Assessore regionalealla Cultura: è il nuovo incarico di Andrea Biancareddu. Ex di Forza Italia, passato all’Udc, attualmente sindaco di Tempio Pausania, con un curriculum politico ben nutrito. Questa per lui non è la prima nomina in Regione. Tra le varie cariche ricoperte, quella di assessore all’Ambiente dal 2009 al 2014 è finita sotto i riflettori dei giudici della procura di Cagliari. Nel 2013, pochi mesi dopo la condanna a un anno di reclusione con pena sospesa per usurpazione di funzioni pubbliche, Biancareddu è finito nel maxi-processo sul presunto uso illecito dei fondi destinati ai gruppi regionali. A marzo scorso il pubblico ministero di Cagliari, Marco Cocco, lo ha rinviato a giudizio per 165 mila euro. A gennaio sono iniziate le udienze. In polemica con le nomine fatte in extremis dal presidente della Regione Sardegna, Christian Solinas, c’è il sindaco di Cagliari, Massimo Zedda, che ha definito quella della Giunta una “situazione limite”: “Stiamo diventando lo zimbello d’Italia. Prima hanno provato a chiederlo ai sette samurai – ha detto – incassato il rifiuto di tutti, hanno optato per i sette nani”.
Il Cold Case Mani Pulite: ieri, oggi e domani
Il 17 febbraio 1992 l’ingegner Mario Chiesa, esponente milanese del Psi, viene arrestato mentre intasca una bustarella da un fornitore del Pio albergo Trivulzio. Una tangente di sette milioni di lire, all’apparenza una delle tante inchieste anticorruzione destinate a concludersi senza particolari sviluppi; invece la confessione di quel “mariuolo isolato”, come lo definì Bettino Craxi, avrebbe dato il via a un terremoto giudiziario passato agli annali come Mani Pulite. Sembra ieri, anzi, sembra oggi, sputato, a giudicare da quanto stiamo scoprendo in materia di mazzette proprio a Milano. Non poteva essere più tempestiva la partenza di C’ero una volta… Mani Pulite, il nuovo ciclo di incontri condotti da Antonio Padellaro e Silvia Truzzi realizzato da Loft Produzioni, disponibile da oggi su www.iloft.it e app Loft, la piattaforma tv della Società Editoriale Il Fatto (SEIF). L’alto magistrato Pier Camillo Davigo, il ministro del Bilancio dei governi Andreotti Paolo Cirino Pomicino, l’allora direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli: tre ospiti accolti dalle note del Così fan tutte nello studio ispirato a un’aula di tribunale per analizzare da differenti punti di vista quei due anni in cui caddero sotto gli avvisi di garanzia i leader della Prima Repubblica. Nell’aprile del ’93, quando la Camera negò l’autorizzazione a procedere contro Craxi, si scatenò l’indignazione popolare, eppure un quarto di secolo dopo c’è chi prende le distanze da quell’inchiesta, fa notare come il fiume di tangenti non si sia mai arrestato e rimpiange il pentapartito. Francesco Saverio Borrelli, all’epoca capo della Procura milanese, ha dichiarato qualche anno fa: “Chiedo scusa per Mani Pulite. Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale”.
Nel confronto con Padellaro e Truzzi, Davigo non si dichiara affatto di quell’idea e respinge al mittente sia le accuse di parzialità nelle indagini rivolte contro il Pds, sia di aggressività giudiziaria, le cosiddette manette facili. Non cambia idea per motivi opposti anche il “re di Napoli” Cirino Pomicino. Pur condannato a un anno e 8 mesi per finanziamento illecito (procedimento maxi-tangente Enimont), ’o ministro resta un difensore del professionismo della politica. In Mani Pulite non vede la palingenesi, ma l’origine di molti recenti mali del Paese. Vedi alle voci giustizialismo e populismo. Con Mieli C’ero una volta affronta l’aspetto mediatico di Mani Pulite, sparata nelle prime pagine, la sensazione che per una volta la legge fosse uguale per tutti, un’irripetibile finestra di libertà per l’informazione che pure fu accusata di sconfinare nella gogna mediatica, e mise in moto alcune clamorose conversioni (quella di Vittorio Feltri, passato dalla direzione del quotidiano ultragiacobino L’Indipendente al Giornale della famiglia Berlusconi).
Nato da un’idea di Alessandro Garramone e Antonio Padellaro, scritto da Matteo Billi con la collaborazione di Simone Rota, Silvia Truzzi e dall’autore di questo articolo, C’ero una volta dopo avere affrontato la crisi della Sinistra ripropone il “talk della memoria” sul tema Mani Pulite, dove non mancheranno rivelazioni e retroscena. Così fan tutti, ieri come oggi? Fino a che punto gli elettori sono moralmente superiori alla classe politica?
Le risposte soffiano nella cronaca. Mani Pulite è stata una lezione per tanti, ma l’impressione è che a mangiare la foglia siano stati soprattutto i corrotti.
Calabria: la disfida familista tra Adamo (Pd) e Occhiuto (FI)
Se oggi Edward C. Banfield fosse vivo e decidesse di fare una capatina in Calabria, avrebbe materiale per scrivere una ponderosa enciclopedia del familismo amorale. Perché tra Sila e Aspromonte, la famiglia è tutto. Nel mondo politico calabrese è una vera e propria impresa, e ogni membro va piazzato dovunque, anche nel più insignificante interstizio del sistema istituzionale.
Per capirci, andiamo con la memoria a qualche anno fa, quando la società pubblica Sviluppo Italia-Calabria, venne sciolta e i suoi dipendenti assorbiti da Fincalabra, la finanziaria regionale. Un’orgia di 34 parenti assunti. La figlia di un ex presidente di Regione. Figli e fratelli di magistrati, mogli di sindaci, di parlamentari ed ex, la spartizione fu bipartisan. Ma queste sono le “briciole” che il vasto sistema di potere calabrese concede ai suoi.
Il Grande Vecchio che studia le strategie
I giochi veri sono ben altri, come dimostrano le ultime due inchieste della procura di Catanzaro. Si chiamano “Lande desolate” e “Passepartout”. Nomi fantasiosi ma azzeccatissimi, legati da quel filo nero che è, insieme allo strapotere della ’ndrangheta, il cancro della Calabria. La spregiudicatezza della classe politica e l’uso clientelare delle risorse pubbliche. L’inchiesta “Passepartout” ci offre una radiografia impietosa. Nicola Adamo, classe 1957, ha una lunga vita politica iniziata tra i giovani comunisti. È stato consigliere comunale, deputato e vicepresidente di regione. Potrebbe godersi vitalizi e figli, invece no. È il grande vecchio della politica calabrese. Esercita una “esclusiva influenza sul presidente della Regione”, è un “consigliere di fatto e suggeritore delle principali strategie di Oliverio (il governatore, ndr)”. Adamo è frenetico, instancabile, “in continuo e costante contatto con dirigenti regionali amministratori pubblici”, conosce termini e valore delle gare d’appalto. Non si ferma un attimo, “si attiva per far ottenere ai suoi uomini di fiducia la nomina in posti strategici delle amministrazioni pubbliche regionali e locali”.
Una vita d’inferno con sullo sfondo manovre e manovrine per far cadere, siamo nel 2016, il sindaco di Cosenza, Mario Occhiuto, fratello di Roberto, deputato di Forza Italia. Servono le dimissioni dei consiglieri comunali e allora Adamo e Oliverio cercano di convincere Luigi Incarnato, politico di lungo corso ed ex assessore regionale, che vanta relazioni con almeno 16 di loro. Per il suo lavoro, Incarnato, scrivono i pm di Catanzaro, “si fa promettere (e poi dare) un vantaggio patrimoniale”, la nomina di commissario liquidatore della Sorical (la società che gestisce le risorse idriche), un incarico da 18mila euro mensili. Incarnato urla la sua estraneità, “fui nominato per le mie competenze”.
Le manovre per Lucio Presta sindaco
Anche il consigliere comunale Luca Morrone è della partita. È un altro figlio d’arte, suo padre Giuseppe, detto Ennio, è un ex di tutto, cariche pubbliche (da vicesindaco di Cosenza ad assessore regionale, fino a deputato) e partiti, Udeur, centrosinistra e destra. “Se vince Presta (Lucio, l’agente di star tv che il centrosinistra voleva candidare a sindaco, ndr), lui fa il vicesindaco, se si perdono le elezioni, un incarico regionale ci deve essere. In attesa della candidatura alla Regione”, dice Nicola Adamo al governatore Oliverio. Che benedice con un triplo ok. Anche Occhiuto è indagato per corruzione: avrebbe scambiato la sua firma sull’accordo di programma per la metro leggera di Cosenza, opera che stava a cuore ad Adamo e Oliverio, con la promessa di farsi finanziare il Museo di Alarico. Il gip ha smontato l’accusa di associazione a delinquere per tutti gli imputati, ma riconfermato il ruolo di Adamo come “regista” della politica calabrese. In questa “ingombrante” veste riceve i complimenti di Giacomo Mancini jr, nipote di Giacomo senior, leader socialista nella Prima Repubblica. Junior è stato deputato di centrosinistra, poi assessore regionale di centrodestra, oggi di nuovo a sinistra.
Adamo è il marito di Enza Bruno Bossio, donna volitiva e tenace, fin da giovanissima in politica col Pci. Oggi è deputata del Pd. La “lady di ferro della Calabria”, la chiamano. I giudici di Catanzaro le contestano l’accusa di corruzione sempre nell’ambito delle manovre contro il sindaco Occhiuto. Al centro la costruzione di una piazza che il sindaco di Cosenza non deve inaugurare altrimenti prende voti. L’ordine di Adamo, Oliverio e Bruno Bossio è di rallentare i lavori. “Questi politici ti ricattano – dice un imprenditore – tu gli chiedi un favore e loro ti ricattano”. L’onorevole Bossio, invece, affida a un post su Fb la sua replica brechtiana e cerca “un giudice terzo, basta aspettare. Il tempo è galantuomo”.
Il Capitano si fa garantista: cena flop col “partito del Pil” a Milano
Acena con l’associazione dei garantisti a Milano, proprio mentre la locale Procura fa arrestare politici e imprenditori e mette sotto inchiesta il governatore leghista Attilio Fontana. Matteo Salvini non è nuovo agli happening di “Fino a prova contraria” , ma la sua presenza all’ultimo evento organizzato da Annalisa Chirico – due sere fa a Villa Necchi Campiglio – vive di un bizzarro cortocircuito. E così mentre crollava il centro di potere milanese a tinta centrodestra, Salvini dibatteva di come riformare la giustizia e “far ripartire il Pil”. Con chi? A differenza dell’evento di gennaio a Roma, a cui parteciparono tra gli altri Maria Elena Boschi, l’ex tesoriere dem Francesco Bonifazi, la ministra Giulio Bongiorno e imprenditori come Flavio Briatore e Urbano Cairo – stavolta il cartellone è meno ricco. Maria Elisabetta Alberti Casellati è annunciata nel manifesto, ma non si presenta. Assenti pure Luciano Violante e Paola Severino. Si parte alle 19, un paio d’ore di interventi – parlano Carlo Bonomi (Assolombarda), Giulio Tremonti, il magistrato Stefano Dambruoso – e poi tutti a cena, mentre si parla di “lacci della burocrazia da rompere” per far ripartire l’economia. Messaggi espliciti per l’interlocutore di riferimento, unico rappresentate del governo, di imprenditori e lobbisti convenuti. Salvini – che ha seguito Chirico a Roma e fino al carcere di Bollate per una cena nel ristorante “In galera” – prende nota e allieta la nuova serata garantista. Segno di quanto il tema gli stia a cuore. O almeno di quanto ci tenga alle cene col “partito del Pil”.
“La politica non ignori l’emergenza corruzione”
Gli “appunti” per la riscossa civica che Ferruccio de Bortoli ha raccolto nel suo ultimo libro – dal titolo ottimista, Ci salveremo – sono (anche) un pacato ma fermo j’accuse rivolto alla classe dirigente. Piove e tanto per cambiare non si parla d’altro che dell’inchiesta giudiziaria sul sistema Lombardia.
Siamo di nuovo qui, alle tangenti.
Bisogna tenersi lontani dai processi mediatici, ma quando emergono episodi di corruzione così diffusa, così capillare, così normale come quelli di questi giorni il problema non è la supposta aggressione giudiziaria. Il problema è che non ci scandalizziamo più. Le forze politiche si preoccupano della giustizia a orologeria e così mandano un messaggio sbagliato e cioè che la corruzione non è un’emergenza. Siamo sempre in attesa del prossimo episodio, e ansiosi di archiviarlo.
E quando Salvini dice Armando Siri è un mio uomo e quindi non si tocca, che messaggio manda?
Che l’appartenenza politica è più importante della legalità: ed è devastante. Non stupiamoci poi se all’estero, magari con una dose di faciloneria, ci considerano un Paese corrotto e pieno di evasori fiscali.
Non si farebbe prima a non candidare persone con condanne?
Una vera rivoluzione civile sarebbe l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, che disciplina il funzionamento e il finanziamento dei partiti. Potrebbero farlo i 5Stelle, sarebbe anche un modo per difendersi dalle accusa di scarsa trasparenza del sistema Casaleggio.
Nel libro lei fa due critiche alla classe dirigente: la prima è l’accusa di essere, nel privato come nel pubblico, fortemente gerontocratica.
Forse tra le cause dell’esodo dei giovani all’estero c’è anche un ricambio modesto. Aggiungo anche il fattore di genere: la parità non è un tema all’ordine del giorno, una grossa sconfitta. Mi pare sintomatica l’incapacità di Silvio Berlusconi a individuare un successore.
L’Italia è la terra delle seconde vite dei pensionati degli altri Paesi?
Paolo Fresco divenne presidente della Fiat dopo essere andato in pensione da General Electric. Lucio Stanca, Elio Catania, Ennio Presutti erano pensionati di Ibm, che ancora oggi ha una regola per cui a 60 anni bisogna lasciare. In queste ore, per la seconda volta, le Generali hanno cambiato il proprio Statuto per consentire di reiterare presidente e vicepresidente. Possono esserci grandi personaggi che personalmente stimo e rispetto, però quando si passa il testimone troppo tardi, qualche volta non lo si passa del tutto perché le eredità diventano troppo pesanti. Non ci sono piani di successione nelle grandi società italiane come Intesa, Generali, Tim.
La risposta è la rottamazione?
Nient’affatto! È una successione ordinata e naturale, in cui non si cambiano le regole in corsa. È una cattiva coscienza della classe dirigente. Perché non si introduce un limite ai mandati dei manager? In politica la limitazione del mandato dei sindaci ha avuto un certo effetto. Quando questo limite non c’era, vedi Formigoni, i disastri si sono verificati.
La seconda grande critica è di “coerenza civica”, se così possiamo definirla.
Se molti grandi imprenditori pagano le tasse all’estero perché ne pagano parecchie meno, vuol dire che condividono la cittadinanza in maniera parziale. E magari sono quelli che chiedono di promuovere il made in Italy. Danno un pessimo esempio a tutto il resto del Paese: i meno abbienti non possono fare il tax planing. Come si fa a chiedere un maggiore impegno nella lotta all’evasione fiscale quando si pagano le tasse in Svizzera? Negli Usa se non paghi le tasse lì rischi di perdere la cittadinanza e c’è anche una exit-tax. Una classe dirigente che non condivide gli oneri della cittadinanza con il popolo, non si può meravigliare dei Gilet gialli o dei 5Stelle.
Sembra che una parte dell’establishment abbia deciso che Matteo Salvini rappresenta il male minore. Perché lui e non i 5Stelle?
Il mondo dell’impresa ritiene la Lega, che amministra più territori, un interlocutore migliore dei 5Stelle. E questo pone un problema ai grillini, che hanno a mio avviso un deficit di cultura economica. Per esempio del lavoro nero non si parla più: nel libro riporto una cifra drammatica e cioè che il 30 per cento del contante in circolazione è costituito da banconote da 500 euro, che non sono nemmeno più stampate dalla Bce. Pensiamo a tutti i condoni che i governi, non solo questo, hanno varato: chi paga regolarmente le tasse si sente un cretino.
Cosa ci salverà, dunque?
La crisi delle democrazie liberali dipende anche da Stati che non sono più in grado di garantire il welfare. Bisognerà quindi chiedere aiuto ai privati e ci salveremo riscoprendo il senso civico, il rispetto del bene comune, la legalità, i doveri della cittadinanza. Il terzo settore è una grande speranza: in Italia c’è tantissima gente che si dà da fare per aiutare il prossimo. E non c’è una grande differenza tra Nord e Sud: le differenze di solidarietà non sono ampie come quelle di reddito, a dimostrazione che quando eravamo più poveri eravamo più attenti agli altri.
La difesa dai pm: “Mai preso soldi da Arata”
Non ha mai ricevuto da Paolo Arata, né da altri, promesse o dazioni di denaro. E gli emendamenti – che per i magistrati avrebbero potuto favorire l’imprenditore genovese – da lui proposti (ma mai approvati) li condivideva “anche perché del tutto coerenti politicamente con il cosiddetto contratto di governo”. Così il sottosegretario Armando Siri – ormai fuori dal governo – si è difeso ieri per circa un’ora e mezza davanti ai pm Paolo Ielo e Mario Palazzi che lo accusano di corruzione.
Le sue sono state spontanee dichiarazioni, i magistrati quindi non hanno potuto fare contestazioni con le quali, magari, contraddire le affermazioni dell’indagato. Durante il colloquio il sottosegretario ha depositato una memoria, come pure “la documentazione contabile” “sui movimenti bancari e finanziari” e i messaggi e le email scambiate con l’imprenditore Arata. Tutto ciò per difendersi dall’accusa di aver asservito “a interessi privati” la propria funzione di sottosegretario e senatore “proponendo emendamenti contenenti disposizioni in materia di incentivi per il cosiddetto mini-eolico”. In cambio, secondo l’impostazione dei pm, avrebbe ricevuto la promessa o dazione di 30 mila euro da parte di Arata. Del denaro parla l’imprenditore con il figlio in una intercettazione di settembre scorso. Circostanza che però Arata, interrogato due giorni fa, ha smentito spiegando in sostanza di non aver mai pagato il sottosegretario.
Ieri è stata la volta di Siri. Il senatore leghista, davanti ai pm, ha respinto le accuse, partendo dall’origine. Ossia spiegando i rapporti “ istituzionali” con l’imprenditore ed ex parlamentare forzista che “già noto quale tecnico esperto di rango in materia ambientale ed energetica – è scritto in una nota del legale di Siri, Fabio Pinelli – si era presentato a lui quale portavoce e rappresentante sostanziale del Consorzio dei Produttori di Energia da Minieolico”. “Tale Consorzio – continua la nota – è un Ente rappresentativo d’interessi collettivi, ‘accreditato’ al Registro Trasparenza dei portatori d’interesse, istituito presso il ministero dello Sviluppo economico”. Ai magistrati quindi Siri ha spiegato di aver discusso proprio con il Consorzio per poi veicolare “in sede politica, le istanze emendative di categoria che gli erano state rappresentate; e ciò semplicemente trasferendole all’attenzione degli Uffici ministeriali competenti, oltreché di altri componenti del Parlamento, per le loro libere valutazioni e determinazioni”. Emendamenti che poi sono stati bloccati.
Per il sottosegretario, però, si tratta di una modalità di azione politica che “debba essere considerata non solo lecita, ma finanche politicamente doverosa”. Anche perché quelle proposte erano in linea – viene sostenuto nella nota del legale – con “le indicazioni di programma della Lega e del M5S: tutte orientate, in materia di sostegno del fabbisogno energetico e tutela ambientale, a imprimere una fortissima accelerazione al mercato delle piccole installazioni che producono energia da fonte eolica”.
Dopo aver raccolto la versione dei due indagati, l’inchiesta prosegue con l’analisi della documentazione presentata da Siri e quella raccolta in questi mesi di indagine. E non è escluso che il senatore possa tornare di nuovo davanti ai magistrati, stavolta per rispondere alle loro domande.
Il giorno di Conte: caccia Siri e salva pure il governo
Siri è fuori, invece il governo è ancora lì, anche se chissà per quanto. E la prima mina su cui potrebbe saltare si chiama Sblocca-cantieri, il decreto che dovrebbe diventare legge, ora in Senato, nel quale il Carroccio minaccia di inserire il commissariamento del Tav con un emendamento. Ma nell’attesa ha vinto l’avvocato che fa il premier, Giuseppe Conte. Perché il Consiglio dei ministri di ieri mattina, che poteva degenerare in rissa, è andato come voleva lui: con la revoca del sottosegretario leghista tramite decreto (servirà la firma del Quirinale), nessuna conta e toni pacati, quelli che piacciono al premier.
Da ieri ancora più forte, visto che ha preteso e ottenuto un nuovo atto di fiducia, la conferma che il capo del governo è lui, e lo ha fatto anche scrivere nel verbale e nel comunicato finale: “Confermata piena fiducia nell’operato del presidente del Consiglio”. Perché a questo puntava: “Sul caso Siri mostratemi che vi fidate di me, della mia valutazione”, ammonisce all’inizio della riunione. E gliela confermano tutti, anche il Salvini che in serata lo morde a Otto e mezzo: “Sul caso Siri e sul Tav il premier ha preso le parti dei 5Stelle”. E al di là delle sciarade il senso resta quello, Conte ha vinto senza sporcarsi il completo. Ma a pagare il prezzo del sangue non versato sono innanzitutto Salvini e Luigi Di Maio, i due vicepremier che non si parlano più e che in Cdm si rinfacciano gli sgarbi reciproci, come una coppia in crisi.
Perché un premier così alto nei sondaggi è un problema per il leghista ma pure per Di Maio, che nei consensi pesa la metà esatta del presidente. Però se ne poteva uscire solo così, dalla riunione dove mancano i tecnici Tria (Economia) e Moavero (Esteri). E i 5 Stelle infieriscono: “Hanno disertato per non doversi esprimere”.
Invece Conte spiega ai ministri perché Siri deve andare a casa, con “un discorso politico” assicurano da Palazzo Chigi. “Mi auguro che Siri sia innocente, ma nel suo caso è in discussione l’elemento il rapporto di fiducia con me, con il presidente del Consiglio” sostiene. Ossia “c’è il sospetto che abbia operato da sottosegretario favorendo un privato e io devo rispondere dell’operato di ogni membro del governo, ogni azione va condivisa con me”. Quindi il decreto è necessario, sottolinea il premier. Ed è un biglietto di sola andata: “Una volta revocato, Siri non potrà rientrare”. Così Conte, che rivendica: “Sono equidistante”. Ed è una risposta alla Lega che lo ha accusato “di non essere più arbitro”. Ma il Carroccio? Poco prima del Cdm, Salvini e il numero due Giancarlo Giorgetti fanno il punto a Chigi sulla linea con ministri e capigruppo. E la scelta è quella di non andare allo scontro, cioè alla conta: “Non dobbiamo passare per quelli che vogliono far saltare il banco”. Così arrivano tutti in gruppo alla riunione.
E spetta alla ministra per la Pa Giulia Bongiorno, penalista, rispondere al premier con un discorso da avvocato ad avvocato: “Revocando Siri per un avviso di garanzia si crea un precedente pericoloso”. E poi “il sottosegretario non ha ancora potuto incontrare i magistrati, non bastano i titoli di giornale per mandarlo via”. Ma le vere frecciate arrivano con i vicepremier. Perché Salvini rimprovera al M5S i “continui attacchi” e l’aver infierito su Siri. E Di Maio replica elencando le stilettate del coinquilino: da quelle contro l’accordo con la Cina sulla Via della Seta, ai dardi contro la sindaca di Roma, Virginia Raggi. Però poi smussa: “Dovete capire che per noi 5 Stelle la legalità è un tema centrale”.
Nel frattempo Conte si è assentato per lasciarli discutere. Ma sul finale rientra e concerta un comunicato, che concede qualcosa alla Lega: “Il Cdm in ordine alla proposta di revoca della nomina di Siri ha preso atto, confermando piena fiducia nell’operato del presidente e ribadendo che la presunzione di non colpevolezza è un principio cardine”.
Poco dopo, Di Maio è in sala stampa. E racconta: “Ho detto in Consiglio che bisogna convocare un vertice di governo su salario minimo e flat tax”. Poi esagera: “Si può anche sforare il 3 per cento del rapporto deficit/Pil”. E soprattutto precisa: “Su Siri non abbiamo creato un pericoloso precedente, valuteremo caso per caso anche in futuro”. Però fuori c’è Salvini che morde su tutto, anche sulla legalizzazione della cannabis che non dispiace al Movimento: “Siamo contro ogni tipo di legalizzazione di ogni droga: su altro non litigo con gli amici della maggioranza, su questo sì”.
Serbia, Brasile e Israele: Salvini tesse la sua rete
Matteo Salvini ha dedicato una parte della giornata di ieri a tessere la sua rete di relazioni internazionali. Prima di tutto ha incontrato il presidente serbo, Alksandr Vucic, al quale ha confermato il sostegno da parte dell’Italia alla richiesta della Serbia di entrare nell’Ue. Nel corso del colloquio, c’è stata “massima intesa” tra i due e il presidente serbo ha assicurato la “massima collaborazione per il controllo delle frontiere e per fronteggiare l’immigrazione irregolare”.
Poi, Salvini ha incontrato il ministro degli Esteri brasiliano Ernesto Araújo. Si rinsalda così il rapporto con il governo di Bolsonaro.
Sicurezza, cooperazione, strategie internazionali sono invece alcuni dei temi emersi durante la telefonata tra il ministro dell’Interno e il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Salvini, che ha già fatto una visita ufficiale in Israele, si è congratulato per il recente successo elettorale. Netanyahu ha confermato di voler continuare la collaborazione con l’Italia. Sul tavolo anche strategie di cooperazione e sviluppo per i paesi africani. L’ipotesi è organizzare trilaterali con Ciad, Ghana ed Eritrea. E ha invitato Salvini a tornare in Israele per conoscere il nuovo governo.
I primi arrestati scelgono il silenzio davanti al giudice
La maxi inchiestadella Direzione distrettuale antimafia di Milano ha scoperchiato tangenti, corruzione, manipolazione di appalti e legami con la ‘Ndrangheta. Tra i 43 destinatari delle ordinanze di custodia cautelare eseguite martedì c’è il consigliere comunale milanese Pietro Tatarella, ex vice coordinatore regionale di FI e candidato alle Europee, che secondo l’accusa sarebbe stato manovrato dall’imprenditore Daniele D’Alfonso, da cui avrebbe ricevuto 5 mila euro al mese in cambio di favori per gli appalti dell’Amsa e in altri riguardanti Varese e Novara. “Sono innocente, le contestazioni che mi sono state mosse sono infondate, ma ho deciso di dimettermi dal Consiglio comunale”: questo ha fatto sapere Tatarella attraverso il suo legale Luigi Giuliano, dopo essersi avvalso della facoltà di non rispondere nell’interrogatorio di garanzia davanti al gip Raffaella Mascarino. Le dimissioni sono avvenute tramite una lettera che Giuliano ha inviato al Consiglio comunale nella stessa sera dell’interrogatorio. Anche l’imprenditore D’Alfonso ha scelto il silenzio davanti al gip. Nei prossimi giorni si proseguirà gli interrogatori degli altri indagati.
E l’imprenditore varesino chiese: “Chi è che va al tavolo? Giorgetti?”
Come spiega Daniele D’Alfonso, imprenditore rampante, pagatore di mazzette e amico dei clan “è sempre una questione di rapporti”. A Milano e non solo. A Varese, ad esempio, terra di Lega, città natale di Bobo Maroni, per anni governata da Attilio Fontana. E di queste terre è anche Giancarlo Giorgetti, vicesegretario federale della Lega e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Insomma l’uomo più vicino al vicepremier Matteo Salvini. Giorgetti allo stato non risulta indagato nell’inchiesta della Procura di Milano. Il suo nome, però, compare diverse volte negli atti. Legato, in particolare, all’imprenditore Claudio Milanese, figlio di Gianluigi già coinvolto negli anni Novanta nella Tangentopoli varesina.
È il 10 dicembre 2018. In auto ci sono Gioacchino Caianiello e Diego Sozzani, all’epoca già parlamentare azzurro. Guidano verso la sede della Econord di Milanese. Obiettivo dell’appuntamento sono le necessità di Milanese di rilanciare una sua azienda. “Se ha bisogno un paio di responsabili di pubbliche relazioni esterne gliele facciamo volentieri”, dice Sozzani. Caianiello va a ruota libera e spiega che “Milanese è amico di Giorgetti”. E ancora: “Qui è dove c’è Giorgetti, io lo indirizzo, dico ‘vai dal tuo amico!’, capì?! Io quando devo dirgli qualcosa (…) l’altro risponde, perché storicamente sono qui, sono imprenditori della zona e lui è un personaggio eh”.
Non sbaglia Caianiello. Milanese, non indagato, è un imprenditore di successo e uomo di relazioni sul territorio. Noto, ad esempio, il rapporto con Paolo Orrigoni, il re dei supermercati Tigros, anche lui citato nelle carte ma al momento non indagato. Il suo nome compare perché ha il progetto di costruire su un’area finita nell’indagine per un’ipotesi corruttiva. Ma non pare, ora, questo il punto. Orrigoni interessa in questo caso perché anche lui è molto vicino a Giorgetti. Nell’ultima tornata elettorale, lo stesso imprenditore si candiderà (senza vincere) alla poltrona di sindaco di Varese con il supporto esplicito di Fontana e dello stesso Giorgetti. Mister Tigros è in buoni rapporti anche con Andrea Cassani, leghista, sindaco di Gallarate, nonché tra i fondatori dell’associazione “Maroni presidente” finita in un’inchiesta della Procura di Milano dove risulta indagato l’assessore regionale Stefano Bruno Galli. Milanese ha costruito per Orrigoni, così come anche un parente del parlamentare leghista Matteo Bianchi. Relazioni di potere in salsa padana, con Giorgetti in testa. Il quale con Milanese condivide la passione per la squadra di calcio del Varese. Intanto il duo Sozzani-Caianiello è arrivato alla Econord. È sempre il 10 dicembre del 2018. Ad aspettarli Milanese e il suo braccio destro Sergio Bresciani, già socio nella Compagnia costruzioni italiana. Oltre al rilancio dell’azienda, sul tavolo ci sono i cattivi rapporti di Milanese con Anas, le cui nomine saranno ridiscusse a breve. Per questo Milanese chiede: “Chi è che va al tavolo? Giorgetti, chi va?”. Risponde Sozzani: “È lui! Lui sicuramente nella Lega è quello che dice la sua”. Mentre per capire cosa sta facendo l’Anac sulla documentazione relativa a un appalto a L’Aquila vinto da Bresciani, Sozzani si mette subito a disposizione: “Vabbè io sento l’Anac a che punto è”. Naturalmente il parlamentare, che pagava “la decima” a Caianiello, vuole un ritorno economico. Dice: “Volevo fare un discorso”. Milanese lo interrompe: “Consulenziale”. Chiarisce Caianiello: “Fare il punto dai! Il dare e avere”. Insomma, emerge sempre più un centro di potere nell’area di Varese. Dove Giorgetti è persona riconosciuta, Fontana ha governato per anni e Caianiello, alias “Jurassic park”, si muove in tutta libertà, mantenendo rapporti, ad esempio, con Orrigoni e attraverso di lui con Giorgetti. È Nino Caianiello la cerniera tra Forza Italia e Lega. È lui, ad esempio, che da condannato in via definitiva per concussione partecipa ai tavoli politici per la costruzione del nuovo ospedale di Gallarate assieme a Maroni e all’assessore Gallera.
Danilo Rivolta, ex sindaco di Lonate Pozzolo già condannato per corruzione, spiega ai magistrati: “Caianiello è presidente onorario della fondazione Agorà che gestisce la politica a Milano, Varese e Como “. Chiedono i pm: “Sull’operazione dell’ospedale unico di Gallarate c’entra Caianiello?”. Risposta: “Sì, la sta gestendo e coinvolge l’assessore alla Sanità della Regione Lombardia Gallera, tramite l’assessore Sala” (Fabrizio, ndr). Un quadro allo stato senza rilievo penale, ma che, in via generale, spiega le relazioni tra affari e politica. A Varese, nel cuore della Lega di Salvini e di Giorgetti.