Dopo l’11 settembre ebbe una certa fortuna il libro di Paul Berman sul “fascismo islamico”: una sintesi che si è rivelata assurda, col passare del tempo. Ma qui in Occidente “fascista” è diventata l’etichetta di ogni male supremo, invece che una categoria precisa dell’analisi politica. Per questo è utile il libro dello storico argentino (ma ottimo conoscitore dell’Italia) Federico Finchelstein. La sua stesi è che il fascismo è un’esperienza ben definita e delimitata nel tempo. E il populismo – da Donald Trump a Matteo Salvini ai Cinque Stelle – è un’altra cosa. Quando nel 1945 il fascismo ha perso, certe spinte sono state incanalate nel gioco democratico. E il populismo è la pulsione verso una “democrazia autoritaria” che non necessariamente prelude al fascismo. Il populismo però tende a una verisone “autoritaria” della democrazia. Mentre i politologi inseguono da 50 anni la definizione perfetta di populismo, Finchelstein vuole aggiungere un po’ di storia al dibattito. Un esercizio molto utile.
La cura che creò il malato. L’origine della crisi italiana
La verità viene lentamente a galla. La narrazione che viene dai Paesi d’oltralpe è di un’Italia fiscalmente dissoluta. Tale immagine viene purtroppo condivisa anche da parte dell’establishment nostrano, particolarmente nell’area del centrosinistra, che vede nel debito pubblico il nemico numero uno. Un post e un articolo di un noto economista olandese, Servaas Storm, appena pubblicati, ci raccontano un’altra storia (“Come rovinare un Paese in tre decadi” e “Perduto nella deflazione”, scaricabili dall’Institute for New Economic Thinking).
La sua tesi è che l’Italia sia stata la più ligia alle regole europee sui conti pubblici e, proprio per questo, abbia ottenuto il doppio insuccesso di non sanarli pur al prezzo della mortificazione di domanda interna, occupazione e crescita. La progressiva flessibilizzazione del mercato del lavoro, inoltre, ha influito negativamente sui salari reali; questo, assieme a un tasso di cambio reale sopravvalutato grazie all’euro, ha ulteriormente depresso la domanda per i prodotti italiani. L’Italia, scrive Storm, “può ben essere definita la prima della classe dell’Eurozona, in quanto ha radicalmente trasformato la sua politica economica – abbandonando la sua economia mista, riducendo i suoi sistemi sanitario e pensionistico, liberalizzando i sistemi finanziario e industriale, e limitando il controllo democratico e parlamentare sulle sue politiche macroeconomiche”. I dati dello sforzo fiscale italiano sono impressionanti, esemplificati dalla dimensione dei surplus di bilancio primari – la differenza fra entrate e uscite dello Stato al netto del pagamento degli interessi.
Questi surplus indicano il sacrificio degli italiani sull’altare del “risanamento” poiché misurano quanto essi hanno pagato in tasse rispetto a quanto hanno ricevuto in cambio come servizi pubblici. Per esempio, in media dal 1995 al 2008 i surplus primari sono stati del 3% del Pil contro deficit primari della Francia dello 0,1% e surplus tedeschi dello 0,7%. I surplus italiani depressero la crescita, vanificando in buona misura lo sforzo fiscale – anche per i tassi di interesse che, sebbene in discesa, erano comunque più elevati che nel resto dell’eurozona. Lo sforzo, comunque, portò a una discesa del rapporto debito pubblico in rapporto al Pil dal 117% del 1994 al di sotto del 100% nel 2007. Nonostante la crisi, nel periodo 2008-18 il surplus primario è stato superiore in media all’1,3%, e del 2% sotto Monti il quale ammise che esso stava “effettivamente distruggendo la domanda interna”. Assieme allo sciagurato ritardo della Bce nel sostegno ai debiti sovrani – cominciato solo col famoso annuncio di Draghi dell’estate 2012 – queste politiche riportarono il debito pubblico verso il 130% del Pil. La Francia adottò nel frattempo politiche di deficit primari, e all’inizio lo fece anche la Germania. Per dare un’idea: nella decade post-2008 la Francia ha espanso la domanda di 461 miliardi di euro (a prezzi 2010), i governi italiani l’hanno contratta per 227 miliardi. Tutte queste politiche, dal 1995 in poi, sono responsabili del crollo di investimenti e produttività. Loro, e non le “mancate riforme”.
Storm non è voce completamente isolata. Lo scorso anno David Folkerts-Landau, capo economista della Deutsche Bank scrisse che “contrariamente a un diffuso pregiudizio, l’Italia è stato un Paese frugale”. Si potrà però dire che non sia sempre stato così. Nel 1979 l’Italia aderì al Sistema monetario europeo, un sistema di cambi fissi, con l’idea di abbattere il modello inflazione-svalutazione che, sostanzialmente, accomodava un’elevata conflittualità sindacale. Un mio paper con Gennaro Zezza (Farsi male da soli) mostra che la perdita di competitività esterna che ne conseguì si riverberò negativamente sul debito pubblico: direttamente perché mortificò domanda per i prodotti italiani e quindi reddito ed entrate fiscali; indirettamente a causa degli alti tassi di interesse che cominciammo a pagare per attirare i capitali necessari a finanziare i disavanzi esterni.
Per evitare la crescita del debito, i governi avrebbero dovuto contrarre la spesa, ma ciò avrebbe ulteriormente depresso la crescita. Il famigerato CAF (Craxi-Andreotti-Forlani) non lo fece, e lasciò crescere il debito purché la barca continuasse ad andare, come si espresse Craxi. Come ha scritto Stiglitz, la ricerca della disciplina esterna può condurre a disavanzi esteri e successivamente a disavanzi fiscali per difendere l’occupazione. Con l’euro si è stati più coerenti abbattendo, almeno all’inizio, il debito e sacrificando la crescita. Attualmente siamo nel peggiore dei due mondi. La lezione è che gli autoimposti “vincoli esteri” conducono al disastro e che il Paese dovrebbe imparare a regolarsi da solo. Tuttavia, oggi come ieri non lo sa fare. Ma c’è qualcosa di concreto che si potrebbe proporre?
Folkerts-Landau riprende una proposta che da tempo è stata avanzata in Italia: un patto fra Italia ed Europa volto a una drastica riduzione dei tassi di interesse sul debito pubblico italiano (saliti nell’ultimo anno a livelli ingiustificati) in cambio della stabilizzazione del rapporto debito/Pil.
Con tassi bassi, diciamo al livello francese, i risparmi di spesa consentirebbero politiche di disavanzi primari e un po’ di crescita, pur stabilizzando quel rapporto (per il quale non c’è un numero magico). Le forme istituzionali del patto andrebbero definite, ma non vediamo altra via d’uscita da questa pena senza fine.
Sul Tav di Torino persino “Report” si allea a chi vuole il grande spreco
Report, la trasmissione di Rai3, ha cambiato idea. Era No-Tav, un tempo. Adesso, nella nuova era dell’alleanza Lega-Fi-Pd-Confindustria, nella puntata di lunedì ha accusato chi ha fatto la valutazione costi benefici per il ministero dei Trasporti che boccia il progetto di essere venduto agli interessi delle autostrade (peccato che l’analisi denunci come grave problema l’eccesso dei pedaggi al coordinatore dell’analisi Autostrade abbia fatto causa per danni per averlo dichiarato in una trasmissione, quando c’era ancora Milena Gabanelli). Poi il coordinatore stesso è risultato un cinico economista favorevole la lavoro minorile, perché aveva fatto osservare che andare a Parigi in aereo anche se si facesse quel tunnel costerebbe meno e ci vorrebbe meno tempo. La logica della gentile intervistatrice è apparsa ferrea: se si scelgono le soluzioni meno costose, alla fine si finisce per sfruttare anche i bambini.
Poi Report ha obiettato che non bisogna tener conto, nei calcoli, della perdita di entrate per lo Stato (cala il gettito delle tasse sui carburanti, se una parte del traffico si sposta sul treno). Curioso ragionamento: ma non siamo in una situazione di soldi pubblici paurosamente scarsi? Per quel tunnel pare che ogni sacrificio pubblico debba essere lecito.
Il tunnel attuale è insicuro, osserva Report, perché a una sola canna. Metterlo in sicurezza costerebbe comunque un decimo che farne uno nuovo. E i tunnel ferroviari italiani sono in genere a una sola canna, compresi quelli dell’Alta Velocità. Ma nessuno se ne preoccupa.
Dulcis in fundo, nella trasmissione: il Tav è un anello di un corridoio ferroviario europeo. Peccato che quel corridoio è morto e sepolto due anni fa, quando i francesi, a motivo dallo scarso traffico previsto nella tratta dall’uscita del tunnel a Lione, hanno deciso che fino al 2038 loro non spenderanno un euro. Dopo si vedrà.
*Coordinatore del gruppo di esperti che ha redatto l’analisi costi-benefici sul Tav Torino-Lione
Operai spiati dal regime, il Brasile indaga su Fiat
La Procura federale dello Stato di Minas Gerais (regione vicina a Rio de Janeiro) ha aperto un’inchiesta civile sulla Fiat in Brasile, che aveva una fabbrica a Betim, in quella regione, per indagare sulla collaborazione dell’azienda con gli organi repressivi di stato durante la dittatura militare brasiliana (1964-1985) e sulle violazioni dei diritti umani. L’iniziativa si basa sulle informazioni riportate dall’inchiesta giornalistica “145 spie“ pubblicata da The Intercept Brasil e in Italia dal Fatto il 25 febbraio scorso, che ha denunciato la rete di spionaggio interno alla Fiat e la collaborazione dell’azienda italiana con l’esercito per reprimere il movimento sindacale che si stava formando tra i suoi operai.
In una lunga indagine durata più di un anno, The Intercept ha rivelato, grazie a documenti inediti trovati negli archivi italiani e brasiliani e a interviste a ex dipendenti della casa automobilistica di entrambi i paesi, come la Fiat spiasse gli operai e collaborasse con il governo militare in cambio di informazioni sul movimento sindacale. Le operazioni erano guidate da Joffre Mario Klein, un colonnello della riserva dell’esercito.
Nel fascicolo il procuratore Tarcisio Henriques Filho, a capo dell’indagine, ha sottolineato che la relazione della Commissione Nazionale per la Verità (Cnv) ha evidenziato “come i lavoratori e il loro movimento sindacale fossero l’obiettivo primario del colpo di stato del 1964”, e come “l’alleanza affari e polizia, nata durante il periodo precedente, fosse divenuta un’alleanza tra affari, polizia e militari, definendo un nuovo regime di collaborazione in fabbrica”. Secondo la Commissione “c’erano agenti per la repressione infiltrati tra gli operai, in stretta collaborazione con la nuova burocrazia sindacale e gli organi repressivi, che fornivano delle ‘liste nere’ per la polizia del Dipartimento brasiliano di Ordine politico e sociale (Dops) e Centro operativo di difesa interna (Doi-Codi)”. Il magistrato ha anche citato nel fascicolo la richiesta della Corte Interamericana dei Diritti Umani che “chiede al Brasile di continuare a cercare, catalogare e pubblicare tutte le informazioni sulle violazioni dei diritti umani avvenute durante il regime”. Secondo il procuratore, “fare chiarezza su quel periodo è fondamentale per il processo di democratizzazione degli stati che hanno vissuto regimi autoritari, organizzati in quattro capisaldi: memoria e verità, garanzia di non ripetizione, riparazione delle vittime e punizione dei responsabili”. Intervistato da The Intercept, Henriques ha spiegato che i procedimenti saranno condotti dalla Procura regionale per i diritti dei cittadini di Minas Gerais per i prossimi quattro mesi. “Le iniziative che salvano la memoria del paese sono fondamentali perché un popolo che non ha memoria è destinato a ripetere gli errori”.
La Fiat non è l’unica multinazionale indagata per aver collaborato con la dittatura militare. Nel testo della Commissione c’è un intero capitolo dedicato al coinvolgimento di aziende private con la dittatura. Più di 80 avrebbero collaborato con i militari. L’intenzione era quella di soffocare ogni segnale di lotta sindacale che è nata tra i lavoratori di grandi aziende come Volkswagen, Ford, General Motors, Toyota e altre aziende di altri settori, come Petrobras. Volkswagen Brazil, nel 2017, ha ammesso di aver sostenuto la dittatura. La casa automobilistica tedesca fu la prima a essere denunciata dalla procura per le violazioni dei diritti umani commesse al tempo del governo militare.
Castellucci frena su Fiumicino ma si tiene stretti i maxi profitti
Con una mossa svelta e inattesa, Giovanni Castellucci si è tolto l’elmetto con cui per anni aveva guidato la guerra del raddoppio di Fiumicino per indossare i panni, per lui del tutto desueti, del pacificatore. Parlando all’inaugurazione della mostra “Le ali di Leonardo”, l’amministratore delegato di Atlantia del gruppo Benetton che attraverso Aeroporti di Roma (AdR) gestisce lo scalo, si è platealmente messo a sventolare il ramoscello d’ulivo lasciando un po’ compiaciuti e un po’ perplessi i presenti e le autorità che lo stavano ascoltando: la sindaca di Roma, Virginia Raggi, il sindaco di Fiumicino, Esterino Montino, e il presidente di AdR, Antonio Catricalà.
Invecedi riproporre il mantra del raddoppio con la costruzione della quarta pista e della nuova aerostazione, Castellucci ha annunciato che la sua società intende “rivedere e rivisitare” il piano di sviluppo con l’intenzione di “ridurre il consumo di suolo” andando a costruire “dove ci sono terreni già pavimentati”. Per un manager impegnato a lungo e con tutti i mezzi per imporre l’idea che lo scalo per crescere avrebbe dovuto espandersi su 1.300 ettari della Riserva naturale statale del litorale romano, buona parte dei quali di proprietà proprio dei Benetton, il cambio di approccio è veramente sorprendente. Così spiazzante da suscitare dubbi e sospetti tra i molti che a Fiumicino, e non solo, lì si erano opposti al faraonico raddoppio considerandolo eccessivamente costoso e inutile rispetto all’obiettivo della crescita aeroportuale.
I dirigenti del Comitato Fuoripista, per esempio, che da 11 anni e spesso in beata solitudine hanno caparbiamente osteggiato i piani dei Benetton, non hanno stappato spumante per festeggiare come una vittoria la retromarcia di Castellucci. Anzi. Ricordando di aver proposto anche di recente ai capi di Adr, di Atlantia e all’Enac (Aviazione civile) progetti di sviluppo aeroportuale alternativi al raddoppio e di aver ricevuto in cambio sempre e solo schiaffi, ora fanno fatica a credere che Castellucci come l’apostolo Paolo si sia convertito sulla via di Damasco. Pensano piuttosto che la sua sia una ritirata strategica, una mossa come nella complessa partita a scacchi che una parte del governo (il vice presidente del Consiglio, Luigi di Maio, e il ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli) ha ingaggiato dietro le quinte con Atlantia e i Benetton. La posta è Alitalia che dopo due anni di amministrazione straordinaria è di nuovo a un passo dal fallimento, il terzo nel giro di un decennio.
Da mesi la coppia Di Maio-Toninelli assicura che il rilancio della ex compagnia di bandiera è a portata di mano, salvo poi rinviare ogni volta la data della ripresa per mancanza di cavalieri bianchi disposti a metterci i capitali. Nonostante le reiterate mezze smentite ufficiali, i Benetton sono considerati dalla coppia governativa interlocutori interessanti e soprattutto pieni di quei liquidi, almeno 300 milioni di euro, necessari per scongiurare il collasso Alitalia.
Soldi che gli imprenditori veneti hanno continuato a incassare a piene mani grazie ai 3 mila chilometri di autostrade di cui continuano ad avere la concessione statale nonostante la stessa coppia Di Maio-Toninelli ne avesse promesso la revoca dopo il crollo del ponte di Genova. E grazie anche all’aeroporto di Fiumicino dove in 5 anni gli azionisti si sono distribuiti più del doppio dei 300 milioni di cui si parla per Alitalia, sotto forma di dividendi elargiti grazie alle tariffe più alte d’Italia (oltre 30 euro in media a passeggero), richieste e ottenute sette anni fa dal governo Monti proprio con lo scopo di finanziarie il raddoppio dello scalo. Quel raddoppio che perfino Castellucci ora dice di non volere più. Ci sarebbe forse un modo per verificare la genuinità delle sue intenzioni: chiedergli di rinunciare alle tariffe super e di ritirare il progetto di raddoppio di Fiumicino depositato per l’ottenimento della Via (Valutazione di impatto ambientale).
Mega tariffe e mercato aperto. Cosa blocca il rilancio di Alitalia
Si è consolidato da molto tempo nel nostro Paese il mito di un’Alitalia come compagnia eternamente perdente a causa del susseguirsi di gestioni disastrose. Senza in alcun modo trascurare i danni prodotti dalle medesime, siamo tuttavia certi che sarebbe in grado di salvarsi se gestita in maniera ineccepibile? L’ambiente in cui opera ne permette ancora la sopravvivenza?
Il mercato italiano del trasporto aereo è ormai di grande concorrenza in molti segmenti per via della liberalizzazione europea. Di conseguenza, i proventi unitari di Alitalia, gli yield, sono decisi dai concorrenti sul suo mercato e sono più bassi dei grandi vettori europei, ancora dominanti nei loro Paesi, nei loro hub e nella considerazione dei loro clienti nazionali. Se fosse vera solo la teoria della cattiva gestione, dei costi incontrollati e degli sprechi, Alitalia avrebbe costi unitari maggiori degli altri vettori. Invece non è così.
Nel 2018 i costi operativi sono stati pari a 3,4 miliardi di euro e con essi si può stimare siano stati prodotti sui suoi voli 48 miliardi di posti km (il numero di posti per chilometro è l’unità per misurare la capacità di trasporto di un vettore aereo). Si ha pertanto un costo di produzione di 71 euro per ogni posto che vola per mille chilometri. Sempre lo scorso anno il gruppo Lufthansa ha prodotto complessivamente 350 miliardi di posti km, oltre sette volte Alitalia, spendendo 25 miliardi di euro, con un costo anche in questo caso di 71 euro per un posto che vola mille chilometri. I costi unitari di Alitalia e Lufthansa sono risultati identici nel 2018 mentre negli anni precedenti i secondi erano addirittura maggiori. Sui proventi unitari vi è invece una differenza profonda: lo scorso anno i ricavi industriali di Alitalia sono stati pari a 81 euro per ogni passeggero che vola mille km mentre nel caso Lufthansa di 95 euro. Se Alitalia avesse potuto vendere i suoi biglietti agli stessi prezzi di Lufthansa avrebbe incassato 520 milioni in più e chiuso l’esercizio con un risultato operativo positivo per oltre 200 milioni e un saldo netto finale in pareggio, dopo aver versato allo Stato ben 90 milioni di interessi sul prestito ponte. Non male, dovremmo dire. Ma i prezzi di Lufthansa non sono replicabili in Italia a causa della concorrenza molto maggiore dei vettori low cost che detengono ormai il 56% di quota di mercato sui voli domestici, oltre il 60% sui voli infracomunitari e il 52% dell’intero mercato. In Germania la quota dei vettori low cost è appena il 32% e di essa quasi la metà è detenuta da Eurowings e dunque dallo stesso gruppo Lufthansa. La quota dei restanti vettori low cost non supera invece il 17%.
Diverse considerazioni possono essere tratte a complemento dell’analisi. La prima è che la rapida crescita dei vettori low cost in Italia è stata enormemente favorita dal ridimensionamento di Alitalia nel 2009. Il piano Fenice avrebbe dovuto tagliare i costi ma in realtà tagliò l’offerta, regalando in breve tempo almeno 14 milioni di passeggeri ai nuovi competitori. La seconda considerazione è che non si può parlare esclusivamente di Alitalia che perde ma bisogna anche gettare luce su chi guadagna. L’elenco è lungo e in esso sono notoriamente presenti nelle prime posizioni tanto i profittevoli low cost quanto gli altri grandi vettori tradizionali europei, i quali captano domanda italiana nei nostri numerosi aeroporti per alimentare i loro affollati hub nazionali. Ma pochi hanno rilevato che i maggiori beneficiari sono i viaggiatori sui cieli italiani. Se usiamo come stima del risparmio unitario la differenza tra i prezzi tedeschi e quelli italiani, pari a 14 euro ogni mille km, allora il risparmio totale, dati 250 miliardi di km totali volati, è pari a tre miliardi e mezzo di euro all’anno, una cifra pari a sette volte le perdite del vettore di bandiera. Per ogni euro che Alitalia perde i consumatori ne guadagnano sette per effetto dell’assetto molto concorrenziale del mercato, che non può in conseguenza essere considerato reversibile.
Per salvare Alitalia senza sacrificare i benefici della concorrenza è indispensabile agire dal lato dei costi unitari, ma molte voci non sono comprimibili: il costo del carburante è esogeno, quello del lavoro è ai minimi storici, il leasing è già stato rivisto dai commissari. Le tre voci fanno quasi metà dei costi operativi. Resta l’altra metà, di cui tuttavia la metà è anch’essa esogena rispetto alla gestione in quanto riferita a tariffe regolate dei servizi aeroportuali e di quelli di assistenza al volo. Siamo sicuri che siano state determinate nel tempo in maniera economicamente corretta e compatibile con la sostenibilità economica di un vettore nazionale gestito con efficienza? Proprio nelle scorse settimane abbiamo letto dei brillanti risultati di bilancio dei principali gestori aeroportuali italiani e dell’Enav, l’azienda pubblica dei controllori di volo. La Sea di Milano ha chiuso il 2018 con un risultato operativo di 190 milioni su 713 di ricavi, Aeroporti di Roma con un risultato di 416 milioni su 922 di ricavi, l’Enav con 164 milioni su 890 di ricavi. Si tratta di ottimi risultati, tuttavia conseguiti nell’ambito di monopoli naturali. Invece Alitalia, cliente obbligato di questi monopoli, e principale cliente di due dei tre oltre che vettore europeo tradizionale più soggetto alla concorrenza, ha chiuso per l’ennesima volta con una pesante perdita. Poiché è un vaso di coccio tra i due vasi di ferro dei concorrenti low cost da un lato e dei fornitori monopolisti dall’altro, la sua sopravvivenza potrebbe risultare impossibile, in assenza di cambiamenti di rilievo, come quella di una specie animale portata all’estinzione dai cambiamenti ambientali.
Il miracolo di Trump è a debito
“La nostra economia è la numero uno. Tutto il pianeta invidia l’America e il meglio deve ancora venire”. Per Donald Trump è quasi impossibile evitare le bugie, questa frase lo dimostra. È vero: tutto il mondo invidia la crescita degli Stati Uniti, nel primo trimestre del 2019 il Pil è cresciuto a un ritmo del 3,2 per cento, mentre gli analisti si aspettavano soltanto un pur ragguardevole +2 (10 volte il tasso di crescita italiano celebrato dal governo Conte). Ma è assai opinabile che il meglio debba “ancora venire”. Basta leggere un inquietante report sulla stabilità finanziaria pubblicato lunedì dalla Federal Reserve, la Banca centrale americana. Undici anni fa la grande crisi globale è esplosa dai mutui immobiliari senza garanzie delle famiglie americane. Oggi quel mercato sembra sotto controllo, ma purtroppo non si può dire lo stesso del debito delle aziende. Negli ultimi dieci anni, scrive la Fed, il debito business è cresciuto più in fretta del Pil “con la crescita maggiore negli ultimi anni e tra le imprese più rischiose”. Escluso il settore finanziario, il debito privato americano è pari a 31mila miliardi, di cui 15mila delle imprese. Nel 2018 il tipo di debito che è cresciuto di gran lunga di più è quello classificato come leveraged loan, cioè finanziamenti a imprese già molto indebitate: +20 per cento, ora vale 1.100 miliardi. La Federal Reserve assicura che le banche non sono esposte a rischi sistemici nel caso questi grossi debitori non riuscissero a rimborsare i debiti. E il mercato dei derivati, dice sempre la Fed, non è così fuori controllo come nel 2008 e dunque non si temono effetti valanga. Ma quando i tassi di interesse saliranno o quando l’economia rallenterà, magari perché Trump sbaglierà qualche mossa nella guerra commerciale con la Cina, tutta quella montagna di debito inizierà a franare. È assai probabile che il presidente cercherà di rimandare il problema a dopo le Presidenziali 2020. Ma prima o poi succederà. E allora nessuno potrà dire: “Non ci avete avvertito”.
Bugie e affari in conflitto d’interessi, due donne ora imbarazzano l’Eni
Due donne saranno le protagoniste della prossima assemblea degli azionisti Eni, martedì 14 maggio. Una sarà presente: la presidente Emma Marcegaglia. L’altra no: è Marie Magdalena Ingoba, detta Madò, cittadina congolese che ha sposato molti anni fa Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni.
Le due signore incrociano i loro destini il 13 aprile 2017, quando Marcegaglia, durante l’assemblea degli azionisti, rispondendo a una domanda afferma che “non esistono, in Congo, a oggi, legami contrattuali tra Eni e la società Petro Services”. Non era vero. Tanto che all’assemblea successiva, il 10 maggio 2018, Marcegaglia ammette l’“incompletezza” delle informazioni fornite agli azionisti, dovuta a una sua “affrettata lettura”, e conferma che Eni invece ha avuto rapporti commerciali con Petro Services per 104 milioni di dollari.
A fine 2018, una rogatoria in Lussemburgo disposta dalla Procura di Milano aggiunge un ulteriore elemento alla “incompletezza” della presidente Eni: Petro Services, formalmente gestita da Alexander Haly, era controllata da Marie Magdalena Ingoba. È lei, Madò, la proprietaria di una società lussemburghese, la Cardon Investments Sa, che controlla la Petro Services Congo, fornitrice di Eni Congo, a cui dal 2012 al 2017 affitta navi e presta servizi. L’8 aprile 2014, la moglie di Descalzi, allora capo del settore Esplorazione di Eni, vende la Cardon Investments, e dunque anche la Petro Services che lavora per Eni, ad Alexander Haly, uomo d’affari nato nel Regno Unito ma basato a Montecarlo. Sei giorni dopo la vendita, il 14 aprile 2014, l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi indica Descalzi come capo di Eni.
Dunque la compagnia petrolifera di cui Descalzi è ai vertici ha affidato lavori per molti milioni di dollari a una società della moglie di Descalzi. Questo dicono le carte in mano ai pm milanesi Fabio De Pasquale, Sergio Spadaro e Paolo Storari. Oggi Madò vive a Parigi e gira il pianeta, è una donna d’affari con interessi disseminati nel mondo, citata nei Panama Papers, lambita da un’inchiesta giudiziaria in Francia. Ma non dimentica il suo luogo d’origine, dove sono nate le sue fortune, e cioè il ristretto circolo degli affari della Repubblica Democratica del Congo, che ruota tutto attorno agli affari personali del suo eterno presidente, Denis Sassou Nguesso. Di sua figlia, Julienne Sassou Nguesso, Madò è anche socia, in una società basata a Mauritius, la African Beer Investment Ltd.
Nell’assemblea degli azionisti 2018, rispondendo alle domande di Re:Common (l’associazione che da anni fa inchieste e campagne contro la corruzione), Emma Marcegaglia ha spiegato che presso la casella postale Bp 4801 di Point Noire, capitale economica del Congo, era domiciliata sia la Petro Services, sia la Elengui Ltd, società offshore di Marie Magdalena Descalzi basata nelle Isole Vergini Britanniche: ma solo perché, “essendo in Congo limitato il numero di caselle postali disponibili, la stessa casella postale viene assegnata a numerose persone e/o società”. Le rogatorie hanno smentito anche questa affermazione della presidente dell’Eni. Ora i vertici della compagnia, tra cui Descalzi, sono sotto inchiesta per corruzione internazionale in Congo e sotto processo per corruzione internazionale in Nigeria. E altre tre società della galassia Petro Services avrebbero incassato da Eni, secondo un’inchiesta dell’Espresso, oltre 310 milioni di dollari. Dicono a Re:Common: “Già lo scorso anno avevamo cercato di avere spiegazioni sul perchè di tanta reticenza. Le ultime notizie sulle relazioni di Haly con la signora Descalzi spiegherebbero tutto”.
Il punto è che le reticenze non sono dell’interessato, ma della presidente Marcegaglia. Fin dall’inizio del suo mandato, a maggio 2014, si è distinta per l’energia con cui ha difeso il capo dell’ufficio legale Massimo Mantovani dalle critiche dei due consiglieri Karina Litvack e Luigi Zingales per la gestione del caso delle tangenti nigeriane. Adesso che ha scaricato Mantovani (indagato per associazione a delinquere), si parla di lei per l’inchiesta siciliana sull’ex vicepresidente di Confindustria Antonello Montante. I due sono legatissimi, e Montante deve a lei (presidente dal 2008 al 2012) la sua folgorante ascesa confindustriale e non solo. Ma si comincia a sospettare che l’amicizia coinvolgesse anche l’Eni. Gli inquirenti rilevano che Nazario Saccia (non indagato), ufficiale della Guardia di finanza di Caltanissetta, è stato assunto all’Eni come security manager nel 2010, pochi mesi dopo aver guidato una spettacolare perquisizione al petrolchimico di Gela con il collega Ettore Orfanello, arrestato un anno fa con Montante. In una telefonata tra i due all’inizio del 2016, quando Montante era già indagato per mafia, secondo un’annotazione della Squadra mobile di Caltanissetta, “il Saccia spiegava all’Orfanello che non gli piacevano delle situazioni all’interno dell’Eni e il Montante, attraverso la Marcegaglia, poteva fare valere la sua volontà, accontentandolo”.
Nel dialogo tra i due ex colleghi della Guardia di finanza si fa riferimento alla gratitudine che entrambi nutrono per Montante, un dettaglio che sembra alludere alla capacità di influenza sull’Eni dell’imprenditore siciliano.
Entreranno questi pezzi di realtà nel salone dell’assemblea Eni 2019?
Sea Watch vince in tribunale a L’Aia: “Torniamo in mare”
La Sea Watch 3 riprenderà “presto” l’attività di ricerca e soccorso dei migranti davanti alla Libia. Lo afferma la Ong tedesca Sea Watch sostenendo di aver vinto il ricorso in tribunale a L’Aia contro il nuovo codice della navigazione olandese, stato di cui la nave batte bandiera. “Il nuovo regolamento olandese, che ha tenuto bloccata la Sea-Watch 3 in porto per un mese – scrive la Ong su Twitter – non può essere applicato senza un periodo di transizione. La SeaWatch potrà quindi riprendere presto le sue attività”. Il nuovo codice era entrato in vigore lo scorso 2 aprile, prevede requisiti tecnici più rigorosi per le navi che operano con la bandiera olandese e, di fatto, aveva costretto l’imbarcazione a fermarsi. “La nave Sea Watch 3 lo scorso 19 gennaio ha soccorso 47 migranti, fra cui 15 minori, al largo della Libia. Italia e Malta hanno negato il porto. Solo il 31 gennaio, dopo 12 giorni in mare, il governo ha consentito lo sbarco a Catania. Come per il caso Diciotti, Matteo Salvini è indagato per sequestro di persona, stavolta insieme a Conte, Di Maio e Toninelli. Il pm di Catania Carmelo Zuccaro ha chiesto l’archiviazione, ma anche stavolta la decisione spetta al Tribunale dei ministri.
“L’amica minorenne venduta in cambio della cocaina ai pusher che l’hanno stuprata”
Si può vendere un’amica anche per una dosa di cocaina. Attirarla in una trappola, mentendo sul fatto che non fosse maggiorenne, pur di farsi rifornire da due conoscenti marocchini. E poi non opporsi a una violenza di gruppo, con la quindicenne a sua volta drogata e per questo incapace di difendersi e di reagire, nel corso di un festino trasformatosi in un incubo. È questa la verità che sta emergendo dall’inchiesta del pm vicentino Cristina Carunchio, che ha portato agli arresti domiciliari Elisa Faggion, 31 anni, di Trissino, e due nordafricani, Nadir El Fettach, 27, di Arzignano, e Zahir Es Sadouki, 28, di San Bonifacio (Verona). Nelle motivazioni il gip Massimo Gerace svela i retroscena, così come sono stati raccontati dalla ragazzina prima ai genitori, poi agli investigatori. La trappola era scattata in un fine settimana di ottobre, quando era stata autorizzata a trascorrere una notte con l’amica più grande, che lei considerava una “sorella maggiore”.
“Hai detto ai tuoi amici che avevo 19 anni perché volevi che ti portassero la cocaina”. È questa l’accusa formulata dalla vittima nei confronti di Elisa Faggion. Se avessero saputo che era minorenne, infatti, non avrebbero assecondato la richiesta. Invece si erano recati nella casa di Trissino e lì avrebbero abusato della quindicenne, dopo averla costretta ad assumere hashish e cocaina. Il racconto è stato ritenuto credibile dal giudice. La ragazza ha manifestato una sincera delusione nei confronti della donna conosciuta qualche mese prima. “Eri l’unica amica che avevo. Perché hai permesso che mi facessero del male invece di proteggermi? Dov’era mia ‘sorella’ quando ho chiesto aiuto?”. Ma a questa frase, la trentunenne avrebbe ribattuto, cercando di addossare a lei la colpa: “Perché non dici la verità? Che hai detto che avevi 19 anni e nessuno ti ha spinto a fare niente…”. Replica: “No, eri tu ad aver paura non ti portassero la ‘bianca’”. Ovvero la cocaina. Intercettato, il terzetto aveva cercato di accordarsi su una versione concordata. Così la vittima, “non avrebbe potuto fare niente, non avrebbe potuto fregarli”.