stata concessa nel 2011 a Eni e Shell in cambio di 1,3 miliardi di dollari. Soldi versati su un conto del governo nigeriano, ma poi girati e dispersi in una moltitudine di conti privati, tra cui quelli della società Malabu, che risultava la proprietaria del grande campo d’esplorazione petrolifera. A vendere a Malabu, a prezzo di favore, i diritti d’esplorazione di Opl 245 era stato l’allora ministro nigeriano del Petrolio, Dan Etete. Malabu, attraverso prestanome, era di fatto controllata dallo stesso Dan Etete, che dunque aveva venduto – anzi quasi regalato – la licenza a se stesso. Il denaro versato da Eni e Shell è finito dunque all’ex ministro del petrolio e ad altri esponenti dell’allora governo nigeriano, nonché – secondo le ipotesi d’accusa della Procura di Milano – a mediatori italiani e internazionali, ed è stato in parte “retrocesso” – sempre secondo l’accusa – a manager Eni. A Milano è in corso il processo con imputati, oltre alle società Eni e Shell, l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi; il suo predecessore, Paolo Scaroni; tre manager Eni, Roberto Casula (all’epoca dei fatti capo divisione esplorazioni), Vincenzo Armanna (ex vicepresidente del gruppo in Nigeria) e Ciro Antonio Pagano (ex managing director di Nae, società del gruppo Eni); alcuni intermediari, gli italiani Luigi Bisignani e Gianfranco Falcioni e il russo Ednan Agaev; e l’ex ministro del petrolio, Dan Etete.

I pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro hanno portato a giudizio a Milano anche i vertici della Shell, che secondo l’accusa divise l’affare con l’Eni: Malcolm Brinded, allora presidente di Shell Foundation, e tre ex dirigenti della società petrolifera olandese, Peter Robinson, Guy Colgate e John Coplestone. Altri due imputati, l’intermediario nigeriano Emeka Obi e quello italiano Gianluca Di Nardo, sono già stati condannati dopo un processo separato celebrato a Milano con rito abbreviato. Ora, nella causa londinese, il governo nigeriano sostiene che il valore di Opl 245 sia non di 1,3 miliardi di dollari, bensì di 3,5 miliardi. È la cifra indicata anche nell’aula del processo milanese dal consulente del governo del Paese africano ed è il valore più basso della forchetta (da 3,5 a 5,8 miliardi) indicata dall’esperto canadese chiamato come consulente in aula dalle organizzazioni internazionali Global Witness, Re:Common, Corner House Research e la nigeriana Heda Resource Centre.

La novità di rilievo dell’azione civile avviata a Londra è che il governo nigeriano ora chiede addirittura che a Eni e Shell sia revocata la licenza, in quanto conquistata “con metodi fraudolenti e schema corruttivo che ha comportato il pagamento di tangenti”. In un caso separato, sempre a Londra, il Paese africano ha portato a giudizio anche la banca JpMorgan Chase: fu l’istituto che girò sui conti di Malabu 801 milioni di dollari, parte dell’1,1 miliardo versati da Eni. Erano soldi – argomenta il governo – che dovevano arrivare allo Stato nigeriano, che ora chiede dunque la restituzione di 845 milioni.

Eni ha risposto ribadendo “la correttezza di ogni aspetto della transazione”, sottolineando che in ogni caso la causa londinese è una duplicazione di quella in corso a Milano e mettendo in dubbio la legittimazione di una corte del Regno Unito a decidere sulla vicenda. Shell ha replicato che il contratto fu “completamente corretto e legale”.