Ritorna Cavenaghi, tenace e irresistibile “poliziotto rosso” nella Milano da bere

Alle origini della fine della Prima Repubblica, alla vigilia della confusione morale dei ’90, come recita il titolo del secondo romanzo giallo di Lodovico Festa, già apparatchik del Pci meneghino in seguito tra i fondatori del Foglio. E a indagare, appunto, sulle avvisaglie di questo caos è un tenace funzionario comunista di nome Mario Cavenaghi, capo dei probiviri milanesi: “Mentre i poco informati tra gli iscritti chiamavano quelli della probiviri la nostra balia o il nostro parroco, quelli che erano appena appena a conoscenza degli interna corporis li chiamavano la polizia rossa o anche le nostre barbe finte”.

Un compito quindi delicato e riservatissimo: assicurare una costante vigilanza del Partito sulla vita dei compagni eletti e militanti. Tra un affare di corna e qualche pasticcio torbido urbanistico in periferia, il funzionario s’imbatte in un omicidio, come già accaduto nella sua prima inchiesta, il fulminante La provvidenza rossa. Stavolta siamo nel decisivo 1984 e Milano è il laboratorio – visto con sospetto dal centro berlingueriano di Roma – della dialettica tra miglioristi comunisti e craxiani nella giunta Tognoli (Bagnoli nel libro). Riformisti e modernizzatori con l’aggiunta degli imprenditori Berlusconi (Cazzaniga) e Ligresti (Crusca). Il Pci è arroccato su posizioni conservatrici, giudica il craxismo solo con il metro della degenerazione morale e Cavenaghi indagando sul delitto di Giorgio Russi, compagno geometra del comune di Milano, “vede” sempre di più la fine del suo mondo. Un libro irresistibile sulla storia di “quel” Pci, grazie a un’antologia, pagina dopo pagina, di battute genialmente ciniche sul modus vivendi dei rivoluzionari di professione.

 

D.C. (DOPO CHRISTIE)

La confusione morale

Lodovico Festa

Pagine: 378

Prezzo: 14

Editore: Sellerio

Saverio La Ruina: “L’avanguardia passa sempre da Castrovillari”

La Primavera dei Teatri spegne venti candeline, quest’anno: l’edizione del 2019 comincerà nel comune calabrese di Castrovillari il 25 maggio, e terminerà il primo giugno. Ideato e diretto dalla compagnia Scena Verticale, il festival torna a dare spazio ai nuovi linguaggi della scena teatrale contemporanea, creando un crocevia di artisti, operatori e critici. Saverio La Ruina è uno degli organizzatori: nonostante sia attualmente a Parigi per la rappresentazione di un suo testo, è riuscito a spiegarci l’evoluzione che l’evento ha avuto in questi anni. “Siamo partiti subito con le proposte ardite, estreme: è un festival dedicato ai nuovi linguaggi scenici, con una particolare attenzione ai giovani e ai nuovi fermenti della scena italiana”. Questa scelta ha senza dubbio rappresentato una novità per il territorio. “A Castrovillari non c’era mai stata la presenza di un’avanguardia teatrale, anzi: nel 1986 era stato incendiato l’unico teatro del paese, e da allora è rimasto un vuoto che noi siamo riusciti a riempire solo tredici anni dopo, nel ’99”. E a quel punto, qual è stata la risposta del pubblico? “Le nostre scelte hanno impiegato del tempo per affermarsi ed essere apprezzate a pieno, hanno dato i loro frutti nel tempo. All’inizio le nostre proposte venivano accolte con freddezza, adesso tutte le sale vengono riempite. C’è anche chi, tra gli addetti ai lavori, sostiene che Castrovillari porti bene: tanti artisti ormai affermati sono passati da qui”. Questo, nonostante arrivare sul luogo non sia semplice… “Non è facile creare una situazione così nella periferia calabrese: chi sceglie di partecipare prende una scelta consapevole, anche solo per tutto il viaggio che deve affrontare se viene da fuori. Considerando la fatica che c’è dietro, ogni anno cerchiamo di creare un programma che abbia una qualità tale da indurli a tornare”. Ciononostante La Ruina, carriera brillante e passione contagiosa, non cambierebbe la scelta del posto: “Non esiste un luogo sbagliato per il teatro, che anzi è più florido in periferia piuttosto che al centro. È questo il bello: puoi farlo ovunque”

E Shakespeare diventa horror

“Siamo eroi o macellai?”, si chiede Bruto guardando verso la platea, dopo aver ucciso Giulio Cesare. Shakespeare torna in scena con uno spettacolo diviso in due piéce da un’ora ciascuna: prima Tito Andronico (riscritto da Michele Santeramo, regia di Gabriele Russo), poi Giulio Cesare (di Fabrizio Sinisi, regia Andrea De Rosa). Una riflessione sulla violenza e la sete di potere, come destino irrevocabile dell’umanità. “La tragedia si ripete sempre uguale”, dice Lavinia, mutilata e imbratta di sangue, nel Tito Andronico.

La scena iniziale è illuminata di luce blu ed evoca un gelido banchetto: quattro sedie, un vassoio, mestoli che pendono dal soffitto. Tutto è di freddo metallo, senza tempo. Tranne una poltrona decò all’angolo della scena, di fianco a un grammofono. L’inizio coincide con la fine, perché il banchetto è anche la conclusione della storia. Gli attori si presentano salutando il pubblico mentre sale la musica di Arancia Meccanica, poi tolgono di mezzo sedie e mestoli per sedersi ai margini laterali del palco. In scena, resta la poltrona con uno stanco, devastato, Tito Andronico. Dimenticate il protagonista epico della tragedia shakespeariana: il generale romano, dopo dieci anni di guerra, vuole solo riposarsi, leggere un libro e ascoltare musica. Ma il fratello, il tribuno della plebe Marco Andronico, lo vuole a capo dell’impero: “Il popolo ha scelto, non si può far nulla”. Tito rifiuta, ma il nuovo imperatore sposa la sua prigioniera, la regina dei Goti Tamora, che arde di vendetta perché il generale ha ucciso suo figlio. Inizia una spirale di vendette dai toni horror. Dei dodici personaggi, solo due restano in vita. Gli altri si scannano nei modi più turpi. Lavinia, figlia di Tito, è stuprata e mutilata (senza mani e senza lingua) dai figli di Tamora. Nella scena finale, quella del banchetto, la regina divora i suoi figli serviti su un piatto d’argento da Tito Andronico. “E poi muoio”, dice Tamora guardando il pubblico e accasciandosi. Gli altri personaggi annunciano la dipartita allo stesso modo, tra le risate degli spettatori. In platea una donna incinta confessa, dopo lo spettacolo, di aver avuto un turbamento, alla vista della regina dei Goti che divora, ignara, la prole con la bocca insanguinata.

Del resto, “si vive e si muore a caso”, dice Bruto nella seconda piece, il Giulio Cesare. Per gran parte del racconto Marco Antonio seppellisce Cesare in silenzio, spalando sabbia sulla salma. Cassio, Bruto e Casca sembrano militari in trincea: raccontano l’omicidio politico recitando monologhi con le gambe dentro a un botola, sul proscenio. Bruto è tormentato dal dubbio: la Repubblica stava scivolando nella tirannia, ma la ragion di Stato giustifica l’assissinio? Il finale, con la battaglia di Filippi, è il lungo e folle elenco, come una litania o una musica rap, delle armi più terrificanti (a metà tra Shakespeare e Apocalypse Now): dalla polvere da sparo all’atomica fino alle bombe al fosforo. Quello è l’unico progresso possibile.

 

Roma, Teatro Argentina, fino a domenica

Tito/Giulio Cesare

Regia di Gabriele Russo e Andrea De Rosa

Léa Seydoux da Cannes a 007 (passando per Amburgo)

Léa Seydoux, prima di tornare sul set con Daniel Craig nel capitolo 25 della saga di James Bond, sta recitando con l’olandese Gijs Naber, Louis Garrel, Josef Hader, Jasmine Trinca e Sergio Rubini in La storia della mia vita, diretta dalla regista ungherese Ildikó Enyedi, che due anni fa con Corpo e anima ha vinto l’Orso d’oro alla Berlinale ed è stata candidata all’Oscar. Frutto di una coproduzione europea che coinvolge Rai Cinema girata tra Amburgo, Budapest e Malta, il film è tratto dall’omonimo romanzo di Milan Fust ambientato negli anni 20 e prende il via dalla decisione di un capitano della Marina mercantile olandese che scommette con un amico che sposerà la prima donna che entrerà nel caffè in cui i due si trovano.

Léa Seydoux sarà intanto nei prossimi giorni in concorso al Festival di Cannes con Roubaix, une lumière decimo lungometraggio di Arnaud Desplechin in cui apparirà nel ruolo di una tossicodipendente accusata insieme alla sua amica/amante (Sara Forestier) del brutale omicidio di un’anziana vicina di casa su cui indaga un commissario della polizia locale (Roschdy Zem).

Emma Stone e Ralph Fiennes reciteranno insieme in The Menu, una nuova commedia/horror di Alexander Payne in cui una giovane coppia appassionata di alta cucina raggiunge in una lontana e misteriosa isola un esclusivo ristorante in cui uno chef piuttosto eccentrico cucina segrete prelibatezze.

Sono iniziate a Roma le riprese di Sei bellissima, una nuova serie crime in 4 puntate diretta per Cattleya e Rai Fiction da Andrea Molaioli. La protagonista è Cristiana Capotondi nel ruolo di un’ispettrice di polizia che si occupa di femminicidi. Una donna forte che, investigando su casi drammatici, con l’aiuto di altre donne dovrà affrontare molti pregiudizi, compresi i suoi.

La ballerina, il gangster e i figli di nessuno – I figli del fiume giallo

“Tutto ciò che è sottoposto al fuoco diventa puro”. A parlare è un gangster dagli occhi a mandorla ma dal sentire universale quanto lo è il cinema del cinese Jia Zhang-ke. Doveroso è dunque invitare subito il pubblico a fugare dubbi o timori davanti al bellissimo I figli del fiume giallo, il nuovo lavoro del regista dello Shanxi nelle sale da ieri. Il motivo è semplice: Zhang-ke è un poeta del racconto per immagini e in quanto tale arriva al cuore di ogni latitudine, cultura e sensibilità, sempre lo si voglia far entrare.

Fatte le dovute premesse, chi pagherà il biglietto per questo film, già concorrente lo scorso anno a Cannes, s’immergerà nel cuore di un’epica romantica e criminale dove spazio e tempo giocano ruoli di protagonisti assoluti, come del resto accade nell’intera filmografia di questo filmmaker, classe 1970 ma già riconosciuto maestro della Sesta Generazione del cinema cinese. Al centro è la figura di una donna, una ballerina di nome Qiao (interpretata dalla straordinaria musa e moglie Zhao Tao) che s’innamora di Bin, un gangster fra i tanti delle bande locali. Basta un colpo di pistola a far cambiare la vita della donna. All’inizio del film siamo nel 2001, a Datong nello Shanxi, non lontano dal villaggio di Fenyang, luogo natìo del regista collocato nella Cina settentrionale e solcato dal Fiume Giallo, da cui la traduzione italiana del titolo del film, in originale Jianghu Ernü, letteralmente “Figli e figlie del Janghu”; tale titolo porta un significato sostanziale per Zhang- ke perché rimanda a quell’underworld criminale costituito dai figli di nessuno, sorta di orfani lasciati ai “fiumi e laghi”, traduzione letterale di Janghu. Sono loro gli “eredi” raminghi della nuova Cina, e sono loro i destinatari di un fato mai casuale, perché collocato nei territori (inizialmente appunto lo Shanxi e poi la provincia delle Tre Gole, molto cara al regista) e nei tempi del racconto, che si avvia nel nuovo millennio per poi “saltare” al 2006 e chiudersi nel 2018. Un arco narrativo di quasi un ventennio assai adatto alla natura parabolica di questa epica esistenziale, certamente indigena ma – come si diceva – comprensibile nella profondità dell’essere. In questa epopea al femminile, fra il melò e il noir passando per sequenze realistico/documentaristiche, la potenza visionaria del regista, Leone d’oro a Venezia 2006 per Still Life, ci accompagna come da sua (po)etica fra le pieghe delle mutazioni di pelle della Cina. Le tradizioni arcaiche e mitiche del passato sono come il fiume da attraversare – sintomaticamente – sui barconi stracolmi degli operai, figli e nipoti della Rivoluzione di Mao: all’orizzonte delle Tre Gole la grande diga che svisceramenti umani e sociali comportò. E poi le fabbriche monstre ormai dismesse, le metropoli verticali e psichedeliche che tutto hanno divorato dentro a un cortocircuito globalizzato e disumano. Da lontano compare un extraterrestre: forse l’umanità oggi si trova altrove, in mondi lontani e spazi astrali. Seppure nostalgico, Jia Zhang-ke guarda sempre “oltre” e per questo il suo cinema è senza confini.

Tolto Salvini, restano Hitler, Sauditi e l’hard

E uno ce lo siamo levati di torno, dopo il Daspo firmato da Appendino e Chiamparino e ratificato dagli organizzatori del Salone del libro. Ma, tolti Francesco Polacchi e la casa editrice legata a CasaPound (“È un attacco al ministro dell’Interno. Andremo per via legali”, le sue ultime parole famose), siamo sicuri che di fascio-fascette non ne sia rimasta nessuna? Abbiamo attraversato i 63mila metri quadrati del Lingotto alla ricerca del politicamente scorretto, tra editori scandalosi, autori negazionisti, nemici dei diritti umani e amici di Salvini.

TERRORISMI. Molti i pericoli per chi entra e chi esce: in faccia ai primi è sparato il cartellone “NEL MIRINO”, stampato pure in bella mostra sulle piantine; inseguono, invece, i secondi sciami di ragazzini con borse apocalittiche. “La nostra casa è in fiamme”, minacciano le borse. Relax: si tratta solo di una mostra fotografica e del libro di Greta Thunberg (Mondadori).

NAZIFASCISMO. A pochi metri dallo stand del Treno della memoria – che ha ospitato ieri mattina l’intervento di Halina Birenbaum, sopravvissuta ad Auschwitz –, si vende il Mein Kampf, “una pubblicazione necessaria perché le opinioni di tutti, pur essendo o meno condivise, sempre devono essere ascoltate prima di venir confutate”, riporta la quarta di copertina delle Edizioni clandestine, che hanno deciso di licenziare Hitler per “scongiurare la paura universalmente diffusa delle idee”. Del führer pubblicano anche i Discorsi, accanto all’Omicidio Berlusconi e Il suicidio Renzi, e buono è il catalogo di classici, dai diritti delle donne a Rousseau e Lenin. Poco oltre, all’angolo, è allestita la Libreria della poesia, in pratica “casa Pound”, mentre Giovanni Gentile è edito dalla Normale. Tutti circondati da “editori defascistizzati”.

SOVRANISMO. Francesco Giubilei (autore ed editore inserito nella lista di proscrizione di Christian Raimo) espone in bella vista il suo Europa sovranista. Da Salvini alla Meloni, da Orbán alla Le Pen. Per il resto, Salvini è desaparecido: non c’è il libro-intervista di Chiara Giannini per Altaforte, per mancanza di mensole, e non c’è neppure Secondo Matteo Salvini, pubblicato nel 2016 da Rizzoli. Ma nello spazio di Rizzoli i commessi fanno finta di non conoscerlo. Uscito dalla finestra, il vicepremier rientra dalla porta grazia a Gonzo Editore, che gli dedica un fumetto nella sua collana iconoclasta. Di nome Barabba: la collana. I massoni, invece quest’anno, non sono pervenuti.

DITTATORI. Per i tipi di Alcatraz – tutto un programma – si trovano Pensieri, parole, opere e omissioni di Kim Jong-un, mentre il Libro Verde di Muammar Gheddafi è stampato da Gog – accanto a Papini e Drieu La Rochelle –, che “continua a sabotare e scardinare il sistema editoriale italiano”. Non ditelo a Chiamparino e Appendino, che forse ignorano anche l’ultima raccolta di Aragno firmata da Benito Mussolini, quando era ancora un socialista in erba, Angelo Tasca e Antonio Gramsci: scritti sinistrorsi tra il 1912 e il 1916. Solo per blasfemi.

VIETATO AI MINORI. Care maestre, attenzione a non farvi scappare gli scolaretti; è un attimo che spuntano gli Haiku erotici (Luni): “Mi tira spesso è vero/ ma non sulle fessure dormienti/ dice il confuciano”. Meno scollacciate sono invece le Sky Doll di Alessandro Barbucci e Barbara Canepa, per Bao Publishing, che domani sarà preso d’assalto da Zerocalcare and friends. Affollato pure il bancone delle Edizioni della goccia, con bottiglie en pendant con le copertine. Da Scampia sono arrivati infine gli “spacciatori di libri”, i virtuosissimi Marotta e Cafiero, orgogliosi paladini dell’“editoria terrona”.

VIETATO AI MANICHINI. Il Paese ospite d’onore di questa 32esima edizione è Sharjah, uno dei sette Emirati Arabi Uniti, anche se gli organizzatori – con furberia politicamente corretta – citano sempre e solo, come ospite, la lingua spagnola. Questo emirato, come gli altri, non brilla per rispetto dei diritti umani (vedi Amnesty International), né per libertà di espressione, figuriamoci sessuale: le relazioni al di fuori del matrimonio (eterosessuale) sono un crimine e “le donne continuano a essere discriminate nella legge e nella prassi”. Il 75 per cento di queste è persino “riluttante” a occuparsi di teatro, peraltro soggetto a censura e controllo da parte delle autorità statali. Eppure, qualcosa si muove, soprattutto dal punto di vista culturale, tanto che l’Unesco ha nominato Sharjah Capitale del mondiale del libro 2019. Meno vistoso e capitalistico degli altri, quest’emirato è comunque ultraconservatore: basti pensare al bando pubblico di iconoclastia del 2018, con cui si è vietata la rappresentazione della figura umana. E così i centri commerciali sono stati ripuliti da qualsiasi manichino.

RAGGIRI. A parte gli stand fuori tema e/o luogo, da chi vende collanine a chi propina consulenze familiari, psicoattitudinali, psicocasuali, numerosi sono gli spacciatori di bufale, tipo i corsi per diventare Genio in 21 giorni o gli opuscoli che svelano i misteri della Bibbia. Il più truffaldino di tutti, però, resta il libro che promette Il segreto della felicità. A soli 14,90 euro.

Trump-Xi Jinping, un colpo ai dazi, uno al Pil

Un colpo al cerchio e uno alla botte. Assediato da democratici, media, inchieste sul fronte interno, Donald Trump torna a fare la voce grossa con la Cina, poche ore prima della ripresa dei negoziati tra i due giganti dei commerci mondiali: Pechino “ha rotto l’accordo” e “la pagherà”, con un rialzo dei dazi dal 10 al 25% su export cinese per 200 miliardi di dollari. Ma poi Trump aggiunge “Non preoccupatevi… tutto si risolverà”; e rivela di avere ricevuto “una bellissima lettera” dal presidente cinese per cui “un accordo è possibile”.La Cina “è del tutto preparata” a una guerra commerciale con gli Stati Uniti, ma preferisce risolvere i problemi “con il dialogo piuttosto che con azioni unilaterali”, assicura il portavoce del ministero del Commercio Gao Feng. “Abbiamo la determinazione e la capacità di difendere i nostri interessi, ma speriamo che Usa e Cina possano incontrarsi a metà strada”. L’arrivo di Liu a Washington “mostra la responsabilità della Cina” nel portare avanti le trattative e nel cercare di giungere a un’intesa e “dimostra la sincerità di Pechino”, contraria “a dazi unilaterali” e convinta che “non ci siano vincitori in una guerra commerciale”. Uno scontro frontale è “contro gli interessi di Cina e Usa e non porterà benefici al mondo”. Parole condivise a Bruxelles da portavoce europei: le impennate di Trump potrebbero rivolgersi contro l’Ue, è il timore.

Sulle ipotesi già ventilata di “necessarie contromisure”, Gao taglia corto: “Daremo informazioni tempestivamente”. È ovvio che ci saranno, se scatteranno i super-dazi Usa. Intanto, Pechino tira la giacca a Washington e ad Ottawa sulla vicenda di Meng Wanzhou, dirigente della Huawei, trattenuta da mesi a Vancouver, dopo esservi stata arrestata, perché gli Stati Uniti ne reclamano l’estradizione, accusandola di avere violato le loro sanzioni anti-Iran. La Meng è ieri comparsa in aula per discutere la richiesta d’estradizione. Per la Cina, Usa e Canada “abusano dell’accordo bilaterale sulle estradizioni e prendono irragionevoli misure coercitive che costituiscono una grave violazione di diritti e interessi legittimi di un cittadino cinese”. Il portavoce del ministero degli Esteri Geng Shuang parla di “grave incidente politico” e chiede che la Meng sia rilasciata e possa tornare in Patria. Il Wall Street Journal avanza l’ipotesi che l’inasprimento delle relazioni Usa-Cina sia frutto fortuito di un fraintendimento fra le due parti. Ma c’è forse dell’ottimismo, in questa interpretazione.

Maduro “Fast and Furious” fa il vuoto intorno a Guaidó

Come in un film di James Bond. Anzi no, come in una scena di Fast and Furious. Lo hanno portato via dentro la sua auto, sollevata, con autista e guardia del corpo inclusi, da un’autogru e trasportata verso il carcere di El Helicoide. Così, la sera tra mercoledì e giovedì, è stato preso Edgar Zambrano, vicepresidente dell’Assemblea nazionale (An) venezuelana, uno dei dieci deputati cui l’Assemblea nazionale costituente – l’Anc, insediata dal governo dopo lo scioglimento della An – ha revocato l’immunità due giorni or sono, perché aveva partecipato al tentativo di presa del potere del 30 aprile.

Il racconto della cattura di Zambrano, al limite del romanzesco, è stato fatto da un deputato dell’opposizione Oscar Rondero, dirigente del partito Acción Democrática, che ne è stato testimone. Zambrano s’era rifiutato di scendere dalla sua auto, intercettata da agenti di polizia. Elementi del Sebin, i servizi d’intelligence venezuelani, hanno allora fatto venire un’autogru e hanno con quella agganciato la vettura dell’esponente della ribellione contro il presidente Nicolas Maduro e il suo governo. Juan Guaidó, il leader dell’opposizione autoproclamatosi presidente ad interim del Venezuela, ha subito denunciato, con un tweet l’avvenuto “sequestro”. Per Guaidó, il regime di Maduro sta tentando di “disintegrare il potere che rappresenta tutti i venezuelani”, cioè l’Assemblea nazionale, ma “non ci riuscirà”. Non è chiaro, in effetti, se il presidente eletto stia serrando la presa su Guaidó e i suoi perché si sente sicuro o perché ha paura. Gli Usa giudicano “arbitrario” l’arresto di Zambrano e fanno sapere che, se il vicepresidente dell’An non sarà liberato immediatamente, “ci saranno conseguenze”. L’Europa con Federica Mogherini, Alto rappresentante per la politica estera, denuncia “un’altra violazione flagrante della Costituzione del Paese”: “È un’azione a scopo politico per zittire l’An. L’Ue chiede l’immediato rilascio di Zambrano”. Condanne dell’accaduto arrivano pure dal Gruppo di Lima e dal Gruppo di Contatto sul Venezuela, di cui l’Italia fa parte. Per tutta risposta, Maduro ordina la massima allerta delle unità militari al confine con la Colombia, di fronte al “miserabile piano” che avrebbero Washington e Bogotà per porre fine al suo governo. “C’è un’escalation di dichiarazioni che potrebbe culminare in un’escalation militare… Vogliono giustificare un intervento dall’esterno”, ha dichiarato il presidente eletto, definendo “ridicolo” il vicepresidente Usa Mike Pence, che prospetta ai venezuelani la fine delle sanzioni se si dissociano dal regime chavista. Le scelte sul Venezuela starebbero causando disagi e contrasti alla Casa Bianca: il Washington Post descrive un presidente Trump “frustrato” dalla mancanza di risultati conseguiti dall’atteggiamento aggressivo della sua Amministrazione. Il magnate non risparmierebbe le critiche al consigliere per la sicurezza nazionale Bolton, un’’ “falco” che gli avrebbe fatto credere che sarebbe stato facile cacciare Maduro e rimpiazzarlo. “Mi vuole spingere in guerra”, direbbe Trump di Bolton. Dei deputati dell’opposizione privati dell’immunità, una Mariela Magallanes, che sta per acquisire nazionalità italiana, s’è rifugiata nell’ambasciata d’Italia e un altro nell’ambasciata d’Argentina. Maduro ha pure espulso dall’esercito 55 militari che avevano partecipato alla spallata al regime tentata a fine aprile da Guaidó: un tentativo di presa del potere inscenata più sull’agorà mediatica che sulle piazza cittadine.

Tutto s’era risolto in una sceneggiata: Guaidó s’è fatto fotografare insieme a qualche militare dissidente, nessun alto ufficiale; Maduro mentre partecipava a esercitazioni dell’esercito, ostentando intorno a sé la lealtà dei generali e dei soldati. E chi s’immaginava, o meglio s’illudeva, che il Venezuela potesse finalmente uscire dall’impasse istituzionale che lo sta lacerando da mesi s’è presto dovuto ricredere.

Gandhi può correre anche se è cittadino britannico

Rahul Gandhi (in foto) potrà essere eletto: a stabilirlo è la Corte Suprema della Nazione, che ieri mattina ha respinto una petizione che chiedeva di escluderlo dalla competizione elettorale in corso in India. Figlio di Sonia Gandhi, l’ex-presidente del Partito del Congresso indiano, Rahul proviene da una dinastia importante, che vanta primi ministri sin dai tempi del suo bisnonno Jawaharlal Nehru: la sua candidatura, tuttavia, era stata messa a rischio a causa della sua presunta doppia cittadinanza Due elettori di New Delhi, infatti, avevano provato a far passare la petizione che avrebbe escluso l’attuale presidente del partito del Congresso poiché cittadino britannico, ispirandosi a quanto aveva precedentemente fatto Subramanian Swamy, parlamentare del Bjp alla Camera Alta. Mozione respinta dal presidente della Corte in persona, Ranjan Gogoi, il quale ha dichiarato che “non si diventa cittadini di uno Stato perché c’è qualcuno che lo afferma”. Ormai ufficialmente rientrato nei giochi, Rahul cercherà di ostacolare il secondo mandato del suo principale rivale, il nazionalista Narendra Modi. Le diciassettesime elezioni nazionali dall’indipendenza del Paese sono cominciate l’11 aprile e si protrarranno fino al 19 maggio: sono divise in sette fasi, ed hanno chiamato al voto quasi 900 milioni di cittadini. Nel 2014 l’India aveva per la prima volta scelto, a maggioranza assoluta, il partito conservatore di Modi: questo aveva posto fine alla presidenza del Partito del Congresso, laico e di centrosinistra, che aveva governato il Paese per quasi 50 anni. E che adesso, proverà a tornare.

“La destra indiana sfrutta il Kashmir per fini elettorali”

Gli indiani definiscono quelle vallate mozzafiato e quelle vette perennemente pennellate di neve la Svizzera d’Asia. Ma di neutrale la parte indiana del Kashmir ha ben poco. Teatro e oggetto degli scontri tra India e Pakistan, gli ultimi lo scorso febbraio, la regione a maggioranza musulmana dello Jammu & Kashmir è un’area contesa sin dall’indipendenza dall’impero britannico nel 1947. La regista kashmira, Iffat Fatima, ne parla nel documentario Khoon Diy Baarav (Il sangue abbandona il suo sentiero). “La valle del Kashmir è tra le regioni più militarizzate al mondo, con oltre 700 mila soldati dispiegati sin dal 1989. I militari controllano la Linea che separa il Kashmir indiano dal pakistano (LoC), ma dominano anche tutti gli aspetti della vita civile.

Lei racconta di uomini che scompaiono, da guerriglieri mujahed a studenti. Quando sono iniziate le sparizioni?

Negli anni 90 e agli inizi del 2000 sono state usate come strumento per controllare e terrorizzare le persone. Poi abbiamo assistito a una riduzione dei casi segnalati: la campagna di sensibilizzazione lanciata dall’Associazione dei genitori delle persone scomparse (Apdp) ha contribuito a riconoscere le sparizioni come crimine di guerra, nonché alla formazione di un’opinione pubblica sensibilizzata.

Di che numeri parliamo?

È difficile calcolare cifre esatte, le associazioni che documentano informalmente la situazione stimano che dal 1989 siano sparite tra le 8 e le 10 mila persone.

Lei mostra un peregrinare di madri e mogli che chiedono chiarezza che ricordano le donne di Plaza de Mayo in Argentina.

Ora si conoscono le sparizioni forzate, ma non è stato risolto il tema delle violazioni dei diritti umani nel Kashmir, che includono sparatorie su manifestanti, uccisioni giudiziarie, torture e altre forme di intimidazioni. Le forze armate godono dell’immunità.

In che modo?

La legge sui poteri speciali delle Forze armate Jammu e Kashmir è entrata in vigore nei primi anni 90 ed è tuttora vigente. Conferisce loro poteri straordinari, compreso quello di cercare, arrestare e uccidere un sospettato.

In India – e in altre regioni del mondo – l’opinione pubblica è disposta a soprassedere sui diritti quando si parla di terrorismo e sicurezza.

Ci sono regolamenti e meccanismi internazionali sui diritti umani che sono stati messi in atto dopo lunghe stagioni di riflessione e deliberazione. Credo che l’onere e la responsabilità di rispettare e attuare questi principi spetti agli Stati che esercitano un potere immenso sui cittadini.

Anche i cittadini esercitano un potere: si è aperta la stagione elettorale.

Nel Kashmir c’è scarso entusiasmo per le elezioni, sono considerate un mero esercizio pseudo-democratico condotto dallo Stato per rafforzare il controllo militare e ingannare l’opinione internazionale.

Una regione che non crede nelle elezioni, ma che ne è protagonista.

Il grande pubblico indiano è mal informato, dilagano disinformazione e pregiudizio. Il Kashmir è un tema della campagna elettorale dell’ala più di destra del BJP, partito che ha governato l’India negli ultimi 5 anni. Ha promesso ulteriori misure ancor più stringenti per il suo controllo, chiaro stratagemma elettorale nazionalista, da sfruttare per influenzare l’elettorato. Ma questo aumenta solo la polarizzazione: ha già causato violenze contro uomini d’affari e studenti kashmiri.

A livello internazionale, una questione spinosa. Come va affrontata?

Ricentrando la prospettiva sul popolo kashmiro. La storia del Kashmir deve essere raccontata e ascoltata: si tratta di uno dei conflitti internazionali più sottorappresentati al mondo, ma la mancata risoluzione del conflitto non riguarda solo il Kashmir, bensì l’intera regione, con un costo sociale terribile.

Tra poco sapremo chi sarà il nuovo primo ministro indiano. Cosa spera?

Che la leadership indiana dimostri saggezza e acume. Deve guardare al Kashmir come un problema umanitario, che deve essere risolto democraticamente. Un dialogo vincolato e limitato nel tempo tra i soggetti interessati – l’India, il Pakistan e il popolo del Kashmir – è l’unica via d’uscita.