Soldi per telecamere in scuole e ospizi. La Cgil: “Demagogia”

Gradito ai partiti, ma non ai sindacati: è il contenuto di un emendamento bipartisan al decreto Sblocca cantieri, che ieri ha proposto di inserire telecamere “in tutte le aule scolastiche e nelle strutture di assistenza e cura di anziani e disabili”. Sia la maggioranza che l’opposizione si sono infatti mostrate favorevoli: tra i firmatari risultano Lega, M5S, Forza Italia e Pd. Il progetto prevede lo stanziamento di fondi ad hoc a disposizione dei Comuni pari a 10 milioni nel 2019 e 30 milioni per ciascun anno dal 2020 al 2024. L’idea sarebbe evitare i casi di maltrattamenti che ogni tanto finiscono nelle cronache. La Cgil protesta: queste enormi cifre da destinare alle telecamere vengono dichiarate mentre si operano ingenti tagli ai servizi in tanti Comuni. Il sindacato aggiunge che l’emendamento sarebbe “illogico”, perché inserito in un provvedimento che non ha nulla a che vedere con la materia, e “sbagliato” perché “criminalizza i dipendenti”. La proposta viene infine bollata come “demagogia e pura propaganda”, inaccettabile in un momento in cui “bisognerebbe occuparsi delle condizioni di chi lavora” mettendo in campo azioni concrete.

L’Agcom: “La Lega è sovraesposta, troppo spazio su Tg1, Tg2, La7 e Sky”

Errare è umano, perseverare è diabolico, ma – a quanto pare – tipico delle reti televisive in campagna elettorale. Nonostante i ripetuti richiami dei mesi passati, l’Agcom torna a riprendere il Tg1 e il Tg2 per il mancato rispetto della par condicio nei notiziari: non solo il governo risulta sovraesposto, ma tra le forze politiche la Lega la fa da padrona rispetto all’opposizione e pure ai 5 Stelle che, in linea teorica, pesano il doppio in Parlamento.

A rivelarlo, i monitoraggi effettuati in riferimento alle due settimane a ridosso delle europee, dal 22 al 28 aprile e dal 29 aprile al 5 maggio. Non solo i due maggiori Tg Rai, secondo l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, anche SkyTg24 e il telegiornale di Enrico Mentana (La7) stanno dando troppo spazio, oltre che al governo, anche alla Lega rispetto alle altre forze politiche. Nel Tg5, invece, risultano sorprendentemente sovraesposti Giorgia Meloni e il suo partito Fratelli d’Italia. Per questo l’Agcom ha emesso cinque ordinanze, anche se non all’unanimità: hanno votato contro i commissari Antonio Martusciello e Francesco Posteraro.

È la terza volta che l’Autorità è costretta a intervenire sul rispetto dello spazio concesso ai partiti dai telegiornali (molto penalizzate, peraltro, anche le nuove liste ammesse alle prossime Europee che non hanno rappresentanza in Parlamento): già dopo i monitoraggi tra 25 marzo e 21 aprile, i commissari avevano segnalato “una costante sottostima del soggetto politico M5S”. Ora, dopo gli “avvertimenti”, sono arrivate le ordinanze.

Quello tra la Rai e la Lega, tuttavia, sembra essere un amore ancora travagliato. Nonostante i notiziari della tv di Stato dimostrino di prediligere Matteo Salvini e soci, infatti, i leghisti non paiono soddisfatti del resto di viale Mazzini: ieri, ad esempio, la Lega ha depositato in commissione di Vigilanza sulla Rai una risoluzione per tagliare gli stipendi di dirigenti e artisti. Il testo impone all’emittente di eliminare le sperequazioni retributive tra i dirigenti non giornalisti entro tre mesi, non escludendo la conclusione di alcuni contratti. Anche gli stipendi degli artisti verranno limitati da un “tetto retributivo”, con una parte di retribuzione variabile rapportata agli ascolti e alla pubblicità. Una proposta chiaramente connessa ai bisticci degli ultimi giorni tra il vicepremier Matteo Salvini e il conduttore di Raiuno Fabio Fazio: il primo aveva rifiutato l’invito alla trasmissione del secondo, definendolo “comunista col Rolex e milioni di stipendio, che mi piacerebbe venisse tagliato dalla Rai”. Il ministro aveva poi aggiunto, in uno slancio di amor per la giustizia: “Se parli sulla tv pubblica, pagata con denaro pubblico, dovresti portare rispetto a tutti i 60 milioni di italiani non solo alla minoranza”.

La notizia è che anche la Corte dei Conti indaga sul compenso milionario di Fazio: paradossalmente, il conduttore deve l’attenzione dei magistrati contabili a un esposto di Michele Anzaldi (Pd).

Primo sì al taglio di 345 eletti. Sull’autonomia botte da orbi

Finisce la prima lettura della legge costituzionale che taglia 345 parlamentari su 945: la Camera ieri ha approvato con 310 sì (M5S, Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia) e 107 no (Pd, LeU) e 5 astenuti la riforma. Il testo è lo stesso già approvato dal Senato e quindi la procedura passa ora al secondo step: perché diventi legge le due Camere, tra non meno di tre mesi, dovranno approvare la riforma in seconda lettura a maggioranza assoluta e senza possibilità di modifiche.

Breve riassunto delle reazioni. Festeggiano i 5 Stelle: “Una tappa storica”, dice il ministro dei Rapporti col Parlamento Riccardo Fraccaro; “gli altri parlano e noi facciamo i fatti”, si vanta il capo politico Luigi Di Maio. Festeggia moderatamente la Lega, tranne Roberto Calderoli, entusiasta: “Oggi arriva a compimento una mia battaglia storica. Il taglio dei parlamentari l’ho fatto approvare in Parlamento quando Fraccaro portava i braghini corti”. Al Pd la proposta non è piaciuta: “È un danno alla democrazia”, dice Emanuele Fiano; “è una cazzata”, scolpisce, icastico, Roberto Giachetti.

Il merito. Se la riforma sarà approvata – e passerà il vaglio del referendum confermativo – i deputati passerebbero da 630 a 400, i senatori da 315 a 200 (gli eletti all’estero da 18 a 12); ogni regione – escluse Val d’Aosta (uno) e Molise (due) – non potrà avere meno di tre senatori (prima erano 7), quelli a vita non potranno essere più di 5. Insieme al ddl costituzionale viaggia anche una legge ordinaria di modifica al sistema elettorale che consentirebbe al governo di ridisegnare i collegi del “Rosatellum”. Con 345 parlamentari in meno gli effetti non sarebbero secondari: il primo e più ovvio riguarda il funzionamento delle Camere (i componenti delle commissioni, ad esempio); un altro è la diminuzione della platea che elegge il capo dello Stato (da 1.008 persone a 673). Il ddl, secondo i proponenti, comporta un risparmio di 100 milioni di euro all’anno.

Il problema. Ridurre del 36,5% il numero dei parlamentari ha effetti anche sulla rappresentanza, soprattutto se la legge elettorale resta il pasticcio detto Rosatellum: un terzo dei seggi attribuito in collegi uninominali e due terzi col proporzionale con soglia di sbarramento nazionale al 3%. Questa modifica costituzionale, se possibile, ne accentua i difetti. I conti li ha fatti il capogruppo di LeU alla Camera Federico Fornaro, esperto di sistemi elettorali: “Il risultato sarà aumentare la distanza tra eletti e elettori. Alla Camera i collegi uninominali avranno una dimensione media di 404.000 abitanti, al Senato di 803.000 abitanti con punte come l’Abruzzo da 1,3 milioni”. E ancora: “Al Senato in 9 regioni la soglia di sbarramento implicita supererà il 25% stabilendo il record mondiale nei sistemi elettorali proporzionali. Così si finisce per comprimere sia la rappresentanza dei territori marginali meno popolosi sia le minoranze politiche”.

Le altre due. In Parlamento sono depositate altre due riforme costituzionali. Una ancora in commissione a Palazzo Madama prevede l’abolizione (ma a tappe) del Cnel, l’altra – approvata dalla Camera a febbraio e ora all’esame del Senato – modifica l’istituto referendario: una pdl di iniziativa popolare con più di 500mila firme dovrà essere approvata dalla Camera entro 18 mesi dalla presentazione, altrimenti su di essa viene indetto, appunto, un referendum propositivo (i promotori possono chiederlo anche se la legge passa con modifiche). Il quorum – che varrà anche per il referendum abrogativo – è fissato al 25% degli aventi diritto per scongiurare campagne astensioniste. Il vaglio di ammissibilità sulle leggi e quindi sul possibile referendum sarà appannaggio della Consulta.

Autonomia. Anche se non è una legge costituzionale, le tre intese con Lombardia, Veneto e Emilia Romagna sul regionalismo differenziato sono la più vasta riforma del cantiere gialloverde. Al momento, però, sembra in panne: nonostante la fretta della Lega, i punti di disaccordo nel governo e tra ministeri e Regioni sono moltissimi (il ministro dell’Economia Tria ha definito “non coerenti con la Costituzione alcune richieste” dei governatori). Ieri, per dare l’idea del clima, la ministra del Sud Barbara Lezzi (M5S) si è espressa così in Parlamento: “A oggi non siamo in grado di definire quanto costa l’autonomia” e questo proprio per la natura delle intese messe a punto dalla ministra Stefani coi governatori che “illustrano un quadro generale di intenti” e rinviano tutto a una trattativa dopo l’approvazione. Sulla scuola, ad esempio, c’è “il rischio di giustapposizione tra funzioni e competenze statali e regionali che riguarderebbero anche la definizione dei ruoli e il reclutamento del personale”. L’autonomia non può essere usata “per favorire alcune regioni a scapito di altre”. Le polemiche su cannabis o prostituzione sono solo uno show per le telecamere: è su questo, oltre che sulle legittime ambizioni dei leader, che si deciderà se il governo vive o muore.

Sbagliato l’atto di revoca del leghista: il Colle lo fa riscrivere

Il decreto per cacciare Siri andava riscritto, li ha rimbrottati il Quirinale. Così i tecnici di Palazzo Chigi hanno dovuto riscrivere quel testo troppo “irrituale”, la cui nuova versione è attesa per questa mattina al Colle per la firma di rito. Si concluderà così, con uno strascico un po’ grottesco, la vicenda dell’atto per revocare il sottosegretario leghista indagato per corruzione, fortemente voluto dal premier e accettato anche dalla Lega, senza bisogno di una votazione in Consiglio dei ministri. Però per schivare la conta era servita qualche concessione nel testo al Carroccio sul principio d’innocenza. Mentre, Conte ha voluto riferire nero su biancodi aver ricevuto una atto di fiducia da Lega e Movimento. E allora quanto già scritto nel comunicato dopo il Cdm è stato inserito anche nel decreto: “”Il Consiglio dei ministri ribadisce la sua fiducia nel presidente Conte e conferma il principio di presunzione d’innocenza come principio cardine”. Ma dal Colle hanno obiettato che il testo doveva disporre solo la revoca dell’incarico di sottosegretario. Così è stato rispedito a Chigi, per essere “ripulito”. E ieri sera Conte, di ritorno dalla Romania, lo ha firmato. Sperando che basti.

Ammucchiata per la separazione delle carriere

La separazione delle carriere dei magistrati promette di essere uno dei prossimi fronti aperti nella maggioranza di governo. Anche se – a sorpresa – si rivela non essere più un tabù assoluto neanche per M5S, mentre nel Pd le divisioni non mancano mai. Ieri, Matteo Salvini durante un comizio a Fano ha lanciato la sfida al ministro Alfonso Bonafede: “Porti in discussione la riforma della giustizia, come Lega abbiamo le nostre idee sulla separazione delle carriere, sul dimezzamento dei tempi dei processi, sulla certezza della pena e sulla responsabilità dei giudici che sbagliano”.

Per spingere proprio sulla separazione delle carriere, ieri è nato un apposito intergruppo parlamentare con 42 deputati di tutti i gruppi, da Forza Italia a Liberi e Uguali. A illustrarlo alla Camera il promotore Enrico Costa (FI) che, con gli altri proponenti, non s’è fatto mancare la foto di gruppo finale: spiccano Paolo Sisto (FI), relatore del ddl in commissione Affari costituzionali, e Roberto Turri, capogruppo della Lega in Commissione Giustizia, Franco Vazio, Ivan Scalfarotto e Roberto Giachetti (renziani del Pd), Roberto Magi di +Europa, ma pure Caterina Varchi di Fratelli d’Italia e soprattutto il grillino Roberto Cataldi. “L’importante è come si fa – spiega lui, che è un avvocato, al Fatto – è centrale il tema dell’imparzialità”. I Cinque Stelle sono d’accordo? “Nel contratto di governo la questione non c’è, ma tra i miei colleghi avvocati se ne inizia a parlare”. Alcuni suoi colleghi della Commissione, dove M5S ha un certo peso, assicurano che il ddl “non passerà mai”.

Intanto Costa, a Montecitorio, chiariva che “il mantra dell’iniziativa è avere un Pm indipendente dalla politica e un giudice indipendente dal Pm”. Mentre Giachetti sottolineava che la sua posizione è “personale”. La maggioranza del Pd, d’altronde, non è d’accordo: l’ex Guardasigilli Andrea Orlando lo ha detto chiaro e tondo e la questione era assente nella mozione congressuale di Nicola Zingaretti (mentre c’era in quella di Maurizio Martina).

L’intergruppo nasce, come rivelato dal Fatto, da un appello lanciato da Costa e altri deputati, compreso Cataldi, via mail: “Caro collega, ti proponiamo di dar vita a un Intergruppo Parlamentare che tratti il tema della separazione delle carriere dei giudici e dei magistrati del pubblico ministero, secondo i modelli operanti in molti Paesi europei…”. L’apposito disegno di legge è alla Affari costituzionali da febbraio. È di iniziativa popolare o meglio delle camere penali che hanno raccolto in giro per l’Italia le firme necessarie. Tra i firmatari, con tanto di selfie, anche Salvini, non ancora ministro.

Parlare di un ddl sulla separazione delle carriere, però, è riduttivo. È un progetto che se diventasse legge sovvertirebbe il principio cardine della separazione dei poteri. Infatti, non si limita alla già controversa separazione delle carriere tra pm e giudici, che vede la contrarietà dei magistrati per il pericolo di un asservimento del pm all’esecutivo di turno.

Prevede che ogni maggioranza parlamentare indichi ai magistrati le priorità di indagine, scardinando il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Visti gli ultimi fatti, ci si può immaginare che la corruzione e l’evasione fiscale non saranno ai primi posti. Come se non bastasse, il Parlamento eleggerebbe la metà dei consiglieri di ciascuno dei due Csm e potrebbe nominare come giudici ordinari avvocati e professori universitari, senza concorso.

Sarebbe la rivalsa della politica sulla magistratura.

Tav e appalti, dopo Siri la Lega cala il contrattacco

Il Matteo Salvini che ha abbassato la testa su Siri indica sempre la luna: cioè il no alla cannabis libera, le autonomie ora e subito e la flat tax, che adesso sarebbe “mini” (si fa per dire, visto che costa 13 miliardi). Mortaretti elettorali, da far scoppiare prima di parlarne seriamente dopo il 26 maggio. Tanto l’ordigno vero, quello della vendetta per il sottosegretario revocato, si chiama Tav. La tratta ferroviaria Torino-Lione che al M5S fa paura come la kriptonite e su cui il Carroccio rilancia con un emendamento al decreto Sblocca cantieri, dalla prossima settimana in commissione in Senato per la conversione in legge. Ergo, lo scontro tra i gialloverdi può deflagrare prima delle urne. Anche sugli appalti, su cui il Carroccio cala altre proposte pesanti. Però la prima minaccia è il Tav.

Perché questa volta ci mette il timbro il viceministro leghista all’Economia Massimo Garavaglia, che lo dice alle telecamere del fattoquotidiano.it: “Il Tav sta andando avanti, non prendiamoci in giro. Prendiamone atto e finiamolo”. E buonanotte al contratto di governo, quello che parla di “ridiscutere integralmente il progetto”, e ai calcoli del M5S, convinto di aver rinviato quell’enorme problema. Ma il Carroccio fiuta l’ansia e azzanna. “Tutto ciò che accelera la realizzazione del Tav non può che essere sostenuto dalla Lega” assicura il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari, piemontese. E d’altronde che stessero arrivando guai l’avevano capito già un paio di giorni fa nel M5S, quando a Palazzo Madama i leghisti non avevano voluto mostrare ai coinquilini di governo le loro proposte di modifica allo Sblocca cantieri. Poche ore dopo, il Carroccio ha depositato una trentina di emendamenti che un big del M5S definisce così: “Un elenco di provocazioni”. E la più urticante è ovviamente la proposta sulla Torino-Lione, che chiede la nomina di commissari per un elenco di opere “prioritarie ed emergenziali” tra le quali i “corridoi internazionali Ten-T” (acronimo che indica i corridoi transeuropei), i valichi alpini e le tratte ferroviarie internazionali. “L’unica opera che rientra in tutte e tre le categorie è il Tav” osserva un senatore a 5Stelle. Insomma l’assalto c’è. E infatti Garavaglia ci mette il carico: “Se aspettiamo ancora un po’ arrivano i francesi: scavano 20 metri al giorno. Mentre noi ci perdiamo Pil e posti di lavoro”. Ma anche gli altri emendamenti all decreto, già frenato da mille rinvii e liti, sono ostacoli.

Per esempio la Lega vuole riscrivere le soglie sugli appalti, stabilendo per i lavori tra 150 e 350mila euro una procedura negoziata con la consultazione di 10 operatori (5 nel caso dei servizi). Mentre oltre i 350mila euro e fino a un milione la procedura sarebbe negoziata ma con 15 operatori. Linea opposta a quella del M5S, che non a caso in un emendamento propone di abbassare la soglia massima del subappalto dal 50 per cento previsto dal decreto al 40 del valore dei lavori. Invece il Carroccio morde, anche sulle Province, di cui Di Maio vuole la cancellazione e che Salvini invece ha riabilitato. Per questo, la Lega invoca più soldi per gli enti locali: 60 milioni l’anno in più nel biennio 2019-2020, che salirebbero a 200 dal 2031. E nel M5S fanno facce scurissime. Ma i vertici ordinano il silenzio: “Non replicate, soprattutto sul Tav”.

Così pretende il capo, Luigi Di Maio: “Non bisogna abboccare alle provocazioni della Lega”. Ma Salvini spinge, innanzitutto sulla cannabis: “Mi aspetto che il 5Stelle Mantero ritiri la proposta di legge sulla droga libera”. E il senatore, già contrario a salvare il leghista dal processo per la Diciotti, risponde picche a Un giorno da pecora: “È una richiesta assurda”. Invece dentro il Movimento pensano già alla contromossa sullo Sblocca cantieri: “Se la Lega insiste, punteremo a far togliere tutti gli emendamenti, magari anche con la fiducia, e ad approvare così com’è il decreto in Senato, poi si vedrà”. Tradotto, alla Camera si potrà sempre modificare con calma, dopo la resa dei conti. Ossia dopo le Europee.

Kering patteggia e paga 1,25 miliardi al Fisco italiano

Il gruppo Kering, che ha in pancia alcune delle principali maison di moda (come Gucci, Saint Laurent, Bottega Veneta, Balenciaga) pagherà all’Agenzia delle Entrate 1,25 miliardi di euro per chiudere un contenzioso che riguarda tasse non pagate da Gucci. In particolare, la Guardia di finanza ha contestato al colosso francese del lusso, controllato dal miliardario Francois-Henry Pinault, una evasione fiscale da circa 1,4 miliardi di euro con ricavi non dichiarati per 14,5 miliardi realizzata attraverso la controllata svizzera Luxury Goods International SA (Lgi) riuscendo così a evitare l’imposizione fiscale italiana sulle vendite nel nostro Paese del marchio Gucci. Si tratta dell’assegno più alto mai pagato all’Agenzia delle Entrate nell’ottica di una conciliazione fiscale raggiunta con una società. La cifra complessiva è la somma di una maggiore imposta pari a 897 milioni di euro, più le sanzioni.

“L’effetto di questa transazione sul bilancio consolidato di Kering del 2019 sarà pari a circa 600 milioni di euro di imposte addizionali sul conto economico e di circa 1.250 milioni di euro di flusso di cassa negativo sul rendiconto finanziario”, ha fatto sapere il gruppo francese sottolineando “lo spirito collaborativo”.

Genova, Lega e “Lealtà e Azione” insieme appassionatamente

Carroccio e militanti di estrema destra a braccetto. È accaduto a Genova durante il tour elettorale di Marco Campomenosi, candidato leghista alle elezioni europee. Campomenosi ieri si è mosso tra mercati e strade del centro insieme con diversi esponenti del Carroccio. Ma in molti nel gruppo hanno notato anche rappresentanti dell’associazione di estrema destra Libertà e Azione. Tra gli altri il responsabile genovese Giacomo Traverso che ha dichiarato: “Faccio una passeggiata in una bella giornata di sole”. Con lui era presente Giacomo Pedrazzoli, esponente di spicco di Lealtà Azione Milano. I rapporti tra esponenti della Lega e Libertà e Azione non sono una novità a Genova: prima di diventare assessore alla Sicurezza, Stefano Garassino – all’epoca segretario provinciale della Lega – aveva partecipato a convegni con Traverso. Alessandro Terrile (Pd) ieri ha commentato: “Traverso su Facebook parlando degli israeliani ha scritto: ‘Lurida razza di mercanti dal naso adunco’. Pedrazzoli tra l’altro è stato arrestato nel 2004 per duplice tentato omicidio (reato derubricato dai giudici d’appello in lesioni volontarie)”.

Nuovi guai per Occhiuto. Accuse di bancarotta al sindaco di Cosenza

Altri guai giudiziari per Mario Occhiuto, il sindaco di Cosenza candidato in pectore di Forza Italia per le prossime regionali in Calabria. Assieme alla sorella Annunziata e al suo ex capo di gabinetto Carmine Potestio, è indagato per bancarotta fraudolenta della società Ofin srl, fallita nel 2014. L’avviso di conclusione indagini è stato notificato ieri mattina dalla Guardia di finanza. Stando all’inchiesta, coordinata dal procuratore di Cosenza Mario Spagnuolo e dal pm Marialuigia D’Andrea, il sindaco Mario Occhiuto avrebbe considerato la società una sorta di bancomat. Negli anni, infatti, ha prelevato dalla Ofin oltre 3 milioni e mezzo di euro restituendone solo 500 mila.

“Finanziamenti – scrive la Guardia di finanza – senza motivata contropartita e, soprattutto, senza le adeguate garanzie che normalmente richiederebbe un intermediario finanziario”. Ma soprattutto – si legge nell’informativa – si è trattato di prelievi che “vanno considerati veri e propri atti distrattivi che avrebbero potuto e dovuto essere destinati al soddisfacimento dei creditori, in primis l’erario”.

“Sono sereno – ha dichiarato Occhiuto dopo la notifica – però resto perplesso, visto che da quando a Lamezia ho annunciato la mia candidatura a governatore della Calabria, ho ricevuto alcune notifiche giudiziarie, una dietro l’altra. Sarà una coincidenza, ma la mia perplessità riguarda la tempistica”.

Ecco un altro incarico per l’avvocato socio di studio del governatore Fontana

L’avvocato Luca Marsico, socio di studio del presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, ha avuto un incarico anche dagli ospedali Fatebenefratelli-Sacco di Milano, il cui direttore generale è Alessandro Visconti, nominato al vertice dell’azienda ospedaliera in quota Lega e buon amico di Fontana.

Il presidente della Regione ha ricevuto tre giorni fa un avviso di garanzia per abuso d’ufficio, per aver inserito Marsico tra i consulenti del Nucleo di valutazione degli investimenti pubblici della Regione Lombardia. Compenso, 11.500 euro l’anno, più gettone di presenza di 185 euro a seduta.

Marsico nel 2018 ha ricevuto anche 8 mila euro per una consulenza di “revisione e procedure di audit” da Trenord, società controllata da Ferrovie Nord Milano, quindi dalla Regione, con al vertice il presidente (leghista) Andrea Gibelli.

Ma Marsico, secondo quanto risulta al Fatto quotidiano, ha ricevuto un incarico anche dal Fatebenefratelli (non citato, come quello di Trenord, nelle carte giudiziarie).

La vicenda si apre due anni fa, quando la Asst Fatebenefratelli-Sacco, che riunisce due grossi ospedali milanesi, il Fatebenefratelli e il Sacco, decide di non riconoscere più ad alcuni medici il “rischio radiologico”. È un piccolo supplemento nello stipendio e alcuni giorni in più di ferie che sono concessi ai medici che operano e lavorano in area protetta, dove ci sono apparecchi che emettono raggi x. In primo luogo i radiologi, ma anche i chirurghi vascolari, i neurochirurghi, gli urologi, gli ortopedici, che sono sottoposti nel loro lavoro al rischio di assumere radiazioni.

Il supplemento di stipendio e i giorni di ferie in più spariscono di colpo, senza alcuna comunicazione, agli ortopedici, i quali, quando si accorgono della decurtazione, decidono di aprire un’azione legale davanti al Tribunale del lavoro. Ad aprile, prima udienza. Decisione del giudice attesa per il prossimo luglio.

A rappresentare l’ospedale contro i medici, sono due avvocati, incaricati dal direttore generale Visconti: Luca Marsico e Maria Cristina Fontana, figlia di Attilio, a cui è passato lo studio legale dopo che il padre è stato eletto presidente della Regione.