Tangenti lombarde, la Procura indaga società di Lara Comi

Un’associazione politica e una squadra di calcio. Sono questi gli strumenti attraverso i quali passavano i soldi dei favori e delle mazzette ai politici lombardi. Da un lato, quindi, l’associazione Agorà di Varese, e dall’altro la squadra Busto81. Strade alternative alla consegna del denaro contante. Una sistema che coinvolge Forza italia e sfiora al momento la Lega. E del resto il timore di un’escalation dell’inchiesta milanese fin dentro le stanze del Carroccio, è ben presente in Parlamento. Tanto da essere rilanciato dal vicepremier Luigi Di Maio che ha pronosticato una crisi di governo se questo dovesse succedere. Ieri, intanto, Giulia Martinelli, ex moglie di Matteo Salvini, nonché capo segreteria di Attilio Fontana, è stata sentita in Procura come teste sull’abuso d’ufficio contestato al presidente della Regione per l’incarico affidato al suo ex socio di studio Luca Marsico. Sempre ieri, un imprenditore di Varese si è presentato come teste e dopo diverse ammissioni ne è uscito indagato per corruzione.

Torniamo all’indagine. L’ex sindaco di Lonate Pozzolo Danilo Rivolta, interrogato nel 2017 spiega: “Caianiello è presidente onorario della fondazione Agorà che gestisce la politica a Milano, Varese e Como”. In realtà Nino “Jurassic park” era il vero dominus dell’associazione politica. Prova ne sia la vicenda che riguarda l’elezione di Angelo Palumbo in Consiglio regionale con la lista Fontana presidente. Palumbo sarà eletto e, intercettato, dirà: “I miei voti erano mille, gli altri ce li ha messi Nino”. Spiegano i pm: “L’appoggio da parte di Caianiello non è a costo zero per Palumbo, il quale dopo la sua elezione lo ringrazia con una donazione (9.500 euro) nei confronti della Associazione Agorà”. La cifra corrisponde al primo stipendio da consigliere. “Io le promesse le mantengo”, dice il politico. Lo stesso Palumbo, secondo la Procura, ha ricevuto dall’imprenditore Daniele D’Alfonso un finanziamento illecito di 10 mila euro. Denaro che viene triangolato passando per il conto corrente della squadra di calcio Busto81 di cui presidente è l’avvocato Carmine Gorrasi. L’escamotage lo spiega D’Alfonso al consigliere comunale di Milano Pietro Tatarella. “Il mister (Gorrasi, ndr) si è inventato una roba! Sponsorizzazione squadra di Busto”. E così sarà. Ma Caianiello va oltre e vorrebbe trasformare l’associazione Agorà nel collettore delle tangenti. Dice: “Fai un contributo ad Agorà, scusami”. La Procura sta analizzando il conto corrente dell’associazione politica. Di Agorà parlano poi Caianiello e Ciro Calemme, dirigente di Forza Italia a Varese, che ieri è stato sentito in Procura per quattro ore come persona informata sui fatti. Si legge negli atti che “Nino chiede per il resto delle cose” e “Calemme dice che per Agorà stanno facendo”, poi passano a parlare d’altro. Dell’imprenditore Marco Marcora (non indagato) “che sarebbe quello che alla cena di Berlusconi ha messo 20.000 euro in mano a Berlusconi e che hanno candidato nella lista Fontana”. Marcora non sarà eletto.

Insomma Caianiello domina su tutto. Anche sulle nomine politiche. Come quella dell’eurodeputata azzurra Lara Comi, coordinatrice provinciale a Varese. Un ruolo “ricoperto di fatto” da Nino Jurassic park. Caianiello riuscirà poi a far “ottenere a una società riconducibile a Lara Comi (non indagata, ndr) contratti di consulenza da parte dell’ente Afol città metropolitana per un totale di 38.000 euro (come preliminare conferimento di un più ampio incarico di 80.000 euro) dietro promessa di retrocessione di una quota parte agli stessi Caianiello e Giuseppe Zingale (presidente di Afol)”. I due ne parlano al telefono. Dice Caianiello: “Con Lara Comi a che punto stiamo? Quanto ha preso? La logica è: se questa non prende poi non può dare”. Comi smentisce, anche se nei giorni scorsi ha difeso lo stesso Caianiello. C’è poi il capitolo Attilio Fontana e l’incarico dato a Luca Marsico. Dalle intercettazioni emerge altro riguardo al fratello, Marco Marsico e il suo incarico in Trenord, società partecipata da Ferrovie nord e dalla Regione. “Caianiello – scrivono i pm – racconta di aver intermediato con successo l’assunzione del fratello di Luca Marsico all’interno della società Trenord. Società dalla quale lo stesso Caianiello ha ottenuto una consulenza di circa 40.000 euro”.

Toh! Anche Emiliano cede al salvinismo

Un assessore della giunta di centrosinistra che dichiara di voler votare Lega alle Europee. Il Pd e la maggioranza che insorgono, chiedendone le dimissioni. E, infine, il governatore che tentenna e non caccia il dissidente.

Succede in Puglia, dove l’assessore all’Agricoltura Leonardo Di Gioia per ora resterà al suo posto, nonostante le bordate dei suoi consiglieri e del Pd nazionale, forte dell’imbarazzata esitazione del presidente Michele Emiliano. Motivo della polemica è l’endorsement dell’assessore al candidato leghista alle Europee, Massimo Casanova, imprenditore pugliese amico personale di Matteo Salvini e proprietario del Papeete, gioiellino balneare della movida romagnola: “Ritengo che non sia anomala l’idea di sostenere Casanova – aveva dichiarato Di Gioia al Corriere del Mezzogiorno – è capace di rappresentare e tutelare le ragioni dell’Italia e di Foggia”.

Da lì la bufera in giunta e in consiglio, con l’assedio dei dem e di Liberi e Uguali (che sostiene Emiliano) per far dimettere Di Gioia. Di fare un passo indietro, però, il diretto interessato non ci pensa nemmeno. Ieri Emiliano è intervenuto sulla questione dopo tre giorni di silenzio, mostrando tutto il suo disagio: “Credo che sia necessario da parte di ciascuno adoperare grande rispetto e prudenza. Noi siamo impegnati sulle questioni dei diritti delle persone, dei migranti, siamo antifascisti e tutto questo deve essere accettato da chiunque fa parte di questo progetto di governo”. Poi la chiusa che rimanda decisioni definitive: “Si può anche avere un momento di cedimento ma bisogna evidentemente evitare poi di insistere”.

Difficile però che Di Gioia consideri l’appoggio alla Lega come una sbandata improvvisa. Ex Alleanza Nazionale, l’assessore era entrato in giunta già con Nichi Vendola e si era poi candidato a capo di una lista civica al fianco di Emiliano. Gli attriti di questi giorni arrivano dopo che i rapporti con il presidente pugliese erano già incrinati, tanto che a gennaio Di Gioia aveva minacciato le dimissioni. Eppure lo strappo non c’è, anche perché Emiliano sospetta che la dichiarazione di Di Gioia sia una provocazione dettata da una faida tra l’assessore e parte del Pd foggiano, amplificata dalla sua mancata candidatura alle Politiche del 2018. Però il clima in consiglio regionale è surreale.

Tre giorni fa l’assemblea si è riunita senza raggiungere il numero legale, rinviando così i problemi a dopo le Europee. Francesco Paolo Campo, capogruppo dem in consiglio, ha messo fretta a Emiliano: “Il Pd e il centrosinistra sono totalmente alternativi alla Lega e a maggior ragione lo sono nella prospettiva europeista. Trovo incompatibile quella scelta con la sua permanenza in giunta”. E così anche Ernesto Abaterusso e Cosimo Borraccino (LeU), che definiscono “inaccettabile” l’uscita pubblica di Di Gioia, come sostenuto anche da Teresa Bellanova, senatrice pugliese del Pd: “Nella giunta non può sedere chi alle prossime elezioni sostiene la Lega”. Emiliano, però, preferisce aspettare.

Il Carroccio siculo recluta l’intera famiglia Genovese

La questione è presto detta. Ventimila voti, forse qualcuno in meno, si stanno spostando a Messina e dintorni da Forza Italia alla Lega. Sono i voti posseduti da Francantonio Genovese, già segretario regionale del Pd, già deputato, già condannato (undici anni in primo grado) e già incarcerato per voto del Parlamento e perciò trapassato, come puntigliosa reazione, da sinistra a destra.

Ma Francantonio, il cui corpo esile nasconde un tesoro in pancia che nessuno nell’isola può vantare, è papà di Luigi che soltanto ventenne e soltanto universitario, mingherlino e ignoto alla passione politica è stato appena eletto, come conseguenza dell’affronto al babbo, all’Assemblea regionale siciliana come rappresentante neoberlusconiano (17mila preferenze, urca!), e ora però e purtroppo già dato come transfuga. I Genovese sono i Caronte di Sicilia. Hanno avuto per anni il business del trasporto marittimo nello Stretto, e gli investimenti nell’industria alberghiera e nell’immobiliare, hanno procurato un dominio economico che nella politica ha trovato la stanza di compensazione. Il giovane Luigi ha il papà fortissimo, ma anche il nonno, da cui ha preso il nome, era super ferrato in fatto di preferenze (fu senatore Dc dal ’72 al ’94). Per non parlare del prozio Nino Gullotti (otto legislature al Parlamento) e nume democristiano dell’isola.

Tutta una famiglia, tecnicamente una Spa, che coniuga felicemente imprenditoria e politica, affari e comizi, commesse e promesse. E allunga il passo sebbene sempre inseguita dalla magistratura che nella famiglia trova gli indizi e le basi delle sue accuse. Ma i Genovese per un popolo largo di fedelissimi (appunto il popolo dei ventimila voti) sono speranza e mito. “Non c’è giorno – disse Francantonio con un sussulto – che nel mio studio non entri un messinese in cerca di una parola di conforto, di un aiuto o solo di un consiglio”.

Ora i Genovese sono amicissimi di Angelo Attaguile, eurodeputato ai tempi di Raffaele Lombardo, indagato per voto di scambio e oggi ricandidato a Strasburgo per opera della Lega. Angelo a sua volta è figlio di Gioacchino (ex senatore e ministro democristiano) e cugino di Francesco (ex sindaco di Catania). Già in splendida forma per fatti suoi, Attaguile si ritrova sul groppone i voti potenziali della dinasty messinese. E il colpo è miracoloso perché finalmente eleva Matteo Salvini, l’ex padano, a uomo di potere anche siciliano, da causare questo primo e straordinario caso di overbooking politico.

Perché nella Lega, già ingrassata da parecchi trasferimenti nella recentissima campagna acquisti siciliana, qualcuno ha persino temuto di ingozzarsi troppo. Un assessore di Catania, Fabio Cantarella, tentando di arginare l’esodo, ha urlato: “Non vogliamo i transfughi”. Da incorniciare la risposta della maggioranza silenziosa leghista, a opera di Antonino Rizzotto, detto Tony, già fedelissimo di Raffaele Lombardo (ricordate? l’ex governatore sotto processo per concorso esterno alla mafia e voto di scambio aggravato) e oggi rappresentante leghista all’assemblea regionale: “Non togliamo ai siciliani la voglia di votare”.

E infatti, la voglia sembra esserci. I Genovese hanno smentito il trapasso nella Lega ma hanno confermato l’amicizia con Attaguile, il traghettatore. “Sì, è così, i voti di Genovese potrebbero prendere la direzione di Salvini”, dice addolorata Stefania Prestigiacomo, berlusconiana della prima ora e oggi testimone del declino forzista. Aggiunge, un po’ sdegnata: “Non so cosa voglia fare Nello Musumeci, il presidente della Regione. So che in queste ore è impegnato, con tutti i suoi uffici, a organizzare una corsa di cavalli nella sua città, Catania. Mi hanno spiegato che i quadrupedi sarebbero di una razza autoctona, quindi una risorsa da valorizzare”.

Anche Musumeci, che guida un suo movimento a cui ha dato come nome una frase di Paolo Borsellino (“Diventerà bellissima”) contribuirà certamente all’annunciato, fantastico risultato salviniano, essendosi impegnato in un patto stretto insieme al governatore ligure Giovanni Toti, a sostenere le ragioni di una rifondazione del centrodestra immaginata come fronte sovranista a guida padana.

Se la Lega succhia al centro e svuota Forza Italia (nelle mani dell’eterno ma un po’ affaticato Gianfranco Miccichè) nelle sue postazioni più prestigiose, Fratelli d’Italia, l’altro alleato, morde alle caviglie Berlusconi. Che tra i continui rovesci ha dovuto annoverare anche la dipartita di alcuni big territoriali, come il deputato Nino Minardo e il sindaco di Catania Salvo Pogliese che devono ora decidere dove andare: meglio Meloni o Salvini?

La fascista antifascista

Per capire l’importanza che in politica, nei momenti più drammatici, hanno i gesti, i segnali e gli esempi, bisogna leggere l’ultimo libro di Antonio Padellaro: Il gesto di Almirante e Berlinguer. Uno era il segretario del Msi, fascista non pentito, repubblichino di Salò, ex firmatario del Manifesto della razza ed ex collaboratore de La difesa della razza. L’altro il segretario del Pci, il comunista che aveva già preso le distanze dall’Urss e aperto al compromesso storico con la Dc, ma senza disdegnare i rubli da Mosca. Due avversari irriducibili, mica due mammolette. Eppure, dopo il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, fra il 1978 e il ’79, si incontrarono in gran segreto quattro o sei volte per scambiarsi informazioni sugli opposti terrorismi provenienti dai rispettivi “album di famiglia”. Perché, da politici di opposizione, tenevano allo Stato e lo vedevano vacillare. Poi, quando Berlinguer morì, Almirante rese omaggio alla camera ardente, alle Botteghe Oscure. E quando morì Almirante, non potendo Berlinguer restituirgli la visita, l’ultimo saluto glielo diedero Nilde Iotti e Gian Carlo Pajetta.

Oggi ogni paragone con quegli anni sarebbe ridicolo, forse blasfemo: allora c’era la guerra fredda, oggi scoppiano qua e là guerricciole tiepide che ne sono la parodia. Ma chi ci va di mezzo rischia comunque grosso. Come la famiglia rom Omerovic, approdata in un alloggio popolare di Casal Bruciato dopo 30 anni di baraccopoli: il padre bancarellaro fuggito dalle guerre di Sarajevo, la moglie conosciuta a Roma e i 12 figli di cui due piccoli rimasti per tre giorni con i genitori sotto l’assedio dei fascisti, gli altri dieci fuggiti dai cugini in un campo rom. Questa volta, in mancanza di statisti, ha provveduto la sindaca Virginia Raggi a compiere quel “gesto”, insieme di legalità e di umanità. È stata coraggiosa ad affrontare l’orda di CasaPound che aizzava i residenti. Così come lo era stata mettendo la faccia in altre circostanze ad alto rischio: la marcia a Ostia contro il clan Spada dopo l’aggressione a un giornalista Rai, le demolizioni delle villette abusive del clan nomade Casamonica e anche l’ultima cerimonia per il 25 Aprile (con fischi ampiamente annunciati). Anche questa volta non ha badato alle convenienze (i politici, di solito, si tengono lontani dalle contestazioni) né ai timing elettorali (come le ha improvvidamente rinfacciato Di Maio): ha soltanto fatto la cosa giusta. E ora, dopo tanti fischi, insulti, minacce e maledizioni, quel gesto le viene riconosciuto da molti. Soprattutto dagli avversari politici e mediatici (difficile ormai distinguere gli uni dagli altri).

Quelli che fino all’altroieri non si limitavano a criticarla per i molti errori, com’è legittimo e doveroso con ogni politico e amministratore. No, tentavano di dipingerla per il contrario di com’è: una cretina, una corrotta, una messalina e pure una fascista. Ieri, quando abbiamo letto la sua beatificazione cubitale sulla prima pagina di Repubblica (“Raggi sfida i fascisti, Di Maio l’abbandona”, “E Virginia scoprì una forza da sindaca”), abbiamo subito pensato al disorientamento dei lettori, abituati da tre anni a considerarla una cretina, una corrotta, una messalina e pure una fascista. Anche dopo la sua assoluzione nell’ultima inchiesta sopravvissuta alle tante aperte dalla Procura di Roma (senza contare le 600 denunce ed esposti subìti). Era il 10 novembre scorso e il Tribunale stabilì che non reggeva neppure l’accusa di falso, cioè di aver mentito all’Anticorruzione per coprire favoritismi ai fratelli Marra. L’indomani Repubblica, schiumante di rabbia per l’ultima occasione sfumata, riuscì a titolare: “Il fatto c’è ma non è reato”. L’allora direttore Mario Calabresi, confondendo la prescrizione di Andreotti per mafia con l’assoluzione piena della Raggi per una frase su una nomina, riuscì a scrivere: “La cosa che più colpisce… è l’idea delirante che l’assoluzione della Raggi sia una sconfitta dei suoi critici. Forse l’assoluzione di Andreotti significava che i giornalisti che per anni avevano sostenuto che la Dc fosse collusa con la mafia erano venduti e puttane?”. Francesco Merlo commentò con la consueta sapienza giuridica: “Quella bugia di Virginia salvata dalla condanna ma non dall’incompetenza”, “la sua bugia è stata un’astuzia politica, una bugia per difendere se stessa e dunque non punibile… Una bugiarda… una tontolona… la sindaca puppet”.
Ora, dalle motivazioni, si apprende quel che si era sempre saputo: e cioè che la Raggi, nel concorso per far ruotare 120 dirigenti, ignorava quel che i due Marra dicevano alle sue spalle negli uffici e nelle chat, non aveva alcuna ragione per favorirli né alcun movente per mentire, con o senza dolo; infatti scrisse semplicemente, con linguaggio da avvocato, ciò che le risultava in quel momento. Ora che la bugiarda-tontolona-puppet “sfida i fascisti”, compie “un gesto degno della fascia tricolore che indossa, un atto coraggioso, finalmente all’altezza della carica che ricopre” e “persino chi l’ha sempre criticata loda il coraggio civile di Virginia Raggi”, la sua “decisione limpida e giusta, di sicuro quella meno facile” (sempre Repubblica), vien da domandarsi se esistano due Raggi. O se la Raggi abbia diritto ad avere ragione solo quando Di Maio le dà torto. Così come in passato i suoi collaboratori o assessori Raineri, Minenna, Muraro, Berdini, Mazzillo e Montanari erano dei putribondi figuri da massacrare finché lavoravano con lei, salvo poi trasformarsi in santi subito e insigni scienziati da intervistare a ogni pie’ sospinto appena lasciavano il Campidoglio.
Si dirà: in tre anni, anche una bugiarda-tontolona-puppet può azzeccarne una, magari per sbaglio. Vero. Ciò che è proprio impossibile è che una fascista, un’infiltrata dello studio Previti, un’emissaria della peggior destraccia romana, possa improvvisamente “sfidare i fascisti” con le nude mani. Eppure si è scritto pure quello, anche a dispetto dei video di lei che canta Bella ciao con i partigiani dell’Anpi in Campidoglio. E della sua giunta, un mix di 5Stelle e di indipendenti di sinistra (dal vicesindaco Bergamo all’assessore Montuori, oltre agli “ex” Montanari e Berdini).
Due anni fa, sempre da Repubblica, apprendemmo che la sindaca aveva consegnato i rifiuti di Roma al ricostituito partito fascista tramite la Muraro, “che dichiara pubblicamente di aver votato a sinistra, ma i cui legami e incroci con la destra romana appaiono sempre di più saldi come la gomena di una nave”: più che un’assessora, “la cruna dell’ago attraverso cui un sistema di relazioni e interessi nato, cresciuto e battezzato dalla destra post-fascista romana, ha rimesso le mani su Ama”. Motivo: “nello staff della Muraro lavora, quale dipendente comunale distaccata, Maria Paola Di Pisa, educatrice di asili nido, e già precedentemente ‘in distacco’ nello staff dell’allora sindaco Alemanno”. Cos’avrà mai che non va questa Maria Paola? “La sorella più giovane, Serena, come lei già attivista di destra, cresciuta nel quartiere ‘nero’ Trieste, già militante di Terza Posizione”, ha “un ex compagno” che stava nei Nar. E pure una figlia “non riconosciuta”, “Elena, ingegnere ambientale”, che la Muraro, quand’era consulente Ama, tentò di prendere come esperta addirittura in materia ambientale, ma non ci riuscì. Capito, la fascistona?
E le polizze vita di Salvatore Romeo? Come dimenticarle? Mentre persino la Procura diceva subito che non erano reato né per lui né per la Raggi, che ignorava la presenza del suo nome tra i beneficiari in caso di morte del suo capo-segreteria, Repubblica spiegava che “quelle polizze potrebbero avere un’origine politica… una ‘fiche’ puntata su una delle anime del M5S romano, quella ‘nero fumo’”: anche Romeo, “peraltro nato a sinistra”, era certamente un “figuro” e pure “di destra”. La prova? Aveva confessato addirittura di aver “incontrato una volta Alemanno”. E il fatto che un funzionario comunale incontrasse il suo sindaco è più che un indizio: è una prova. Un giorno, poi, la Raggi scese in piazza a solidarizzare con i tassisti e gli ambulanti inferociti per il furtivo emendamento ultra-liberista della Lanzillotta che li avrebbe rovinati. La norma fu contestata anche a sinistra, da Fassina a Emiliano. Ma L’Unità titolò: “Raggi sta con i fascio-taxi”, tutti “saluti romani e violenza”. E il Manifesto: “Raggi guida a destra”. Ora anche il Manifesto si rassegna: “Raggi rompe l’assedio razzista ai rom”. Che sia impazzita? L’unica alternativa è che siano pazzi tutti gli altri.

Una Biennale mostruosa tra mani, stracci e filo spinato

Una nuvola di fumo si alzerà l’11 maggio sul Padiglione centrale della 58esima Esposizione Internazionale: è Thinking Head (testa pensante), l’opera ideata da Lara Favaretto. Arrivando di fronte alla celebre facciata del padiglione, l’artista vuole provocare un offuscamento della capacità di vedere, cosa che succede quando il cervello va in fumo e (appunto) si pensa troppo, e nel contempo offrire uno show.

Onirica e politica insieme, è subito diventata il simbolo di May You Live in Interesting Times (il titolo per questa edizione curata da Ralph Rugoff) che riflette sì sugli orrori del nostro presente con i muri con filo spinato di Teresa Margolles o le scene di violenza nei video di Arthur Jafa, ma offre insieme ri-letture della realtà con le opere virtuali di Jon Rafman, o riportando in vita l’idea di giardino perduto, come fa Hito Steyerl. E ciò perché se i tempi sono interessanti, è perché “si possono guardare anche da una prospettiva non negativa” sostiene Rugoff. Le opere di questa edizione della biennale invitano, dunque, a scovare dove si annidano le possibilità della bellezza: nei grandi quadri sulla paternità di Henry Taylor, nelle sovrapposizioni filmiche di Christian Marclay, o ancora nelle piccole cose, i gesti quotidiani di Kaari Upson o nelle pietre di Zhanna Kadyrova.

Il Leone d’oro alla carriera per Jimmie Durham e i suoi mostri. Classe 1940, l’artista americano aveva poco più di vent’anni quando realizzò per gioco le prime sculture di legno intagliato, riuscendole poi a vendere per 300 dollari in una galleria di Houston. Così, dal Texas, giunge in Europa dove frequenta l’Accademia di belle arti a Ginevra e conosce David Rockfeller, che compra una sua scultura per 5.000 dollari. Da lì, per lui l’arte è sempre stata “giocosa” ma anche “critica” (così recita la motivazione del Premio), impegnata politicamente contro la violenza dei più forti e lo sfruttamento coloniale (l’artista ha sangue Cherokee). E proprio in difesa delle minoranze e dei diritti civili, si ergono le sue sculture, i suoi animali mostruosi. Costruiti con materiali di recupero, il teschio di un bisonte si erge allora su un antico armadio, le corna di un cervo reale spuntano da un geometrico intrico di tubi, o ancora la testa di un bue muschiato sbuca da stoffe e abiti lisi. Con ironia e consapevolezza, Durham seduce e affabula manipolando l’atavica fascinazione per il monstrum.

Il Padiglione Italia è un labirinto. Così lo ha immaginato il curatore Milovan Farronato. Il titolo, Né altra né questa. La sfida al labirinto, che ottimamente cita tanto Calvino quanto Borges, è stato interpretato da tre artisti. Per Liliana Moro – che da sempre ama sperimentare materiali diversi tra loro come il bronzo, la sabbia di fiume e la terracotta – è uno stravagante albero di Natale di carta e plastilina.

C’è poi Enrico David, che si definisce un “assemblatore onnivoro” e spazia dal disegno all’installazione. Il suo è un labirinto interiore fatto di immagini mentali, una camera da letto colma di ricordi e fotografie. In uno spazio unico alle Tese delle Vergini in Arsenale, i due artisti dialogano con un grande murale di Chiara Fumai, giovane artista scomparsa nel 2017, dal titolo This Last Line cannot be Translated (2017), che il curatore ricostruisce fedelmente. I tre artisti selezionati “fanno parte del mio percorso di vita”, sostiene Farronato, che costruisce uno spazio non di sole immagini, ma di visioni artistiche, oniriche e filosofiche.

Imperdibili anche gli eventi collaterali. Scenografici e politici come Building Bridges di Lorenzo Queen, un portale costituito da sei paia di mani alte quindici metri e larghe venti che si uniscono per ricordare il bene che esse possono fare, e Consider yourself as a guest di Christian Holstad, una montagna di rifiuti plastici di oltre 4 metri che denuncia e letteralmente “porta a galla” l’inquinamento di mari e oceani. Ma anche appuntamenti più classici come le retrospettive su Jannis Kounellis, Alberto Burri, Helen Frankenthaler, Jean Arp e la monografica dedicata a Georg Baselitz, indiscusso protagonista del Nuovo Espressionismo tedesco.

Appendino e Chiamparino fanno cacciare l’editore fascista dal Salone

C’è voluta una settimana di critiche, appuntamenti cancellati (quelli con Wu Ming, Zerocalcare e altri), dimissioni (quelle di Christian Raimo), denunce e dichiarazioni provocatorie. Ieri sera, a poche ore dall’apertura della trentaduesima edizione del Salone internazionale del Libro a Torino (oggi alle 10), la Città di Torino e la Regione Piemonte hanno chiesto e ottenuto dagli organizzatori della fiera dell’editoria la revoca del contratto di affitto dello stand dell’editrice Altaforte, fondata dal coordinatore di Casapound in Lombardia, Francesco Polacchi, 33 anni, picchiatore e creatore del marchio “Pivert”: “Sono un fascista. Lo dico senza problemi”, aveva dichiarato nei giorni scorsi l’editore aggiungendo che “l’antifascismo è il vero male di questo Paese” e che “Mussolini è stato sicuramente il miglior statista italiano”.

Le dichiarazioni non sono piaciute agli amministratori torinesi, la sindaca M5s Chiara Appendino e il presidente Pd della Regione Piemonte Sergio Chiamparino, che da “soci fondatori” del Salone hanno scritto all’associazione “Torino, la Città del libro”, al “Circolo dei lettori” e al Comitato di indirizzo del Salone, che riteneva un diritto “indiscutibile” quello di Altaforte a partecipare alla fiera. “Nel centenario della nascita di Primo Levi, la trentaduesima edizione del Salone del Libro ha presentato un programma culturale improntato ai valori di pace, accoglienza e ripudio di ogni fascismo, ogni odio etnico e razziale”, si legge all’inizio della lettera in cui la casa editrice viene definita semplicemente come “vicina a idee in odore di fascismo”.

Appendino e Chiamparino fanno presente che “molti espositori destinati a condividere lo spazio con lo stand della casa editrice Altaforte hanno espresso grande turbamento e perplessità”, ma che “inizialmente abbiamo fatto prevalere le ragioni della contrattualistica privata”. Tuttavia “a fronte di un crescendo di esternazioni fatte dagli animatori, abbiamo presentato un esposto alla procura”, che ieri mattina ha iscritto nel registro degli indagati Polacchi per la violazione della legge Scelba, mentre la prefettura otteneva lo spostamento dello stand in una posizione defilata e vicino all’area espositiva del ministero della Difesa. Non è bastato. “Sono arrivate dichiarazioni ancora più provocatorie”, sottolineano. Dopo aver saputo la notizia dell’indagine, Polacchi aveva rilanciato: “Quoteremo Altaforte in borsa” ha detto aggiungendo che “a sinistra esiste un antifascismo militante che diventa una mafia culturale”. Dietro la richiesta della sindaca e del governatore piemontese, poi, c’è la paura di una figuraccia internazionale: “Halina Birenbaum, testimone attiva dell’Olocausto, invitata dal Comitato editoriale a tenere una lezione agli studenti inserita nel programma del Salone, quest’oggi ha dichiarato che non avrebbe fatto ingresso al Lingotto se la casa editrice Altaforte avesse avuto uno stand al Salone del libro e avrebbe tenuto la sua lezione fuori dal Salone, arrecando tra l’altro al Salone del Libro e alla città di Torino un grave danno di immagine”. La soluzione alla fine è stata la revoca. Polacchi, imprenditore e provocatore, rilancia: “Se ci sarà una rescissione del contratto faremo causa con i migliori avvocati civilisti d’Italia”.

“Chi invoca il ‘codice etico’ mi ricorda certi nazisti”

Quando, nel 2017, uscì il suo romanzo Bruciare tutto, su un prete pedofilo simile a don Milani, si svegliarono i censori, e molti si riempirono la bocca coi “limiti etici” della letteratura. Walter Siti, però, si smarcò con grazia, da squisito intellettuale e autore, certificato pure dallo Strega e dal Mondello (nel 2013 per Resistere non serve a niente, Rizzoli). E anche ora – nel mezzo delle polemiche su Altaforte – si sottrae al fuoco incrociato dicendosi innanzitutto spaventato dall’invocazione di un “codice etico”.

Quindi sarà al Salone?

Sì, sarò lì a presentare Scuola di demoni, un libro di “conversazioni” con Michele Mari, curato da Carlo Mazza Galanti (minimum fax).

Si è mai posto il problema di non andarci?

No, non ne vedo la ragione.

Molti suoi colleghi boicotteranno la fiera: non condivide la scelta o non la capisce?

Al contrario, di alcuni capisco benissimo la motivazione: se Carlo Ginzburg dice che non va, con la sua storia, lo capisco benissimo. Poi se vuole facciamo un passo indietro…

Mi dica…

Qualche giorno fa ho ricevuto un invito a firmare un appello: vi si parlava della deriva per cui certe cose neofasciste prendono sempre più piede e importanza e si concludeva chiedendo al Salone di stilare una specie di “codice etico” per selezionare gli autori e le case editrici. Davanti a quell’espressione mi sono un po’ spaventato: mi sembra molto pericolosa. Se un’istituzione pubblica – qual è in un certo senso il Salone – comincia a parlare di codici etici, paradossalmente mi sono detto: “Be’, è una cosa che avrei potuto leggere in una qualunque manifestazione culturale nella Germania del 1937: una mostra contro l’arte degenerata avrebbe potuto benissimo ospitare un’introduzione con un codice etico per selezionare gli artisti”. Quell’espressione mi ha fatto paura; quindi ho risposto che non mi andava di firmare l’appello.

Da chi arrivava? Colleghi?

Sì. Dopodiché ho iniziato a seguire il dibattito sui media. La mia idea è questa: è vero che c’è una situazione culturale e politica per cui alcuni gruppi che si richiamano apertamente al fascismo hanno l’impressione di aver acquistato più spazio. Ma penso che si debba agire culturalmente, discutendo con loro e dimostrando che le loro posizioni sono estremamente primitive. I libri non sono per definizione violenti: io sarei per accoglierli sempre tutti, di qualunque cosa parlino, perché non sono mai il problema; semmai lo sono le azioni violente. Non è la prima volta che si pone la questione: può la democrazia dare voce a coloro che sono contrari alla democrazia? Io penso di sì: penso che la democrazia debba dimostrarsi abbastanza forte da concedere la parola anche a chi la detesta. Questo serve alla democrazia stessa per fare i conti con i propri errori e debolezze, che eventualmente hanno lasciato spazio alle forze non democratiche.

Che idea si è fatto dell’esposto in Procura di Chiamparino e Appendino?

Quello è un altro problema ancora, di carattere legale. Se esistono regole interne al Salone, contro case editrici condannate per apologia di fascismo, basterà applicarle.

Teme disordini pubblici?

Dipende da quanto monta la faccenda. Tutto era nato dal libro-intervista a Matteo Salvini: senza quel libro, probabilmente non si sarebbe innescata alcuna polemica. Se Salvini andasse a Torino, forse ci sarebbero problemi di ordine pubblico. Ma Salvini non ci sarà e in sua assenza, cioè in assenza del casus belli, non so se faccia comodo a CasaPound, a ridosso delle elezioni, venire ad agitare le acque; semmai giocheranno la carta delle vittime. Che Salvini cerchi voti nell’estrema destra non è una novità. Io mi sono occupato di borgate romane ancora nel 2017 e mi ricordo una di quelle persone dirmi con grande lucidità: “Qua per resta’ fascisti tocca farsi pure salviniani”. Che quella destra stia tentando di agganciarsi al carro vincitore di Salvini e che Salvini non faccia niente per rifiutare la contiguità mi pare evidente.

Associando in modo granitico Salvini al fascismo non si rischia di fare di tutta l’erba un fascio, anche littorio?

Sì, a me di Salvini non vanno tre cose: primo, l’uso che fa del concetto di “natura”, cioè di considerare “naturale” e “normale” tutto quello che è frutto di politiche conservatrici; ad esempio, la famiglia composta da un papà e una mamma. Secondo, tende sempre a semplificare i problemi complicati. Terzo, ha scarsa considerazione dei ruoli istituzionali. Queste tre cose insieme restituiscono un’immagine di destra muscolare che a me non piace per niente. Però non credo che questa possa essere riassunta sotto l’etichetta di “fascista”.

“Troll e hacker al lavoro per creare bufale ad hoc per indirizzare il voto per Strasburgo”

Non crederci neanche se lo vedi: nell’era di Internet, questa dovrebbe essere la regola. Soprattutto se in ballo ci sono le elezioni europee. Il Guardian, infatti, informa che secondo le statistiche circa 261 milioni di elettori potrebbero essersi imbattuti nelle fake news che circolano sul web: in Francia è stato preso di mira Macron, per esempio, e le sue idee sul futuro del continente, mentre in Germania la disinformazione si è concentrata sulla crisi dei rifugiati siriani e i partiti di estrema destra. La compagnia che ha effettuato la ricerca, SafeGuard Cyber, ha inoltre scoperto che più di 500 mila account di troll o bot (vale a dire profili fittizi che contribuiscono a diffondere informazioni false) potrebbero essere collegati alla Russia. Otavio Freire, co-fondatore di SafeGuard Cyber, ha commentato: “La dimensione del problema è tremendamente preoccupante. E a complicare le cose subentra il fatto che, una volta che le false notizie vengono immesse nel web, è quasi impossibile fermarne la diffusione”.

May l’invincibile si ispira al Liverpool: “Rimonteremo come loro sull’Europa”

Londra

Lo scrive anche la Bbc: attorno a Theresa May deve esserci un invisibile campo di forza che respinge ogni attacco. L’ultimo, ieri, è stato quello dei falchi conservatori che fanno pressione perché la premier fissasse la data delle proprie dimissioni: un portavoce di Downing Street ha rintuzzato la rivolta chiarendo che la May è decisa a “portare Brexit a termine” e che è già stata abbastanza generosa quando si è impegnata a dimettersi se il suo deal verrà approvato.

È forse ormai l’unica fra Westminster e Bruxelles a credere che questo sia ancora possibile: ieri in Parlamento ha citato l’incredibile rimonta di martedì sera del Liverpool sul Barcellona come dimostrazione che “quando tutti dicono che non c’è più niente da fare, che il tuo avversario europeo ti ha battuto e bisogna arrendersi, in realtà se si resta uniti si può ancora vincere”. Qualcuno ha fatto notare che l’allenatore del “Liverpool delle meraviglie”, Jürgen Klopp, è inequivocabilmente tedesco.

E che il quadro, per la May e per la politica britannica, vira al fosco. Il primo macigno sono le elezioni europee: martedì, a denti stretti, il vice della May, David Lidington, ha confermato la partecipazione britannica, perché non c’è il tempo di trovare accordi bipartisan che possano evitarla entro il 23 maggio, data del voto. Solo che, secondo le previsioni, queste Europee che nel Regno Unito nessuno voleva le vincerà il Brexit Party di Nigel Farage, la cui unica ragione di vita è uscire dall’Unione europea senza accordo: un sondaggio YouGov lo dà a un clamoroso 30%, seguito dal Labour al 21%, mentre i Conservatori, che alle amministrative del 2 maggio scorso hanno perso quasi 1300 seggi, alle Europee si fermerebbero al 13%. In previsione del trionfo Farage ha chiesto un posto al tavolo dei negoziati con la Ue. Di certo, una vittoria del Brexit Party cambierebbe sia i rapporti di forza interni che quelli del Parlamento europeo e, di conseguenza, il tono delle trattative sul futuro della Brexit. E a quel punto, con i Conservatori in affanno e l’opposizione indebolita dalle divisioni, sarebbe nell’interesse di Farage approfittare del vantaggio e andare a elezioni politiche. L’alternativa ragionevole è che, di fronte a questi rischi, si sblocchi dopo settimane infruttuose il dialogo bipartisan fra governo e dirigenza laburista per trovare un piano condiviso sulla Brexit entro il 2 luglio, subito prima dell’insediamento nel nuovo euro-parlamento e in anticipo sulla dilazione concessa dal Consiglio europeo, che ha rimandato la scadenza per la Brexit al 31 ottobre.

Per qualche giorno è sembrato che la batosta alle Amministrative (una sconfitta anche per i laburisti, che hanno perso 78 seggi) potesse sbloccare la situazione, ma l’assenza di progressi ieri ha fatto precipitare la situazione e si è arrivati a un passo dall’abbandono del tavolo dei negoziati. Cosa ci si può aspettare ora? Se il governo e il Labour non trovano una quadra, la May può tornare in Parlamento per un nuovo round di voti: chiedere insomma ai parlamentari di esprimere una maggioranza per una delle alternative possibili. Strada già tentata e fallita ad aprile.

La minaccia di Rouhani: “Torniamo al nucleare”

Un bluff o una minaccia reale? Come da attese, l’Iran ha annunciato ieri il suo parziale ritiro dall’accordo nucleare, il Jcpoa, firmato con le potenze mondiali nel 2015, a un anno esatto dal ritiro di Donald Trump. È stato il presidente Hassan Rouhani a confermare che Teheran smetterà di esportare le scorte di uranio impoverito – come da accordi – e ad avvertire che entro 60 giorni riprenderà l’arricchimento dell’uranio, a meno che i partner europei non manterranno fede alle promesse di proteggere il settore petrolifero dalle sanzioni statunitensi. Secondo i dati economici del 2018, in seguito all’abbandono del patto da parte degli Stati Uniti nonché la ripresa delle sanzioni lo scorso anno, l’Iran è scivolato in una profonda recessione, frenando di fatto la crescita post-accordo del 2016. In più, le esportazioni di petrolio, in seguito al rincaro per i dazi, si sono dimezzate e come se non bastasse, la moneta si è svalutata al punto che il costo della vita è drammaticamente aumentato.

Ma la mossa di Rouhani – appoggiata questa volta anche dal ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, fautore dell’accordo del 2015 che proprio in seguito al fallimento di questo, a febbraio aveva presentato le sue dimissioni non accettate dal presidente – è stata chiarita agli altri firmatari (Francia, Gran Bretagna, Germania, Cina e Russia) con una lettera al Commissario per gli affari esteri dell’Ue, Federica Mogherini. Si tratta solo di una strategia? Il presidente è stato ambiguo, sostenendo che l’Iran vuole negoziare nuovi termini con i partner dell’accordo che non dà assolutamente per morto. Anzi. “Abbiamo pensato che l’accordo nucleare abbia bisogno di un intervento chirurgico – ha dichiarato – gli antidolorifici nell’ultimo anno si sono dimostrati inefficaci. Questo intervento è per salvare il patto, non per distruggerlo”, ha concluso.

Da parte sua l’Europa per ora non sembra disposta a fare altro che ciò che è previsto dall’accordo, è cioè ripristinare le sanzioni in caso l’Iran riprenda l’arricchimento dell’uranio. E l’Onu con il portavoce Antonio Guterres insiste che l’accordo va preservato. Ed è proprio ciò che Teheran chiede all’Europa: creare un nuovo meccanismo finanziario che consenta alle imprese europee di aggirare l’aumento dei dazi per continuare a importare in Iran prodotti importanti, come medicinali.

Usa e Iran nel frattempo si riposizionano nelle alleanze. Zarif, è subito volato a Mosca, dove ha incontrato il suo omologo russo, Sergei Lavrov, avvisando i partner che: “Dopo un anno di pazienza, l’Iran dice basta alle norme a cui si sono sottratti per primi gli Stati Uniti rendendone impossibile la prosecuzione”. “Ora le potenze mondiali hanno una finestra più ristretta per invertire la tendenza”, ha continuato. Dal canto suo l’amministrazione Trump non sta a guardare. E nonostante gli ispettori Onu sostengano che l’Iran sarebbe in regola con gli accordi nucleari, gli Usa hanno più volte avvertito le multinazionali europee che in caso di commercio con Teheran andranno incontro a multe salate, cosa che finora ha portato al ritiro delle imprese europee dal commercio con l’Iran. Nelle ultime settimane Trump ha inasprito le sanzioni al paese, allontanando i paesi dall’acquisto del petrolio iraniano. E, per finire, ha dichiarato i Pasdaran – le Guardie della rivoluzione – gruppo terroristico.

L’Iran accusa gli Usa di guerra psicologica, nella quale rientrerebbe anche il viaggio del segretario di Stato, Mike Pompeo in Iraq per mostrare il sostegno degli Usa al governo iracheno durante le crescenti tensioni con l’Iran. A Baghdad, Pompeo ha incontrato il primo ministro iracheno Adel Abdul Mahdi per discutere della sicurezza degli americani in Iraq e spiegare i problemi di sicurezza nella crescente attività iraniana. Non si è fatta attendere neanche la reazione del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che ha ribadito la posizione del suo paese per impedire all’Iran di fabbricare armi nucleari.