L’apice dei consensi già toccato. Ma i populisti non sono finiti

Non ho mai creduto a una Lega al 35 per cento, ma in ogni caso mi pare avessero raggiunto il massimo del potenziale espansivo, una volta che aveva divorato il centrodestra e aveva pure strappato parte dell’elettorato al Movimento 5 Stelle. Adesso c’è una certa usura, come se avessero toccato una soglia massima. Non credo abbiano inciso gli ultimi scandali, nonostante diversi sondaggi abbiano rilevato che quasi il 70 per cento degli italiani chiedesse le dimissioni di Siri o che la maggioranza degli elettori riteneva giusto celebrare il 25 aprile.

Salvini non pesca nelle maggioranze, ma nelle minoranze: se il 20 per cento non è d’accordo su un tema, lui punta a prenderselo tutto e a fidelizzarlo. Al di là dei decimali, è bene concentrarsi sulle tendenze: da qualche settimana il Movimento cresce e poi consolida, senza più calare, come anche il Pd sembra essere uscito dalla palude del 16-18 per cento. Allo stesso modo la Lega ha una flessione, agevolata dalla campagna elettorale del Movimento che ha iniziato a mostrare insofferenza nei confronti di Salvini. Detto questo, non mi aspetto certo che la Lega abbia iniziato il crollo definitivo: il sovranismo è destinato a durare, perché mai come in questo momento storico c’è scollamento tra élite e popolo. E il racconto da parte dei media, che hanno alzato un fuoco di sbarramento senza precedenti nei confronti di questo governo, mettendosi dalla parte di queste élite, non fa che favorire i cosiddetti populisti.

Governa, non è all’opposizione: agli elettori non piace chi litiga

Èbene tenere a mente che gli italiani non cambiano intenzione di voto così come si cambia canale con il telecomando. È un processo medio-lungo, che va oltre l’ultimo scandalo che ha riguardato il sottosegretario Siri o l’inchiesta in Umbria che ha colpito il Pd.

Al di là dei numeri – Ipsos rileva un calo della Lega di 6 punti percentuali perché le assegnava un consenso molto alto, altri istituti già si assestavano a percentuali più basse – c’è una flessione significativa del Carroccio nell’ultimo mese. Più che per episodi specifici, ritengo sia dovuta al fatto che agli italiani non piace la conflittualità, soprattutto tra alleati.

Il periodo di massimo splendore dei gialloverdi è stato quando sembrava fossero d’accordo su tutto: gli italiani vogliono percepire un clima sereno e colpiscono chi mina sempre più a questa cordialità.

Salvini è stato percepito come l’artefice della maggiore di conflittualità all’interno del governo, ha trasmesso una sensazione di instabilità agli elettori, che non si sentono tranquilli. Ricordo un precedente: nel 2008 il centrosinistra fu punito duramente – perse 10-12 punti percentuali rispetto a soltanto due anni prima – per via delle continue liti interne al governo Prodi. Se stai all’opposizione essere conflittuale aiuta, se sei al governo no. E Salvini ha gestito la campagna elettorale come se fosse all’opposizione.

“Il M5S vince quando è se stesso. Dalla Lega solo panna montata”

Quei sondaggi che sembrano buone notizie li traduce con una parola: identità. “Il Movimento va bene quando fa il Movimento, e allora non ce n’è per nessuno”. E Filippo Nogarin, sindaco uscente di Livorno, ora candidato alle Europee per il M5S, ai principi originari dice di tenere parecchio: “I distinguo e le differenze con la Lega sono chiari, poi c’è un contratto di governo che rappresenta un punto di equilibrio”.

Voi 5Stelle sembrate recuperare. Merito dell’aver tenuto duro sul caso Siri o della virata a sinistra?

Quello che sta pesando sono innanzitutto i risultati del nostro lavoro, ed è l’aspetto che più mi interessa. Al governo ci siamo presi delle deleghe difficili, di certo più di quanto lo siano quelle affidate alla Lega.

La sicurezza non è poi così semplice da gestire, non crede?

Sulla sicurezza è facile parlare alla pancia dei cittadini. Noi invece abbiamo lavorato su provvedimenti di cui ora si vedono i risultati, a partire dal reddito di cittadinanza.

Quelli targati Carroccio invece non funzionano?

Nel caso della Lega si può parlare di un effetto da panna montata. I loro provvedimenti vengono presentati come se fossero chissà che cosa, ma poi si sgonfiano e gli elettori che non sono tifosi se ne stanno rendendo conto.

Tra quei provvedimenti c’è anche il decreto Sicurezza?

Sta creando problemi nella sua applicazione, e anche qui parlo da amministratore. Il lavoro per l’integrazione dei migranti si è fatto molto più difficile. Le cooperative impegnate nel sociale non riescono più a partecipare ai bandi, e si stanno perdendo posti di lavoro, anche qui a Livorno.

Il M5S però il decreto lo ha votato.

Faceva parte di un accordo di governo. E gli accordi si rispettano.

Si poteva trattare. E ora il conto lo pagano altri, come lei ricorda.

Io parlo degli effetti che sta avendo da amministratore, certo. Ma l’aspetto politico nazionale richiede un’altra chiave di lettura.

Lei prima accennava alle differenze con la Lega. E si torna alla domanda: vi siete ricalibrati a sinistra, dopo esservi schiacciati per mesi sul Carroccio sull’immigrazione?

Non ci siamo schiacciati sulla Lega, e non porrei la questione in termini di destra e sinistra. Sull’immigrazione abbiamo un’idea diversa dal Carroccio, ossia che il Trattato di Dublino vada rivisto e che i migranti vadano ridistribuiti tra i vari Paesi dell’Unione europea.

Lei sarebbe andato a trovare la famiglia nomade a Casal Bruciato, come ha fatto la sindaca Virginia Raggi?

Sì, perché la legge va rispettata, ed è un principio che andava ribadito.

Luigi Di Maio ha criticato la sindaca: “Prima i romani poi i rom”.

Non si vuole tenere i rom per strada, nei campi e neppure nelle case. Ma da qualche parte dovranno pur stare. E la via migliore è seguire percorsi di legalità.

La Lega sostiene che il Movimento è stato giustizialista con Siri mentre è stato garantista con i suoi sindaci. E l’accusa vale per la Raggi ma potrebbe valere anche per lei, Nogarin.

Sono cose completamente diverse. Appena un amministratore del M5S è stato accusato per una vicenda dove si sospetta corruzione (il presidente del Consiglio comunale di Roma, Marcello De Vito, ndr) è stato cacciato alla velocità della luce. Io come Virginia o la sindaca di Torino Chiara Appendino, non siamo mai stati coinvolti per inchieste relative a presunte mazzette o cose del genere.

Lei e le due sindache eravate contrari a salvare Salvini dal processo per la Diciotti.

E non è un caso: siamo tre amministratori, in prima linea.

In queste ore è emersa la relazione degli esperti della Procura sull’alluvione a Livorno del settembre 2017, in cui morirono otto persone. E il rapporto è molto duro nei suoi confronti: “Con un censimento dei punti critici si sarebbero potuti limitare i decessi”.

Quella relazione è di oltre un anno fa ed è emersa ora. Ma io nel frattempo ho dato tutte le spiegazioni in un interrogatorio che io stesso avevo richiesto. Il ricordo di quella tragedia mi amareggia moltissimo. Ma so di non avere errori da rimproverarmi.

3 domande a Jasmine Cristallo

Ognuno ha i suoi balconi. E quelli di Catanzaro sono tutti contro il ministro dell’Interno. “Mai con Salvini”, “La Lega è una vergogna”. “Catanzaro non si lega”. C’è pure un’anziana insegnante che, dal suo balcone, teneva uno striscione con la scritta “Felpa Pig”. Jasmine Cristallo è una delle organizzatrici della protesta contro il ministro dell’Interno, ieri in Calabria.

Come è andata la visita del vicepremier?

Salvini è stato fortemente contestato. C’era Potere al Popolo, Usb, la Sinistra, Anpi e Articolo 1. Una cosa che ci ha colpito è che c’erano molte mamme rom con bambini, molte donne con il velo e ragazzi di colore. Sono rimasti in un angolo ma hanno voluto partecipare a questa manifestazione in cui Salvini è stato malamente fischiato e si infastidito. Noi siamo meridionali e il Sud non se lo dimentica chi è questo signore e qual è il suo partito di appartenenza. Lui ha semplicemente cambiato il bersaglio: ieri eravamo noi e oggi sono i migranti.

Catanzaro ha risposto?

La città non ha risposto. Di Catanzaro non c’era quasi nessuno. Molti sono venuti con i pullman da altre città. Tuttavia eravamo più noi dei sostenitori di Salvini.

Avete avuto paura del fatto che queste proteste potessero essere utilizzate in chiave elettorale dalla Lega?

Sì, eravamo terrorizzati, per questo siamo stati molto attenti. Abbiamo voluto fare l’iniziativa dei balconi sia per ricordare che cosa sono stati i balconi del ‘900 in Italia, sia per dire che non abbiamo apprezzato l’episodio di Forlì (quando il ministro ha parlato proprio da un balcone, ndr) e che non abbiamo tollerato che quella signora di Avellino sia stata censurata per aver messo lo striscione “Questa Lega è una vergogna” sul suo balcone. La Digos le ha chiesto di toglierlo, appellandosi a non si sa quale legge: non è proibito protestare civilmente.

Striscioni e consensi giù: il nuovo Salvini

“Mai con Salvini”, “La Lega è una vergogna”, “Felpa pig”, “Catanzaro non si Lega”, “Oja Catanzaro puzza”. I calabresi hanno accolto il comizio del Capitano leghista a modo loro: riempiendo finestre, balconi e serrande di scritte e striscioni contro di lui. La contestazione al ministro dell’Interno sta diventando una sfida creativa: dopo i selfie-beffa diventati virali negli ultimi giorni, ieri a Catanzaro si sono affidati ai messaggi sulle pareti della città. Comparsi a decine. E affiancati dalla protesta “tradizionale”: ormai ogni volta che Salvini si muove ad aspettarlo non ci sono solo i suoi sostenitori (che continuano a riempire le piazze) ma anche drappelli sempre più cospicui di manifestanti contro (ieri in Calabria, giovedì a Osimo, Ancona).

Il ministro in questo periodo sembra la sua controfigura. Se fino a qualche tempo fa mandava “bacioni” agli avversari, ora comincia a tradire palpabili segnali di nervosismo: ieri ha definito i contestatori “moscerini rossi”, l’altro giorno a Modena erano “quattro zecche rosse”. Insomma: dopo aver dato l’impressione di camminare sulle acque per mesi, il capo della Lega per la prima volta si scopre appannato. Tanto sul palco dei comizi elettorali quanto nella comunicazione social (l’ultima trovata del concorso “Vinci Salvini” è francamente imbarazzante) e pure in quella televisiva (l’ultima performance su La7 a Otto e mezzo l’ha mostrato insolitamente livido e irascibile). La ragione di questo nervosismo non è tanto nelle contestazioni – che magari erano meno efficaci e fantasiose ma l’hanno accompagnato dall’inizio della sua scalata leghista – ma soprattutto nei numeri. Quelli dei sondaggi che in via Bellerio si consultano compulsivamente. E a due settimane dalle elezioni europee registrano la prima vera flessione della Lega da quando Salvini ne ha preso il comando.

Le cifre più notevoli sono quelle di Ipsos pubblicate ieri dal Corriere della Sera: il ministro avrebbe perso il 6% in tre settimane (dal 36,9% del 18 aprile al 30,9 odierno). La caduta di Salvini su Ipsos è più rovinosa anche perché i numeri dell’istituto di Nando Pagnoncelli erano in assoluto i più alti per il Carroccio (è possibile quindi che fosse stato sovrastimato). Ma il calo leghista è confermato in tutti i sondaggi. Secondo la “supermedia” di YouTrend, Salvini e i suoi sono passati dal 34,4% di inizio marzo al 32,2% di questi giorni. Resterebbero ancora, con margine, il primo partito d’Italia. Ma qualcosa è cambiato.

I guardiani del baro

Molti lettori ci scrivono sulla puntata-record di Otto e mezzo col faccia a faccia, anzi il corpo a corpo, fra Lilli Gruber e Alessandro De Angelis da una parte e Matteo Salvini dall’altra. Ci ha scritto anche Beppe Grillo per dire la sua, che trovate a pag. 4. Ospiteremo altri interventi, perché il tema è interessante e importante: come si affronta il pallone gonfiato del momento. Noi restiamo della nostra idea: meglio sgonfiarlo con i fatti (e soprattutto, in questo caso, i non fatti) che con le campagne ideologiche (tipo il ritorno del nazifascismo), senza prenderlo troppo sul serio né abbandonare il registro dell’ironia. Come i ragazzi che lo fregano con i selfie, come gli animatori della scanzonata rivolta dei balconi ieri a Catanzaro. Lui, non a caso, teme più la cronaca e la satira che le prediche e le invettive con la bava alla bocca e il ditino alzato. Come tutti i palloni gonfiati di cui ciclicamente una certa Italia s’infatua (Montanelli li chiamava “guappi di cartone”): da Mussolini a Craxi, da B. a Renzi. I più abili a comunicare – o per padronanza o per possesso dei mezzi di comunicazione – durano lustri. Quelli più scarsi si sgonfiano presto. Per ora non sappiamo a quale categoria appartenga Salvini, protagonista di una parabola tecnicamente strepitosa. Nel 2013, dopo 33 anni di militanza, prese la Lega al 5%, ancora tramortita dagli scandali, e l’ha portata al 17,4% nel 2018 e al 30% negli ultimi sondaggi.

Alle Europee del 26 il suo sarà il primo partito d’Italia: se si votasse alle Politiche, il 27 sarebbe convocato da Mattarella per l’incarico di premier e, grazie al Rosatellum che assegna la maggioranza dei seggi alla coalizione che supera il 40% dei voti, guiderebbe un governo di centrodestra. Ma ormai la politica si confonde con la psicologia (o con la psichiatria) e scambia i sondaggi per voti veri. Dunque, fino a qualche giorno fa, la forza di Salvini, puramente virtuale, era stimata oltre il 35% in marcia verso il 40, con i 5Stelle quasi doppiati poco sopra il 20, a un passo dal Pd che qualcuno dava in fase di sorpasso. Ora invece, secondo il sondaggio Ipsos di Nando Pagnoncelli sul Corriere, la Lega ha perso 6 punti in tre settimane e naviga sul 30-31. E il M5S risale al 25, distanziando un Pd stagnante al 20. Tecnicamente, questi dati sarebbero un trionfo per Salvini e uno smacco per Di Maio, visto che il primo guadagnerebbe 13 punti e l’altro ne perderebbe 7 in 15 mesi. Ma psicologicamente sarebbe una brusca discesa per chi da mesi se la tira da padrone e annuncia la resa dei conti post-voto. Il sondaggio, fra l’altro, s’è chiuso l’8 maggio, dunque include la fase iniziale del caso Siri.

Ma non la cacciata del sottosegretario per mano di Conte e Di Maio, né l’ulteriore schiacciamento a destra di Salvini col libro edito da un fascista, né la nuova Tangentopoli lombarda col leghista Fontana indagato. E lo scandalo Siri e lo spostamento a destra sono, secondo Pagnoncelli, le cause principali della brusca retromarcia leghista. Fatto il pieno di voti leghisti e di destra prima e dopo le elezioni del 2018, Salvini si era spostato su posizioni meno estreme, attirando voti da FI e dal M5S. Come Marine Le Pen che, imbarcata tutta la destra francese, si buttò al centro, scomunicò il padre, cambiò nome e simbolo al partito e partì alla caccia dei voti moderati di Sarkozy. Ora invece il ritorno di Salvini all’estrema destra ha messo in fuga un bel po’ di moderati, verso l’astensione, il M5S e FdI (la Meloni è meno connotata – a dispetto di certi compagni di strada – sul nostalgismo fascista e più sul conservatorismo vecchio stampo, infatti è ormai a un passo da FI). Siccome Salvini, da ministro, non ha combinato quasi nulla, è sulla comunicazione che s’è giocato tutto: le risalite e le discese ardite. E proprio lì, da un paio di mesi, ha infilato una serie impressionante, quasi inspiegabile, di errori: la foto pasquale col mitra, il flirt con Casa Pound, il comizio con gli ultrà cattolici a Verona, la banalizzazione del fascismo il 25 Aprile, la difesa di una causa persa in partenza come Siri (se l’avesse cacciato subito, come Di Maio con De Vito, lo scandalo sarebbe sparito dalle prime pagine: invece è durato 20 giorni, fino allo smacco finale), le parole inutili e truculente tipo “castrazione chimica”, la plateale assenza da Napoli dopo il ferimento della piccola Noemi, la strampalata campagna contro l’innocua cannabis legale che dà lavoro a 10 mila persone.

Tutte mosse che non gli han fatto guadagnare nuovi elettori (quelli di destra-destra già votano per lui) e gliene han fatti perdere parecchi, fra i leghisti doc refrattari al malaffare e gli orfani di B. allergici a estremismi e fibrillazioni. Questi settori flottanti dell’elettorato si fidavano del Salvini che, l’8 dicembre in piazza del Popolo, citava De Gasperi, Luther King e papa Wojtyla. Ma, ora che torna a rintanarsi negli angoli più neri e bui della storia, si rifugiano nell’astensione. Ed è proprio a loro che parla Conte, col suo stile pacato, rassicurante e ora anche decisionista, su temi più cari ai 5Stelle che alla Lega. Intanto Di Maio incassa i frutti delle leggi più demonizzate dai profeti di sventura: l’avvio ordinato del reddito di cittadinanza e l’aumento di posti di lavoro stabili dopo il dl Dignità, a dispetto di chi vaticinava caos e licenziamenti di massa. Smette di inseguire Salvini sui temi leghisti, imponendo quelli del M5S senza più il timore che la Lega apra la crisi. E va a riprendersi i voti ceduti al Pd e all’astensione, che poi sono gli unici recuperabili (anche se sbaglia a dissociarsi dalla Raggi che mette la faccia a Casal Bruciato, osannata dalla sinistra). Del resto, in questo governo, il M5S ha un senso solo se svolge il ruolo che Bossi rivendicava per sé nel 1994, da alleato-rivale di B.: “il guardiano del baro”. Almeno finché il pallone non si sgonfia un altro po’.

Quando le speranze tradite sfociano nella dittatura: il precedente del Cile

Che strano leggere questo fumetto, Là dove finisce la terra: parla del Cile, non dell’Italia e dell’Europa, di anni lontani, dal 1948 al 1970, questo volume si ferma un attimo prima della svolta più nota, il golpe contro Salvador Allende. Anche Nanni Moretti ha dedicato il suo ultimo documentario proprio agli esuli cileni, scappati dalla dittatura. Vicende lontane eppure, anche senza la scusa dell’anniversario tondo, vengono rievocate proprio ora dal nostro inconscio collettivo. Désirée e Alain Frappier, una scrive, l’altro disegna. Nel 2013 conoscono a casa di amici Pedro Atìas, figlio dello scrittore socialista Guillermo: uno dei tanti cileni della generazione del dopoguerra che ha vissuto quella stagione di traumi, speranze e tragedie culminata nel golpe contro Allende l’11 settembre del 1973 e poi la dittatura militare del generale Pinochet. I due fumettisti francesi scelgono uno stile narrativo che costringe il lettore alla massima concentrazione: rapidi aneddoti anche marginali nella vita di Pedro, dense didascalie che permettono di inquadrarli nello sfondo sociale e politico, sprazzi di bellezza in tavole che per muta eleganza e scale di grigi ricordano Jiro Taniguchi. Le sequenze rapide di vignette si intersecano con tavole costruite in modo più complesso. Se questo volume, molto politico e curato come tutti i titoli dell’editore add, risulta così coinvolgente per il lettore è perché in quel Cile degli anni Sessanta e Settanta rivediamo un po’ della nostra Europa: entusiasmi delusi, promesse di cambiamento tradite, disuguaglianze crescenti che finiscono per generare la domanda di svolte autoritarie. Rivivere, grazie a un fumetto, la storia è un buon antidoto per evitare il rischio di ripeterla.

 

Là dove finisce la terra – Cile 1948-1970

Désirée e Alain Frappier

Pagine: 262

Prezzo: 19,50

Editore: add

 

Incantesimi e metamorfosi: mille avventure non solo di notte

Sebbene la pennadi Roberto Piumini possa ormai essere considerata una garanzia, le sue “Storie per voce quieta” non possono far a meno di sorprendere piacevolmente. Siba, Chinarra e Maloi (“vero dandy spirituale”) sono i protagonisti di una storia che non ha niente a che vedere con la narrativa tradizionale, e anziché svilupparsi in modo lineare, mantenendo riconoscibili inizio, fine e morale, viene a crearsi grazie a un insieme di istanti, fotografie poetiche autosufficienti. Tra le pagine ricche di surrealismo, i tre si imbatteranno in personaggi e situazioni diverse, ma affrontate con il medesimo approccio serafico e a tratti ironico. Ci sarà il matrimonio della donna che con le nozze “vuole sopperire alla nostra poca eternità”, i viaggi in gondola, l’arrivo di una mongolfiera e la scomparsa del riflesso di Siba dallo specchio, che tuttavia non la spaventerà perché lei “sapeva di esistere”. E ancora ciliegie, semi azzurri che sembrano scaglie di diamante e qualche accenno, delicato, alla sessualità. Il linguaggio forbito ma accessibile non ostacolerà la comprensione, ma permetterà ai più piccoli di scoprire nuovi termini e ai più grandi di rubar loro il volume per godere di estemporanee evasioni da una realtà che, sempre di più, sente la mancanza della poesia.

Male e verità del pianeta in uno scatto

Una bambina piange e si dispera mentre la madre (e dunque anche lei) viene arrestata dalla polizia di frontiera statunitense. Siamo a McAllen, in Texas, nella notte del 12 giugno 2018. La piccola indossa una giacchetta rossa e scarpine dello stesso colore mentre la madre, durante la perquisizione dell’agente, le fa da scudo con il suo corpo. Lei è Yanela Sánchez, originaria dell’Honduras, ed è il soggetto della fotografia Crying Girl on the Border di John Moore, da poco eletta Foto dell’anno dell’edizione 2019 del World Press Photo Contest, accolto in anteprima italiana dal Palazzo delle Esposizioni a Roma per la mostra itinerante World Press Photo Exhibition 2019 (fino al 26 maggio).

L’esposizione ospita i 140 finalisti del prestigioso concorso di fotogiornalismo, che dal 1955 premia i migliori fotografi mondiali. Oltre a John Moore, anche Pieter Ten Hoopen, vincitore del premio Photo Story of the Year con The Migrant Caravan, che racconta la disperata corsa di un gruppo di persone, fuori Tapanatepec in Messico, verso un camion fermatosi per dare loro un passaggio. E ancora possiamo vedere lo Yemen che sta subendo le restrizioni da parte della coalizione saudita all’importazione di cibo, medicinali e carburante, inquadrato come una terra desolata da dietro le porte retate di un camion di provviste in Yemen Crisis di Lorenzo Tugnoli (già premio Pulitzer per la fotografia). In Akashinga – the Brave Ones di Brent Stirton, una soldatessa partecipa a una spedizione anti-bracconaggio tutta al femminile (chiamata Akashinga) in Zimbabwe; e in Lake Chad Crisis, Marco Gualazzini narra la progressiva desertificazione in Africa del Lago Ciad.

Dalla Cuba della quindicenne Pura, che fa il giro del suo quartiere a L’Avana su una decapottabile rosa nello scatto The Cubanitas di Diana Markosian, fino all’Irlanda di Olivia Harris, che in Blessed Be the Fruit: Ireland’s Struggle to Overturn Anti-Abortion Laws immortala i festeggiamenti delle donne all’indomani del 25 maggio 2018 (quando il 66,4% della popolazione ha votato per rovesciare la restrittiva legislazione sull’aborto), il mondo tutto raccontato da queste fotografie sembra lontano e irreale, eppure non lo è, sembra non toccarci, eppure ci tocca perché insegna cosa significano verità e testimonianza, proprio come scrive Roberto Saviano nel suo docu-racconto In mare non esistono taxi (Contrasto), illustrato con gli scatti dei più grandi fotoreporter: “Smontare le menzogne è difficile, ma contro la bugia non c’è altra pratica che la testimonianza”.

Non tutti i ciccioni vengono per nuocere

Grasso è bello, oltre a essere il titolo di un noto musical di Broadway, era un pensiero diffuso nel Medioevo quando la rotondità del corpo era un segno di ricchezza, un elemento distintivo. Con il tempo l’obesità fu associata all’ironia beffarda di Gargantua e goffa di Sancho Panza, per subire nel XX secolo una condanna definitiva. Il corpo si scopre, il grasso non è tollerato e grazie alla bilancia la definizione diventa più precisa e oggettiva: mens sana in corpore sano. L’aspetto medico però passa in secondo piano rispetto alla valutazione psicologica, l’obeso è colui che non sa trattenersi, non sa dimagrire e non si adatta ai canoni della società. E da caratteristica delle classi dominanti diventa gogna delle classi dominate, che mangiano male, junk food pieno di zuccheri. Per cui il grasso è malato, ridicolo, con una venatura ribelle, impossibile da riproporre nell’autonarrazione di Instagram. Lo sa bene Pino Calafiore, protagonista del secondo romanzo di Arturo Belluardo, che vive l’umiliazione buffonesca sulla propria adipe.

Dopo lo scoppiettante esordio con Minchia di mare, l’autore si libera di ogni inibizione e si concede una grande abbuffata di lingua e cultura pop in Calafiore (Nutrimenti, p. 208 euro 16).

Pino Calafiore lavora per una banca, in un archivio sotterraneo che è nascondiglio e trappola, luogo di umiliazione e copula con l’orrida Fata Fiatella. A dispetto della pachidermica mole, ha un’avvenente compagna, una figlia non sua, una casa, un cugino trans e quel lavoro che disprezza, ma non intende abbandonare. Eppure già al secondo capitolo del romanzo si capisce che qualcosa nella vita di Calafiore non ha funzionato. Perché lo troviamo prigioniero di una coppia di cannibali, Marta e Federico, che vogliono farselo allo spiedo. Allora, come una Sherazade boteriana, Pino racconta la propria storia per salvarsi e mette in scena una grande apologia della fame che lo caratterizza, sublimata dall’identificazione con i personaggi dei fumetti e da perverse fantasie erotiche con la ministra Lorenzin.

Sì, è vero, Pino confessa, ha mangiato, mangiato senza sosta, si è allenato per battere il record di tramezzini ingurgitati in un quarto d’ora, ha guardato ogni possibile programma di cucina, è stato un devoto di Cannavacciuolo. Ma ora è cambiato, ora ha capito quanto la società sia malata, quanto il mondo sia una grande bocca bulimica, pronta a fagocitare, fare a pezzi e rivomitare.

Calafiore diventa una metafora, neanche troppo sottile, del capitalismo, che divora per essere divorato. Ma il centro del romanzo, il fuoco della narrazione rimane sul corpo e la lingua del corpo. Belluardo non ha peli sulla lingua, esagera, sbrodola, si prende gioco dei ricordi d’infanzia. E crea cicatrici sul corpo di Pino.

Non c’è nessun rispetto per i ciccioni oggi, si tutelano tutte le altre categorie fisiche, persino i nani, dopo Game of Thrones. Ma i cicciobombo, i pacchioni, i grassoni continuano a essere sfottuti. Senza tenerezza e una pacca sul ventre.

 

Calafiore

Arturo Belluardo

Pagine: 208

Prezzo: 16

Editore: Nutrimenti