Acido in faccia all’ex compagno. La donna era stata denunciata e anche intervistata da “Le Iene”

Non accettavala fine della loro storia: questo il motivo che avrebbe spinto Sara Del Mastro a rovesciare un bicchiere di acido addosso al suo ex compagno, che è rimasto gravemente ustionato al viso e al torace e adesso rischia di perdere un occhio. L’aggressione è avvenuta martedì sera a Legnano dopo giorni di minacce, telefonate incessanti e intimidazioni di vario tipo, tra cui il taglio delle gomme della sua auto ad aprile.

La 38enne aveva frequentato l’uomo, di otto anni più giovane, per circa un mese, ma era bastato per sviluppare un’ossessione che le aveva già causato una denuncia presso la Procura di Busto Arsizio (Varese). In attesa che il magistrato assegnato alla sezione dei “soggetti deboli” vagliasse il caso, anche i media avevano acceso i fari sulla vicenda: tre giorni fa Le Iene avevano intervistato la Del Mastro, che appariva consapevole della pericolosità della sua condotta ma si giustificava dicendo che “voleva fargli passare un quarto del male che lei aveva dentro”, dopo l’ennesima litigata in cui lui le aveva detto che non aveva intenzione di ricostruire la loro relazione. Così ha deciso di seguirlo sotto casa, ha aspettato che scendesse dalla macchina insieme a suo fratello, e a quel punto gli ha scagliato contro il volto il bicchiere con l’acido che si era preparata.

Adesso il ragazzo dovrà rimanere ricoverato con una prognosi provvisoria di due mesi presso l’ospedale di Niguarda, in gravi condizioni ma non in pericolo di vita (secondo quanto dichiarato dai medici della struttura), mentre lei si è costituita ai carabinieri ed è stata arrestata per lesioni personali gravissime e atti persecutori, e poi condotta in carcere.

“Non si espellono i giusti”. Biagio e il digiuno per Paul, il volontario senza permesso

“Non lo ammanettate, non lo arrestate, non lo rimpatriate. Non è un delinquente. È un disperato. In dieci anni di permanenza in Italia non ha mai commesso un reato. È una persona giusta. Non potete condannare un giusto”, dice Biagio Conte che da dieci giorni non mangia e non beve, seduto per terra con le caviglie incatenate in piazza Anita Garibaldi, nel cuore di Brancaccio, dove una sera di 26 anni fa un killer della cosca dei Graviano uccise padre Pino Puglisi, oggi beato. E dai microfoni di Sky si rivolge a Salvini: “Il suo nome richiama il Vangelo, proprio Matteo disse: ‘Ero straniero e mi avete accolto’. Il cognome vuol dire salviamo”. È la protesta-appello del missionario laico che a Palermo si ispira alla vita di San Francesco e che ha deciso di nutrirsi solo di preghiera fino a quando “non si farà giustizia” verso Paul, che “ha donato il suo servizio a tutti i fratelli della Missione, ha riparato impianti idraulici abbandonati all’incuria da decenni, ha aiutato tanti fratelli italiani e stranieri che dormivano per strada”.

Paul è un uomo ghanese di 51 anni che nel capoluogo siciliano vive da oltre dieci anni e che adesso rischia l’espulsione, dopo che il prefetto ha firmato il provvedimento che lo espelle dal territorio nazionale. Giunto a Bologna a 17 anni per lavorare in fabbrica, Paul Yaw Aning ha vissuto con un regolare permesso di soggiorno fino alla chiusura dell’azienda, che lo ha trasformato in un migrante irregolare. Dieci anni fa è arrivato alla missione Speranza e Carità diventando uno dei collaboratori di Biagio Conte: ‘’Paul si è reso utile non solo facendo l’idraulico e anche altri lavoretti – dice il missionario laico – ma assistendo i malati e trascorrendo con loro le notti in ospedale”. Ma per anni il suo permesso di soggiorno scaduto non è stato rinnovato, e quando Paul ha deciso di mettersi in regola, sarebbe scattata la segnalazione in questura, con il conseguente provvedimento di accompagnamento alla frontiera firmato da questore e prefetto, entrambi convalidati il 26 aprile dal giudice di pace. E per ora, Paul è sottoposto all’obbligo di firma.

A difenderlo è l’avvocato Giorgio Bisagna, presidente dell’associazione Adduma (Avvocati dei diritti umani) che annuncia la presentazione di un ricorso al Tar “sul secondo diniego al permesso di soggiorno e uno al giudice di pace sulla misura coercitiva”. A portare la propria solidarietà al missionario sono andati finora il vescovo di Palermo, Corrado Lorefice, l’Imam della comunità musulmana e il sindaco Leoluca Orlando, che ha parlato di ‘’caso emblematico di ciò che leggi inumane possono causare quando si perdono di vista i valori fondamentali del vivere comunitario”. E il caso di Paul non è isolato: sono circa 800 i migranti ospiti della missione Speranza e Carità, impegnati in lavori utili o di assistenza sociale, e di questi, fanno sapere dall’ufficio stampa della Missione, “l’80 per cento è nelle medesime condizioni di Paul e rischia l’espulsione”.

Spezzare le reni all’erba legale

La prossima grande battaglia del Capitano contro la criminalità organizzata sarà contro la cannabis legale. Non è un ossimoro, ma una strategia politica. L’ha annunciato ieri Matteo Salvini dopo aver ingoiato il frutto amaro del caso Siri. Il nostro è risoluto: “Chiuderò tutti i negozi di cannabis legale – ha detto – perché sono un incentivo all’uso e allo spaccio”. Si tratta di esercizi che rispettano la legge mettendo in commercio prodotti con una quantità molto bassa di Thc, il principio attivo “dopante”. A Salvini non interessa: “Per quanto mi riguarda vanno sigillati. Ce ne sono più di mille al di fuori di ogni regola e di ogni controllo. Io non aspetto i tempi della giustizia (sic!), la droga è un’emergenza nazionale devastante soprattutto per i minori e dunque dobbiamo usare tutti i metodi democratici per chiudere questi luoghi di rieducazione di massa. Ora usiamo le maniere forti”. Inutile il tentativo della ministra della Salute Giulia Grillo di provare a impostare la discussione su argomenti razionali: “ “Non bisogna dare informazioni sbagliate – ha detto – perché nei canapa shop non si vende droga”. Al Capitano non può fregare di meno, quando vede l’erba vede rosso. Ha già pronta la nuova barricata: “Il governo non sarà mai in discussione per qualche poltrona, ma sulla lotta ai venditori di morte non negoziamo”.

Papa Francesco invita gli Omerovic in Vaticano

Papa Francesco questo pomeriggio alle 18:30 incontrerà la famiglia Omerovic in San Giovanni in Laterano. Ieri in tarda serata, l’entourage del Pontefice ha contattato il direttore della Caritas, don Ben Ambarus, per invitare Imcor, Senada e i loro 12 figli all’udienza che si svolgerà alla sala Regia del palazzo apostolico in Vaticano. Per tutta la giornata, oltre ai volontari dell’Opera Nomadi, la famiglia ha ottenuto il sostegno del vescovo ausiliario di Roma Est, Gianpiero Palmieri. Anche l’Osservatore Romano ha scritto dei fatti di Casal Bruciato, parlando di “tensione, insulti e orribili minacce all’incolumità’ fisica e alla dignità di una famiglia”, legittima assegnataria di un alloggio popolare insultata e minacciata “da un comitato misto di residenti e facinorosi, capeggiati da esponenti dell’organizzazione di destra CasaPound”. L’incontro è organizzato dalla Fondazione Migrantes che ha anche invitato nel pomeriggio, dalle 15:30 alle 18, la cittadinanza romana all’Auditorium del Divino Amore a un incontro per conoscere il popolo rom e sinti che vive in Italia “condividendo con loro un momento di arricchimento culturale, di festa, di arte e di musica”.

“La sindaca vittima di un raggiro organizzato dai fratelli Marra”

Virginia Raggi “è stata vittima di un raggiro ordito dai fratelli Marra in suo danno”, era ignara quindi delle manovre in Campidoglio per promuovere il fratello del suo ex capo del Personale. Sono alcune delle motivazioni con le quali il giudice Roberto Ranazzi ha assolto la sindaca di Roma dall’accusa di falso perchè il fatto non costituisce reato.

In 324 pagine il giudice spiega che la prima cittadina non ha favorito la nomina di Renato Marra, fratello del più noto Raffaele, alla direzione del dipartimento Turismo capitolino, come invece riteneva la Procura di Roma, che ne aveva chiesto la condanna a 10 mesi. In primis per il giudice manca il movente del presunto falso: “L’assenza di un fine illecito per il reato contestato alla Raggi, è stato un limite per l’ipotesi accusatoria”. Per Ranazzi, l’accusa “non potendo sostenere che il falso era finalizzato ad agevolare l’abuso d’ufficio di Marra, dato che ne aveva chiesto l’archiviazione per mancanza dell’elemento soggettivo, ha cercato altrove il movente, dapprima nel rapporto di amicizia con quest’ultimo (…) e in un secondo momento, in sede di requisitoria (quasi improvvisando), addirittura nello scopo di evitare di essere indagata come complice del Marra e di essere quindi costretta a dare le dimissioni dal M5S e, in ultima analisi, dalla carica di sindaco”.

In questo caso la tesi della procura era smentita “da un post sul blog dei 5stelle”, nel quale si spiega che non “esisteva alcun automatismo” per le dimissioni, ma si valutava caso per caso. Per quanto riguarda i rapporti tra la sindaca e il suo ex braccio destro, sarebbero stati “tutt’altro che buoni” fin dagli “inizi del mese di dicembre 2016”. Insomma per il giudice, “appare certo che” la Raggi “non avesse alcun interesse a tutelare” Raffaele Marra”, tantomeno “a dichiarare il falso”.

Ma c’è un errore che la sindaca ha commesso, secondo Ranazzi. E sta nella nota inviata all’Anac, in cui “affermava che Marra aveva eseguito le determinazioni impartite ‘senza alcuna partecipazione alle fasi istruttorie, di valutazione e decisionali’”. Per il giudice “la affermazione che il Marra non ha partecipato alla fase istruttoria dell’interpello (…) non corrisponde alla realtà”. Tuttavia la Raggi “l’ha spiegata come una deformazione professionale, perché avrebbe ragionato da avvocato piuttosto che da amministratore”. In altre parole, la sindaca ha sbagliato “sulla nozione di ‘attività istruttoria’, ritenendo tale soltanto quella che venisse accompagnata dall’esercizio di un potere autonomo e discrezionale”.

Per il resto le sue affermazioni sono ritenute credibili dal giudice. Anche quando ha sostenuto di non sapere nulla della riunione del 26 ottobre 2016 tenutasi “informalmente nell’ufficio di Raffaele Marra”, dove sarebbe “maturata la domanda” del fratello.

E l’agire dei “fratelli Marra” alle spalle della sindaca, trova riscontro negli “sms antecedenti e successivi alla nomina”, dove i due “si accordano” per “caldeggiare la nomina di Renato” all’ex “presidente del Consiglio comunale Marcello de Vito” (ora in carcere per corruzione in merito ad altre vicende), in modo da poter aggirare il possibile “diniego del Sindaco Raggi”.

È l’11 luglio 2016 quando Raffaele Marra scrive al fratello: “Stanno mettendo in giro voci che il sindaco vuole nominarti comandante. Ovvio che ti vogliono bruciare! Cerca di prendere contatti con De Vito. Se riesci con lui metà strada è fatta”. Il giorno dopo, Renato Marra incontra davvero De Vito: “ Sto alla buvette. C’è De Vito. Mo’ lo fermo e gli parlo”. E Raffaele consiglia: “(…) Fagli capire che nel terzo tu sai tutto. Parlagli del terzo. A lui interessa solo quello. Digli che puoi dargli una mano perché conosci tutti e sai tutto su tutti”. La sentenza sarà impugnata dai magistrati, che presenteranno ricorso.

Virginia ci mette la faccia. La piazza risponde a insulti

“Dovete andare avanti. È casa vostra”. Ieri mattina Imcor e Sedana Omerovic avevano deciso di lasciare il loro appartamento popolare di Casal Bruciato, periferia est di Roma. Dopo l’aggressione verbale di martedì la donna è svenuta, mentre il marito ha chiesto agli assistenti sociali di scortare 11 dei suoi 12 figli dagli zii al campo La Barbuta.

C’è voluta la netta presa di posizione della sindaca Virginia Raggi per farli restare. “Per ora non molliamo, ce l’ha detto anche la sindaca”, dice lui mentre in strada impazzano le proteste. “Raggi ci ha incoraggiato, anche se siamo spaventati”. Ci ha messo la faccia la prima cittadina. Si è presa gli insulti quando è uscita scortata dal condominio. Ma era un segnale necessario dopo le minacce dei militanti di CasaPound e di alcuni condomini. “Gli insulti? Non meritano risposta. Volevamo dare una festa per il nostro arrivo. Peccato”, dice Imcor.

Oltre alla “battaglia giusta” invocata dalla Raggi, attorno alla quale si è stretto il M5S capitolino, c’è l’opportunità politica. Dopo le “sconfitte” di Torre Maura e (ancora) di Casal Bruciato – dove tre settimane fa un’altra famiglia bosniaca è stata costretta a lasciare l’alloggio – non si poteva continuare a retrocedere. Perdere questa battaglia per il Comune significherebbe dire addio al piano per svuotare i campi rom riempiti a suo tempo da Alemanno. A Virginia Raggi è giunta anche la solidarietà di parte del Pd romano, contestato invece alla manifestazione antifascista che ieri pomeriggio ha fatto da contraltare all’ennesimo sit-in di CasaPound. Al terzo giorno di tensioni le forze dell’ordine hanno fermato un corteo degli antagonisti e Roberto Saviano ha protestato su twitter accusando la polizia di essere “ridotta a servizio d’ordine per la campagna elettorale di un partito. Che pena”. Immediata la replica: “La Polizia di Stato serve il Paese. Che pena leggere commenti affrettati e ingenerosi per dispute politiche o per regolare conti personali”.

Ma anche la base 5Stelle nei quartieri popolari storce il naso per le assegnazioni a famiglie rom. Tutte procedure regolari, figlie (anche) del percorso di emancipazione avviato nel 2016. Difficile da spiegare a 15 giorni dalle Europee, nel clima avvelenato anche dalla bufala dell’estrema destra, secondo cui il Comune assegnerebbe 18 punti in più alle famiglie rom. Il bonus è assegnato a tutte le persone in emergenza abitativa: anche a chi vive nei residence, nelle roulotte di Sant’Egidio o in macchina, oltre che ai 3.000 dei campi della Capitale.

Di Maio contro la Raggi: “Prima i romani dei rom”

Ogni santo giorno Matteo Salvini spara su Virginia Raggi. Ma nel mercoledì in cui la sindaca di Roma mette la testa nella bocca del leone, ossia si presenta nella trincea di Casal Bruciato, ad attaccarla provvede anche Luigi Di Maio: ossia il capo politico dei Cinque Stelle, il movimento di cui Raggi fa parte e con cui la distanza pare dilatarsi.

O almeno pare aumentare con lui, Di Maio, che nel primo pomeriggio, appena finito di parlare a Palazzo Chigi sul caso Siri, lancia colpi tramite retroscena soffiati alle agenzie. “Raggi pensi ad aiutare i romani prima dei rom”, trapela su Adnkronos. E ovunque spuntano indiscrezioni sul vicepremier “furente” o “molto irritato”. E gli stessi 5Stelle in Parlamento si guardano tra loro: “Ma cosa è successo?”. In breve, è successo che Di Maio e il suo staff hanno visto che le immagini della visita della sindaca occupavano i siti web. E l’hanno presa male. “Non doveva andare a Casal Bruciato nel giorno della nostra vittoria su Siri, rischia di oscurarla” è il ragionamento che fanno nella stanza dei bottoni a 5Stelle. Ma non c’è solo questo: pesano, eccome, quei sondaggi riservati che dipingono la giunta Raggi come un punto debole per il M5S. Ed è la ragione per cui la Lega non smette di attaccarla, prima ancora della voglia di prendersi il Campidoglio. Di Maio sa di quei numeri, e non è sicuro che siano veri.

Però ha paura dell’effetto Roma. E lo ha già dimostrato, abbandonando a un difficile destino la norma taglia debito (nota anche come Salva Roma), che potrebbe far risparmiare oltre due miliardi alla Capitale e a tutta Italia, permettendo al Tesoro di rinegoziare il debito del Campidoglio con le banche. Nel dl Crescita ne è rimasta una labilissima traccia, e sarà complicato recuperarla tramite emendamento nella conversione del decreto in legge. “Luigi si è convinto che potesse costarci voti, ossia che gli italiani l’avessero preso come un favore a Roma e alla Raggi” confermano dai piani alti del Movimento. Proprio la stessa interpretazione urlata da Salvini. Ergo, “è difficile che se ne riparli davvero”. Però intanto c’è il caso di Casal Bruciato, con il riferimento pesante ai rom. Tema sempre sensibile sul piano elettorale. E in diversi nel Movimento fanno notare il paradosso: “Da settimane facciano una campagna tutta virata a sinistra, e la sindaca di Torino Chiara Appendino ha appena annunciato che denuncerà per apologia di fascismo Altaforte, la casa editrice vicina a CasaPound. E noi attacchiamo la sindaca perché è andata proprio dove un neo-fascista ha minacciato una donna?”. E in serata c’è anche un 5Stelle che dissente in chiaro, cioè il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra, tramite tweet: “Mafia è negare i diritti, legalità è affermare e praticare il diritto sempre. Raggi lo ha dimostrato con coraggio e determinazione. La legge è uguale per tutti”. E nel frattempo rimbalzano anche le note di vicinanza alla sindaca contestata a Casal Bruciato, come quella del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Simone Valente: “Stiamo assistendo a una deriva violenta e razzista che non ha alcuna giustificazione e che deve cessare immediatamente, solidarietà a Raggi”.

Il Pd ovviamente vede il varco. E tutti, dal segretario dem Nicola Zingaretti ai senatori, manifestano vicinanza alla sindaca. Mentre tutti si chiedono cosa risponderà il Campidoglio. Ma in Comune si mordono le labbra: “Siamo sereni, lavoreremo uniti come sempre”. Di più non vogliono dire. Neanche tramite retroscena.

Il grido disperato di Fatuzzo

Salvate il soldato Carlo Fatuzzo. Il papà del Partito pensionati si è guadagnato il seggio e la gloria con il suo programma tutto incentrato sugli over 65 e soprattutto con il grido di battaglia con cui chiude ogni suo intervento parlamentare: “Viva i pensionati! Pensionati all’attacco!”. Ecco, ora il povero Carlo – che gestisce il partito insieme alla figlia Elisabetta, dirigente dei pensionati da quando aveva 30 anni – non potrà fare più quello che gli riesce meglio: la Presidenza della Camera gli ha ordinato di astenersi dal pronunciare quell’esclamazione catartica che l’ha trasformato da semplice peone in peone pittoresco. Niente “pensionati all’attacco!”. Secondo il regolamento di Montecitorio la ripetizione seriale della frase è equiparabile a uno slogan politico ed è dunque sconveniente per l’etichetta dell’aula. Fatuzzo se n’è molto lamentato: “Gradirei che nessun presidente dell’Assemblea mi mettesse nella condizione di non poter dire quello che ritengo opportuno”, ha detto a Roberto Fico durante la seduta di ieri. Il grillino gli ha però confermato di doversi attenere alle regole. Il nostro Fatuzzo però ha già pronto un espediente: “Stavolta lo dico senza punto esclamativo – pensionati all’attacco – perché ci sono tanti modi per comunicare, e l’uso del punto esclamativo viene riportato nel resoconto stenografico”.

RaiCom, M5S potrebbe votare col Pd per dare una spallata al leghista Foa

Potrebbe andare in scena il remake del primo agosto 2018, quando la candidatura di Marcello Foa alla presidenza della Rai fu bocciata dalla Vigilanza (e si dovette ripetere a settembre). Stavolta la questione è la presidenza di RaiCom detenuta da Foa e contestata specialmente dal Pd, che ha presentato una risoluzione per chiedere al Cda Rai di revocare la carica e nominare un nuovo presidente della consociata.

Risoluzione su cui potrebbero convergere anche i 5 Stelle, spaccando la maggioranza di governo e aggiungendo ulteriori fibrillazioni al rapporto con la Lega. “Noi e il Pd in questo caso perseguiamo lo stesso obbiettivo: rimuovere l’eclatante conflitto d’interessi di Foa controllore, in qualità di presidente di Rai Spa, e di controllato, come presidente di RaiCom. Un capolavoro politico”, afferma Primo Di Nicola, pentastellato della Vigilanza, in un’intervista a La Notizia. La decisione, però, non è ancora presa e si sta discutendo. “Vedremo, per il momento non dovremmo votarla”, dice Gianluigi Paragone.

Per tentare di mettere una pezza alla faccenda, la Rai ieri ha inviato una lettera alla Vigilanza dove si ribadisce la legalità del doppio incarico e si citano i precedenti di dirigenti Rai nominati in altri organismi. Ma il Pd non ci sta. “La lettera è imbarazzante, con informazioni fuorvianti. Perché Salini si è prestato a una simile sceneggiata?”, chiede Michele Anzaldi. La riforma della tv pubblica del 2015 prevede che il presidente ricopra una carica di garanzia e possa avere deleghe solo su relazioni istituzionali e controllo interno (audit). Foa è stato nominato alla presidenza di RaiCom a gennaio, rinunciando al compenso aggiuntivo di 40 mila euro. Si è difeso di recente in Vigilanza scaricando la questione sull’ad. “Sono a RaiCom perché me l’ha chiesto Salini”, ha detto. Ma i bene informati a Viale Mazzini sostengono che della questione l’ad non si sia mai occupato.

La palla, dunque, è alla Vigilanza, col voto previsto martedì. Se davvero il M5S voterà insieme a Pd e LeU, nulla potrà la Lega che, insieme a FdI, può contare su 9 voti. Nemmeno il soccorso forzista basterebbe a salvare Foa. Oggi, intanto, in Cda è prevista un’altra infornata di nomine. Quattro nuovi vice a Raiuno: Franco Di Mare, Milo Infante, Maria Teresa Fiore e Franco Argenziano. Felice Ventura andrà alle Risorse umane e Massimo Ferrario alle produzioni tv. Nel ruolo di trasformation officer dovrebbe arrivare Piero Gaffuri.

L’aula del Senato per le “marchette” del premio Carli

Festa grande a Palazzo Madama. Ma i senatori non sono stati invitati. Proprio così: per il decennale del premio Guido Carli l’aula del Senato sarà interamente riservata agli ospiti della Fondazione intitolata all’ex governatore della Banca d’Italia. E presieduta da sua nipote, la potentissima Romana Liuzzo che ha deciso la lista dei fortunati che per un giorno potranno sedere tra i banchi che furono di Luigi Sturzo e Pietro Nenni.

Ma chi è Liuzzo? A dispetto di tanto lustro familiare è una che ce l’ha fatta da sola e ci tiene a farlo sapere: esordio a Repubblica dove, come scrive lei stessa, ha fatto una dura gavetta. Prima di passare a Panorama come capo servizio: attualmente è caporedattore-inviata al Giornale per cui cura la fondamentale rubrica “Chiacchiere da Camera”. Dal 2017 è pure Cavaliere della Repubblica. Ma come ha raccontato recentemente proprio a Panorama, le medaglie di cui va più fiera sono ben altre. Tre le esperienze di vita c’è un episodio che deve averla segnata se molti anni più tardi ha deciso di trasformarlo in una delle missioni della Fondazione, ossia la lotta contro il bullismo: “Negli anni del terrorismo ho frequentato il liceo classico Mamiani, rossissimo”. Lì si sentiva “una diversa: non mi facevo le canne e non partecipavo alle assemblee. I compagni mi prendevano in giro e un giorno d’inverno mi buttarono in una fontana”.

Fedele alla tempra del nonno (che in anni assai difficili per l’Italia non solo ha guidato con mano salda l’Istituto di via Nazionale, ma è stato pure presidente di Confindustria e ministro del Tesoro), non ha mollato. Anche grazie al conforto degli amici di una vita. Tra tutti Gianni Letta, suo braccio destro nella Fondazione: un consigliere indispensabile Letta, come del resto lo è sempre stato per Silvio Berlusconi. È proprio lui a presiedere da sempre la giuria che assegna il premio Carli, concepito per valorizzare la meritocrazia e le eccellenze italiane. E che è composta quest’anno tra gli altri anche da Giovanni Malagò, Barbara Palombelli e Matteo Marzotto. E poi Fedele Confalonieri, Urbano Cairo e Fabrizio Salini, oltre al gotha di Eni e Enel Claudio Descalzi e Francesco Starace, il capo di Confindustria Vincenzo Boccia, la donna d’affari Ornella Barra, il presidente dell’Abi Antoniuo Patuelli e il direttore delle relazioni istituzionali di Banca Intesa, Stefano Lucchini.

Per il decennale del premio Carli che si celebra quest’anno Liuzzo & co. hanno fatto le cose più in grande del solito: l’udienza dal Papa, la benedizione del Quirinale, il consueto patrocinio di Palazzo Chigi e il sostegno di primarie aziende italiane. Ma il colpo più grosso di tutti è stata la location, con l’assegnazione dell’emiciclo del Senato, sede assai più prestigiosa della pur prestigiosissima Sala della Regina della Camera dove per tradizione si svolgeva l’appuntamento. Raccontano da Montecitorio che la Fondazione aveva fatto richiesta per la stessa sala di sempre, anche quest’anno. Ma gli organizzatori avevano preteso che l’assegnazione venisse confermata con troppo anticipo rispetto alle regole: alla faccia di Roberto Fico dalla Casellati hanno avuto più comprensione per l’imponente macchina dei preparativi. Anche a prezzo di qualche veleno. “Ma l’aula del Senato è mica il tinello di casa della Casellati che può decidere di metterlo a disposizione ai suoi amici” hanno cominciato a dire, lividi, i senatori. Neppure presi in considerazione da Liuzzo e inviperiti con Casellati. Che da parte sua fa sapere al Fatto Quotidiano che “il via libera per l’assegnazione dell’emiciclo è stato accordato dal Cerimoniale di Palazzo Madama dopo una lunga istruttoria: quattro sopralluoghi all’esito dei quali l’unico spazio abbastanza grande è risultata l’aula”. Insomma la presidente si sarebbe “limitata a dare il suo via libera. Gli inviti sono stati gestiti direttamente dalla Fondazione Guido Carli”. A cui ieri Casellati ha chiesto, date le polemiche se fosse possibile riservare almeno 30 posti per i senatori che proprio non vorranno perdersi l’appuntamento. Casellati naturalmente ci sarà e con lei gli ospiti d’onore di Liuzzo e Letta. Poi tutti a Villa Blanc per la cena di gran gala. Cin.