Unicredit, i dubbi sul futuro dopo le mosse di Mustier

Il mercato continua a bocciare le ultime mosse dell’ad di Unicredit Jean Pierre Mustier. Ieri il titolo, complice anche forse il caso Carige, ha chiuso con un -2,7% nel giorno in cui la banca ha presentato i conti trimestrali confermando i target per il 2019, e un utile, nel primo trimestre, in crescita (+24,7%) a 1,4 miliardi. L’istituto ha anche posto le basi – con la cessione sul mercato del 17% di Fineco – del nuovo piano industriale che sarà presentato a dicembre. Mustier ha spiegato che “UniCredit è orgogliosa di essere una banca europea con sede in Italia”, definendo “speculazioni” le eventuali operazioni transfrontaliere allo studio. Su tutte, le voci di un interesse per Commerzbank dopo il naufragio del matrimonio con Deutsche Bank. Sotto la lente del mercato c’è soprattutto il fresco disimpegno su Fineco, la banca online di cui è appena stato ceduto un ulteriore 17%. La riduzione è parte di una strategia che prevede anche un alleggerimento graduale dei titoli di Stato italiani in portafoglio (il gruppo ne ha per 54 miliardi di euro), portandoli a scadenza. Il sospetto è che la seconda banca italiana si stia disimpegnando dal Paese per fondersi con un grande gruppo estero.

BlackRock molla Carige, la banca va verso lo Stato

L’infinita via crucis bancaria italiana riparte dalla sua ultima tappa: la genovese Carige. A sorpresa mercoledì notte BlackRock, il più grande gestore di fondi del mondo (6.500 miliardi amministrati), si è sfilato dal salvataggio della banca commissariata dalla Bce a gennaio scorso, gettando nel panico governo e vertici dell’istituto. Era l’ultimo salvatore rimasto in corsa e, al momento, non sembra esserci alternativa all’ingresso dello Stato – attraverso la “ricapitalizzazione precauzionale” sul modello Mps – peraltro già autorizzato per decreto con uno stanziamento da 1 miliardo.

La decisione è stata presa dai vertici del gruppo Usa, il cui comitato interno ha bocciato il piano. Prevedeva un aumento di capitale da 720 milioni, 320 dei quali dalla conversione in azioni del bond di Carige sottoscritto dal Fondo interbancario (Fitd), cioè da tutte le banche italiane, che si sarebbe così trovato col 43% del capitale. BlackRock sarebbe entrata col 24,9%, girando altre quote a investitori in cordata, chiamati a coprire anche la parte lasciata inoptata dai soci attuali, per un investimento totale da 400 milioni. La famiglia Malacalza, primo azionista col 27,5%, avrebbe partecipato con 70 milioni (dopo i 400 già bruciati) scendendo al 10%. A indicare i nuovi vertici di Carige sarebbe stata BlackRock, propensa alla conferma di due dei tre commissari, Pietro Modiano e Fabio Innocenzi. Il piano prevedeva anche la vendita alla pubblica Sga degli 1,8 miliardi di crediti deteriorati di Carige a un prezzo in grado di non dissanguare il bilancio e una forte cura dimagrante, con la chiusura di quasi metà delle filiali e migliaia di esuberi (facendo infuriare i sindacati). Tutto per dimezzare i costi, che oggi valgono il 94% dei ricavi, con l’obiettivo di trasformare l’istituto in un gestore di patrimoni.

La versione più accreditata è che BlackRock si è sfilata perché avrebbe giudicato insufficiente il ritorno dell’operazione. L’ottimismo dei vertici di Carige ha mascherato i dubbi sul reale interesse di un colosso di questa portata a gestire una banca che ha bruciato gli ultimi tre aumenti di capitale per quasi 2 miliardi, trovando pure altri investitori. Ma forse ha pesato anche il rischio di trovarsi in futuro in minoranza, visto che la maggioranza del capitale, almeno in un primo momento, restava in mano ad azionisti italiani: il Fitd – cioè alle banche concorrenti – e i Malacalza.

Ora la palla passa al governo. Lo Stato potrà intervenire sul modello Mps solo se la Bce considererà la banca solvibile e con pesanti prescrizioni, altrimenti scatterà la liquidazione sul modello delle popolari venete. L’ipotesi che il Fitd aumenti l’impegno appare oggi in salita. Il ministro dell’Economia Giovanni Tria e il premier Giuseppe Conte ieri hanno però assicurato che “ci sono gli estremi per una soluzione di mercato”. Intanto la notizia ha causato il crollo dei titoli bancari. “Siamo aperti a chiunque non stravolga la natura dell’istituto”, ha spiegato il coordinatore Fabi di Genova, Riccardo Garbardino.

Così l’informazione ha deciso (in Italia) di suicidarsi

Cari colleghi giornalisti, ci stiamo suicidando. Perché cerchiamo sempre meno le notizie e facciamo strabordare le opinioni. Perché ci indigniamo per le fake news sui social, ma troppo spesso siamo noi professionisti dell’informazione a rifilarle ai lettori, e con dignità di stampa. Perché incolpiamo Internet delle centinaia di migliaia di copie perse negli ultimi anni e non ci accorgiamo che all’estero c’è chi argina il declino, o addirittura inverte la tendenza, puntando sulla qualità. A livello mondiale, tra il 2013 e il 2017 il giro d’affari dei quotidiani è calato dell’8,6%, che non è poco, ma in Italia siamo precipitati del 20,2%. Più del doppio. Così FQ MillenniuM, il mensile diretto da Peter Gomez, esce in edicola domani con un numero largamente dedicato alla crisi della carta stampata. E alle buone idee per contrastarla. Inchieste e approfondimenti raccontano il dietro le quinte di quello che leggete ogni giorno. Partendo dai massimi sistemi: gli editori impuri che gestiscono giornali in perdita perenne solo per farli pesare sul tavolo di affari ben più sostanziosi, dal mattone alla sanità privata. E stringendo poi il fuoco su quanto possano essere devastanti gli effetti della disinformazione, come nell’incredibile storia di Taranto, dove – come risulta dall’inchiesta giudiziaria “Ambiente svenduto” – per molti anni l’Ilva ha di fatto comprato l’informazione locale, con il risultato di tenere nascosti all’opinione pubblica e alla politica nazionale i malati e i morti da inquinamento. Così come in Sicilia il caso Montante – raccontato da Claudio Fava – ha svelato l’intreccio perverso tra mafia, antimafia e informazione.

C’è stato sì chi ha provato ad aumentare la diffusione, ma col trucco, secondo l’accusa che la Procura di Milano contesta a Roberto Napoletano, ormai ex direttore del Sole 24 Ore, il giornale di Confindustria, a cui FQ MillenniuM dedica un lungo e documentato ritratto. Imputato per false comunicazioni sociali e aggiotaggio, sfiduciato dalla redazione, oggetto di un’azione di responsabilità, in queste settimane Napoletano è tornato in edicola con una nuova creatura, L’Altravoce, grondante indignazione per la malagestione economica del Paese.

“Imparzialità” è la parola chiave da cui ripartire, scrive nell’editoriale il direttore Peter Gomez. E certo non aiutano le vorticose porte girevoli fra informazione e politica. Troppe le firme di grido che hanno fatto il viaggio di andata e ritorno dalla redazione-Parlamento-redazione, con buona pace della credibilità agli occhi del pubblico. L’elenco è fitto e riempie diverse pagine del magazine. Un caso su tutti: Lilli Gruber. Prima giornalista Rai, poi eurodeputata dell’Ulivo, lasciò con sei mesi d’anticipo il seggio per andare a condurre, su La7, il talk show politico di punta dell’emittente.

A proposito, il 26 maggio noi europei eleggiamo il nuovo Parlamento. Il voto democratico, si sa, poggia sulla libertà di stampa e di opinione. Che, come racconta un lungo reportage, in diversi Paesi dell’Est – non solo nella famigerata Ungheria di Orbán – è ostaggio di politici e oligarchi. Ma non è che nei Paesi di più solida tradizione civica sia tutto rose e fiori. Leggere, per credere, l’intervista a Edwy Plenel, fondatore e direttore della battagliera (e florida) testata francese indipendente Mediapart.

Il mancato lavoro della memoria

“Se l’Italia avesse compiuto il suo lavoro della memoria, oggi ci sarebbero così tanti cittadini pronti a giustificare e a relativizzare il fascismo? (…) Forse, in fondo, se in Italia il potere politico finora ha preferito evitare di illuminare la popolazione sul passato è per timore di forgiare uno spirito democratico che rischierebbe di metterlo in difficoltà”. Con I senza memoria. Storia di una famiglia europea, appena pubblicato da Einaudi, la giornalista franco-tedesca Géraldine Schwarz ha compiuto un’indagine accurata, prendendo spunto da vicende della sua famiglia, sulle responsabilità e sulle amnesie di varie nazioni europee rispetto ai totalitarismi nazifascisti.

È un viaggio giornalistico e storico, ed è un esame di coscienza, che da noi nessuno ha fatto, almeno in questo modo. Magari perché, come osserva la Schwarz, “riflette un pensiero che in Italia si è fatto strada dagli anni di Berlusconi in poi: che le leggi razziali sono intollerabili, ma che senza di loro il fascismo sarebbe accettabile”. Del resto “Salvini fa parte – aggiunge – di quanti difendono il Duce. ‘Che nel periodo del fascismo Mussolini abbia costruito tante cose (…) è un’evidenza’, ha dichiarato nel gennaio 2018”. Lo dimostrano le recenti vicende, dal Salone del Libro alla presenza di Salvini al balcone di Forlì da dove parlava Mussolini.

Partendo dal nonno paterno, che per pochi marchi nel 1938, nella Germania nazista, comprò l’azienda di un imprenditore ebreo, che nel dopoguerra a lungo cercò di non risarcire, la giornalista di Strasburgo scandaglia intanto il mondo di quei milioni di mitläufer, “persone che seguono la corrente”, che, pur non essendo né nazisti né antinazisti, costituirono la base del consenso al regime e agli orrori di Hitler. Più o meno come la nostra “zona grigia”, né fascisti né antifascisti: come in Germania, non si ribellarono alla dittatura, alle leggi razziali, alla guerra d’aggressione in Africa e poi al fianco del nazismo. Che cosa sarebbe successo se si fossero rivoltati? “All’indomani della guerra – scrive la Schwarz – in Germania nessuno o quasi si chiedeva che cosa sarebbe accaduto se la maggioranza, invece di seguire la corrente, avesse contrastato una politica che aveva rivelato abbastanza presto l’intenzione di calpestare la dignità umana come si schiaccia uno scarafaggio”. Poi, però, in Germania le giovani generazioni hanno fatto i conti con la storia nazista.

In Italia il “lavoro della memoria”, come lo chiama Géraldine Schwarz, rispetto al fascismo, fu opera minoritaria, in gran parte delle sinistre. Ma proprio da sinistra venne l’amnistia Togliatti del 1946, che consentì non solo di non epurare i fascisti, a cominciare da quelli di Salò, ma di rimetterli ai loro posti nei gangli vitali dello Stato. Così, nel compromesso, dice la Schwarz citando Angelo Del Boca, si creò una “comoda leggenda”: “quella degli italiani che non fanno male a una mosca, ma sono un tantino ingenui e si sono lasciati manipolare da Benito Mussolini e dai nazisti”.

Il mancato “lavoro della memoria”, e l’esame di coscienza con il nazifascismo, hanno prodotto ciò che, oggi, abbiamo sotto gli occhi: non tanto il neofascismo di gruppi e gruppuscoli, che forse non morirà mai, ma quel “rozzo populismo” che “attinge dall’eurofobia, dalla xenofobia, dal razzismo e dalle promesse economico-sociali irrealizzabili”, che furono il sale del nazifascismo. Non avere fatto i conti con il fascismo, però, non è un peccato mortale che trae origine da Berlusconi o Salvini. “Il blocco che la Democrazia cristiana – sostiene ancora la Schwarz – oppose a un onesto confronto con il passato fascista non favorì nemmeno il radicamento democratico della società italiana”. I fatti di questi giorni ne sono testimonianza inequivocabile. Il fascismo, per dirla con Piero Gobetti, resta autobiografia della nazione.

Le domande scomode al bimbo Matteo

Ieri ci siamo detti: ma non è che tra tutte queste polemiche su fascismo, antifascismo, censure e messe all’indice ci stiamo perdendo i Cèline, gli Evola, i Mishima del terzo millennio? Non è che per pura spocchia di sinistra e per dar retta a Chiamparino e Appendino, col Salone di Torino de-casapoundizzato ci facciamo scappare i capolavori dell’aspirante egemonia di destra sfornati dall’editore Altaforte, primo fra tutti Io sono Matteo Salvini, praticamente il Che fare? del sovranismo a venire?
Così ce lo siamo procurato, invero senza troppe difficoltà (del resto il libro intervista della giornalista Chiara Giannini con prefazione di Maurizio Belpietro è primo nelle prevendite di Amazon), a riprova che per essere a tutti gli effetti un opus maximum osteggiato e controverso avrebbe fatto meglio a uscire in uno Stato non democratico. Aprendo la copertina con foto del de cuius mascelluto-ovaloide con barba sagomata rifinitissima tipo buttafuori di discopub di Gabicce conseguita presumibilmente con rasoio elettrico di precisione, trabocca il sapere per volontà di potenza. Le prime righe sono da entrata d’ufficio nelle migliori annate irrazionalistiche di Adelphi: “Il suo è il cognome più cliccato su Google in Italia: è l’uomo più desiderato dalle donne dello Stivale, anche, di nascosto, da quelle di sinistra, malgrado non abbia propriamente la faccia del latin lover”. Originale, questa lettura dell’uomo di destra non bello che emana testosterone e fa scattare la libido nelle femministe (cfr. Mimmo Franzinelli, Il duce e le donne, Mondadori). “Che sia un caso da studiare o un condottiero dei tempi moderni da cui prendere spunto?” Ah, saperlo.
Per ora sappiamo solo che è maledettamente sexy, e che riceve la giornalista nelle stanze abitate dal suo carisma: “Passando la porta lo scorgo subito (Salvini ha questa dote di palesarsi come apparendo dal nulla, facendosi precedere da un leggero effluvio di rose, ndr). Il ministro è lì, seduto alla sua scrivania, che firma documenti e, ogni tanto, alza gli occhi allungando lo sguardo verso la tv posta sulla sua destra, che è sempre accesa”, come la luce della lampada quando c’era Lui buonanima. È il momento del caffè: “‘Dolce’ mi dice sorridendo ‘perché la vita del ministro è già abbastanza amara’. Lo beve in tre sorsi…”. Non fatevi sviare dall’inizio da Cinquanta sfumature di rosso: oltre a fare le cose tipiche dei maschi come lui (“sorride sornione”, “sorride” e basta e “ti mette a tuo agio solo per come si siede sulla sedia”), si concede all’intervista del secolo, che per le nostre fisime per poco non veniva censurata.
Prima domanda: “Vorrei mi raccontassi la tua giornata tipo”. Seconda: “Ma riesci a ritagliarti spazio per i figli e la famiglia?”. Terza: “Ma non sei stanco, Matteo?”. Vien voglia di portargli le pantofole, ma lui, tetragono: “Non ho tempo per essere stanco”. C’è spazio anche per quella passioncella da film di Tognazzi del ministro en travesti: “Mi volto e vedo la sua giacca della Polizia appesa all’attaccapanni. ‘Ti piace proprio, eh?’ gli dico”. Salvini “ride di nuovo, mentre noto la tv accesa sul canale tematico della pesca” (“qui non si parla di politica, qui si lavora”, era scritto nelle case del Fascio). Tra ischerzi e motteggi, s’è fatta l’ora dell’intervista, che sarà dura, tipo giornalismo anglosassone: “Ministro, che bambino era?”. Domande forti, per uomini forti. Risposta: “Giocavo solo con le ruspe! Scherzo, ovviamente”. E via così, per cento ficcantissime domande, in un rimpallo infinito di celie: “Che avrebbe voluto fare da grande?” (ovviamente il calciatore). “Raggiunta questa età può dire di aver realizzato i suoi sogni?”, praticamente un interrogatorio. E ancora: “Mi racconti di un ricordo a lei caro. Un aneddoto inedito legato alla sua vita prima di entrare in politica”. La risposta di Salvini è spiazzante: “Quando mi hanno rubato il pupazzetto di Zorro?”. “Che pensa dell’amicizia? E dell’amore? Ricorda la sua prima fidanzatina?”.
Il Salvini che emerge è esattamente quello che sembra sui social e in Tv: un uomo banale, non ignorante ma neanche particolarmente colto, di gusti non imprevedibili (libro preferito: Un Uomo, di Oriana Fallaci), certo non stupido ma senza guizzi d’intelligenza. Bisogna arrivare all’ultima domanda per respirare un po’ di vera politica: “L’ultima riguarda ciò che tutti vorrebbero sapere. Ma lei dorme mai? Come fa a reggere i ritmi così serrati che il suo lavoro le impone?”. Per fortuna il ministro risponde, se non altro è scongiurata la crisi di governo: “Sì, sì, dormo. Con due cuscini, per di più, perché uno lo devo abbracciare. Lo faccio da sempre. Chissà perché?”.
PS Abbiamo fatto questo duro lavoro per fare luce alle genti ma anche per fare un favore ai nostri amici Pierluigi Battista e Antonio Polito, angosciati che la censura staliniana potesse oscurare l’adamantina durezza di tale e tanto pensiero controcorrente.

Mail box

 

Pieno sostegno alla sindaca Raggi per Casal Bruciato

Desidero esprimere pieno sostegno alla signora Sindaco di Roma, Virginia Raggi, per la sua attiva presenza a Casal Bruciato e un vivo ringraziamento a tutti coloro che in questi giorni stanno presidiando il diritto, stabilito per legge, di una famiglia rom ad avere una casa. Sono ignobili e inaccettabili le minacce aizzate e praticate dai fascisti di CasaPound contro degli inermi uomini, donne e bambini che da giorni sono costretti a rimanere chiusi in casa per il terrore di essere aggrediti. Auspico che venga ristabilita al più presto la normalità costituzionale nel quartiere di Casal Bruciato, quindi il pieno rispetto dei diritti umani, unico garante della convivenza civile. Questo clima di squadrismo non è più tollerabile.

Carla Nespolo Presidente nazionale ANPI

 

Contro CasaPound serve un piano di edilizia popolare

Ho criticato la sindaca di Roma per molti motivi, ma ora voglio mostrarle la mia solidarietà per il suo coraggioso sopralluogo, a tutela della famiglia rom assegnataria – secondo legge – dell’abitazione comunale. Ciò detto, va evidenziata la macroscopica carenza di edifici popolari e di un piano organico per la loro realizzazione. Non solo, ma i pochi alloggi popolari disponibili sono spesso abbandonati alle razzie della malavita, che diventa un’agenzia parallela di spoliazioni violente e assegnazioni con pizzo, nel disinteresse di chi dovrebbe far rispettare la legge. A tutto ciò, va sommata l’assenza di controllo pubblico nei confronti dell’edilizia agevolata, che ha fornito praterie alla speculazione e malversazione. Morale: c’è fame di case popolari. E l’assegnarne una a una famiglia rom – anche se integrata, onesta e con i requisiti regolari – è sale su questa ferita. Così è un gioco da ragazzi per i fascisti creare il capro espiatorio e orchestrare i linciaggi di quartiere. Mi aspetto che la sinistra reagisca non “stigmatizzando e auspicando”, ma unendo le forze per varare un piano serio di edilizia popolare. Prima che il bisogno diventi rabbia infiammabile per i piromani fascisti.

Massimo Marnetto

 

L’Ue non ispira fiducia: perché viene elogiata dai politici?

Chiunque abbia osservato con attenzione l’Europa potrebbe averne tratto l’impressione che sia caduta in mano a malfattori capaci solo di trarne vantaggi personali a scapito dei membri. Se l’impressione è giusta, bisogna capire come molte parti politiche siano così favorevoli a continuarne la forma e il sistema.

Stefano Pelloni

 

Diritto di replica

In riferimento alla lettera del segretario del Pd Nicola Zingaretti pubblicata su II Fatto Quotidiano il 7 maggio 2019 e alla risposta del giornale, si precisa che, dopo la visita di cortesia, consueta per ogni nuovo segretario di partito rappresentato in Parlamento, non vi è stato alcun altro colloquio del presidente della Repubblica con il segretario del Pd.

Ufficio Stampa Quirinale

 

Prendendo atto della precisazione, chiarisco semplicemente di non aver scritto nel pezzo in questione che i colloqui tra Sergio Mattarella e Nicola Zingaretti sono avvenuti dopo la visita di cortesia del segretario Pd al Colle.

Wanda Marra

 

È in atto uno sciacallaggio politico e mediatico verso la mia persona sulla vicenda dell’inchiesta della Procura di Catanzaro. Non solo mi si attribuiscono influenze politiche con ex consiglieri comunali che hanno una loro autonomia ben nota sia negli ambienti politici cosentini che calabresi, fatto che è derubricato nelle accuse e che chiarirò con i Magistrati, ma addirittura viene falsato il dato del mio compenso che è notoriamente pubblico. Ho avuto modo più volte di scrivere in merito e mi meraviglio che i giornalisti, nel riportare le notizie, non abbiano verificato che, nella sezione trasparenza del sito internet della Sorical, è pubblicato l’atto della nomina nel collegio dei liquidatori. Ribadisco, spero per l’ultima volta, che all’atto del mio insediamento ho preteso, d’intesa con il presidente della Regione, il taglio del 50% dei compensi percepiti da chi mi ha preceduto in quel ruolo.

La mia indennità è di 4.200 euro nette al mese ed è comprensiva di tutti i rischi patrimoniali in capo ad un amministratore di una società come Sorical, in difficoltà finanziaria. Tale circostanza, come è noto, è stata resa nota nell’immediatezza della mia nomina. La trasparenza, l’onestà e l’agire nell’interesse dei cittadini è sempre stata la mia bussola sia nella vita privata che in quella pubblica lasciando sempre buone opere, frutto di impegno e abnegazione.

Anche nel caso di Sorical, sto assolvendo al mandato affidatomi per rilanciare un’azienda che gestisce un bene primario con l’ambizione di riportarla alla gestione ordinaria e non lasciarla in liquidazione, come tecnicamente viene definita, perché sta operando in continuità per poter garantire il servizio.

Luigi Incarnato Commissario Sorical

 

Siamo contenti che il dottor Incarnato chiarirà presto con i pubblici ministeri la sua posizione in merito alla vicenda di Cosenza, come ha chiarito in questa lettera l’entità dei suoi compensi.

Enrico Fierro

Giusto l’addio di Allegri? È il paradosso di chi è “costretto” a vincere (sempre)

 

Ho letto che dopo anni di successi la formazione bianconera è pronta a salutare il suo allenatore Allegri. Scudetti, record di punti non contano, meglio tornare al passato (Conte?). Come mai? Siamo una nazione che non sa attendere? O ci sopravvalutiamo, vista la bellezza delle partite di Champions?

Giuliano Portini

 

Caro Giuliano, c’è un po’ di verità in quasi tutte le risposte che lei prova a darsi.

Scudetti e record di punti non contano? Evidentemente no. I tifosi della Juve hanno la fortuna di vincere molto spesso, ma anche la sfortuna di essere condannati a vincere sempre. E così la prematura – e inaspettata – eliminazione dalla Champions rischia di consegnare la stagione dell’ottavo scudetto consecutivo alla categoria “fallimenti” (con buona pace di chi da otto anni tenta, invano, di insidiare la leadership bianconera). E i tifosi, a cui dopo otto anni uno scudetto fa poco più che il solletico, sembrano aver deciso che il responsabile sia Massimiliano Allegri. Dunque nulla di strano se club e mister optino per il divorzio. La Juventus dispone di risorse tali da permettersi (quasi) chiunque, Allegri non avrà problemi a trovare una panchina in qualche top club.

Meglio tornare al passato? Conte? Chissà. I ritorni in panchina sono un must del calcio italiano, ma quello dell’allenatore dei primi tre titoli dell’era Andrea Agnelli sarebbe sorprendente. Non mi pare una cosa “da Juve”, vedremo se accadrà.

Siamo una nazione che non sa attendere? Non saprei. Di certo se formulasse questa osservazione a un tifoso bianconero parlando della Champions rischierebbe di ricevere risposte non proprio carine.

Ci sopravvalutiamo, vista la bellezza delle partite di Champions? Assolutamente sì. Le quattro meravigliose partite di semifinale tra Liverpool, Barcellona, Ajax e Tottenham a noi poveri tapini italiani sono parsi un altro sport. Dunque la soluzione è quella cara ad Andrea Agnelli&C, ossia la Superlega europea blindata per i grandi club a scapito dei tornei nazionali? Se si vuole trasformare il calcio in un videogioco certamente sì, se si ha cuore l’anima di questo sport (ancora, tutto sommato, popolare) un po’ meno. Delle quattro semifinaliste l’unica ad avere il pedigree da “big” blindata, secondo i calcoli di Agnelli, sarebbe il Barcellona, cioè la squadra che ne è uscita peggio. Le altre tre, che a vario modo hanno incantato, il loro posto in Superlega, fino a ieri, avrebbero dovuto sudarselo.

Stefano Caselli

Un’Italia senza Dio: il 7% di credenti in meno in 5 anni

I cattolici reazionari come quelli sfilati a Verona qualche settimana fa si conquistano sempre più spesso le prime pagine dei giornali, ma il Paese reale va in tutt’altra direzione. Quello che anticipiamo oggi è il primo commento ai risultati di un importante sondaggio sulla religiosità in Italia commissionato dall’associazione Uaar (Unione degli Atei, Agnostici e Razionalisti) alla Doxa. Il campione su cui è stata svolta la ricerca è rappresentativo dell’intera popolazione italiana e le interviste sono state realizzate faccia a faccia e non al telefono.

I CREDENTI. Il primo dato che salta agli occhi viene dal confronto con i risultati di un analogo sondaggio svolto da Doxa per l’Uaar nel 2014 e riguarda il modo in cui i nostri concittadini definiscono se stessi sul piano religioso. Comparando i due sondaggi, scopriamo che in soli cinque anni, il numero di credenti cattolici è diminuito di quasi otto punti percentuali (esattamente di 7,7), mentre il numero di atei e agnostici è cresciuto di 5 (passando dal 10 al 15 per cento). Si tratta di un dato di grande ampiezza e notevole rilevanza. Una rilevanza amplificata dal fatto che in questi ultimi cinque anni non è cresciuto nel Paese il numero di migranti di religione non cattolica.

Sono numeri quelli raccolti da Doxa che confermano l’ampiezza, la profondità e l’impressionante rapidità del processo di Secolarizzazione, cioè del distacco delle popolazioni dei Paesi più sviluppati da ogni forma di religiosità. Se il processo avanzasse a questo ritmo, in pochi decenni si realizzerebbero le profezie di tanti grandi pensatori dell’Otto e del Novecento: i credenti scomparirebbero quasi del tutto e ateismo e agnosticismo diventerebbero la normalità; la religione si trasformerebbe nella reliquia di un passato sempre più lontano.

LE GENERAZIONI. Per confermare l’impressione che proprio di Secolarizzazione e non di un dato casuale e contingente si tratti, basta dare un’occhiata ai dati sulle differenze generazionali. Si scoprirà che tra i giovani del campione di età compresa tra i 15 e i 34 anni (compresi i tanti da poco reduci da catechismo e ora di religione) gli atei e gli agnostici superano il 22 per cento, mentre i credenti cattolici sono poco più del 50 per cento. Il numero di cattolici sale man mano che aumenta l’età degli intervistati fino a raggiungere il picco del 76,9 per cento tra gli ultracinquantacinquenni. Insomma, ogni nuova generazione sembra notevolmente meno religiosa di quella che l’ha preceduta.

NORD E SUD. Anche quella territoriale si conferma una variabile molto importante per comprendere la geografia religiosa dell’Italia contemporanea: il Nord (e soprattutto la parte occidentale) è nettamente più secolarizzato del Sud. Nel Nord-Ovest i cattolici sono poco meno del 50 per cento (49,2) e atei e agnostici sfiorano il 30 (28,5). Nel Mezzogiorno i cattolici sono quasi l’80 per cento (78,5), gli atei e gli agnostici meno del 10 (7,5). Insomma, come confermato anche da alcune autorevoli ricerche sociologiche, lo sviluppo economico e il benessere sociale riducono in modo significativo la necessità della religione. In modo analogo agisce l’istruzione: solo il 51 per cento dei laureati si definisce credente cattolico, contro l’87,6 per cento di coloro in possesso della sola licenza elementare. La religione si conferma una risorsa importante per chi non ne possiede altre: quelle che vengono dalla cultura, dal lavoro e dalla sicurezza economica ed esistenziale.

LO STATO LAICO. Dal sondaggio vengono anche numerose altre indicazioni. Apprendiamo, ad esempio, che anche molti di coloro che si dichiarano credenti cattolici desiderano uno Stato laico e rigorosamente neutrale riguardo alla religione. Quasi l’80 per cento degli intervistati (omogeneamente distribuiti su tutto il territorio nazionale e tra tutti i ceti e le classi sociali) dichiara infatti di desiderare un governo che operi tenendo conto in egual misura dei valori dei credenti e di quelli dei non credenti, e addirittura più dell’83 per cento si dichiara favorevole al principio di laicità, cioè alla completa separazione tra la Chiesa e lo Stato. Ben il 54 per cento degli intervistati dalla Doxa è favorevole alla tassazione integrale di tutti gli immobili della Chiesa e un altro 30 per cento è favorevole alla tassazione almeno di quelli dai quali la Chiesa ricava un reddito. Non più del 9 per cento del campione è favorevole a esentare completamente l’istituzione religiosa da ogni versamento fiscale. Tutti questi dati (e altri ancora presentati nel sondaggio) stanno a significare che prima ancora e più che della fede in Dio gli italiani sono ansiosi di liberarsi dall’invadenza di quelle istituzioni come la Chiesa Cattolica che pretendono, nel suo nome, di condizionare la vita di tutti, credenti e non credenti.

È vero peraltro che a questa consapevolezza non sempre fa riscontro un’adeguata conoscenza dei mezzi attraverso i quali perseguire un ridimensionamento della potenza ecclesiale, se è vero quel che rivela il sondaggio e cioè che quasi metà dei contribuenti italiani non conosce il funzionamento dell’8 per mille, il principale strumento di finanziamento della Chiesa Cattolica. Ma i risultati forniti dalla ricerca sono comunque assai importanti e dovrebbero essere letti con attenzione anche dagli esponenti di una classe politica ancora troppo spesso abbagliata dai miti della rinascita di un partito cattolico o della conquista dell’elettorato che va in Chiesa. Quell’Italia non esiste più. Quella laica, sempre più forte e numerosa, reclama spazio e diritti.

Caso Bellomo, sentite a porte chiuse le due principali accusatrici

Deposizioni segrete al processo disciplinare del Csm a carico di Davide Nalin, pm di Rovigo, sospeso dalle funzioni, ex collaboratore di Francesco Bellomo, destituito da consigliere di Stato per le vessazioni denunciate da alcune sue ex allieve aspiranti magistrate che dovevano partecipare ai suoi corsi in minigonna e tacco 12. Su richiesta del procuratore generale Mario Fresa sono state sentite a porte chiuse Francesca Palladini e Carla Pernice. Quest’ultima in tv aveva raccontato che Nalin le avrebbe chiesto di lasciare il suo fidanzato, perchè era meglio “essere single”. Inoltre le avrebbe ordinato di fare da “spia” tra le altre ragazze. Al suo rifiuto era stata espulsa dalla scuola di Bari gestita da Bellomo e per cui avrebbe lavorato stabilmente Nalin, pur essendo un magistrato ordinario, quindi violando un divieto di categoria. Sia Bellomo sia Nalin sono accusati dalla Procura di stalking e lesioni gravi. Il procedimento è nato dalla denuncia della Palladini (ha poi rimesso la querela) che ha avuto una relazione sentimentale con Bellomo. E Nalin, secondo l’accusa, avrebbe fatto da “mediatore” per indurla a proseguire il rapporto con Bellomo, anche con minacce.

Consip, l’Antitrust stanga Romeo & C. per il maxi-cartello

L’Antitrust anticipa le sentenze penali e commina multe salatissime (235 milioni di euro) alle aziende coinvolte nel “più grande appalto d’Europa”. Era il Fm4 (Facility management 4), base d’asta 2,7 miliardi di euro, aveva come oggetto la gestione di servizi, pulizia e manutenzione degli uffici pubblici in tutta Italia ed era stato bandito nel 2014 da Consip (la centrale acquisti della pubblica amministrazione). L’indagine avviata nel 2016 dal pm Henry Woodcock aveva portato alla luce le manovre corruttive dell’imprenditore Alfredo Romeo, il coinvolgimento del padre dell’allora presidente del Consiglio, Tiziano Renzi (per il quale i pm hanno poi chiesto l’archiviazione), e le fughe di notizie attribuite al ministro Luca Lotti e al comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette.

Ora arrivano le multe dell’Antitrust. Nella seduta del 17 aprile, l’Autorità ha accertato “la sussistenza di un’intesa anticoncorrenziale volta a condizionare l’esito” della gara Fm4. E ha comminato sanzioni per un importo totale di circa 235 milioni di euro. La gara è stata truccata dai principali operatori del settore, tra cui il gruppo Romeo, Cns, Engie servizi (già Cofely Italia), Exitone, Manital, Rekeep (già Manutencoop). Non è invece stato accertato alcun illecito nei confronti delle società Dussmann e Siram (gruppo Veolia). La Cns ha beneficiato di una riduzione della sanzione pari al 50 per cento per aver collaborato con l’Autorità.

Come raccontato il 7 aprile dal Fatto Quotidiano, il gruppo Romeo e quattro aziende alleate si erano accordati tra loro ripartendosi i lotti di gara, partecipando “a scacchiera”, utilizzando in maniera distorta i raggruppamenti temporanei d’imprese, gli affidamenti in subappalto e gli strumenti consortili. Per vincere le gare e neutralizzare il confronto competitivo tra le imprese.