Il nonnetto dove lo metto

Diversamente dai giornalisti, che lo applaudono anche quando respira, i partiti non hanno accolto con la ola nonno Mario autocandidato al Quirinale. Forse perché la prospettiva di averlo appeso lì sotto per sette anni non è proprio entusiasmante. Forse perché per la prima volta è apparso deboluccio (pensava che andassero tutti in processione a pregarlo in ginocchio di accettare il Colle e invece, siccome non gliel’ha chiesto nessuno, se l’è chiesto da solo). Forse perché il ricatto “o mi eleggete presidente o mollo tutto” si fonda su una minaccia per lui, non per loro. Forse perché sanno che, sì, SuperMario è molto famoso e ancor più potente, ma non fa ancora capoluogo (i voti in Parlamento li hanno loro, non lui). Forse perché hanno preso troppi ceffoni ed è ora di restituirli. Forse perché, mentre lui tentava di rifilargli il pacco completo (maggioranza extra-large per eleggerlo capo dello Stato e per fabbricare un governo-fotocopia con un premier scelto da lui), si sono ricordati di Totò che vende la fontana di Trevi al turista americano Decio Cavallo che lui chiama Caciocavallo. E, a differenza di Decio-Cacio, non l’hanno comprata perché sanno che il Parlamento non è proprietà privata di Draghi e la maggioranza che elegge il presidente non la decide lui, anzi è spesso diversa da quella del governo. In un eccesso di autostima tipico del personaggio, nonno Mario pare credere a quel che scrivono i laudatores: e cioè che l’Italia non può fare a meno di lui e ora “rischia di perderlo sia come presidente sia come premier”. E fa capire che o lo mandano al Quirinale, o lascia Palazzo Chigi e si ritira a Città della Pieve, immemore di due vecchi adagi: “Mai minacciare le dimissioni: c’è il rischio che vengano accolte” e “I cimiteri sono pieni di indispensabili”. In realtà, come abbiamo fatto a meno di lui fino al febbraio 2021, ce la possiamo fare anche dal febbraio 2022.

Ma, in attesa degli eventi, restiamo curiosi di conoscere la road map di nonno Mario. Se i partiti si mettono a novanta e lo eleggono, tutto fila liscio (almeno per lui). Ma se eleggono un altro, con la maggioranza attuale o con un’altra, non può certo dimettersi da premier per lesa maestà, mettendo su il broncetto come i bambini dell’oratorio che se ne vanno con la palla perché i compagnucci non la passano. Tantopiù se, visti i dati Covid di ieri (168 morti e 44.595 nuovi contagi, record assoluto da inizio pandemia), l’Italia fosse travolta dalla quarta ondata-bis targata Omicron e aggravata dagli errori del suo governo. Per tornarsene a casa, dovrà sfoderare una scusa un po’ più robusta del broncio per la mancata incoronazione. Tipo, che so: “Me ne vado perché ho pilates”. Oppure: “Adesso devo proprio scappare perché ho danza”.

Avincola, da rider a Sanremo sognando un duetto con Carboni

“Tuttoggi, quando capita di svegliarmi all’alba, ripenso alle corse in motorino per attraversare Roma da Sud a Nord. Col gelo che ti trafiggeva, era tanta la felicità di arrivare al bar, dove Fiorello conduceva la sua trasmissione mattutina”. Dall’esibizione avvenuta casualmente a Edicola Fiore, “la prima volta mi presentai con la chitarra in spalla, lui mi notò e mi diede lo spazio di una canzone”, al palco dell’Ariston è un attimo. Per Avincola, cantautore nato nel quartiere Garbatella, la partecipazione all’ultimo Festival è il momento della consacrazione. “Sapere di suonare in diretta, dovendo dare il 100%, mi è servito come ginnastica. Quei pochi minuti me li sono giocati sia a livello di esibizione, avvenuta su un palco prestigioso, che con la simpatia. Chi mi conosce sa che tendo a eliminare le barriere col pubblico, peccato che all’Ariston non c’era, ma sapevo che era nelle case. Per l’occasione ho scelto una canzone ‘calda’, che parla di riscatto con la metafora del calcio, intitolata Goal. È l’ultimo pezzo che ho scritto per il mio ultimo disco Turisti, a cui ho lavorato due anni assieme a Emiliano Bonafede. È un viaggio che ho fatto, soprattutto mentale, visto che eravamo in lockdown. E l’ho intitolato provocatoriamente Turisti, proprio per sfuggire dalla triste realtà. Dando un lieto fine”. E oggi che può definirsi “professionista”, Avincola ha abbandonato l’occupazione da rider, cui ha dedicato un brano, anche se “ho sempre la valigetta delle consegne pronta in caso di necessità”. Un pezzo nato dal cuore: “Ero fermo al semaforo, in sella al mio motorino, in uno dei primi giorni di lavoro. Mi voltai e vidi accanto a me un collega che mi sorrise, poi mi salutò e scomparve nel traffico. In quel momento quel ragazzo mi fece sentire meno solo. Fare il rider è stata un’esperienza formativa, che mi ha dato modo di girare la città e guardarla con occhi diversi. Nei momenti di attesa annotavo cose, scrivevo strofe, abbozzi di canzoni che sono finiti poi in Turisti. Un disco in cui ho cambiato stile di scrittura. Prima scrivevo con lo sguardo rivolto al passato. A un certo punto ho iniziato a focalizzarmi sull’attualità, a nutrirmi delle cose che accadono intorno a me oggi, e questo mi ha portato a lavorare in modo diverso. Anche a livello musicale. Suonarlo dal vivo a Milano e a Roma, mi ha fatto rendere conto che quei follower che mi scrivevano sui social esistono per davvero”. Da pochi giorni è uscito il nuovo singolo Fon, che “nasce dall’idea di avere un fon sempre a portata di mano, nel caso ci scoppi una tempesta interiore”. Il sogno resta la collaborazione con Luca Carboni, “uno molto aperto ai giovani. La sua poetica e il suo immaginario sono fonti di ispirazione, mi piacerebbe mischiare i nostri mondi e vedere cosa potrebbe uscirne fuori”.

“Giro il mondo e lo racconto da uomo, non da zoologo”

“Ogni parola è stata scritta nel rispetto delle aspirazioni e delle convinzioni di coloro che mi hanno accompagnato, credo, anche quando quelle aspirazioni e quelle convinzioni non sentivo in alcun modo di condividere”. Lo afferma Robert Byron (1905-1941), lo scrittore, esteta e viaggiatore inglese prediletto da Bruce Chatwin, nell’introduzione a Prima la Russia, poi il Tibet (First Russia, Then Tibet).

Uscito a Londra nel 1933, il libro sul viaggio di Byron nell’Unione Sovietica di Stalin e nel Tibet “impenetrabile alle idee dell’Occidente”, dopo una lunga assenza in Italia viene ripubblicato ora in una nuova edizione dalla Biblioteca del Vascello-Robin, con le fotografie originali dell’autore e un’introduzione di Salvatore Marano.

Maestro della letteratura di viaggio del Novecento, rigorosamente britannico come lo furono Patrick Leigh Fermor, Freya Stark e lo stesso Chatwin, Byron affrontò il mondo bolscevico dei piani quinquennali, dell’industrializzazione forzata e della Gpu e, all’opposto, quello tibetano, immune dagli effetti della “rivoluzione scientifica”, con la “brama di verificare di persona”, che “può essere soddisfatta soltanto dalla conoscenza diretta di tutte le varietà etniche, politiche e geografiche presenti sulla faccia della terra”.

Byron era un intellettuale “con pregiudizi ben radicati”, come Chatwin dice di lui nella prefazione al suo capolavoro, La via per l’Oxiana, e certamente non un simpatizzante del comunismo. Eppure, il dandy percorse l’Urss con la convinzione tutt’altro che condivisa, allora, in Occidente, che i “bolscevichi sono uomini, non animali, e io ne parlerò da uomo, non da zoologo sociale”. Non mancò neppure di anticipare, nelle sue pagine sulla Russia stalinista, il George Orwell di 1984: “C’è anche un aspetto più sgradevole della situazione. Non bisogna dimenticare che quasi tutti i potenti di oggi sono uomini che hanno trascorso la giovinezza a sfuggire alla spietata ochrana zarista; che hanno conosciuto il carcere; che sono stati in Siberia. In loro l’antico spirito diffidente e revanchista è ancora ben desto. Lenin e Trockij erano fatti di un’altra pasta. Provavano gli stessi sentimenti, ma in loro hanno prevalso energie positive”. E continuava: “Oggi la Russia è governata da uomini di gran lunga più mediocri, e la loro visione distorta delle cose contagia col sospetto e la malevolenza tutta l’Unione Sovietica. L’atmosfera è come impregnata di veleno. Ognuno vive nel terrore del proprio vicino. Perfino i libri scolastici istigano i bambini a fare la spia nei loro villaggi”.

Ben altro, ovviamente, fu l’impatto con il Tibet, che, nel finale del libro, Byron rivede “impenetrabile alle idee dell’Occidente, e ancora una volta mi chiedo per quanto tempo durerà il suo isolamento. Guardo Jigmed e Mary. Loro sono entrati in contatto con le idee occidentali. Ma la loro compostezza ‒ soprattutto quella di Mary ‒ non sembra averne sofferto”.

Nell’addio al Paese delle “distese aride, le colline color prugna e le rocce dorate, le nevi perenni, gli yak che trascinano l’aratro sulla pallida terra polverosa”, c’era poi il presentimento della tragedia che stava per abbattersi sull’Europa e sul mondo intero: il nazismo, l’Olocausto, la guerra: “Dopo di loro, il futuro è un mistero. Dopo di me, quale sarà il futuro del mio Paese? Il crepuscolo infittisce”. Infatti Byron, “l’arcinemico di ogni compromesso con Hitler”, scrive Chatwin, morì il 24 febbraio del 1941, nell’Oceano Atlantico, per il siluramento da parte di un U-Boat tedesco della sua nave, la “S.S. Jonathan Hol”, che lo stava portando in Africa. Il suo cadavere non venne mai ritrovato.

Annota Salvatore Marano nell’introduzione al libro: “Nel suo atto di accusa contro l’ideologia marxista-leninista, corrotta e trasformata in culto della personalità e del macchinismo, si profila neanche tanto velatamente la censura dell’imperialismo economico e della mercificazione senza limiti di cui sono rimaste vittima le magnifiche e progressive sorti del- l’Occidente”.

Togni, che meraviglia di circo

Un romanzo, il loro, che abbraccia un secolo e mezzo della nostra memoria collettiva. Non è un caso che nel 1958 Mike Bongiorno ambientò una serie di puntate di Lascia o raddoppia nella sua pista ovale, come fece anche Paolo Villaggio nel 1975, nelle imperiture sequenze del suo Fantozzi. E nel 1978 allestirono un trapezio direttamente in Vaticano, per il neoeletto papa Giovanni Paolo II. Correvano i mesi dell’assassinio di Aldo Moro, che vi fece visita quando era presidente del Consiglio al pari, tra gli altri politici, di Pietro Nenni. Riapre stasera alle 21 a Roma, in Viale Tor di Quinto, il Circo Americano della famiglia Togni, tra le più blasonate compagnie circensi europee, che nel 2022 celebra i suoi primi 150 anni di attività.

Dal 1963 sotto la direzione di Enis Togni e oggi della quinta generazione il circo opera, appunto, sotto un’insegna a stelle e strisce. Di scena la crème del panorama del meraviglioso, una fascinazione analogica che resiste a qualsivoglia progresso tecnologico: giocolieri, esploratori delle somme altezze, trenta cavalli e svariate tigri dalla tonalità cangiante. La tradizione che si riversa nella modernità, miscelandosi con le nuove tecniche e sensibilità. Un tendone di magia e poesia, buonumore e spericolatezza sempiterni. Tra i numeri più attesi, il carosello equestre di Flavio Togni, produttore con Daniele dello show, pluripremiato nel Principato di Monaco dove ha ricevuto da Stephanie e Alberto il “Clown d’oro” (l’Oscar del settore) e tre d’argento.

A proposito, il festival di Monte Carlo fu fondato proprio da loro, nel 1974, insieme al padre dei predetti, il principe Ranieri. In azione inoltre Bruno, Ilaria, Claudio Enis, Adriana ed Erika, che di cognome fanno tutti Togni. I colombiani Flying Rodrigues e gli ucraini The Flying Jumpers. Il verticalista Samuele Manfredini e il clown Joy Costa. Appuntamento ogni giorno tranne il martedì fino al 9 gennaio, con doppio spettacolo. Dal 10 gennaio cambieranno gli orari.

L’origine del Circo risale al 1872. A metterlo in piedi, Aristide Togni, un giovane studente di Pesaro, che sposa Teresa. La coppia ha otto figli. Nascita di una dinastia. Nel 1919 il complesso viaggiante è proclamato Circo nazionale Togni, con regio decreto. Non cessa le sue acrobazie e attrazioni nemmeno durante la seconda guerra mondiale. Ma nessuna autentica adesione al regime: nell’ombra, Ercole (Togni) lavora in gran segreto per i partigiani e cavalca la mobilità della sua carovana per salvare ebrei, comunisti e antifascisti in genere. Arriva a costringere alla resa una banda di nazisti arroccata nell’Hotel Plinius, nei paraggi di Como. La sua esibizione più sensazionale.

Nel dopoguerra è uno dei primi circhi a riprendere piede. La stirpe si smembra, artisticamente, in tre rami, ciascuno guidato da uno dei tre fratelli Togni. L’inaugurazione del Circo Americano, in chiave “anti-Barnum”, è fissata per il 22 novembre del 1963. Ma questa diventa una data terribile. Quella stessa sera, mentre il pubblico prende posto e il palazzetto si gremisce, si viene a conoscenza dell’attentato al presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy. Non si sa ancora della sua morte, ma Enis (Togni) annulla l’evento e rimanda il debutto al giorno successivo. Negli anni e nei decenni seguenti, la formula dilaga e registra sold-out nel pianeta, pure in Unione Sovietica. I suoi performer e animali sfilano in parata davanti al Colosseo, ai Fori Imperiali, di fronte al Duomo di Milano, sulla Piazza Rossa, a Washington alla Casa Bianca. A Berlino, a pochi metri da dove fino a poche settimane prima si allungava la tetra sagoma del Muro.

Nel 1979 sono le strutture del Circo Togni a concretizzare il sogno di una delle tournée epocali della penisola, non solo per i sorcini: la “Zerolandia” di Renato Zero. E in che luogo si svolge il concerto finale di Mina? Alla Bussola domani, a Lido di Camaiore, uno dei palatenda tricolori germinali, realizzato da Enis Togni in veste di impresario musicale con Sergio Bernardini. All’alba degli anni Novanta, mentre la Guerra Fredda si sbriciola, la famiglia Togni sbarca davvero nell’evocato Nuovo Mondo. Con quindici elefanti e sessanta cavalli. Per due stagioni, Flavio (Togni) è la vedette assoluta di questo immenso show, che viaggia su treno attraverso gli Stati Uniti. Indimenticabile la fermata al Madison Square Garden. I ristoranti italiani mettono in menù proposte consacrate alla Togni’s family. E anche questa è storia, e funambolica leggenda.

La freccia colpisce il Tav al cuore

Le frecce rosse di Trenitalia arriveranno fino a Parigi da Milano, passando per il Fréjus e mettendoci circa sette ore. Per ora sono previste due coppie di treni, che potranno divenire in futuro cinque coppie, in funzione della domanda. La tariffa minima è di 29€, quella media ancora non è nota. È un’ottima notizia: la concorrenza finalmente incomincia ad aprirsi in Europa anche per i passeggeri, e l’Italia fa da pioniere nell’Av, anche grazie all’esperienza fatta con la competizione con Italo (cosa che ha ridotto le tariffe e aumentato i servizi per tutti gli utenti).

Certo i passi da fare per avere condizioni paritetiche sono ancora molti: difficile per soggetti “terzi” competere con chi politicamente non può fallire perché è interamente pubblico, ed è, a casa propria “verticalmente e orizzontalmente integrato” (cioè possiede anche i binari, è monopolista per i servizi locali e per i treni di lunga distanza non Av, e possiede anche la maggiore società per i servizi merci). Cioè costituisce un’“impresa dominante”, posizione però non conquistata sul mercato, ma solo per scelte pubbliche e con risorse pubbliche, 470 miliardi in 30 anni, il 20% del debito pubblico del periodo).

Ma queste condizioni valgono anche per le ferrovie francesi, ed è positivo che Trenitalia sia partita per prima. Speriamo che ci facciano presto concorrenza: gli utenti e le casse pubbliche non avrebbero che da guadagnarci, e che le condizioni di “dominanza” descritte sopra si attenuino da entrambe le parti, in modo da mettere in gioco anche altri (con due soli attori, i rischi di collusione sono elevati).

Con viaggi di una durata di sette ore tuttavia l’utenza rimarrà probabilmente solo per chi non ama i viaggi aerei: tutto compreso, un viaggio Milano centro-Parigi centro richiede la metà del tempo, e le tariffe medie di compagnie low-cost saranno dello stesso ordine di quelle ferroviarie. Ma gli aerei inquinano moltissimo, e, al contrario della strada, non pagano per i danni che generano, per cui c’è da sperare che siano tassati, alzando di conseguenza le tariffe. Non è certo però che questo avvenga, perché le compagnie aeree promettono per il futuro mirabolanti riduzioni di emissioni con biocarburanti, e azioni di compensazione nel settore forestale, tali da azzerare le emissioni nette nel 2050, seguendo gli obiettivi europei. Ma sono dichiarazioni di parte, da prendere con molta cautela.

Veniamo ora al nuovo tunnel del Fréjus (unico nome tecnicamente corretto), noto come Tav. Alle casse pubbliche italiane costerà circa 4 mld, e altri 7 circa tra Francia e fondi europei. È principalmente dedicato alle merci (gli 8 treni Av passeggeri previsti ne occupano un ventesimo della capacità). Il traffico complessivo previsto è molto limitato, tanto che l’analisi costi-benefici condotta nel 2019 ha dato risultati talmente negativi, che non sono stati nemmeno considerate le emissioni delle fasi di cantiere, circa 2,3 milioni di tonnellate di CO2. A tecnologie date, se il nuovo tunnel assorbisse il 50% del traffico merci stradale attuale, andrebbe in pareggio in termini di emissioni in 10 anni (se fosse solo il 10%, in 50 anni). Ma l’incognita maggiore riguarda l’abbattimento già in corso delle emissioni del modo stradale. Qui i piani europei di elettrificazione sono più credibili (le tecnologie sono già esistenti): azzerando le emissioni stradali entro il 2050, come previsto, gran parte dei benefici ambientali sparirebbero. Ma si ridurrebbero anche le tasse sul modo stradale, non più giustificate per l’ambiente, togliendo prospettive di traffico al tunnel (l’autostrada parallela è sottoutilizzata).

Per il traffico passeggeri vi sarebbe un risparmio di tempo di circa un’ora: la durata del viaggio passerebbe da 7 a 6 ore. Rispetto all’aereo, rimarrebbe comunque un’utenza marginale.

Purtroppo il fascino delle grandi opere di dubbia o nessuna utilità reale, è difficile da combattere. Quelle ferroviarie poi accontentano tutti: costruttori (anche perché il settore è poco aperto alla concorrenza), politici locali e centrali, e in questo caso anche gli utenti, visto che paga tutto lo Stato (e i contribuenti non sanno e non protestano).

Le argomentazioni ambientali in favore del modo ferroviario a volte sono reali, a volte no, ma costituiscono sempre uno strumento per mettere a posto le coscienze, anche quando i risultati complessivi per la collettività sono negativi, o catastrofici. Per esempio, ogni tonnellata di CO2 netta risparmiata dal tunnel (assumendo molto ottimisticamente 11 mld€ di costo, 7 mln di tonnellate di CO2 risparmiate in trent’anni di esercizio, e 2,3 mln di tonnellate di emissioni in fase di cantiere), sarà costata circa 2.340 a tonnellata, cioè circa tre volte di più di quanto previsto come massimo dalle nuove, severissime, linee guida europee per la valutazione dei progetti, e quasi 50 volte quanto costa abbattere la CO2 in altri settori.

 

Ora Castellino e Fiore rischiano il processo

I presuntiautori dell’assalto alla Cgil ora rischiano il processo immediato con l’accusa di devastazione aggravata. Fra loro, i tre leader di Forza Nuova, Roberto Fiore, Giuliano Castellino e Luigi Aronica, sono accusati di istigazione a delinquere. La Procura di Roma ha chiesto il giudizio immediato nei confronti di 13 persone, fra le persone individuate dalla Digos di Roma come responsabili dell’assalto alla sede nazionale della Cgil, avvenuta a margine della manifestazione No Vax del 9 ottobre scorso a Roma. Stralciata invece la posizione di Biagio Passaro, leader del movimento dei ristoratori “Io Apro”, per il quale l’indagine proseguirà separatamente.

Relazioni e segreti: la tv imbarazza l’ex capo degli 007

Il mitico ex capodel Mossad, Yossi Cohen – che nel 2018 riuscì a far trafugare da Teheran l’archivio nucleare iraniano – è stato messo in imbarazzo dalla tv commerciale israeliana Canale 13 in un controverso programma investigativo che è stato seguito da 1 israeliano su 6. L’autore del servizio, dopo aver attribuito a Cohen (molto vicino all’ex premier Benjamin Netanyahu) un legame romantico extra-coniugale con una hostess della compagnia El Al (che l’interessata smentisce) ha spiegato di aver deciso d’andare fino in fondo solo dopo aver appreso che Cohen ebbe occasione di mettere a parte la donna e l’allora marito di alcune attività segrete. Per sostenere le proprie tesi il reporter s’è avvalso della testimonianza dell’ex marito della hostess e di messaggi telefonici.

“Spia di Pechino”: condannato prof. di Harvard

È sospettato di aver spiato per conto della Cina nel cuore di una delle istituzioni più blasonate d’America, l’Università di Harvard. Ora Charles Lieber, 62 anni, uno dei docenti più stimati, ed ex vicepresidente del Dipartimento di Chimica, è stato condannato dalla Corte federale di Boston per aver nascosto i suoi legami con Pechino. Rischia fino a 15 anni di carcere. Lieber, arrestato lo scorso gennaio, è accusato di aver lavorato per il Thousand Talents Plan, un programma cinese mirato a reclutare in America persone con conoscenze e competenze nel campo delle tecnologie e della proprietà intellettuale. Sul conto di Lieber sarebbero gravitate somme ingenti erogate da Pechino, compresi 50 mila dollari al mese dall’Università della Tecnologia di Wuhan.

Ue apre procedura d’infrazione: Varsavia “viola diritto comunitario”

Il collegio dei commissari dell’Ue ha deciso di avviare una procedura di infrazione contro la Polonia per le decisioni prese dalla Corte costituzionale di Varsavia che violano, tra l’altro, il principio del primato del diritto Ue su quello dei singoli Paesi e l’articolo 19.1 del Trattato dell’Ue. Il tribunale polacco “non ha più i requisiti per essere indipendente e imparziale, come richiede il trattato sull’Ue”. L’apertura della procedura è la prova della “tendenza a sviluppare un centralismo burocratico da parte di Bruxelles, purtroppo va avanti e che bisogna fermarla” ha detto il premier polacco Mateusz Morawiecki, commentando la decisione presa oggi dall’esecutivo europeo. Avviene in seguito al pronunciamento con cui la Corte costituzionale di Varsavia ha contestato il primato del diritto Ue sulle norme e la giurisprudenza nazionali.

Danimarca, 75 milioni al Kosovo per affittare celle

Per risolvere il problema del sovraffollamento delle sue prigioni, Copenaghen ha trovato una soluzione lontana dai suoi confini patrii: a Pristina. I due Paesi hanno appena firmato una dichiarazione d’intenti: per 15 milioni di euro all’anno per i prossimi cinque anni – ma il contratto che verrà firmato sarà estendibile fino a dieci anni –, i detenuti danesi verranno trasferiti in Kosovo e accolti nella prigione di Gjilan, a 50 chilometri dalla Capitale kosovara. La ministra della Giustizia di Pristina, Albulena Haxhiu, ha rassicurato i concittadini: verranno rifiutati criminali di alto profilo che potrebbero costituire un pericolo per la nazione. Il ministro della Giustizia danese, Nick Haekkeruha, invece ha riferito perentorio che si tratta di un accordo senza precedenti: “creerà spazio nelle nostre carceri e allevierà la pressione sui nostri agenti penitenziari, inviando allo stesso tempo un chiaro segnale ai cittadini di paesi terzi condannati all’espulsione: il tuo futuro non è in Danimarca e non sconterai qui la tua pena”. Se le celle nello Stato scandinavo sono diventate sature è perché, dal 2015 a oggi, il crimine è aumentato almeno del 20% nel Paese, dove il numero di guardie carcerarie si è invece dimezzato. Pristina, che ha dichiarato la sua indipendenza da Belgrado nel 2008, è stata capace di stringere quest’intesa grazie all’enorme disponibilità di prigioni vuote: sarebbero almeno 800 le celle senza prigionieri nelle strutture disponibili che hanno 2500 posti totali. Non sono mancate le promesse delle autorità di Copenaghen secondo cui nelle carceri kosovare varrà “la legge danese”, ma questo non ha frenato le proteste delle ong scandinave: l’accordo viola i diritti umani dei prigionieri e soprattutto delle loro famiglie che non potranno più far loro visita. Protestano anche le ong di Pristina: con l’arrivo di circa 200 detenuti, la prigione di Gjilan diventerà sovraffollata.