“Così facevano tutti ”. Il decennio rosso di Trump l’evasore

Nessuno l’avrebbe mai detto che si potesse essere eletti presidente degli Stati Uniti senza rendere pubblica la propria dichiarazione dei redditi, pur sbandierando la propria ricchezza. Donald Trump, nel 2016, c’è riuscito: di tutte le imprese compiute contro ogni pronostico dal magnate allora candidato e ora presidente, questa è stata senz’altro la più stupefacente. Adesso il New York Times ha tirato fuori molte delle carte finora tenute celate da Trump: si scoprono i trucchi che hanno, magari lecitamente, consentito a un imprenditore di successo di non pagare un centesimo di tasse per anni. Altro che Warren Buffett che vuole pagarne di più, in percentuale, della sua segretaria; qui siamo di fronte a un re del mattone che paga meno tributi, in assoluto, d’un suo manovale. I documenti ottenuti dal New York Times si fermano al 1995, già ne emerge uno schema, ma molto resta da scoprire: ci sta provando, finora senza successo, per vie legali, il Congresso; e ci sta provando, per via legislativa, lo Stato di New York, che progetta di recuperare un po’ di soldi.

Tra il 1985 e il 1994 le attività di Trump finirono in profondo rosso: cifre sull’orlo della bancarotta, con perdite per circa 1,2 miliardi di dollari. È quanto risulta dalle copie delle dichiarazioni presentate in quei 10 anni al fisco Usa e ora ottenute dal Nyt. In otto di quei dieci anni, Trump non pagò tasse federali, avvalendosi di norme per cui gli imprenditori possono evitare di pagare il fisco sulle entrate successive riportando a passivo perdite pregresse.

Le rivelazioni del quotidiano – con Washington Post e Cnn, uno degli acerrimi nemici di Trump – s’innestano sullo scontro istituzionale in corso tra Casa Bianca e Congresso, innescato dal rifiuto del magnate di rendere note le sue dichiarazioni: una rottura rispetto a quanto fatto in passato da tutti i presidenti. Nella campagna elettorale, Trump aveva già respinto la richiesta, fattagli anche dalla sua rivale Hillary Clinton.

Se quel che scrive il Nyt è tutto vero, il magnate non avrebbe alcun interesse a rendere pubbliche dichiarazioni fiscali che potrebbero nascondere qualche irregolarità e che getterebbero di sicuro una cattiva luce sull’immagine di uomo di affari e abile e di negoziatore efficace su cui ha costruito la sua carriera politica. E, infatti, il presidente non incassa senza reagire: attacca, inizialmente senza citarlo, il New York Times per aver svelato le sue dichiarazione dei redditi, parlando di informazioni “molto vecchie e molto inaccurate”, e denunciandole come fake news. In realtà, quello che poi Trump dice suona conferma delle rivelazioni del Nyt: “I costruttori negli anni 80 e 90, più di 30 anni fa, erano autorizzati a forti svalutazioni e ammortamenti in grado di tradursi in perdite in quasi tutti i casi”, twitta. “Si vogliono sempre mostrare perdite per motivi fiscali, quasi tutti i costruttori lo fanno, e spesso queste vengono rinegoziate con le banche: era uno sport”. Cioè, lo facevano tutti e l’ha fatto lui: che problema c’è? Nessuno, tranne che gli altri non sono divenuti presidenti degli Stati Uniti. Il Dipartimento al Tesoro statunitense sta negando alla Camera del Congresso, che lo richiede, l’accesso alle dichiarazioni fiscali federali degli ultimi sei anni di Trump. La battaglia legale che potrebbe conseguirne rischia di finire davanti alla Corte Suprema: tempi lunghi, ma non biblici, perché la giustizia americana va di fretta. Nelle more, i democratici dello Stato di New York provano a centrare l’obiettivo con una legge che permetta alle commissioni competenti di prendere visione delle dichiarazioni dei redditi presentate dal tycoon nello Stato dov’è residente e dove sono basate le sue attività. Quella delle tasse non è l’unica nuvola che s’addensa sulla Casa Bianca, che non riesce a sottrarsi alle perturbazioni del Russiagate, l’inchiesta ormai chiusa sull’intreccio di contatti tra la campagna di Trump ed emissari del Cremlino nel 2016. Anche se il neo-ministro della Giustizia William Barr gli fa scudo in Congresso, respingendo le critiche dei dem alla pubblicazione d’una versione parziale ed “edulcorata” del rapporto del procuratore speciale Robert Mueller, il presidente ha deciso d’invocare il suo “privilegio esecutivo” per evitare di dare a deputati e senatori la versione integrale del rapporto Mueller. Nel darne notizia, il Dipartimento della Giustizia ricorda che è la prima volta che Trump esercita tale potere da quando è entrato alla Casa Bianca.

Il ricorso al privilegio esecutivo è stato ufficializzato al presidente della Commissione Giustizia della Camera, Jerrold Nadler, un democratico di New York – è quasi una faida fra newyorchesi –. Sarah Huckabee Sanders, portavoce della Casa Bianca, ci è andata giù pesante: “Non adempiremo alle richieste fuori legge e sconsiderate” di Nadler, che compie “uno sfacciato abuso di potere”, mentre “gli americani meritano un Congresso che si concentri sui veri problemi”, come – è ovvio – la crisi al confine, al primo posto nell’agenda elettorale di Trump 2020. Per la speaker della Camera, la democratica Nancy Pelosi, Trump con le sue iniziative s’avvicina, ogni giorno di più, all’impeachment: “Sta diventando auto-incriminabile”, dice al Washington Post. Nadler, invece, parla d’una “chiara escalation” nella “sfida totale” tra Amministrazione e Congresso. Quando è all’angolo, Trump cerca di solito di uscirne spostando l’attenzione altrove: potrebbe battere un pugno sul tavolo sull’uno o sull’altro fronte estero, commerciale – Cina e Ue – o politico – Iran o Venezuela –.

La lucidità di Aldo Moro e i brigatisti “sprovveduti”

Pubblichiamo un estratto della prefazione di Gian Carlo Caselli a “Io ci sarò ancora. Il delitto Moro e la crisi della Repubblica” (PaperFirst) di Miguel Gotor

Le Brigate rosse, che colpirono così duramente lo Stato al punto da far pensare in alcuni momenti che potessero vincere, in certe occasioni dimostrarono, per fortuna, anche i loro limiti. Talora non facilmente decifrabili. Basti pensare che avevano in mano – con il memoriale di Moro – un serbatoio inesauribile di elementi dirompenti, che se utilizzato nella logica criminale dei terroristi avrebbe potuto provocare un dissesto istituzionale, mentre non lo “sfruttarono” per nulla. Non solo il memoriale non venne pubblicato, ma addirittura fu tenuto nascosto per anni e scoperto, soltanto in copia, nel covo di via Monte Nevoso a Milano nel 1990.

Il brigatista Mario Moretti affermò poi che le Br avevano sottovalutato (…) l’importanza del memoriale. Se è vero quello che dice, allora va notato che si può anche essere in grado di gambizzare e ammazzare, ma ben altra cosa è la capacità di elaborare strategie politiche e di capire – per poterli politicamente usare – i documenti di cui si venga in possesso. Se al contrario le Br avevano compreso il valore del memoriale senza utilizzarlo, allora rimangono aperti cupi interrogativi (…).

A questo proposito, va anche ricordata la singolare vicenda dei Nuclei speciali antiterrorismo del generale Carlo Alberto dalla Chiesa e del prefetto Emilio Santillo: creati ad hoc dopo il sequestro Sossi, avevano giocato un ruolo essenziale nelle indagini, concluse le quali, col rinvio a giudizio dei brigatisti e dei loro fiancheggiatori, i nuclei speciali vennero sottoposti a una profonda ristrutturazione che di fatto li fece scomparire. Era davvero incredibile che, avendo messo in campo uno strumento vincente e incisivo che aveva conseguito risultati indubbiamente di grande importanza, si decidesse di abbandonarlo come se il terrorismo fosse finito.

Ci vorrà – purtroppo – la tragedia del caso Moro per recuperare il generale Dalla Chiesa e rimettere in campo un nucleo speciale interforze (…).

Ora, leggendo il libro di Gotor, a me sembra di poterne evincere che l’ingenuità di Moretti nel non comprendere il memoriale è quanto meno in contrasto con la sofisticata gestione delle lettere di Moro, nonché con la dimostrazione di Gotor che il “processo” a Moro era all’evidenza funzionale a raccogliere notizie segrete o riservate riguardanti la sicurezza nazionale e atlantica; oltre a notizie su stragi, scandali, ricatti e corruzioni che avevano caratterizzato la vita politica italiana negli ultimi trenta anni, notizie positivamente emerse ad esempio su Gladio e sui rapporti con i palestinesi. La questione del memoriale di Moro merita un’altra breve riflessione. Si è sostenuto che il presidente della Dc non fosse pienamente padrone di sé per effetto del dominio incontrollato cui la prigionia lo sottoponeva, e che quindi i suoi testi non dovessero essere tenuti in considerazione in ragione della condizione di coercizione in cui erano scritti.

Penso non sia così: più leggo le lettere di Moro e studio la vicenda, più cresce in me un’ammirazione sconfinata per quest’uomo. Sicuramente in una situazione di prigionia terribile, Moro era ben presente a se stesso con tutta la sua intelligenza, la sua diplomazia politica, la sua capacità di analisi. Ha sempre scritto con estrema lucidità, cercando (nei limiti consentitigli dalla condizione di prigionia) di spiegare e convincere, di portare avanti la trattativa, di orientare la vita e le scelte della politica.

Le ricerche di Gotor (…) forniscono elementi fondamentali di conoscenza, riflessione e valutazione sul contenuto, gli obiettivi e le vicissitudini degli scritti (lettere e memoriale) di Moro. Ma l’interesse, ovviamente, non è solo per così dire filologico. Gli scritti sono la base di partenza per avvicinarsi – offrendo guide e chiavi di interpretazione – al complicato mondo che ruota intorno all’affaire Moro. Dal giallo di via Gradoli (cui sono dedicate molte pagine), a un mondo di misteri, opacità, interrogativi, incongruità, contraddizioni, ambiguità, strani condizionamenti. Un’interminabile partita, di finte e controfinte, tra la prigione delle Brigate rosse e il mondo esterno.

Un intrico fra posizioni pubbliche e private nel quale i piani della trattativa e delle fermezza si mescolano e si confondono. Un network relazionale in cui sovversione, amicizie, attività spionistica, interessi accademici e pulsioni familistiche formano una miscela dall’inconfondibile sapore italico (…). Una zona grigia per una trattativa occulta (…), con oscure presenze mafiose e massoniche che lasciano comunque intravvedere le dinamiche stesse del potere italiano (…). Un ruolo dei media ora costretto nel perimetro di una sobrietà informativa, ora pronto a raccontare la favola maliziosa della vedova disposta a immolarsi per la linea della fermezza. Un quadro torbido nel quale a stagliarsi è la figura di Aldo Moro. Una figura che merita più di ogni altra rispetto. Un rispetto assoluto.

“Devono fallire” Pallotta va alla guerra delle radio romane

Il presidentedella Roma, James Pallotta, evidentemente non pago delle sfide sul campo da calcio, riapre un’altra partita: quella contro i media. In particolare, con le stazioni radiofoniche della Capitale: il sito sportsvideo.org ha pubblicato infatti l’intervento allo Sports Decision Makers Summit di Miami in cui il magnate americano afferma che “Tre radio sono già fallite, ora ne mancano sei”. Quali siano queste presunte nove stazioni radiofoniche che “parlano solo di calcio e sparano m… tutto il giorno” rimane un mistero, come un mistero rimangono le motivazioni che spingono Pallotta a esprimere questi giudizi, considerando che lui non mette piede nella città da un anno. Quello che invece è ben noto è il suo livore nei confronti dei media: un anno fa l’imprenditore ha attaccato le radio usando più o meno le stesse parole di Miami, e su Twitter ha preso di mira anche il Corriere dello Sport, accusandolo di riportare fake news. La televisione sembra invece piacergli: “Abbiamo un nostro canale con 6 milioni di abbonati”, ha detto. Ma i calcoli non sono proprio esatti: la cifra (se esatta) è riferita a tutti coloro che hanno Sky, non essendo possibile iscriversi a un singolo canale.

Le stime Ue sul Pil sono sbagliate come dice la Castelli?

Le previsioni sull’andamento del Pil, la Commissione europea non tiene nel dovuto conto le misure appena varate dal governo
Laura Castelli

Bisogna fidarsi delle previsioni della Commissione europea o di quelle del viceministro dell’Economia Laura Castelli (M5S)? Nel documento di due giorni fa la Commissione dice che nel 2019 l’Italia crescerà soltanto dello 0,1 per cento, ultima in Europa. La Castelli, al Messaggero, spiega che si tratta di stime “incomplete” perché “la Ue non tiene nel dovuto conto le misure varate dal governo e dell’andamento positivo del primo trimestre dell’anno. Non tiene conto del fatto che queste misure daranno spinta al Pil”. Basta prendere però il Documento di economia e finanza approvato dal governo Conte ad aprile, e mandato a Bruxelles quasi un mese prima delle previsioni economiche, per leggere cosa dice il Tesoro del decreto Crescita e di quello Sblocca Cantieri: “L’impatto complessivo dei due provvedimenti sull’economia viene prudenzialmente stimato in 0,1 punti percentuali di crescita aggiuntiva del Pil reale nel 2019”. Ben poca cosa, al massimo permette di passare dallo 0,1 indicato dalla Commissione allo 0,2 stimato dal governo. Poi c’è la questione dell’Iva: la Commissione suggerisce di far scattare almeno in parte le clausole di salvaguardia (23 miliardi di aumento di gettito già approvati). Il governo promette che non succederà. Ma dove trovare coperture alternative che, sommate agli altri impegni già presi, arrivano a 35 miliardi? “Ci sarà una lotta all’ evasione più forte, anche grazie al controllo mirato e selettivo dei conti correnti. Una misura che il Tesoro vede con gran favore e che darà, a mio parere, risultati molto apprezzabili. Ci saranno in bilancio parecchi miliardi in più”, risponde la Castelli al Messaggero. Peccato che oggi l’intera attività di contrasto all’evasione produca 13 miliardi di gettito all’anno circa. Auspicare che in un anno si ottenga un aumento di oltre il 100% è sempre legittimo, ma finora non è mai successo. E comunque non potrebbe essere indicato come copertura strutturale, visto che è per definizione incerto nel tempo.

L’altra finale di Galliani e B. Il grande Milan è un ricordo

Campo sportivo comunale di Viterbo o stadio del Littorio o stadio Rocchi, Viterbese contro Monza, finale di Coppa Italia di serie C o terza serie o Lega Pro, ingresso unico, una tribuna che dondola, una curva Nord, una curva Sud, un muretto a secco, due bandiere a metà campo, gente affannata, gente affamata, gente che corteggia le tartine in sala vip. Entrò Adriano: “Vieni qui, Paolo”. Adriano Galliani ha la solita cravatta gialla, gli occhiali in bilico sul naso, lo sguardo all’ingiù: “Guarda, Paolo”. Paolo Berlusconi, il fratello di Silvio, presidente del Monza, guarda e sospira: “Questo era cartellino rosso, diretto, senza appello. La palla è lontana dieci metri”. Adriano Galliani, a suo modo fratello di Silvio, amministratore delegato del Monza, fende i calici di prosecco, ignora il gelato al lampone, inarca la schiena per assumere una posizione solenne: “Mi scusi, è il dottore, chiama da Arcore per commentare la prima frazione di gioco”, uomini Fininvest, in uniforme col cappotto blu, annuiscono deferenti.

Il giorno dell’82esimo compleanno di Silvio, lo scorso 29 settembre, Galliani ha comprato il Monza per 3 milioni di euro, cioè la Fininvest ha comprato il Monza per Galliani e così ha interrotto la dolorosa, a tratti lancinante, astinenza dal pallone dopo la vendita del Milan: è il tempo fermo, è il passato che strattona il futuro, è il blasone che spintona la realtà, la passione di sé e del calcio. Patetica o poetica ossessione, chissà. “Io ci ho provato all’oratorio. Però ero una pippa di calciatore e subito ho deciso di cambiare sogno, l’ho detto pure a Beppe, il Baresi interista, a Paolo Maldini, il nostro Paolino. Gli amici di famiglia erano insistenti: Adriano, cosa vuoi fare da grande? E io, sicuro: il capo del Monza. Ci sono riuscito”. Galliani ingolla un po’ d’acqua, un signore grosso e baffuto abbraccia Berlusconi piccolo: “Paolo, quante Champions League abbiamo alzato assieme?”. Paolo è ancora stordito dal mancato rosso per la punta degli avversari: “Alti e bassi, ripartiamo dal basso”.

Siccome Galliani è sempre Galliani e la bacheca del Milan di Galliani è la bacheca di Galliani e di Silvio per carità e dell’intera dinastia dei Berlusconi, il senatore di Forza Italia, che fu per un attimo juventino, mai interista e tra Milan e Monza gradisce l’espatrio, presidia Viterbo da due giorni, cena con la squadra, indottrina il capitano Andrea D’Errico, tra i pochi superstiti del mercato di gennaio con sedici acquisti, adora il tecnico Cristian Brocchi perché schiera i due attaccanti e ha segato “gli alberi di Natale” con un centravanti di ancelottiana memoria, dunque per villa San Martino di Arcore è uno Jurgen Kloop che verrà.

Siccome Galliani è Galliani, il Milan che fu – degli olandesi, di Sheva, di Kakà, di Sacchi, di Capello, di Ancelotti – è qui per battere Santiago Bernabeu, l’emblema, la leggenda, lo spirito del Real Madrid: “Il conto è facile, 29 trofei noi dal 1986 al 2017 e 29 trofei Bernabeu dal 1943 al 1978”. E poi s’avvicina l’anniversario con Silvio, va onorato. Era il 31 ottobre 1979, racconta spesso Galliani. Arcore chiamò: il monzese Adriano riceve un invito a cena per l’indomani, l’1 novembre. Silvio di Telemilano58 vuole le antenne di Elettronica Industriale, l’azienda di Lissone che Adriano, dopo gli investimenti in uno stabilimento balneare di Vieste, ha strappato a Ottorino Barbuti. Consumato l’aperitivo, verso il brasato, nasce Mediaset: “Silvio prese il 50 per cento di Elettronica Industriale e allora decise di coprire l’Italia di ripetitori e competere con la Rai con uno schema molto offensivo: tre reti a tre. Io ero solo un po’ angosciato, per una ragione di calcio, e fui perentorio”.

I ricordi hanno un difetto: sono indulgenti. E i ricordi di Galliani con Silvio sono epopea, col sole in tasca, sganciati dalle furbate del dottore, niente nuvole, ombre, dubbi: “Caro Berlusconi, io posso mettere l’antenna a Bari oppure a Trieste, ovunque, ma la domenica vado dal mio Monza. Silvio, che è un tipo generoso, mi disse: ok, sei pazzo”. Galliani conquista i gradi di vicepresidente del Monza nell’85, giura che tracce del sentimento milanista c’erano già, perché nel ’63, per Milan-Benfica di Coppa dei Campioni, varcò la frontiera svizzera per assistere alla partita in diretta da una tv locale, non in differita come in Italia. Oggi è a Viterbo: “Ora la mia mente è sospesa, non registro nulla. Mi parla, io non sento. Sono in campo con i ragazzi. Gara complicata, sono tosti”. La Viterbese si chiama Viterbese Castrense perché ha ottenuto in dote, in Eccellenza, il titolo della Grotte di Castro dal patron Piero Camilli, sindaco di Grotte di Castro, pare di centrodestra, imprenditore con Ilco, industria lavorazione carni ovine. Camilli è tornato alle origini, un Galliani di provincia, dopo le stagioni al Grosseto: “Camilli ha un record – illustra Galliani – perché ha licenziato due volte un certo Massimiliano Allegri”. E Galliani vorrebbe aggiungere: Max l’ho scoperto io e al Milan è diventato campione d’Italia. L’arbitro Nicola Ayroldi di Molfetta ordina cinque minuti di recupero. Bernabeu vacilla. Arcore freme. Paolo B. è immobile. Galliani prega i suoi santi ubicati in quel di Arcore. Al 93’, il bulgaro Živko Atanasov, forse un emissario comunista, segna l’1-0 che vale la Coppa per la Viterbese. Galliani se ne va, l’amuleto Gigi Marzullo non ha funzionato. Ora chi se la fa una domanda e chi se la dà una risposta?

Salari, dividendi, inflazione e la politica senza una gamba

Dice Mario Draghi (Bloomberg) che la Bce “non accetta sconfitte” nella battaglia per far alzare l’inflazione verso il 2%: purtroppo, pur avendo creato 10 milioni di posti di lavoro e fatto salire i salari col Qe, l’effetto di questo bengodi “ancora non si vede” sui prezzi, “ma arriverà”. Dice invece l’Istat (Sole 24 Ore) che “tra i 14,1 milioni di dipendenti (escluso il lavoro agricolo) 2,9 milioni – vale a dire il 21% – percepiscono minimi retributivi inferiori” al sibaritico salario minimo da 9 euro lordi all’ora proposto dai grillini (“il 52% nell’artigianato, il 34 nel terziario, il 10 nell’industria”); contando l’agricoltura si aggiungono altri 366mila (su 964mila) operai; il lavoro domestico (circa 900mila persone, tutte sotto i 9 euro) dovrebbe essere escluso. Far salire questi stipendi, dice comunque Istat, farebbe diminuire la produttività delle imprese: si teme dunque che aumenti il nero. Dice poi Piazza Affari (CorSera) che “le aziende quotate al Ftse Mib quest’anno distribuiranno dividendi per circa 19 miliardi” e questo senza contare “le multinazionali tascabili, spesso non quotate, coi fatturati trainati dall’export”. Uno potrebbe dire: sono notizie scollegate. Sì e no: sì se l’orizzonte è la gestione tecnica del dato, intendendo per tecnica l’apparato ideologico dello status quo; no se si pensa al lavoro come la più politica, la più densa di destino collettivo, tra le attività umane. E la politica, e specialmente quella sindacale, cammina sulle due gambe della mediazione e del conflitto: ecco, la mediazione si vede, ma il conflitto, buon dio, dov’è che l’avete messo?

Quello che è Stato è stato: l’interesse pubblico non è il Pil

Storie di ordinaria disfunzione. Il treno che hai preso si ferma e una voce annuncia: “Per partire aspettiamo il via del gestore dell’infrastruttura”. Sei fermo alla stazione, e stavolta la voce informa che il ritardo è dovuto a un guasto al treno. Scopri così che gestore dell’infrastruttura e gestore dei treni sono due entità distinte e rivali, che giocano a scaricabarile.

Hai bisogno di una radiografia, ma il primo appuntamento disponibile è fra cinque mesi, e sei costretto ad andare da un radiologo privato. In una biblioteca pubblica cerchi il libro di un importante studioso italiano pubblicato da un editore italiano. Il libro non c’è perché (ti spiegano) la biblioteca non ha più un centesimo. Ti trovi in una città italiana e vai a visitare un museo, ma la sala che cercavi, anzi tutta quell’ala del palazzo, è chiusa per mancanza di personale. Tua figlia va a scuola e ha interessi per la chimica, ma l’insegnante ti spiega che il (modesto e invecchiato) laboratorio non serve più a niente, perché mancano fondi per la manutenzione. Vai a trovare un amico e la strada provinciale che percorri è piena di buche: la provincia non esiste più, e chiunque la sostituisca non ha soldi per riparare le strade.

La prossima volta prenderò il treno, dici. Ma scopri che quella linea ferroviaria non esiste più, era (ti spiegano) un “ramo morto”, anche se portava al lavoro centinaia di persone, che ora fanno lo stesso percorso su autobus privati. Ti consegnano la posta sempre più raramente, e scopri che postini non ce ne sono quasi più, tutto è dato in appalto a personale precario e inesperto. Andavi a messa la domenica anche per il piacere di stare in una chiesa ricca di storia e d’arte, ma da anni la trovi chiusa. Per mancanza di manutenzione rischia di crollare, ti spiegano, ma i soldi per il restauro non ci sono. Ti derubano per strada, e vieni a sapere che l’aggressore avrebbe dovuto essere in galera da un anno, ma tutto si è bloccato per mancanza di personale nel tribunale.

Hai cambiato gestore telefonico (o di energia elettrica), e scopri che la tariffa che pareva più conveniente non lo è più; cambi ancora tre o quattro volte, e scopri che nel settore vige la strategia del confusion pricing, che vuol dire cambiare i prezzi in continuazione senza spiegare perché. Ti chiedi se c’è un controllo pubblico nell’interesse dei cittadini, e invece nulla: domina il marketing, valore indiscutibile e universale. Eccetera eccetera.

Questa è la solfa che ogni giorno ci sentiamo ripetere, l’esperienza a cui ci siamo abituati. Al punto di considerarla normale e inevitabile. Quel che era, e nominalmente è ancora, servizio pubblico è in crescente degrado, e intanto si tessono nei bar e sulle gazzette le lodi del Mercato e della sua Efficienza. In altri termini, quel che è pubblico muore per lasciare spazio al Privato.

Un esempio solo: la sanità. L’articolo 32 della Costituzione prescrive che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, ed è ovvio che tale diritto dev’essere uguale per tutti, da Merano a Lampedusa. Invece no: ogni regione ha le sue norme e il suo bilancio (il costo pro capite in Calabria è assai maggiore che in Toscana o Lombardia, eppure oltre il 50 per cento dei calabresi si fanno curare in altre regioni). Ogni anno che passa si allungano i tempi per le visite specialistiche, crescono di numero i medici che è meglio cercare in cliniche private o, se va bene, nelle sezioni ospedaliere intra moenia, pagando. Crescono i costi della salute, diminuisce di numero chi può esercitare questo “diritto dell’individuo” di cui parla la Costituzione. Ma al tempo stesso viene eroso e disperso l’ “interesse della collettività”. Ci vuol poco a capire che, rendendo la sanità pubblica sempre meno funzionale, verrà il giorno in cui l’art. 32 della Costituzione verrà archiviato senza nemmeno bisogno di abolirlo.

Insomma, quel che è Stato, è stato. Si dà per scontato che l’interesse pubblico coincida con l’economia, e che l’economia si esprima mediante indici (come il Pil) scelti ad arbitrio da decisori politici proni davanti a esperti veri o falsi, ma tutti d’accordo nel chiudere gli occhi davanti all’universo dei diritti garantiti dalla Costituzione; davanti alla costellazione dei beni comuni e dei beni pubblici, garanzia suprema della sovranità popolare (Costituzione, articolo 1), della dignità della persona, della democrazia. Viene generalmente ignorata l’ “economia fondamentale”, le infrastrutture della vita quotidiana che hanno un altissimo valore economico oltre che etico e politico (ne parla con eloquenza il Collettivo per l’economia fondamentale in un libro appena pubblicato da Einaudi, Economia fondamentale). Ma intanto lo Stato e gli enti pubblici vengono de-finanziati, le crescenti autonomie regionali accrescono le spese dei governi locali senza aumentarne l’efficienza, aumentano a dismisura le differenze fra Nord e Sud, cioè fra cittadini nominalmente dotati di eguali diritti. Appare ormai ingenua l’idea che la Costituzione vada cambiata per manipolare la gestione della politica: basta fare come se non ci fosse, per esempio imponendo una rigida disciplina di partito anche se l’articolo 67 lo vieta (“Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”).

Se a Palazzo Chigi vi fosse un vero governo del cambiamento, è di qui che dovrebbe ricominciare: dall’attuazione della Costituzione, dalla centralità dell’economia fondamentale, dall’interesse della collettività, dalla vitalità dei beni comuni. Il perpetuo litigio che incolla l’uno all’altro Lega e Cinque Stelle sottolinea le loro differenze (che ci sono), ma lascia in ombra un’affinità fondamentale. Il reddito di cittadinanza e la flat tax hanno questo in comune: si finanziano accrescendo il debito pubblico, e di conseguenza obbligheranno a nuovi tagli alla spesa pubblica, devasteranno la scuola e l’università, la sanità, la ricerca, i beni culturali, la tutela dell’ambiente e del paesaggio. Di un’inversione di tendenza non si vede traccia.

E ora uno sguardo oltre Oceano. A Washington, davanti al Federal Trade Commission Building, sorgono due grandi sculture, due robusti personaggi che tengono a freno due cavalli riottosi. L’autore è Michael Lantz, la data 1942, durante la presidenza di Franklin D. Roosevelt: in un concorso sul tema Lo Stato controlla il mercato, lo scultore vinse su oltre 200 concorrenti, ispirandosi ai Dioscuri di piazza del Quirinale. Se i nostri governi, invece di scimmiottare Reagan o Trump, guardassero all’America di Roosevelt con le sue “quattro libertà” (libertà di parola e di fede; libertà dal bisogno e dalla paura), questa scultura avrebbe qualche lezione da dare.

Altro che Capitale morale, Sala non vuole vedere

Brutto risveglio per Milano, che si credeva tornata capitale morale. Novanta indagati, 43 arresti, gare truccate, un fiume di mazzette, politici al servizio di imprenditori disposti a pagare. È il ritorno di Tangentopoli, 27 anni dopo Mani Pulite. Con una (brutta) novità: dietro all’imprenditore che si compra il politico, ora c’è anche il boss della ’ndrangheta, perché il “tavolinu” siciliano a tre gambe (politici, imprenditori, mafiosi) è arrivato, risalendo con la “linea della palma”, fino a Milano. Eppure il sindaco della città distribuisce dichiarazioni tranquille, quasi festose: “C’è un sistema che storicamente ha sempre ruotato intorno alla Regione e che si è prestato a un certo livello di illegalità”. Come a dire: colpa del Pirellone, noi a Palazzo Marino siamo tranquilli. Eppure sedeva a Palazzo Marino il consigliere comunale Pietro Tatarella (arrestato), candidato di Forza Italia alle Europee. Eppure sono dipendenti di Palazzo Marino il dirigente dell’Urbanistica Franco Zinna e la geometra Maria Rosaria Coccia (indagati), accusati di far parte del sistema del ras delle tangenti Daniele D’Alfonso, socio e prestanome del boss calabrese Giuseppe Molluso, collegato con i Barbaro-Papalia di Buccinasco (Milano) e di Platì (Reggio Calabria); erano pronti a fare carte false, al servizio del forzista Fabio Altitonante (arrestato), per dare i permessi di ristrutturazione di una villetta in zona piazza Piemonte. Eppure è nella galassia del Comune l’Amsa, l’azienda dei rifiuti di Mauro De Cillis (arrestato), che trucca le gare d’appalto per lo sgombero delle strade dalla neve, per la raccolta dei rifiuti pericolosi, perfino per la pulizia delle aree per cani e bambini, in accordo con un altro imprenditore vicino alle cosche, Renato Napoli.

La reazione di Giuseppe Sala è incredibile: “Non voglio dire che non sia grave, però sembra che non ci siano soldi che corrono”. Chissà… Ma comunque: ah che sollievo, gli abusi d’ufficio gratis! La sottovalutazione per i reati commessi sotto i suoi occhi, sempre incredibilmente chiusi fin dai tempi degli arresti di Expo, si somma all’intempestivo elogio del presidente della Regione Attilio Fontana: “Siamo su due schieramenti diversi, però lo ritengo una persona specchiata”. Poche ore dopo, Fontana viene indagato per abuso d’ufficio, per aver dato al suo socio di studio legale, l’avvocato Luca Marsico, consigliere regionale di Forza Italia, un incarico nel Nucleo di valutazione degli investimenti pubblici della Regione Lombardia. Compenso, 11.500 euro l’anno più 180 euro a seduta.

Abuso d’ufficio: questo reato affratella ora Fontana e Sala, che di abusi d’ufficio si è nutrito fin dai tempi di Expo. Lui però per Expo aveva i superpoteri, così anche comprare gli alberi dell’esposizione al triplo del loro costo era permesso. Così come retrodatare documenti di nomina di commissari di gara e poi rispondere con una raffica di “non ricordo” alle domande del pm che gliene chiedeva conto nel processo.

Affratellato con Fontana anche dall’incarico dato all’amico. Anzi, Sala ha fatto di più. Ha dato al suo socio, in società aperte quand’era un manager, l’assessorato più delicato del Comune di Milano, quello al Bilancio. Roberto Tasca era con Sala in Kenergy, società nel business dell’energia che Mr. Expo aveva “dimenticato” di dichiarare ai cittadini nella sua autocertificazione giurata del febbraio 2015. Ora decide a chi vanno i soldi del Comune e a chi no. E Sala, felice, si specchia in Fontana, “persona specchiata”.

Matteo, lo sceriffo di Nottingham che chiama le guardie

Finalmente c’è della verità nel faccione finto giocoso di Salvini Matteo, capo della Lega, vicepresidente del Consiglio, ministro dell’Interno, eterno comiziante, inviatore di bacioni e ometto forte. Accade quando qualcuno gli si mette a fianco sorridente come lui, gli chiede un selfie, e poi dice qualcosa di vero. Come la ragazza di Salerno (“Non siamo più terroni di merda?”), come l’altro giovane che gli chiede conto di 49 milioni spariti, puff; come il quindicenne sardo che fece lo stesso e molti altri, comprese Gaia e Matilde, che dopo averlo lusingato (“Salvini! Un selfie!”) si baciano nell’inquadratura, con lui, il federale, che fa la faccia del tonno appena pescato. Con quella faccia è finito anche sulla Cnn, che il mondo sappia, ecco.

I reperti elettronici giunti fino a noi in forma di foto e video, sono quelli sopravvissuti a perquisizioni e identificazioni degli autori (sicuramente molti altri non hanno passato i controlli), e fa ridere sentire lo staff di Salvini gridare mentre il video sfuma: “La Digos, la Digos!”. Insomma, lo sceriffo di Nottingham che chiama le guardie, altro che “uno del popolo”, altro che “uno di noi”, siamo al gerarchetto che chiama la milizia perché l’hanno preso in giro.

Probabile che spunteranno altri video, altri selfie. Oppure che – prudenza – Salvini sarà costretto ad abbandonare la pratica di usare i cittadini come comparse plaudenti della sua narrazione tossica: dannazione, non tutti battono le mani, dannazione, non tutti lo osannano come quelli che gli fanno il baciamano (ad Afragola, con tanto di inchino in ginocchio), dannazione, il giochetto si è sporcato, forse addirittura rotto.

Siccome sta diventando prassi diffusa, mettersi accanto a Salvini e sbertucciarlo come fosse un concorrente di Ciao Darwin, tipo umano a cui in effetti somiglia, sarà interessante vedere le contromisure. La prima, come da ricchissima tradizione, è il vittimismo. Così da qualche tempo Salvini non si limita a parlare ai suoi, ma non perde occasione per attaccare i nemici. Se i “comunisti” (e i “centri sociali”) fossero numerosi come li vede Salvini, saremmo in Corea del Nord. Ma la risposta secondo cui o stai con lui o sei “comunista” (uh!) è deboluccia e zoppicante. Così mister 49 milioni batte su un tasto vecchio, posta sui social le scritte sui muri contro di lui, lamenta di ricevere pallottole e minacce (ma dove le riceve, che al Viminale non va mai?), insomma gioca il gioco vecchio del chiagni e fotti dei potenti, secondo tradizione. Con una mano fa il duro, con l’altra, come si dice a Milano (lui capisce la lingua) fa il “piangina”. Ma essendo, come si conviene ai capi della truppa, sempre circondato da forza pubblica ai suoi ordini, bisogna beffarlo con l’inganno, rivoltargli contro la sua stessa comunicazione: bacioni! Immaginiamo le riunioni dello staff. Chiamare le guardie come i vecchi re offesi dai sudditi che ridono funziona, ma non può durare. Fischiare un ministro è lecito – ancora e per fortuna – anche se le intimidazioni sono quotidiane: signore prese in malo modo e portate in questura, gente identificata con modi bruschi, persino qualcuno denunciato per avergli urlato “fascista!”. Insomma, repressione di pensiero e di parola, vietato disturbare, non più il “o con noi o contro di noi”, ma “o con noi o chiamo la Digos”, una cosa un po’ à la Ceausescu.

Piano piano, la paccottiglia propagandistica si sfalda e si mostra ridicola, fino al culmine della tradizione paracul-mediatica: la visita a Padre Pio, a cui (e te pareva!) “chiede consiglio”, e dove è andato a “pregare per Noemi”, la bambina colpita da un proiettile vagante per strada, a Napoli. Cioè la bambina che se avessimo un ministro dell’Interno invece di un piazzista porta-a-porta, comizio-a-comizio, ora sarebbe all’asilo con le sue amichette.

Non solo Siri: i Paletti per chi fa politica

Il caso dell’ormai ex sottosegretario leghista Armando Siri ha riportato d’attualità la sempre trascurata questione del conflitto d’interessi, che si realizza quando chi ricopre una carica pubblica è legato a interessi privati che può essere tentato dal favorire a discapito di quelli pubblici.

Perché ci sia un conflitto d’interessi non deve esserci nessun reato. Non ha nessun senso dire – come a volte fanno gli organi d’informazione – che quella ministra o quel sottosegretario non sono stati condannati (e magari neppure indagati). Il conflitto d’interessi è una situazione di allarme, proprio per evitare fatti penalmente rilevanti e soprattutto perché non si crei nei cittadini il sospetto che le cariche pubbliche vengano esercitate per ottenere vantaggi personali, ingenerando sfiducia nelle istituzioni.

E, in effetti, proprio alla necessità di mantenimento della fiducia dei cittadini nelle istituzioni ha fatto riferimento il presidente Giuseppe Conte, quando ha annunciato di voler proporre al Consiglio dei ministri la revoca del sottosegretario Siri, avvenuta ieri.

Urge, quindi, un’efficace legislazione per la prevenzione del conflitto d’interessi per recuperare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, che, secondo l’ultimo rapporto Eurispes, ha oggi solo il 20,8 per cento dei cittadini, che pure sono quasi il triplo di due anni fa.

Questa legislazione, in Italia, è carente soprattutto per le cariche politiche e di governo in particolare, per le quali è stata disciplinata da una legge voluta dal secondo governo Berlusconi e immediatamente giudicata inefficace dal Consiglio d’Europa.

Successivamente, i tentativi fatti dal centrosinistra non solo non sono mai giunti in porto ma avrebbero comunque prodotto generalmente soluzioni inefficaci, soprattutto per il più insidioso dei conflitti d’interessi: quello di chi sia titolare – anche in quanto socio – di rilevanti interessi economici. In questi casi, infatti, il titolare della carica di governo deve potersi liberare dagli interessi stessi, eventualmente anche costituendo un blind trust, la cui caratteristica essenziale è quella di rendere sconosciuti gli asset al proprietario. Solo così, infatti, questi potrà dedicarsi alla sua attività istituzionale senza essere nemmeno tentato dal recare un vantaggio ai propri interessi. Questa soluzione è stata più volte giudicata eccessivamente gravosa dai politici italiani, ma è quella prevista, ad esempio, negli Stati Uniti, che certamente non possono essere accusati di non tutelare adeguatamente la proprietà.

Del resto, come ha detto il Consiglio d’Europa, “il fatto di dedicarsi alla politica sia una libera scelta di ciascun individuo. Comporta certe prerogative e certi doveri. Una carica governativa determina un certo numero di incompatibilità e di limiti. Purché siano ragionevoli, chiari, prevedibili e non compromettano la possibilità stessa di accesso ad una carica pubblica, ogni individuo è libero di decidere se accettarli a meno”.

La questione – come è stato segnalato pochi giorni fa su queste pagine – dovrebbe essere presto affrontata alla Camera, dove pendono tre proposte di legge (due del Movimento 5 Stelle e una del Partito democratico), anche nel rispetto del “contratto di governo”, che, seppure in modo un po’ generico, prevede la necessità di intervenire sul conflitto d’interessi al punto 6. Certamente ciò causerà ulteriore tensione nell’ambito della maggioranza, ma la questione è una di quelle che qualificano in concreto il cambiamento anche nel rapporto tra le istituzioni e i cittadini e per questo dovrebbe essere affrontata senza esitazioni e senza cedere a compromessi capaci di vanificarne l’efficacia, a partire proprio dall’introduzione di una totale separazione degli interessi che può arrivare, quando necessario, al blind trust, previsto – pare – dalle proposte pentastellate.