La cerchia di Attilio: il collega, il “compagno” e mr. Radio Padania

Il socio di studio che ha perso la poltrona. La “cacacazzi” ex compagna di Salvini. L’ex “compagno” reclutato alla causa del Pirellone leghista. Il fondatore di Radio Padania. E’ lo strano cerchio magico che circonda Attilio Fontana, il presidente della Regione che dovrà comparire davanti ai giudici il 13 maggio per essere interrogato sullo scossone giudiziario che fa tremare Palazzo Lombardia. “Dovrò essere un tramite, fare da cuscinetto tra il presidente e la struttura che è molto complessa e tutto il mondo che c’è fuori”. Fresca di nomina, sapeva già cosa fare Giulia Martinelli, ex compagna del leader della Lega Matteo Salvini, attuale capo segretaria del presidente Fontana. Da un anno circa è la sua colonna portante. Non indagata, nelle carte figura una sola volta ma fondamentale per il destino di questa storia. Per il presunto corruttore Gioacchino Caianiello, ras varesino di Forza Italia, è la “ cacacazzi”, tra le figure che si sarebbero opposte alle pressioni per mandare in porto una nomina a lui gradita in Regione, la cui contropartita era l’ingresso nella società autostradale Serravalle del socio di studio di Fontana, Luca Marsico, trombato alle Regionali 2018 con Forza Italia.

L’incarico-paracadute di presidente dell’organismo di vigilanza salterà, avrà però quello di componente del Nucleo di valutazione degli investimenti pubblici della Regione. Incarico da 11.500 euro l’anno più 185 euro come gettone di presenza per ogni seduta per il quale Fontana oggi risulta indagato. Martinelli concorre dunque a deviare la storia. Del resto ha una certa scorza. Da tempo non è più solo la “ex” del Capo da cui ha avuto la secondogenita Mirta. Dipendente dell’Ats di Milano in aspettativa, in Regione è arrivata da anni con Maria Cristina Cantù oggi vicepresidente della commissione sanità in Senato e un tempo signora di ferro della sanità lombarda. Ha poi lavorato con Francesca Brianza, ex collaboratrice dello studio di Fontana che fu assessore all’autonomia con Maroni. Esclusa dalla giunta attuale, la Brianza è stata “risarcita” con il ruolo di vicepresidente del consiglio al Pirellone.

In giunta invece è entrato Davide Caparini, ex parlamentare di lungo corso della Lega e uomo di fiducia di Fontana, oggi assessore al Bilancio della Regione al posto del sottosegretario al Mef Massimo Garavaglia. Il suo nome è da sempre legato a Radio Padania, storica emittente di partito che ha contribuito a fondare oggi insidiata dai Cinque Stelle. Riuscì nell’impresa di proporre l’abolizione del canone Rai, ma al tempo stesso di riconoscere gratuitamente alla radio (di partito) centinaia di nuove frequenze locali con la cui vendita, anni dopo, l’emittente rimpinguerà le casse. Il suo legame con Fontana muove anche dall’esperienza nella comunicazione: lasciata la poltrona romana, Caparini non si è candidato alle regionali ma è stato molto attivo nella sua campagna elettorale, tanto da essere poi scelto come l’uomo che tiene i cordoni della borsa nella regione più ricca d’Italia. Ascoltatissimo da Fontana, in questi giorni ha in mano la delicata partita della nomina del direttore generale della cassaforte Finlombarda.

C’è poi un “compagno” nel cuore della Regione a guida leghista. Si tratta di Pier Attilio Superti, ex segretario dei Ds a Cremona, capogruppo in consiglio comunale e poi semplice attivista. La sua è una poltrona prestigiosa quanto delicata: vicesegretario generale, uomo-macchina dell’organigramma. I due si sono conosciuti in Anci Lombardia, quando uno era presidente e l’altro segretario. Per le cronache della formazione della giunta di un anno fa, era una delle poltrone su cui Fontana esercitò il diritto di prelazione, togliendola dal gioco di danze, mediazioni e pressioni. Che per altre – come racconta l’inchiesta – non sono mai finite.

L’incarico pilotato all’ex socio inguaia il governatore Fontana

C’è una intercettazione da cui ripartire per comprendere come nasce e si sviluppa la vicenda che ha portato il presidente della Regione Lombardia a essere indagato per abuso d’ufficio. Il caso, ormai noto, è quello dell’incarico affidato all’avvocato Luca Marsico, ex socio di studio di Attilio Fontana, che lunedì sarà interrogato dai pm. Siamo a metà aprile del 2018 e da un mese Nino Caianiello detto “Jurassic park”, già coordinatore di Forza Italia a Varese e ras della politica lombarda, si sta dando da fare per risolvere il problema al governatore. Un progetto che gli varrà l’accusa di istigazione alla corruzione. Luca Marsico non è stato rieletto in Regione. Da qui la necessità di Fontana di trovargli una collocazione. Più volte Caianiello parla con Fontana che pare però avere dei dubbi. Tanto che ad aprile dirà a Caianiello: “Anch’io sto andando avanti in un’altra direzione quando poi ti dico mettiamo insieme le due cose e vediamo (…) va molto bene, io ti ripeto comunque ho voluto percorrere un’altra strada in modo che abbiamo delle alternative, poi insieme ci troviamo e decidiamo quale sia la migliore (…) io dovrei avere una risposta definitiva per la mia cosa, così ti ripeto confrontiamo le due ipotesi e vediamo quale sia la migliore o magari tutte e due vediamo”.

Per settimane il piano di Fontana resta un mistero. Poi alcune intercettazioni, successive alla richiesta di arresto, svelano tutto. A parlarne è sempre Caianiello che mette in fila le cose. Spiega dell’incarico affidato a Marsico all’interno del Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici con stipendio annuo di 11.500 euro e gettoni di presenza da 185 euro. Fontana, dunque, prende l’altra strada rispetto a quella prospettata da Caianiello e che prevedeva di dare corpose consulenze allo studio legale di Marsico e farle arrivare da un ente provinciale (Afol) e dunque del tutto estraneo alla Regione. Del suo piano illecito Cainiello parla anche con Matteo Bianchi, segretario provinciale della Lega a Varese e attuale parlamentare del Carroccio. “Ma scusa – chiede Bianchi – il Luca ha problemi di soldi o ha un problema di visibilità politica?!”. Risponde Caianiello: “Visibilità politica Luca ormai è morto, ha problemi di soldi”. C’è poi una terza strada: nominare Marsico presidente dell’organo di vigilanza della Milano Serravalle. “Gallera – dice Caianiello – gli ha trovato ’sta soluzione”. Soluzione fatta saltare da Forza Italia. Si arriva così ad ottobre. E l’unica via perseguibile sarà quella accennata dallo stesso Fontana.

Il 24 ottobre si riunisce la giunta per decidere i dodici componenti esterni del Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici. Il proponente risulta essere lo stesso Fontana. La delibera di giunta viene approvata. Tra i presenti, oltre a Fontana, anche l’assessore al Welfare, Giulio Gallera. Tutti, si legge nel documento, hanno trovato “una convergenza sui candidati da nominare”. In più si legge che “dai curricula e dalle dichiarazioni rese dei soggetti individuati (…) emerge la sussistenza dei requisiti richiesti e la mancanza di cause ostative alla nomina, di incompatibilità e di conflitti di interesse”. Tutti gli assessori regionali, più presidente e vicepresidente, non rilevano conflitti d’interessi nella nomina di Marsico. È un dato importante e si scontra con la ricostruzione della Procura che nella nomina dell’ex socio di studio di Fontana vede una rilevanza penale chiara. L’accusa è l’abuso d’ufficio. Un’imputazione, è stato spiegato ieri in Procura, che segue due direzioni. La prima riguarda il principio di imparzialità che, secondo l’accusa, è stato violato perché quel posto non era di nomina “fiduciaria” ma è passato per un avviso pubblico a cui avevano partecipato circa 60 persone. La seconda riguarda la violazione del dovere di astensione per conflitto di interessi, anche se il governatore dopo l’elezione al Pirellone aveva ceduto le sue quote dello studio alla figlia.

Dopo aver ascoltato Caianiello, i magistrati si mettono a cercare la nomina di Marsico. La troveranno sabato scorso. Da qui l’iscrizione di Fontana nel registro degli indagati che risale almeno al giorno prima degli arresti. Agli atti viene anche allegata la delibera di giunta. Marisco, oltre alla nomina, nel 2018 ha incassato 8 mila euro di consulenza per “revisione e procedure di audit”. L’incarico, non menzionato nel capo di imputazione provvisorio, arriva da Trenord società controllata da Ferrovie nord e quindi anche dalla Regione. A darglielo il direttore dell’Internal audit nonché consigliere del Cda. Insomma c’è molto da scoprire. Da mesi in Regione gira voce di possibili indagini. Chi abbia fatto filtrare le notizie è un mistero. Fontana sapeva da giorni. Tanto da presentarsi dal procuratore Francesco Greco per chiedere conferme. E se Fontana è indagato, Marsico non lo è. I due restano legati. A febbraio Marsico con Fontana e Paolo Grimoldi, numero due di Salvini, ha dato vita al movimento Lombardia Ideale.

La sindaca senza Stato

Siccome siamo in Italia, tutti si domandano se sia il caso di impedire ai fascisti (di Casa Pound e non solo) di fare cose lecite, tipo aprire una casa editrice, pubblicare un libro di Salvini, allestire uno stand al Salone di Torino. Intanto i fascisti (di Casa Pound e non solo) continuano indisturbati e impuniti a fare cose illecite: tipo occupare un palazzo del Demanio da 15 anni in via Napoleone III a Roma. O scatenare rivolte, gazzarre e spedizioni punitive contro rom e migranti. E ora addirittura assediare e minacciare (“Troia, ti stupro”, “Vi vogliamo vedere tutti impiccati”, “Bruciamoli vivi”) per tre giorni una famiglia di nomadi bosniaci – madre, padre e due bimbi – “colpevoli” di aver preso possesso di una casa popolare a Casal Bruciato, regolarmente assegnata dal Comune in base alle leggi vigenti: un bando di Alemanno (!) del 2012. E ieri circondare e insultare Virginia Raggi, con epiteti di cui i più gentili sono “mafiosa” e “schifosa”, per aver osato portare la solidarietà del Comune a quegli sventurati e affermare il loro sacrosanto diritto a un alloggio popolare legalmente ottenuto. Con la sindaca, che li ha invitati a resistere alla paura e alla tentazione di tornare nei campi, c’erano i vigili urbani che li sfamano durante l’assedio, nonché il direttore e i volontari Caritas, e il vescovo Gianpiero Palmieri. Che ha dichiarato, anche lui fra gli insulti: “È una brava famiglia che lavora, persone oneste. Se neanche una famiglia così riesce a essere integrata, non si sa come si può fare. Prima di arrivare dicevano di voler dare una festa con tutto il condominio, ma il primo giorno nella nuova casa i bambini l’hanno passato abbracciati in un angolo”.

“Questa famiglia – ha tentato di spiegare la sindaca, fra urli, improperi e minacce – risulta legittima assegnataria di un alloggio. Ha diritto di entrare e la legge si rispetta. Siamo andati a conoscerli e sono terrorizzati. Abbiamo avuto modo di farli conoscere ad alcuni condòmini. Chi insulta i bambini e minaccia di stuprare le donne dovrebbe farsi un esame di coscienza. Non è questa una società in cui si può continuare a vivere”. I media continuano a spacciare il tutto come “guerra tra poveri”. Ma questa è una guerra fra legalità e sopruso, fra chi rispetta le regole e chi vuole sostituirle con la legge del più forte. E il nuovo prefetto Gerarda Pantalone dovrebbe spiegare perché quei due bimbi coi loro genitori devono vivere questo inferno. Perché il presidio eversivo sotto casa non viene sciolto dalle forze dell’ordine. Perché manipoli di trogloditi senza capelli e senza cervello possono terrorizzare impunemente quei cittadini onesti.

Già, perché quei rom non c’entrano nulla con altri dediti a furti, accattonaggi e sfruttamenti di minori (tutti reati da perseguire). In quale Paese, in quale capitale d’Europa, sarebbe consentito a orde di facinorosi di intimidire una sindaca, un vescovo, volontari, sindacalisti impegnati sul diritto alla casa, aizzare all’odio e alla violenza interi quartieri senza che arrivi qualcuno in divisa a disperderli con le buone o le cattive e ad accompagnare in guardina chi commette reati? Non in nome dell’antifascismo, ma dello Stato. Che ha un Codice penale. Che, con buona pace di Salvini, vale dappertutto e per tutti. Di Maio si è infuriato con la sindaca, che gli avrebbe rovinato la vittoria sul caso Siri a 18 giorni dal voto, dando modo a Salvini di riattaccare la solita solfa sui rom. Ma questo è il momento dei segnali forti, e quello dato ieri dalla Raggi deve rendere orgogliosi i romani e il M5S: come quello dell’altra sindaca Chiara Appendino che, col plauso di Di Maio, ha denunciato insieme al governatore Chiamparino l’editore di Casa Pound per apologia del fascismo. A Roma il ricollocamento dei rom sul territorio risponde a una scelta della giunta – superare i campi – che non solo è sacrosanta, ma pure imposta dall’Ue che ha condannato l’Italia per violazione delle norme che proibiscono i centri di raccolta su base etnica. Anche se Veltroni li chiamava “Villaggi della solidarietà” e Alemanno “Villaggi attrezzati”.

La famiglia di Casal Bruciato viene da 20 anni nella baraccopoli della Barbuta e ha accettato la proposta del Comune, che però fatica a ricollocare gli altri 500 rom nei quartieri per il sistematico sabotaggio fascio- razzista, che fa leva sul disagio dei residenti. Questi, abbandonati dalle istituzioni dalla notte dei tempi, hanno ragione di diffidare, anche alla luce delle molte situazioni di illegalità e degrado di cui si macchiano molti rom. Ma andrebbero aiutati a capire che i nomadi sono in gran parte italiani o comunitari, dunque non esistono soluzioni per farli sparire dalla loro vista: se nessuno vuole i ghetti incontrollabili, l’unica alternativa sono i ricollocamenti a piccoli nuclei, per rendere meno traumatico l’impatto sociale. E una repressione severa e costante dei reati: dei rom che delinquono e degli anti-rom che pescano nel torbido. La Raggi ci ha messo la faccia, e a caro prezzo, come già con gli abbattimenti delle case abusive del clan nomade Casamonica. E accanto a lei avrebbe dovuto avere il ministro dell’Interno. Ma Salvini ha sempre di peggio da fare che occuparsi del suo dovere d’ufficio: molto meglio sbraitare “basta rom”, senza indicare uno straccio di soluzione praticabile. Nella speranza di far dimenticare il suo precedessore e compagno di partito Bobo Maroni, che dal Viminale finanziava, su richiesta di Alemanno, i campi nomadi con 30 milioni l’anno, per la gioia di Mafia Capitale. Dunque la prossima volta, accanto ai rom onesti e alla sindaca che difende i principi di legalità e di umanità contro il sopruso e il razzismo, dovrebbe esserci Di Maio. Anche a costo di perdere qualche voto. La legalità e l’umanità sono molto più importanti di qualsiasi elezione e di qualunque sondaggio.

I bei tempi degli spaghetti-western in salsa catalana. Altro che America

“Passeranno più di vent’anni, molti di più, nella tua bocca ci sarà sempre il mio sapore”. Un signore canuto e corpulento canticchia Sabor guidando su una strada solitaria, finché non viene inghiottito dalla sua stessa gioventù: tra lande bruciate dal sole e calcinate dagli uomini, si ritrova a combattere all’ultimo sangue, pardon, all’ultima pallottola. Di anni, in effetti, ne sono passati molti di più, da quando Alberto Gadea cadeva a soggetto: dalla diligenza, per esempio, e una volta gettandosi lateralmente anziché dietro si ruppe il polso. Nondimeno, il giorno dopo era al suo posto sul set: capo degli stuntman.

Un’altra epoca, e un altro cinema: a Esplugas City, un villaggio western ricostruito a una decina di chilometri da Barcellona, Gadea girò una cinquantina di film. Con lui tanti altri, e più celebri, cineasti: registi quali Duccio Tessari o Alberto De Martino, guest star sui generis del calibro di Klaus Kinski, campioni di specialità come Fernando Sancho, Giuliano Gemma, Van Heflin e Broderick Crawford. E la specialità era il western, meglio, la ricetta catalana degli spaghetti western: già, il Far West americano non trovò copia – labilmente – conforme solo nel deserto dell’Almeria o nel madrileno Hoyo de Manzanres, Esplugues de Llobregat tenne alta la testa, forte della coproduzione con l’Italia e di una ammirevole coazione a ripetere. Nel 1964 i fratelli Balcázar, in sinergia con la Fida Cinematografica di Edmondo Amati, filmarono Pistoleros de Arizona, da noi 5.000 dollari sull’asso, e sarebbero probabilmente andati avanti all’infinito, se nel 1972 Francisco Franco non avesse terminato per decreto quell’esperienza.

Nutrita di titoli temerari, da Crónica de un atraco – da Trieste in giù La lunga notte di Tombstone – per la regia di Jaime Jesús Balcázar a Le llamaban Calamidad del fratello Alfonso, foraggiata di poco denaro e tanta passione: “I film sono fatti per amore, non per denaro”, che suona da epitaffio.

A rintracciare quel piccolo mondo antico di Esplugas City è Goodbye Ringo, il documentario diretto dal catalano Pere Marzo che dà voce a superstiti ed eredi, da Gedea allo scomparso Giorgio Capitani, passando per l’attore Paco Marín, il regista Romolo Guerrieri e il produttore Maurizio Amati. Spazio alla nostalgia più canaglia: la voce narrante di Enzo G. Castellari assembla sequenze e memorie, entusiasmi e rimpianti; una citazione de Il ritorno di Ringo (Duccio Tessari, 1965) incornicia la temperie morale, giacché “a nessuno piace morire, sceriffo, ma chi ha paura muore un po’ tante volte, mentre chi non ha paura muore una volta sola”.

Sì, altri tempi, ma non sempre d’oro. Quei cappelli, stivali e fucili vennero derubricati dalla critica coeva a detriti di genere, premessa e promessa di serie B, se non Z: “Johnny Yuma di Romolo Guerrieri è il tipico esempio di questa mistificazione cinematografica casareccia, il pubblico indifeso viene offeso e frustrato col porgergli su un piatto d’argento la sua piccola porzione di alienazione”, e a leggere la stroncatura de L’Unità che ne accompagnò l’uscita nel 1966 è lo stesso Guerrieri. Supportato dai materiali d’archivio dell’Istituto Luce Cinecittà, il doc non intende essere solo un “come eravamo”, ma all’ombra dell’unica residua palma di Esplugas City vuole aprire al ritorno al futuro: un’Europa che faceva di necessità (co)produttiva virtù realizzativa, un cinema che faceva del western stelle & strisce ridenominazione di origine controllata.

Goodbye Ringo chiude questa sera la dodicesima edizione del Festival del Cinema Spagnolo di Roma, diretto da Iris Martin-Peralta e Federico Sartori: dopo la proiezione al Farnese, tavola rotonda con Marzo, Castellari, Guerrieri e il critico Marco Giusti.

“La nostra Transiberiana tra pizza, prog e memoria”

“Arrivava sempre incazzato alle prove. Con il Raccordo intasato, il viaggio da Roma a Marino era sfibrante. Francesco si consolava al forno a legna con un pezzo di pizza bianca. Un giorno si presentò alla Stalla, il nostro studio, con un testo scritto sulla carta oleata. Era ‘Non mi rompete’”.

Una delle meraviglie del Banco del Mutuo Soccorso, caro Vittorio Nocenzi. Che fine ha fatto quel foglio?

Lo buttai, era pieno di macchie. Ma le parole di Francesco si legavano a perfezione con una musica che avevo scritto anni prima, quando ero ragazzo, e che giaceva da allora sul mio pianoforte. Mi era parsa una partitura banale. Ci volle la pizza per farmi capire che la semplicità è la cosa più difficile da esprimere. Non mi è più capitata una magia simile.

Però ora il viaggio del Banco è ripartito. Venticinque anni dopo l’ultimo disco di inediti, ecco Transiberiana, un magnifico concept con il marchio del prog delle stagioni migliori e al tempo stesso innovativo, e una felice struttura narrativa.

Vado verso la luce d’Oriente. C’è un treno che attraversa una terra ostile, resta in panne in mezzo alla neve, i passeggeri subiscono l’assalto dei lupi, si avventurano verso le rovine di un gulag, incontrano uno sciamano, sentono la natura che rinasce sotto il ghiaccio, e infine approdano all’Oceano, che è il nostro Approdo. Saliremo su una barca e scopriremo che quella terrena non è la sola dimensione del nostro essere.

Lo capì, Vittorio, quando due anni fa restò in bilico tra la vita e la morte?

Solo un gran mal di testa. Due settimane di coma, e tre negli ospedali. Mi addolora l’angoscia vissuta in quelle ore critiche dai miei familiari. I medici chiesero a mia moglie il permesso di operarmi al cervello, avvertendola che forse non avrei superato l’intervento. Lei glielo negò, e mi salvò la vita. La prima notte passò.

In Transiberiana c’è un intenso passaggio che evoca una discesa nell’Ade. Impossibile non pensare a Francesco Di Giacomo e Rodolfo Maltese.

È dedicata a loro. Ci parlo sempre, non ho mai elaborato l’evidenza che non ci siano più. Di Francesco mi consola il ricordo dell’ultimo giorno. Guardavamo dalla mia mansarda il mare all’orizzonte. Stavamo scrivendo un pezzo sulla libertà. Lui propose un verso perfetto: “Quando arriverà la libertà avrà un vestito semplice”. Un abitino a fiori preso al mercato, non come nel quadro patriottardo di Delacroix. Dissi a Francesco: “Chissà se anche la morte sarà così”. Mi salutò, e mezz’ora dopo sua moglie mi informò che aveva avuto un incidente. Passai la notte a fissare la poltrona dove si era seduto.

E Rodolfo?

Era più grande di me, ma lo proteggevo come un fratello minore. Lo indussi ad acquistare la casa dove ero nato. Ci visse lui, facendo quattro figli. Era un gentleman. Sopportava persino le discussioni sul calcio.

In Transiberiana Nicola Di Già suona la chitarra acustica di Maltese.

Nicola aveva parlato mille volte con Rudi per carpirne i segreti. Ha chiesto il permesso alla vedova per usare quella chitarra. E io risento il tocco del mio amico.

Invece il nuovo cantante Tony D’Alessio evita di emulare Di Giacomo.

Francesco era inimitabile. Tony ha trovato una sua cifra, i fan lo amano. Il nuovo Banco è un gruppo solido, fatto di sintonia umana oltre che tecnica. Ho provinato sei batteristi, e alla fine ho scelto Fabio Moresco. Prima che mettesse piede in studio gli ho chiesto: “Sai cucinare l’amatriciana?”. Si è rivelato un cuoco provetto. Non voglio integralisti di ogni sorta, se devo far funzionare la band.

Per questo disco ha messo in pausa il lavoro sull’opera “Orlando”.

Una sofferenza, ma era una sfida da accettare. Ho buttato giù la nuova storia, insieme a mio figlio Michelangelo e a Paolo Logli, partendo dal titolo. Poi ho cercato leggerezza, istintività. Rinnovandomi restando me stesso. Ho colto l’imprevisto come una chance. E ho immaginato questa Transiberiana che non ho ancora mai visto. Mi sono sentito come Salgari, che raccontava la Malesia senza mai essersi mosso da casa.

“Boicottaggi da salotto: ci rimettiamo soltanto noi”

“Pubblico le vite e le opere dei più grandi comici anglosassoni, cioè la creme della satira e dell’anti-fascismo, e autori all’80% ebrei. Che dovrei fare, allora? Si va e si va proprio per questo”. Carlo Amatetti (Sagoma editore) si fa portavoce delle esigenze di molti “piccoli” – TerraRossa, D, Kellermann, La Vita Felice, Il Ciliegio, Goodfellas, Lavieri –, che assistono “incazzati” alle defezioni d’autore. “La strumentalità di questo boicottaggio è veramente urticante – prosegue – fascisti e massoni ci sono sempre stati ed è andata bene a tutti”. I valori sono condivisi, il portafogli no: “Io spendo più di 1500 euro per andare a Torino e, se va bene, ne porto a casa 2000. È bello fare le battaglie ideologiche quando non rischi nulla. Prova a combattere quando hai una famiglia. Non ci sentiamo eroi, ma ribadiamo che la vera diversità poggia sulle centinaia di piccole case editrici che si buttano su scommesse donchisciottesche. Poi però arriva qualche benpensante salottiero e decide di boicottare per farsi bello davanti a taccuini e telecamere”.

“L’antifascismo non sia un fascismo al contrario”

Al Salone di Torino io ci sarò. Con un libro. Altri autori hanno fatto una scelta diversa ritenendosi offesi dal fatto che, come scrive Camilla Tagliabue sul Fatto, a questo Salone è presente una casa editrice dichiaratamente fascista, “sovranista e vicino a CasaPound, Altaforte, che ha appena sfornato un libro-intervista a Matteo Salvini e il cui fondatore, Francesco Polacchi, si dice ‘fascista senza problemi’”.

In democrazia ognuno può fare ciò che vuole, nella misura in cui non nuoce agli altri. Per lo stesso motivo, come garantisce l’articolo 21 della Costituzione, ognuno ha diritto di esprimere liberamente le proprie idee per quanto aberranti possano apparire al pensiero contemporaneo. L’unico discrimine è che nessuna idea, buona o sbagliata che sia, può essere fatta valere con la violenza. Invece dai garantisti un tanto al chilo, che non hanno nemmeno l’idea di che cosa sia un regime liberale e democratico, si invocano le manette contro idee, fasciste, “sovraniste” e, sia pure in modo indiretto, contro Matteo Salvini che ha pubblicato un libro-intervista con Altaforte.

Non so se costoro si rendono conto del vaso di Pandora che stanno aprendo. Quando si viola un principio di libertà, anche con le migliori intenzioni di cui peraltro è lastricato l’inferno, si sa dove si comincia ma non dove si finisce. Si parte con Altaforte, si prosegue col “sovranismo”, si arriva a Matteo Salvini che, se non sbaglio, è viceministro del nostro Paese, mentre alle ultime elezioni politiche il suo partito, la Lega, ha ricevuto il 17 per cento dei consensi. Se non erro il consenso è l’essenza stessa della democrazia. Andando avanti di questo passo si potrebbero mettere fuori legge i Cinque Stelle che sono alleati con Salvini che ha scritto un libro per Altaforte che è vicina a CasaPound e che ha un editore che si dichiara fascista. Ma si può andare anche oltre.

Il quotidiano il manifesto è esplicitamente comunista e il comunismo, come il fascismo, è considerato dalla communis opinion di oggi uno degli orrori del Novecento. Poi potrebbe toccare ai centri sociali che certamente sono antifascisti, ma altrettanto certamente si richiamano, con diverse declinazioni, al comunismo.

Oggi, se vogliamo utilizzare queste terminologie che dovrebbero essere obsolete e catacombali, i veri fascisti sono quegli antifascisti che vogliono proibire agli altri, che hanno diversa opinione, di esprimersi. Che è esattamente la concezione illiberale che aveva il fascismo storico. Molti, in questo Paese, non hanno mai capito che l’antifascismo non è un fascismo di segno contrario, ma il contrario del fascismo. E purtroppo continuano a dare ragione al fulminante aforisma di Mino Maccari: “I fascisti si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti”.

Apologia, reato difficile da punire

Reato a targhe alterne. Il fascismo in Italia è uno dei misteri della giurisprudenza. Per il saluto romano si trovano giudici che ti condannano e altri che ti assolvono. Chi esalta il fascismo a volte è perdonato e altre no. A dare del fascista oggi vieni punito e domani no.

Eppure le norme che dovrebbero mettere un freno ai nostalgici di nonno Benito sono tante. A cominciare dalla XII disposizione transitoria della Costituzione: “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Poi arrivò la legge Scelba, tanto famosa quanto poco applicata. All’articolo 1, definendo la ‘riorganizzazione del disciolto partito fascista’, cita “associazioni, movimenti o comunque gruppi di persone” (almeno 5) che perseguono “finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica”. È punito “chiunque promuova od organizzi sotto qualsiasi forma, la costituzione di un’associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità di riorganizzazione del disciolto partito fascista”, ma anche chi “pubblicamente esalti esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche”. La pena va dai 18 mesi ai 4 anni. Sulla carta. Ma le cronache riferiscono un fiorire di saluti romani, di dichiarazioni che giocano sull’ambiguità. Nella passata legislatura Emanuele Fiano (Pd) aveva proposto un giro di vite: il testo prevedeva perseguibilità della propaganda del regime fascista fatta con immagini e contenuti di cui sarebbero state anche vietate la produzione o la vendita. Proibito fare il saluto fascista e mostrare in pubblico i simboli del fascismo (con l’aggravante se avviene su internet). Com’è finita? “La legge era passata alla Camera, ma prima che arrivasse il ‘sì’ al Senato era terminata la legislatura”, racconta Fiano. Che però assicura: “Presto ripresenterò il testo. Sono curioso di vedere come voterà il M5S che oggi pare diventato molto più attento alle istanze antifasciste”.

Pd e 5 Stelle uniti per far fuori l’editore di CasaPound

Dall’esposizione all’esposto, dalla fiera alla Procura: il dibattito sulla presenza al Salone di Altaforte, casa editrice squisitamente fascista, sta virando in chiave giurisprudenziale, dopo la denuncia che hanno deciso ieri di presentare la Regione Piemonte e la Città di Torino, “main sponsor” – chiamiamoli così – della kermesse culturale.

Mentre gli intellettuali ancora si dividono su chi andrà e chi boicotterà il Lingotto – Saviano ci sarà, il Museo di Auschwitz-Birkenau e la sopravvissuta Halina Birenbaum no –, la politica fa politica, e si è mossa. Sia il presidente Sergio Chiamparino sia la sindaca Chiara Appendino “ritengono il rappresentante della casa editrice Altaforte – Francesco Polacchi – e la sua attività professionale nel campo dell’editoria estranee allo spirito del Salone del libro e, inoltre, intravvedono nelle sue dichiarazioni pubbliche una possibile violazione delle leggi dello Stato”: perciò, lo denunceranno in queste ore per apologia di fascismo, “alla luce delle dichiarazioni rilasciate a mezzo stampa e attraverso emittenti radiofoniche” (un esempio su tutti: “L’antifascismo è il vero male di questo Paese”). La decisione – si legge sempre nella nota congiunta – è stata “assunta nella convinzione che anche la forma più radicale dell’intolleranza vada contrastata con le armi della democrazia e dello stato di diritto”.

Ora saranno i magistrati a “valutare se sussistano i presupposti per rilevare il reato di apologia di fascismo e la violazione di quanto disposto dalla legge Mancino 305 del 1993 e, nello specifico, l’articolo 4 che prevede venga punito chi ‘pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche’”. Venerdì, tra l’altro, Polacchi – già protagonista della guerriglia in piazza Navona a Roma nel 2008 – è convocato in tribunale a Milano perché indagato per un pestaggio del 2017: i suoi pugni, infatti, avrebbero provocato traumi, spondilosi e distorsioni ai due ragazzi aggrediti.

Come Polacchi sia riuscito a imbucarsi alla kermesse è presto detto: non ci sono filtri etici, o quantomeno una valutazione di opportunità, rispetto alle domande di partecipazione degli editori. Il Comitato d’indirizzo (di cui fanno parte Maurizia Rebola/Circolo dei lettori, Silvio Viale/Associazione Torino Città del Libro, Antonella Parigi/Regione Piemonte, Francesca Leon/Città di Torino, Marco Zapparoli/Adei, Enzo Borio/Aib, Ricardo Franco Levi/Aie, Paolo Ambrosini/Ali, Giovanni Fariello/Sil) – ci spiega una fonte interna – “ha scoperto di Altaforte solo il 1° maggio, quando è scoppiata la polemica sui giornali. Non si può fare lo screening a ogni editore. Si verifica solo che sia regolarmente iscritto alla camera di commercio, che non abbia pendenze penali, che paghi i contributi… C’è un ufficio commerciale che vaglia le domande e non può certo porsi questioni ideologiche: sarebbe preoccupante il contrario. Negli anni passati al Salone si sono iscritti altri, pochi per fortuna, editori di estrema destra: non è il primo. E questo succede in tutte le fiere librarie del mondo. Non esiste un comitato etico, altra cosa invece è la programmazione culturale”.

Anche il ministro dei Beni culturali Alberto Bonisoli, altro sostenitore della fiera, si è richiamato alla “legge che vieta l’apologia di fascismo… In questo momento i toni si sono alzati. La nostra è una Repubblica che ha come punto fondamentale un progetto culturale antifascista. Per me essere democratico vuole dire combattere affinché idee lontanissime dalla mia si possano esprimere. Nel caso specifico però c’è un quadro legislativo molto chiaro che protegge la nostra Repubblica dall’apologia di fascismo… Valuterà la magistratura”.

Dallo stesso Lingotto è arrivato, poi, un appello all’unità: “Questa esperienza deve unirci, non dividerci. Il Salone è un luogo di scambio, di confronto, di condivisione, di festa. Nel centenario di Primo Levi, la comunità si raccoglierà una volta ancora per discutere di democrazia, di Europa, di convivenza, di immigrazione, di letteratura, del restare umani in un mondo difficile”. Nel comunicato si chiede, infine, a tutti di “abitare con convinzione quella stessa casa (il Salone) per farla durare, e darle spazio”. Chiudeva così Italo Calvino le sue Città invisibili: una citazione forse scaramantica perché Torino non diventi, in questi giorni, invisibile, o peggio invivibile.

La stretta di Glovo sui rider: ridotte le fasce orarie a compenso minimo

Altro che salario fisso previsto dal contratto di lavoro della logistica: da domani, i fattorini che trasportano il cibo a domicilio per Glovo saranno pagati interamente, o quasi, a consegna. La piattaforma spagnola ha cancellato, o in alcuni casi ridotto, le fasce orarie nelle quali garantiva retribuzioni minime a prescindere dalle corse effettuate. Lo fanno notare le associazioni dei rider, parlando di ennesimo peggioramento delle loro condizioni.

“L‘azienda – scrive Deliverance Project – è riuscita, almeno a Torino, a raggiungere un nuovo livello di sfruttamento. Fino a ieri in determinate fasce orarie avevamo una magra consolazione nel caso non arrivassero ordini: il pagamento di un minimo garantito, cioè 4,40 euro”. Un modo per spingere i fattorini ad accettare i turni durante i quali le consegne scarseggiano evitando di restare senza manodopera. “Vista la sete di profitto dei nostri padroni – prosegue l’associazione – anche queste fasce orarie sono state quasi del tutto eliminate. Dal 9 maggio gli orari in cui sarà garantito un minimo saranno i primi due slot del mattino (dalle 8 alle 10) e l’ultimo la sera (da mezzanotte all’una). E per non sbagliare, il pagamento è stato diminuito a 3,20 euro”. A Bologna è andata peggio e i segmenti con i compensi di base sono stati proprio rimossi. “All’esordio della piattaforma a Bologna – ricordano da Riders Union – il minimo esisteva sempre ed era di 6,40 euro netti; a febbraio del 2018 ci fu un peggioramento drastico, con alcuni slot pagati solo a cottimo e altri in cui sussisteva il minimo ridotto a 4,4 euro netti”.

A gennaio la Corte d’Appello di Torino ha stabilito che i rider hanno diritto alla paga oraria del contratto nazionale della logistica. Le aziende non si sono adeguate, sperando in un ribaltamento in Cassazione. Quasi tutte applicano un cottimo misto, con tariffe che variano in base alle distanze percorse, sistema che costringe gli addetti a pedalare in fretta per aumentare i guadagni. In attesa che il governo costringa le app a recepire le indicazioni dei magistrati attraverso la legge promessa ai sindacati dei fattorini. Le trattative tra aziende e sindacati portate avanti tra giugno e dicembre si sono chiuse con un nulla di fatto. Nonostante il tentativo del ministro Luigi Di Maio, le condizioni applicate a questa categoria sono addirittura peggiorate nel tempo. A novembre c’è stata l’uscita di scena di Foodora, una delle poche che firmava contratti di collaborazione con i rider, anziché inquadrarli come lavoratori autonomi. Poi c’è stato il progressivo abbandono dei pagamenti orari in favore di quelli “a prestazione”. Quello di Glovo è solo l’ultimo caso.