Ci sono alcuni che non si sarebbero mai innamorati, se avessero sentito parlare di Pamela Prati e Mark Caltagirone. La massima di La Rochefoucauld va rivista al passo coi tempi, specialmente i tempi televisivi. Fortunatamente a certi capolavori trash nei palinsesti si trovano anche i vaccini, non sono obbligatori come dovrebbero ma a mettersi d’impegno si trovano. Si rinviene per esempio Grande amore (domenica, Rai3, 20.25), utile a riconoscere i sentimenti autentici dal dilagante fake love. Se l’accostamento tra amanti celebri e perfetti sconosciuti suona come un forzoso tributo alla moda del populismo catodico, è salutare ripercorrere le storie passate alla Storia. Anche l’amore ne ha una, e può essere molto istruttiva. Come l’incontro tra Grace Kelly e Ray Milland, passione più travolgente perché prima segreta, poi proibita, infine scandalosa, considerato quanto Milland era sposato. Nella Hollywood degli anni 50 non c’erano né Alfonso Signorini (strano), né Barbara D’Urso (stranissimo); eppure il loro sentimento finì ugualmente nel tritacarne del gossip. Ray ridiventò un marito modello; Grace perdendo il suo principe azzurro diventerà principessa. Il compito di narratrice tra gli spezzoni di repertorio è affidato Carla Signoris; lo fa senza chiedersi se il marito di Pamela Prati esista, senza domandarsi se c’è posta per Grace, senza chiedere pareri ad Al Bano. Per classe e misura Signoris pare catapultata in video da un altro pianeta dello spettacolo. Infatti lo è.
L’artista Fazio non è paragonabile al giornalista Biagi
“L’audience, di per sé, non può aggiungere nulla ai codici di un Servizio pubblico”
(dall’intervento di Sergio Zavoli al Seminario della Commissione di Vigilanza Rai – Roma, 24 novembre 2009)
Può anche darsi che, nei piani della Lega, Fabio Fazio sia la “vittima designata” per impossessarsi definitivamente della Rai. E un’occupazione manu militari del servizio pubblico televisivo da parte del Carroccio, nel segno della lottizzazione partitocratica, non sarebbe certamente auspicabile. Ma ciò non toglie che le critiche manifestate da Matteo Salvini sul maxi-compenso del conduttore e dal presidente Marcello Foa sull’esaurimento della sua “carica innovativa” abbiano un fondamento oggettivo.
Se si parte dall’assunto che non può essere l’audience a giustificare il servizio pubblico, non basta appigliarsi ai dati di ascolto delle trasmissioni condotte da Fazio (Che tempo che fa e Che fuori tempo che fa) per giustificare un compenso stratosferico come il suo (quasi 9 milioni di euro in quattro anni). Né si possono fare i conti fra quanto costano e quanto ricavano in termini di spot i due programmi di Rai1, come se si trattasse di una qualunque rete commerciale piuttosto che dell’ammiraglia della televisione pubblica. Non è da oggi, del resto, che chi scrive sostiene la necessità di un duplice affrancamento della Rai dalla sudditanza alla politica e dalla schiavitù dell’audience, tanto più che adesso il canone d’abbonamento è inserito nella bolletta elettrica.
C’è poi un aspetto particolarmente delicato – su cui è in corso un’istruttoria davanti alla Corte dei Conti – che riguarda il conflitto d’interessi in capo a Fazio, conduttore e produttore di se stesso, in forza del contratto (circa 10 milioni all’anno) con la società “Officina” di cui è proprietario al 50%. Tant’è che – come si sa – ha scelto di dimettersi dall’Ordine dei giornalisti per diventare “artista” e per poter percepire così il suo astronomico compenso, al di là dei “tetti” fissati dalla legge per le aziende pubbliche. A maggior ragione, dunque, il conduttore non può essere paragonato a un professionista del calibro di Enzo Biagi, come s’è avventurato a sostenere Michele Serra su Repubblica, rimbeccato giustamente dal deputato del Pd Michele Anzaldi.
In realtà, al di là del fatto che le interferenze di Salvini rischiano alla fine di rafforzare la posizione di Fazio, non ha tutti i torti Foa a rimproverare al conduttore-produttore di aver perso la “capacità innovativa”. Spesso le sue trasmissioni si trasformano in una passerella di attori, comici e giornalisti amici, con l’accomodante ospitata di qualche politico, per promuovere film, spettacoli teatrali, canzoni, libri, non sempre degni di una rete come Rai1. Una specie di “marchettificio”, vale a dire “il luogo – per citare il vocabolario Treccani – delle esibizioni compiacenti e interessate”, “propizio per catturare i favori del miglior offerente”.
Con l’occasione si può ricordare al bi-presidente sovranista, messo ora sotto accusa dalla convergenza M5S-Pd in Commissione di Vigilanza per il doppio incarico di presidente della Rai e di RaiCom, l’ormai dilagante tendenza di molti conduttori e conduttrici televisivi a fare pubblicità, in veste di testimonial, dentro e fuori i propri programmi. Secondo la terminologia della normativa antitrust, dovremmo parlare di “pubblicità ingannevole” e di “pratiche commerciali scorrette”, dal momento che il contenuto televisivo si confonde con il messaggio pubblicitario sfruttando il “potere mediatico” del conduttore-testimonial. Forse, la “Rai del cambiamento” potrebbe cominciare una buona volta da qui.
Non si può vivere un’intera vita senza un ideale
C’è molta confusione sotto i cieli, internazionali e nazionali. Io credo che in questi anni stiano cambiando, e molto rapidamente, gli assetti politici ma anche valoriali usciti dalla Seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti non sono più il Paese egemone, la guida indiscussa di quello che noi chiamiamo il “mondo civile”. Non c’è bisogno di vedere il formidabile film di Denys Arcand (il regista delle Invasioni barbariche) La caduta dell’impero americano per capire che, avvitandosi solo sul denaro, il proprio e l’altrui, è un Paese in piena decadenza morale che ha perso anche (Trump non ne è la causa ma l’inevitabile sbocco) quello spirito di unità nazionale che ne aveva costituito sempre la forza.
Ma gli anni attuali segnano anche il fallimento delle democrazie occidentali. La Democrazia infatti è un metodo, un sistema di regole, di forme e di procedure, non è un valore in sé e non propone valori. È un contenitore, un sacco vuoto che andrebbe riempito. Ma il pensiero e la pratica liberista e laica, che sono il substrato su cui la democrazia è nata, mentre facevano tabula rasa dei valori precedenti (complici anche “la morte di Dio” e delle ideologie, sia pure contrapposte) non sono state in grado di riempire questo vuoto se non con contenuti quantitativi e mercantili. Le monarchie assolute, le teocrazie, il potere carismatico e persino le dittature propongono invece valori forti, buoni o cattivi che siano, in genere condivisi dalla popolazione o da una buona parte di essa. Non è necessario che i governanti credano sul serio a quei valori – in genere non ci credono affatto – importante è che ci credano i governati.
La globalizzazione, portando con sé un’omologazione pressoché universale, ha enfatizzato tutte le contraddizioni, diciamo pure i deficit, del turbocapitalismo. Le tecnologie, soprattutto le più recenti, invece di unirci ci hanno separato. Di qui le controspinte verso aggregazioni identitarie, nazionaliste, comunitarie, espresse in forme reali ma anche virtuali (pur di sentirsi appartenenti a qualcosa le persone, non riuscendo più a farlo nella realtà, si aggregano sul web). C’è insomma in giro uno smarrimento, una perdita di punti fermi, solidi, di cui danno conto anche le cronache con crimini sempre più incomprensibili e mostruosi (“i delitti delle villette a schiera” come li chiamava Guido Ceronetti) e un’incomprensione sempre più visibile fra i sessi o generi come li si vuol chiamare ora.
Nonostante le apparenze non è la situazione economica, l’andar su e giù del Pil o dello spread di cui la gente capisce poco o nulla, il core della questione. Per restare nel nostro Paese, negli anni Cinquanta, noi italiani eravamo molto, ma molto più poveri di oggi. Ma c’erano uno slancio, una vitalità e anche un’allegria di cui chi vive le temperie attuali non può rendersi conto. La questione quindi sta nella perdita di senso. Nessuno, a meno che non sia obnubilato dal consumismo compulsivo, che è insieme causa ed effetto di questa perdita, può vivere un’intera vita, dalla culla alla tomba, senza un ideale. Qualsiasi esso sia.
Torino insegna: M5s e Pd hanno basi simili
Molte sono le eredità della vicenda del Salone del Libro su cui continuare a riflettere: dalla conclamata ignavia degli editori (contestata dall’interno: le Edizioni del Gruppo Abele sono clamorosamente uscite dall’Associazione Italiana Editori, per esempio), all’imbarazzante paralisi del ministero per i Beni culturali, titolare del ‘marchio’ del Salone. Su tutto, meno male, il risultato finale: soprattutto grazie alla serena determinatezza di Halina Birenbaum si è stati infine costretti a prendere atto dell’ovvio, e cioè che in questo Paese ci sono ancora molti cittadini (e perfino qualche intellettuale) che non accettano la convivenza con un ‘editore’ dal curriculum giudiziario e dal catalogo come quelli di Altaforte. È stata una battaglia di opinione classica, basata sul pacifico rifiuto di essere complici: e alla fine la politica ne ha preso atto.
Ebbene, mettiamo per un attimo tra parentesi le esitazioni, le ipocrisie, i penosi tentativi di nascondersi dietro l’autorità giudiziaria o di invocare a sproposito la libertà di espressione: e prendiamo atto dell’epilogo. Il presidente della Regione Piemonte e la sindaca di Torino hanno scritto che “tra le ragioni di una testimone attiva dell’Olocausto e quelle di Altaforte facciamo prevalere le prime, ricordando che Torino è stata insignita dalla medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza contro il nazifascismo”. Meglio tardi che mai!
Ora, il caso vuole che Sergio Chiamparino e Chiara Appendino appartengano a due forze, Pd e 5Stelle, che in particolare a Torino sono ferocemente agli antipodi. Non sottovalutiamo la vicenda Tav, e tutti gli interessi e i princìpi che essa muove: a Torino un solco davvero profondo separa Pd e Lega da una parte, 5Stelle dall’altra.
Ebbene, come un terremoto capace di spostare il corso di un fiume, la cacciata dei fascisti dal Salone ha fatto invece il miracolo di collocare lo spartiacque tra 5Stelle e Pd da una parte, e Lega dall’altra. E il Movimento, contrariamente a quanto si potrebbe pensare dall’esterno, non ha affatto subìto la scelta di Appendino: anzi, l’ha invocata dall’inizio (per esempio con forti dichiarazioni della capogruppo in consiglio comunale, Valentina Sganga).
Data la situazione politica nazionale, non sorprende che quasi nessuno abbia sottolineato il valore propriamente politico di questa nuova geometria torinese: che pure, invece, non solo esiste, ma è tanto più rilevante in quanto è fondata su un principio fondamentale come l’antifascismo.
Ed è chiarissimo il messaggio implicito contenuto nella lettera di Chiamparino e Appendino: la condanna senza mezzi termini verso un ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che pubblica una autobiografia con un editore letteralmente impresentabile. Messaggio politico che ieri Luigi Di Maio ha voluto a sorpresa rendere esplicito, dichiarando in televisione che il suo collega vicepremier ha sbagliato a pubblicare un libro con un editore fascista organico a una organizzazione (CasaPound) programmaticamente eversiva (il vocabolario è mio, la condanna è sua).
Ora, sappiamo bene che per uscire dallo stallo di questo governo, per espellere la Lega di Salvini dal controllo del Paese e per evitare il prevedibile epilogo di un governo ancora peggiore (Salvini-Berlusconi), l’unica strada praticabile sarebbe ancora quella che la cinica e isterica irresponsabilità di Renzi precluse dopo il 4 marzo 2018: e cioè un governo 5Stelle-Pd. Non c’è chi non ne veda tutte le contraddizioni e le controindicazioni: un cumulo monumentale. Ed è forte anche il rischio che, con un simile matrimonio di necessità, i rispettivi difetti (gravissimi) si sommino. Eppure, questa impervia e stretta strada continua a sembrare l’unica uscita possibile.
Chi crede che conti ancora qualcosa – oltre alle tattiche più o meno miopi, egoistiche e spesso suicidiarie, dei ‘capi’ – il sentimento, se non l’orientamento, dei rispettivi elettorati, si chiede fin dall’inizio di questo governo se davvero la maggior parte della base 5Stelle si senta in sintonia con il ministro della paura, delle pistole e dei porti chiusi; e se questa sintonia è più forte dello schifo verso il Pd. E, d’altra parte, si chiede se la maggior parte della base del Pd odii così radicalmente i 5Stelle da tenersi il ministro amico di CasaPound, piuttosto che aprire un dialogo con loro.
Non è questione del rispettivo essere o non essere di sinistra: nessuno dei due è in grado di fare un esame all’altro, in materia. Ma potrebbe essere, più profondamente, questione del senso del limite: della condivisione di una volontà di non oltrepassare un confine invalicabile. A Torino è successo: Pd e 5Stelle hanno trovato la forza di dire, insieme, di no a Salvini e ai suoi amici fascisti. Se ciò potesse innescare un processo di riflessione in quei due mondi sarebbe una buona notizia: meglio tardi che mai, una volta di più.
“Pure nello sfogo contro Vecchioni merita comprensione”
Sono leggermente confusa rispetto alla mamma del povero Regeni: la parte principale di me la sostiene, non riesco neanche a immaginare il dolore; dall’altra non apprezzo tutte le sue uscite, come avvenuto per la polemica con Vecchioni.
Gentile lettrice, la drammatica e scandalosa vicenda di Giulio Regeni è una ferita sempre più aperta e sanguinosa che dovrebbe lacerare le coscienze di noi tutti, perché dovremmo essere noi i primi a batterci – come con indomito coraggio e irriducibile tenacia stanno facendo da ormai tre anni i genitori di Giulio – per ottenere verità e quindi giustizia. Il loro ragazzo è stato massacrato al Cairo perché qualcuno ha ordinato di farlo. La Procura italiana ha individuato cinque funzionari dei servizi segreti egiziani e li ha iscritti nel registro degli indagati. Ma il Cairo non vuole che vengano interrogati dai giudici italiani, tantomeno che siano consegnati alle nostre autorità. Il teorema è chiaro: chi ha promesso di fare luce sul brutale assassinio di Giulio non è stato capace di farlo, o non ha voluto (le autorità egiziane). Parole vuote. Quaranta mesi di dilazioni, falsità, depistaggi. Faccia un ulteriore sforzo, provi a immaginare anche quanta rabbia e quanta delusione ci sia nell’animo di Paola Regeni. Stufa di camminare lungo una strada senza fine. Così, “Giulio non ha bisogno di canzoni” è protesta, sfogo, impotenza. Diffida ormai di tutto e di tutti. Di chi canta Giulio e di chi scrive libri-scoop: “Se qualcuno ha informazioni utili o qualche scoperta, ce lo venga a dire prima, poi scriva pure il libro…”. In questi tre anni l’Italia non ha potuto (o voluto?) costringere l’Egitto a far luce sulle torture subite da Giulio prima di essere ammazzato. I Regeni, e con loro noi tutti, siamo stati presi in giro. Per questo, ieri, Paola e Claudio Regeni hanno scritto una lettera aperta al presidente al-Sisi, diffusa in italiano, arabo e inglese, in cui gli ricordano di onorare la parola data, cominciando col consegnare i cinque indagati, “finché questa barbarie resterà impunita”, finché i colpevoli, qualsiasi sia il loro grado, la funzione e ruolo, non saranno assicurati alla giustizia italiana, “nessun cittadino potrà più recarsi nel Vostro paese sentendosi sicuro. E dove non c’è sicurezza, non può esserci né amicizia né pace”. La non felice battuta su Roberto Vecchioni (“non rispetta i nostri sentimenti. Questo cantautore ha 70 anni. Potrebbe andare in pensione”) merita dunque comprensione e tolleranza. La canzone parla di Giulio ma anche della mamma che immagina il figlio a casa, nel suo letto, però poi viene a sapere che l’hanno picchiato a sangue e lei si ribella a questo destino, “non Giulio, no Giulio no/che a Giulio tutto il mondo voleva bene”. Paola Regeni teme sempre l’agguato delle strumentalizzazioni (Vecchioni lo nega). Può darle torto?
Ma io difendo la famiglia Ciontoli dall’odio collettivo
So che il momento storico non permetta di dire nulla di diverso da “i Ciontoli devono bruciare all’inferno” senza essere travolti dalla ferocia del popolo, ma non pratico sport pericolosi e questa è la mia sfida con l’estremo. E vorrei che fosse chiaro – è l’impresa più difficile – che nulla di ciò che penso esclude la mia vicinanza a Marina, la mamma del povero Marco. Lei e suo marito vivono una tragedia senza fine, nessuno lo dimentica. Quello che più o meno tutti vogliono dimenticare è che ci sia un’altra tragedia parallela a quella dei Vannini ed è quella della famiglia Ciontoli. La sola affermazione è intollerabile. L’idea che se la meritino, impedisce ogni ragionamento che includa questioni di diritto e di umanità.
La veritàè che Marco Vannini è morto, è una vita spezzata da una scelleratezza cinica, imperdonabile. I Ciontoli sono vivi, ma in una condizione di morte sociale non distante dalla morte vera. Antonio Ciontoli, sua moglie Maria, i figli Federico e Martina sono protagonisti di uno degli accanimenti mediatici più feroci della storia italiana. E non basta liquidare il tutto con un banale “Hanno ucciso un ragazzo di 20 anni”, perché anche senza stilare una classifica delle brutalità, è evidente che siano accaduti fatti più efferati, omicidi pianificati e mattanze atroci, eppure nessuno dei colpevoli è mai stato oggetto di un odio così collettivo e ostinato. La famiglia è sparpagliata, i membri vivono in località segrete. Minacciati, insultati, perseguitati dall’odio sui social, dalle tv, dai giornali. Impossibilitati anche ad andare a fare la spesa perché ogni gesto di normalità è interpretato come un affronto al dolore, alla legge, al tribunale popolare.
Martina, che ha frequentato il corso infermieristico, ha dato un esame e si è raccontato che abbia chiesto un buon voto in virtù della tragedia vissuta (fatto mai provato). Ha lavorato in due ospedali ma è stata licenziata perché c’erano le telecamere ad aspettarla fuori. Su change.org c’è un petizione per radiarla dall’Ordine degli infermieri con 55.000 firme, come se la volontà popolare potesse decidere l’idoneità a praticare una professione. Qualcuno ha pubblicato una foto col suo nuovo fidanzato che ha fatto il giro dei media, accompagnata da insulti perché una ragazza di 20 anni osa rifarsi una vita. In più, senza prove, a intermittenza lei e suo fratello Federico, poco più di 20 anni anche lui, sono accusati di aver sparato a Marco. Dei Ciontoli padre e madre non c’è traccia. È come se non esistessero fuori da quel fatto. Chi tenta di raccontarne le responsabilità senza dietrologie e giudizi fa la fine del monatto, autorizzato a toccarli, ma appestato a sua volta.
Basti pensare alla valanga di insulti piovuta sulla conduttrice di Un giorno in pretura Roberta Petrelluzzi, che da decenni racconta i processi con rigore, per aver scritto “Cara Martina Ciontoli, ti vogliamo far sapere che siamo in disaccordo con questo accanimento mediatico. È un segno dei miseri tempi che stiamo vivendo, dove l’odio e il rancore prendono il sopravvento su qualsiasi altro sentimento. (…)”. Chiunque non odi i Ciontoli è un infame. Ma soprattutto, è contro i Vannini, come se qualcuno potesse non capire il dolore dei genitori di Marco o “tifare” per chi lo ha ucciso, come in un’arena quando si applaude al torero. Si aggiunge poi il branco famelico di certi giornalisti (e non) che fanno macelleria mediatica.
Il caso fa ascolti e così ogni suggestione diventa materiale per nuove ricostruzioni e accuse. Certo, il fatto che sullo sparo Ciontoli abbia mentito, che ci siano state frasi di Martina poco chiare, che tutti abbiano le colpe sciagurate che conosciamo e che il maresciallo Izzo risulti poco credibile, ha dato una bella mano al complottismo, ma l’esame delle polveri da sparo è chiaro. Ha sparato Ciontoli: è l’unico ad avere polvere da sparo nelle narici e in quantità tali da non lasciare dubbi. Che fosse fuori casa, salvo colpi di scena fantascientifici, è una teoria infondata. Il valzer dei colpevoli poi, è uno strazio. Negli stessi programmi, sulle stesse copertine di giornali tipo Giallo, a cadenza regolare si ipotizzano scenari diversi. Un giorno Ciontoli copre Martina, un giorno Federico, un giorno c’era stata una lite violenta, un giorno no, in casa Ciontoli non c’era, un giorno in bagno c’erano Martina e Ciontoli, un giorno no. Tutto a segue la tesi e il testimone del momento. Le intercettazioni ambientali in cui i Ciontoli parlano dell’accaduto sono genuine se servono a supportare una tesi, “sapevano di essere intercettati” se la smontano.
I testimoni poi sono sconcertanti. Giulio Golia ha intervistato una vicina di casa dei Ciontoli che sostiene che siano tutti matti e che quella sera probabilmente il padre non fosse a casa perché “non ha sentito la voce”, un testimone la cui attendibilità va dimostrata dice che Ciontoli “forse dormiva sotto o boh” e “Izzo mi ha detto che ha sparato Federico”, una testimone ha incontrato una sconosciuta su un treno anni fa che le ha detto “Ciontoli quella sera era a cena da amici”. “Se fosse così sarebbe una circostanza clamorosa”, dice Golia. Già, ma così cosa? E soprattutto, questi testimoni sono mossi da un tale senso di giustizia che non vanno a parlare con un magistrato ma si svegliano dopo 4 anni e vanno in tv. Del resto, il metodo di queste inchieste non è raccogliere testimonianze, verificare e poi disegnare un quadro. No, è mandare in onda man mano che si trova qualcosa, pubblicare, e poi vedere chi aveva ragione e chi no.
Intanto, ci sono due ragazzi che tutti i giorni si svegliano sapendo che potrebbero essere un po’ più mostri del giorno prima, sperando che quel giorno, magari, tocchi al fratello o alla sorella. O al padre. E un mucchio di gente che in base al mostro del giorno, decide chi odiare, insultare, minacciare. Ecco. Se schifare questo meccanismo è difendere i Ciontoli, allora difendo Ciontoli. Meritano di scontare la loro pena, ma non questo esilio penoso, diverso da qualsiasi cosa che possa anche solo vagamente somigliare all’ombra di una nuova esistenza.
Il venerdì nero del lavoro: sei morti e due feriti gravi
“S. Antimo (Napoli) 1 morto e un ferito grave, Porto Empedocle 1 morto, Altamura 1 morto, Scicli (Ragusa) 1 morto, Marsala 1 morto, Amatrice 1 ferito grave, Casoria (Napoli) 1 morto. È il bollettino di guerra degli infortuni sul lavoro più gravi delle ultime 48 ore. Una strage infinita e scandalosamente silenziosa”. Nicola Fratoianni di La Sinistra mette in fila i nomi di un venerdì nero nel mondo del lavoro, in cui in poche ore si contano sei morti e due feriti gravi. Gli incidenti sono avvenuti soprattutto il sud Italia: da Napoli ad Agrigento, da Altamura a Ragusa. Tetti che crollano, Suv e trattori che investono gli operai, traumi da schiacciamento: tutti i giorni chi lavora in situazioni precarie rischia di imbattersi in pericoli di questo tipo, senza un’adeguata tutela che possa garantire protezione. E la colpa è anche dei datori di lavoro: “Ogni lavoratrice o lavoratore in un paese civile deve poter rientrare a casa la sera dai propri cari – ha detto il segretario della Fillea Cgil di Napoli, Giovanni Passaro –. Per questo va introdotto il reato di omicidio colposo affinché imprenditori spregiudicati e senza scrupoli paghino per il reato commesso”.
Quando Caianiello dettava gli assessori a Fontana
Nomine e affari concertate a tavolino. Nino Caianiello non si ferma mai. Ed ecco allora Nino Jurassic Park discutere le nomine per gli assessori della giunta Regionale con il presidente Attilio Fontana, indagato per abuso d’ufficio nell’indagine della Procura di Milano. I due sono a colloquio il 24 marzo 2018, venti giorni dopo le elezioni regionali.
Nel brogliaccio annotato nell’informativa dei Carabinieri di Monza si legge: “Caianiello sconsiglia Fontana di nominare (Raffaele) Cattaneo assessore ai Trasporti e alle Infrastrutture perché già in passato ha creato problemi (…) che secondo lui potrebbe essere collocato altrove”. Caianiello è più specifico: “Cattaneo lo vogliono mettere a fare l’assessore alle infrastrutture, io ho detto: ma tu sei scemo! Gli ho detto: torniamo ai tempi di Formigoni! Guarda che sono ancora aperte le cause (…). Cattaneo per quanto sia fuori è coinvolto in quel meccanismo lì, non tornare su (…) fai riaprire dei libri che sono già lì, in Procura”. Alla fine Raffaele Cattaneo (non indagato) sarà nominato assessore all’Ambiente. Tra i settori che stanno a cuore al “manovratore” della politica lombarda c’è anche la sanità. Argomento che emerge in un’intercettazione della Guardia di Finanza di Busto Arsizio. Nino Jurassic Park ha una priorità: l’attuale assessore regionale al Welfare Giulio Gallera (non indagato). È il 13 marzo 2018. Caianiello parla con il consigliere regionale Angelo Palumbo. “Mi dicevi di Gallera”, inizia Palumbo. Prosegue Nino Caianiello: “Allora è giusto riequilibrare su Gallera, perché Gallera farà l’assessore alla Sanità e a noi interessano alcune cose”. Del resto, prosegue Palumbo, “la sanità è la cosa più importante”. “Noi – dice Caianiello – abbiamo l’obiettivo principale di portare a casa un direttore generale nostro”. Quindi spiega: “Se l’ospedale di Varese viene a noi, ci giochiamo la partita (…). A Gallera si potrà dire: l’importante è che tu mi metti uno di Forza Italia a Varese che sia espressione tua ma che risponda a noi ”. Da qui l’idea di Caianiello di mettere Palumbo in commissione sanità, perché, dice “noi dobbiamo farlo l’ospedale guagliò”. Palumbo è dubbioso. Propone la commissione Infrastrutture. L’8 maggio 2018 ne diventerà il presidente. Mentre sull’ospedale da fare l’intercettazione non chiarisce quale sia. Di certo nel 2017 l’ex sindaco di Lonate Pozzolo, Danilo Rivolta, interrogato dai magistrati si sofferma sul nuovo ospedale di Busto Arsizio.
Dichiarazioni riprese in una nota della Finanza di Busto: “Tra le diverse vicende corruttive indicate da Rivolta assume rilievo quella del nuovo presidio ospedaliero unico di Busto Arsizio e Gallarate (…). In relazione alla quale si sarebbero già registrati chiari indizi di mercimonio della pubblica funzione da parte della struttura criminosa facente capo a Cainiello”. Annotano ancora i carabinieri: “Nino riferisce che, dopo il colloquio con la Gelemini sulle nomine ha contattato Fontana per concordare una manovra concentrica che risolva anche la questione di (Luca) Marsico”, l’ex socio di studio di Fontana. Insomma l’indagine ora si allarga anche alla sanità. Nel frattempo ieri un terzo imprenditore è andato in Procura e ha deciso anche lui di collaborare con l’antimafia.
Zingaretti nomina Miller, l’unico pm che piaceva a B.
Fu la toga castiga toghe per eccellenza. Un ex pm di Napoli nominato capo degli ispettori del ministero di Giustizia in tre diversi esecutivi: chiamato nel 2001 da Roberto Castelli, governo Berlusconi, confermato da Clemente Mastella, governo Prodi, e riconfermato da Angelino Alfano, nell’ultimo governo del Cavaliere. Dieci anni a fare le pulci agli uffici giudiziari di trincea, a Trani, Milano, Catanzaro. E poi a pranzo con gli uomini finiti indagati nell’inchiesta sulla cosiddetta P3, Denis Verdini e Marcello Dell’Utri, che pensarono a lui per la presidenza della Campania in quota Pdl. E ora rieccolo, Arcibaldo Miller. Ricompare tra le pieghe del bollettino ufficiale della Regione Lazio.
Il governatore Pd Nicola Zingaretti lo ha nominato commissario straordinario per sei mesi dell’Ipab (Istituto Pubblica Assistenza e Beneficenza) Santa Margherita. Si tratta di un istituto inserito nel cuore di Roma, sull’Aventino, un centro di accoglienza e di servizio per gli anziani, con diversi immobili di proprietà tra appartamenti e negozi. Miller dovrà tenere in ordine le cose e riesaminare qualche carta, in attesa che il Tar dipani la matassa dell’impugnazione della privatizzazione dell’istituto. È un incarico che Miller, fino a qualche anno fa sostituto procuratore generale a Roma, accetta non certo per arricchirsi: circa 2.000 euro lordi al mese e il rimborso delle spese documentate.
Come tecnico Miller è stato voluto e apprezzato a destra e a sinistra. Oltre dieci anni fa i forzisti avrebbero voluto candidarlo a sindaco di Napoli contro Rosa Russo Iervolino, poi il partito di Berlusconi ripensò per un attimo a lui come governatore del dopo Bassolino. La candidatura che davvero decollò fu la prima: “La possibile candidatura a sindaco di Miller, come indicata da Berlusconi, va nel senso da noi sempre auspicato di preferire una personalità esterna ai partiti”, dissero nel 2005 Maurizio Iapicca e Gianfranco Laurini, all’epoca vicecoordinatore campano e commissario napoletano di Forza Italia.
Si sarebbe votato di lì a pochi mesi, ma Miller fu abbattuto dal fuoco amico dei fratelli Antonio e Fulvio Martusciello e restò a disporre ispezioni nelle procure.
Il suo nome poi finì senza mai essere indagato nelle carte dell’indagine sulla P3, per un pranzo a casa di Denis Verdini del 29 settembre 2009. Nicola Cosentino era azzoppato dalle inchieste di camorra, e una delle ragioni dell’appuntamento conviviale fu quella di sondare la disponibilità del magistrato. A tavola erano seduti tra gli altri il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo, Marcello Dell’Utri e Flavio Carboni.
“Miller era la persona più idonea, la persona ideale di Verdini” dirà a verbale Carboni (condannato in primo grado a sei anni e sei mesi per l’associazione segreta, accusa dalla quale Verdini viene assolto, condannato però a un anno e tre mesi per un finanziamento illecito). Come ricostruito nelle motivazioni della sentenza sulla P3, Miller dichiarò una disponibilità generica alle avances di Verdini e soci ma “pose una serie di condizioni cui subordinò il proprio assenso, condizioni che – come comunicatogli in seguito – non furono ritenute praticabili, con conseguente rinuncia dell’interessato”. È un riassunto della sua deposizione. Per i giudici, quel gruppo voleva ‘cooptare’ Miller per trarne benefici ma lui se ne divincolò. Dieci anni dopo quella sliding doors si ritrova a fare il commissario del Santa Margherita. Da Verdini a Zingaretti, sono i casi della vita.
Pedofilia, il Papa: “Vergogna per noi, ora la Chiesa si muove”
Dopo il motu proprio di giovedì per contrastare la piaga della pedofilia nella Chiesa che, tra le altre cose, prevede anche l’istituzione di un fondo a sostegno dei costi delle indagini, ieri papa Francesco è tornato a parlare del grave problema: “Non si risolve da un giorno all’altro, si è cominciato un processo. È un processo lento, partito venti anni fa. È emersa una vergogna, ma benedetta vergogna!, la vergogna è una grazia di Dio”. Jorge Mario Bergoglio, durante l’incontro con le Superiori generali ha parlato anche della delusione manifestata da alcune associazioni di vittime: “Alcune delle organizzazioni anti abusi non sono rimaste contente dell’incontro a febbraio, ‘ma non hanno fatto nulla’, io li capisco perché c’è la sofferenza dentro. Io ho detto che – spiega papa Francesco – se noi avessimo impiccato cento preti abusatori in piazza San Pietro sarebbero stati tutti contenti, ma il problema non sarebbe stato risolto. I problemi nella vita si risolvono con processi, non occupando spazi”. Il processo è lungo, ma ora servono risposte chiare e severe.