Spara alla moglie con la pistola registrata per uso sportivo: è il 16° femminicidio del 2019

Ancora un femminicidio. Ancora una donna uccisa a colpi di pistola dal marito al culmine dell’ennesima lite per la separazione. La tragedia si è consumata a Cave, piccolo Comune in provincia di Roma, circondato dai boschi dei Monti Prenestini. Qui vivevano Antonio e Carmen. Un matrimonio che comincia a scricchiolare, dagli screzi si passa facilmente alle discussioni e poi alle liti. L’ultima ieri poco prima di pranzo, quando i vicini avvertono un boato. Sono i colpi di pistola che Antonio Brigida, 59 enne autotrasportatore e volontario della Croce rossa, esplode contro la moglie 45enne. Quando i carabinieri intervengono sul posto lo trovano con la pistola in mano. Lui non oppone resistenza e si consegna ai militari. Entrambi avevano figli da passati matrimoni. Nel condominio per l’intera giornata cala il silenzio. Davanti al cancello stazionano i carabinieri, qualche passante chiede informazioni. L’omicida deteneva l’arma in casa per uso sportivo.

È il terzo femminicidio in 21 giorni, il 16° del 2019. Il 16 aprile scorso la 44enne Romina Iannicelli, al secondo mese di gravidanza, viene uccisa dal marito quattro anni più grande di lui, Giovanni De Cicco, nel loro appartamento a Cassano allo Jonio, in Calabria. Prima la aggredisce a calci e pugni, poi con un cavetto elettrico – di quelli utilizzati per ricaricare i telefonini – e infine con un bastone con cui le fracassa il cranio. L’ha uccisa nella notte, poi è scappato via. Braccato dagli investigatori, l’uomo si costituì ammettendo l’omicidio. Il giorno dopo, il 17 aprile, Moncef Naili, tunisino di 54 anni, strangola a morte la moglie, Elvia Bruno, di 53, poi chiama i carabinieri per farsi arrestare. I due si erano sposati nel 2016, ma dopo poco tempo il matrimonio è entrato in crisi. Nell’ultimo periodo, la donna, che aveva iniziato a lavorare come badante, aveva espresso l’intenzione di abbandonare il marito, a causa delle sue continue scenate di gelosia, avviando le pratiche per la separazione. Una decisione che ha scatenato la ferocia dell’uomo, che lavorava come cuoco in un pub. Così l’ha presa per il collo soffocandola. Poi la chiamata al 112: “Ho strangolato mia moglie, venite a prendermi”.

Nuovo scandalo CasaPound: una mozione per vietare le biciclette agli immigrati

Bici vietate ai migranti. “Sicurezza stradale. Divieto di circolazione per gli immigrati a bordo di velocipedi su tutto il territorio comunale”. Era scritto proprio così nella mozione presentata in consiglio comunale a Bolzano dai tre consiglieri di CasaPound: Sandro Trigolo, Andrea Bonazza e Maurizio Puglisi Ghizzi.

Era il dicembre 2017, come ha raccontato ieri il sito altoatesino salto.bz. Ma il testo evidentemente è passato inosservato e ha seguito il lungo iter burocratico che doveva portarlo in consiglio. Finché un mese fa qualcuno si è accorto della mozione ed è saltato sulla sedia: “Questo modo di procedere lo abbiamo avuto per l’ultima volta durante il Terzo Reich sotto i nazisti”, è stato il commento del Verde Rudi Benedikter, in passato a lungo presidente del consiglio comunale.

In Comune a Bolzano si era preferito adottare un profilo molto basso, facendo passare inosservata la mozione e chiedendo a CasaPound di ritirarla. Così alla fine è avvenuto.

“La segreteria del consiglio comunale ci ha chiesto di ritirare il testo perché così com’era scritto non poteva essere discusso”, racconta il leader del movimento Bonazza. Il motivo? “C’era in effetti un errore nella formulazione che rischiava di creare incomprensioni”. L’impressione di molti è stata che si trattasse di una norma che proponeva una discriminazione razziale. È così? “No, anzi, la norma voleva tutelare gli immigrati”, giura e spergiura Bonazza, “Ci sono stati almeno due incidenti in cui ciclisti stranieri sono stati travolti e uccisi dalle auto. Poiché gli immigrati non conoscono il codice della strada e non indossano le pettorine colorate previste ci è sembrato opportuno chiedere che vengano tutelati loro e gli automobilisti”. Come si fa a dire che un ciclista non conosce il codice perché immigrato? Non è una norma basata sulla razza? “No, non era nostra intenzione. Ma era mal formulata. L’abbiamo ritirata. Ora la correggeremo e la ripresenteremo.

“Zoccola, ti stupro”, “Dovete bruciare”. Scene di ordinario razzismo abitativo

Non si sono arresi: “Siamo in regola, i bambini sono cittadini italiani, vogliamo quella casa”. E la sindaca Raggi li ha sostenuti. Alla fine sono rientrati scortati dalla polizia. I prossimi giorni, tuttavia, saranno duri: contro di loro c’è un gruppetto di vicini fomentato da CasaPound e Fratelli d’Italia che hanno inscenato una protesta con il solito copione che va avanti da un mese, dalla “vittoria” di Torre Maura. Tutti contro una famiglia bosniaca: padre, madre e ben 12 figli, dai 21 anni ai 9 mesi che ha deciso di uscire dall’inferno del campo rom de La Barbuta e chiedere una casa popolare.

L’ha ottenuta quasi “subito” (nemmeno 2 anni) a Casal Bruciato, quadrante est di Roma fra la vie Tiburtina e Collatina. Una velocità insolita, ma comprensibile se riferita al numero non certo comune dei componenti del nucleo familiare. E gli appartamenti grandi (questo è di oltre 90 mq) sono tanti. Una versione che non convince chi insulta i “nuovi vicini” da un cortile sul cui pavimento c’è scritto “non calpestare, pericolo di crollo”.

Imed e la sua famiglia vogliono restare a Casal Bruciato. Lui ha vissuto la guerra, i “nazisti dell’Illinois” – così li hanno soprannominati i militanti di sinistra del sindacato Asia Cub giunto ieri pomeriggio sul luogo – non gli fanno paura: “Sono quattro imbecilli – ha detto l’assessora al Patrimonio Rosalba Castiglione – che a un mese dalle europee strumentalizzano a fini personali la paura di chi ignora una realtà e una cultura diversa”.

La situazione resta incandescente da due giorni i militanti di CasaPound di tutto a queste persone. “A zoccola, te stupro”, è arrivato a gridare alla madre ieri pomeriggio un ragazzo con i tatuaggi in faccia e la felpa nera con il simbolo della tartaruga. “Li vogliamo vedere tutti bruciati, impiccati”, ha affermato candidamente una donna. “A mio figlio hanno puntato un coltello sotto la gola per togliergli un euro”, ha raccontato una 50enne, facendo riferimento generalmente a “gli zingari”. “Non li vogliamo, se li devono portare via”, dice un’altra.

E poi la solita sequela di luoghi comuni: “Pisciate per strada, rovistate nei cassonetti, rubate, siete delle merde”, urla un altro, mano alla bocca. L’assegnazione, come detto, è regolare. Le graduatorie per le case popolari si decidono attraverso bando pubblico. L’ultimo è del 2012, epoca Alemanno. Bastano un anno di residenza al Comune di Roma e alcuni requisiti di reddito per accedere. Ovviamente non ci sono distinzioni etniche. Si formano sottograduatorie a seconda del numero dei componenti cui corrisponde un taglio di alloggi. Ma la stragrande maggioranza degli appartamenti di Comune e Ater è di ampia metratura. È per questo che proprio la Regione ha investito almeno 40 milioni di euro per la divisione degli alloggi. Va da sé che le famiglie meno numerose – in gran parte italiane – aspetteranno di più di chi ha oltre 5-6 figli (quasi tutti stranieri). Fratelli d’Italia ha presentato in Regione Lazio una proposta per inserire un criterio di “residenzialità” con bonus crescenti dai 5 ai 20 anni di presenza sul Comune di Roma. Imed e sua moglie, residenti in città da oltre 20 anni, avrebbero ottenuto il massimo dei bonus comunque.

Moro, i sotterranei di via Caetani e la mappa in “stile Faranda”

Nell’ultima legislatura la Commissione Moro 2 è arrivata a importanti acquisizioni documentali che smentiscono la ricostruzione fatta nell’arco di 40 anni sul più grave delitto politico compiuto in Italia. Non sappiamo ancora con certezza chi ha sparato in via Fani, in quale prigione (o prigioni) Moro sia stato detenuto e neppure chi lo ha materialmente ucciso. Sulla base di nuovi elementi Rita Di Giovacchino nel suo “Libro Nero della Repubblica”, scritto 15 anni fa ma di nuovo in libreria arricchito da rivelazioni inedite, chiude il cerchio di una lunga inchiesta su quanto accaduto negli ultimi giorni del sequestro quando, sembra ormai certo, i brigatisti ormai accerchiati avevano ceduto l’Ostaggio ad altre Entità e Moro fu trasferito in una prigione nei pressi del Ghetto dove i protagonisti a volto coperto hanno giocato l’ultima tragica partita.

 

A lungo è stata data la caccia a una prigione nel Ghetto di Roma, l’ultimo domicilio di Aldo Moro, che secondo una vecchia perizia del colonnello del Ros Massimo Giraudo dovrebbe essere distante non più di 50 metri da dove il suo corpo è stato ritrovato all’interno della Renault rossa, in via Caetani. Sulla vettura c’erano filamenti tessili provenienti dai magazzini dei negozi di tessuti che affacciano su piazzetta Mattei che, questo il ragionamento, in un percorso più lungo si sarebbero distaccati dalla carrozzeria volatilizzandosi. A credere più di ogni altro a quest’ipotesi fu il giudice Ferdinando Imposimato che a lungo si è aggirato nelle stradine attorno a piazza Argentina, accompagnato da un giovane terrorista toscano, Elfino Mortati, che gli aveva confidato di aver dormito durante il sequestro Moro in un appartamento vicino proprio a piazza Argentina. Ma Elfino non era di Roma e non seppe ritrovare il palazzo che, stando a successive indagini, fu identificato in un appartamento di via Sant’Elena 8, subito escluso come prigione trovandosi al terzo piano di un affollato condominio dotato perfino di portineria.

Ma che si trattasse di una base vicina al quartier generale del sequestro, almeno nell’ultima fase, erano tutti convinti. Il pm Luigi De Ficchy rimase colpito dal passaggio di una lettera di Moro al nipotino: “Ricordi quando ti ho regalato i pompieri spagnoli?”. Ai familiari non risultava che avesse mai fatto un simile dono al bambino e la frase fu interpretata come un messaggio che portò a uno stabile in via dei Pompieri, vecchia sede di un’ambasciata spagnola, alle spalle di via Caetani. All’inizio degli anni Novanta altri indizi hanno nuovamente portato la magistratura nel Ghetto ebraico: le segnalazioni stavolta indicavano palazzo Orsini, della famiglia Rossi di Montelera, un imponente complesso che sorge alle spalle del Teatro Marcello, di fronte all’isola Tiberina. Anche lì c’è un cancello con il “passo carrabile” e due orsi all’ingresso, simbolo della casata. Due orsi e non due leoni, come scriveva Pecorelli, però.

Nel covo di via Gradoli la polizia aveva trovato degli appunti, scritti da Mario Moretti, con il recapito telefonico dell’Immobiliare Savellia, un’agenzia che gestiva i contratti di affitto di residence ed uffici. Tra le carte in possesso di Valerio Morucci fu invece recuperata una piantina topografica di Palazzo Orsini, corredata di tutte le indicazioni utili, dai vari ingressi allo spessore delle mura. Rintracciata dai giornalisti in Svizzera, la contessa Rossi di Montelera si mostrò sorpresa; risultava però un’intercettazione disposta dal consigliere istruttore Cudillo nel marzo 1979. L’indagine fu archiviata, ma è rimasto il sospetto che in quel palazzo potesse esserci la sede di un organismo riservato collegato al sequestro br. A rafforzare tale ipotesi c’è una piantina dei sotterranei che a partire da Palazzo Orsini attraversano Teatro Marcello, dove sono abbozzati in modo schematico cunicoli e ambienti sotto il manto stradale. Sulla sinistra viene indicata una scala “che conduce al primo piano”, accanto compare un ampio salone 30 per 90 (si suppone metri) circondato da colonne, “otto per lato”, c’è infine uno sgabuzzino di due metri quadri, “che non comunica con l’altra stanza”.

Una piantina rudimentale, attribuita da una perizia calligrafica ad Adriana Faranda che non era un architetto ma soprattutto si è sempre detta ignara della prigione tanto da non aver mai saputo neppure di via Montalcini. Fatto è che a partire da Palazzo Caetani il Ghetto è attraversato da sotterranei secolari, scavati su ordine di papa Bonifacio VIII, al secolo Benedetto Caetani, capostipite della potente famiglia nobiliare.

La presenza di questo disegno in un covo Br fa pensare che i luoghi siano stati presi in considerazione e studiati con cura. Una sera, durante un sopralluogo, qualcuno fotografò Mortati, Imposimato e anche il giudice Priore che si era accodato: la foto fu scattata dall’alto, forse da una sede del Sisde interna a Palazzo Antici Mattei. I tre erano all’angolo tra via Caetani e via de’ Funari. Imposimato lo considerò un avvertimento e le indagini s’interruppero.

Mail Box

 

Si accaniscono su Roma, a Milano non va molto meglio

Ho letto l’articolo di Nando dalla Chiesa sulle turbe dei milanesi sui trasporti pubblici. Milanese di nascita, debbo dargli totalmente ragione. Milano si crede una città europea ma non lo è. È la città della moda, al massimo. Per ottenere un certificato di Stato Civile ho impiegato 4 ore circa presso il Comune. I grattacieli di Citylife e Gae Aulenti sicuramente belli. Ma nel frattempo, Quarto Oggiaro e il Giambellino sono pericolosi e non riqualificati. Per ottenere delle risposte precise in merito a una pratica relativa alla Tares, ho dovuto farmi assistere da un avvocato (pratica di qualche centinaia di euro). I navigli e gli argini sono malcurati.

E ora, poi, si discute di riaprire i navigli. Pensano forse di trovare le acque dei tempi di Leonardo da Vinci oltre a un disastro per la circolazione per anni? Invece di accanirsi su Roma, pensino anche a essere obbiettivi su Milano.

Mala tempora currunt.

Rodolfo Kaufmann

 

Alitalia dev’essere salvata, ma a pagare sono i cittadini

L’ultima decisione del governo per salvare Alitalia è prendere i soldi dalla Cassa dei servizi energetici ambientali, ma questo aumenta il rischio di far lievitare ancora di più le bollette dell’energia elettrica per le quali, oltretutto, era stato promesso di rivedere i vergognosi oneri di sistema che pesano in maniera esagerata sui costi dei cittadini (ma che naturalmente non è stato fatto).

Dopo i vari salvataggi del “carrozzone Alitalia” degli anni passati, che alla fine sono serviti solo a prolungare l’agonia di un’azienda ormai palesemente fallita e ad arricchirne a dismisura i dirigenti, ci si chiede quando smetteremo di pagare per questo pozzo senza fondo diventato troppo oneroso per le nostre tasche e che rende quest’azienda privilegiata rispetto a tante altre che ogni giorno chiudono i battenti per la crisi e perché lo Stato, invece di aiutarle, le ostacola in ogni modo.

Monica Stanghellini

 

DIRITTO DI REPLICA

Autostrade per l’Italia precisa che le iniziative adottate relativamente alle barriere oggetto di sequestro lungo alcuni viadotti dell’A16 sono state finalizzate per migliorare la durabilità delle barriere stesse, a parità di prestazioni. Gli interventi sono stati realizzati nell’ambito delle proprie prerogative dalle strutture tecniche e dalle Direzioni di Tronco di ASPI, a seguito di uno studio commissionato a un pool di esperti. Tale configurazione ha superato i crash test, che hanno confermato il massimo standard di contenimento, ed è stata omologata ai sensi della normativa europea (con certificazione CE delle barriere). Peraltro la speciale malta cementizia utilizzata per i fissaggi è anch’essa certificata in base alle norme europee e garantisce un’efficacia analoga o superiore rispetto alla resina. Tra malta e resina non c’è differenza di costo e, rispetto all’intervento complessivo, il costo di questo tipo di materiali è assolutamente marginale. Pertanto ogni riferimento a una pericolosità delle barriere, così come alla volontà di Aspi di risparmiare sui materiali di manutenzione, è del tutto falsa e fuorviante. Autostrade per l’Italia ha già chiesto il riesame del provvedimento di sequestro.

Ufficio Stampa Autostrade per l’Italia

Prendiamo atto delle precisazioni dell’ufficio stampa di Aspi, che anticipano la linea difensiva dell’azienda nel ricorso al Riesame e che contestano il contenuto di un articolo fondato sui passaggi salienti del decreto di sequestro delle barriere di dodici viadotti ricadenti nel tratto autostradale dell’A16 tra Baiano e Benevento. Un sequestro disposto da un giudice terzo nell’ambito di un’inchiesta della Procura di Avellino che ipotizza per tre dirigenti Aspi il reato di concorso in crollo di costruzioni o altri disastri dolosi. L’articolo 434 del codice penale recita così: “Chiunque, fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti, commette un fatto diretto a cagionare il crollo di una costruzione o di una parte di essa ovvero un altro disastro è punito, se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità, con la reclusione da uno a cinque anni. La pena è della reclusione da tre a dodici anni se il crollo o il disastro avviene”.

Non crediamo quindi fuorviante il riferimento alla pericolosità delle barriere, forse conseguenza anche di politiche al risparmio. Pericolosità per ora solo presunta, ma sufficientemente argomentata da motivare un provvedimento cautelare.

Sia perché diversi passaggi del decreto del Gip sottolineano il punto. Sia perché le barriere sono state sequestrate “visto l’articolo 321 del codice di procedura penale”, ovvero quando “vi è pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati”.

Vin. Iur.

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo pubblicato ieri a pagina 16 con il titolo “Trattativa Stato-mafia, da Mannino turpe do ut des con i boss che facevano le stragi”, abbiamo scritto per errore che Sandra Amurri è stata querelata dall’ex ministro Calogero Mannino.

In realtà la giornalista del Fatto, sentita come testimone nel processo per quanto aveva scritto sul nostro giornale, non è mai stata querelata da Mannino. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

Fq

La avrete, amici rigoristi, la crisi che volete, ma non…

Che brividi, che piacere! Arriva “il conto”, “la stangata”, “la cambiale” da “93 miliardi”. E riparte pure “il pressing Ue” sull’Italia, s’attende “la lettera” di Bruxelles ora o più in là, ma che sia “l’ultimo avviso” al Paese che già vede “una nuova recessione”. Fin qui CorSera, Repubblica e Sole 24 Ore. Poi ci sono le previsioni della Commissione Ue col debito che schizza e il deficit che pure (sia quello vero che quella simpatica sciarada detta “strutturale”). Pizzino finale: “Nuove tensioni sui titoli del debito pubblico costituiscono un rischio viste queste stime”; d’altra parte “il possibile aumento dell’Iva” e “potenziali minori spese” per reddito di cittadinanza e pensioni “potrebbero guidare un miglioramento delle aspettative”. Insomma, per evitare la punizione dei mercati bisogna far salire l’Iva e tagliare la spesa pubblica: cioè, in un periodo di turbolenze per il commercio internazionale, ammazzare del tutto la già malandata domanda interna. Questo sì che è sovranismo: basta con la recessione dall’estero, produciamocela in casa come ai tempi di Monti. Va detto che i dati leggermente positivi dell’Istat per il primo trimestre avrebbero potuto raffreddare l’entusiasmo dei fan della “cambiale”, ma non è stato così e ci sentiamo anche noi di rassicurarli: la avrete, amici rigoristi, la crisi finanziaria che pretendete, ma non il governo tecnico che vorreste a gestirla. E lo diciamo anche pensando a questi giorni “torinesi”: perché dopo i Brüning che anelate arrivano spesso – e tra gli applausi dei liberali – gli Hitler che aborrite.

Napoli. La rivoluzione culturale è (forse) ancora lunga da venire. Intanto si muore

 

Mentre la bambina napoletana colpita durante un regolamento di conti non sappiamo se ce la farà, c’è la reazione del popolo partenopeo che non vuole più soffrire in silenzio. La gente ha capito che chi si fa gli affari suoi non campa cent’anni, ma muore per strada, di giorno, in centro, per caso. Ed è scesa in piazza non per la convocazione di un’associazione importante o per l’invito di un personaggio famoso, ma per spontanea resistenza. È un cambiamento di mentalità o solo un gesto di esasperazione? La pubblica dissociazione del figlio di un camorrista è stato un segnale importante.

Massimo Marnetto

 

Caro Massimo, “il Camorrista” Raffaele Cutolo, dal carcere disse: “Sono stato io a elevare la Camorra a terza forza della malavita organizzata in Italia. Lo confesso: ho trovato condizioni favorevoli, sono stato aiutato. Non dalla mafia calabrese, come scrivono i miei falsi biografi. Chi ha veramente aiutato Don Raffaele Cutolo, il professore, sono stati i due principali responsabili della degradazione di Napoli: lo Stato da una parte e la classe politica locale e nazionale dall’altra”. Cosa sta accadendo a Napoli? Sembrerebbe nulla che non sia già successo. La piccola Noemi lotta per la vita: un proiettile l’ha colpita, mentre era seduta al tavolino di un bar, in compagnia della nonna. Quanto tempo è passato da quando il giovane Genny Cesarano è stato ucciso da una pallottola vagante nel rione Sanità? Quanti anni dall’assassinio di Ciro Colonna, 19enne freddato per sbaglio a Ponticelli? E da quello di Maikol Giuseppe Russo, altra vittima innocente di camorra? Non sono andata chissà quanto indietro nel tempo, giusto pochi anni, due, massimo tre. Napoli è, da decenni, la città italiana più esposta sul fronte della violenza criminale, come ben ricorda Isaia Sales. Qui, negli ultimi vent’anni, le bande di camorra hanno fatto più vittime di tutte le altre tre mafie messe insieme (col più alto numero di “vittime per caso”). Puntualmente, come scoppiano le polemiche sui “cattivi eroi di Gomorra”, così poche centinaia di persone – attivate dai parroci, soprattutto – manifestano la propria indignazione. Fino al morto successivo. Sole, in una città divisa, contraddittoria, impaurita, eppure – nella sua assuefazione – pronta a prendere d’assalto i baretti della movida di Chiaia. La rivoluzione, spiegano gli storici, è l’altra faccia della guerra civile. Che a Napoli si combatta una guerra, è certo. Che ci sia l’alba di una rivoluzione, in primis culturale, meno. Per questo, Antonio e i ragazzi come lui non vanno lasciati soli.

Maddalena Oliva

L’Europa e l’era delle alleanze senza impegno

Il problema d’identità abbozzate, confuse, mutevoli all’occorrenza e per lo più inaffidabili che connota questo tempo politico, un tempo confuso dalla comparsa del tripolarismo, disorientato dalla dirompenza del sovranismo e stordito dall’auge del populismo, si riflette completamente sul grande enigma delle alleanze. Far parte dei moderati che fanno da garanti alle istituzioni democratiche o far parte dei moderati ma senza moderare lo slancio sovranista? Essere di sinistra per contrapporre l’inclusività e l’accoglienza al nazionalismo delle destre o essere di sinistra ma mettersi in competizione con Salvini su chi ha fatto più rimpatri? Essere orgogliosamente reazionari, liberisti e nazionalisti o esserlo lo stesso ma negare di essere di destra perché le vecchie categorie politiche non esistono più? Ecco solo alcuni dei quesiti amletici della politica contemporanea che nel dubbio di perdere ha scelto di “non essere”. O almeno di non essere troppo. O ancora di non dirlo troppo in giro.

A cominciare da Matteo Salvini, che mentre celebra il suo sodalizio con Viktor Orban di fronte ad un muro di filo spinato, dichiara di “far parte di uno schieramento forte, non di destra ma alternativo ai burocrati”. Capito? Non – di – destra. In altre parole, sono di destra, faccio cose di destra ma non mi dichiaro di destra, in maniera tale che se non ti va di dire che sei di destra ma vuoi votarmi lo stesso, lo puoi fare senza sentirti in colpa. La danza incerta e scoordinata delle alleanze impera a livello locale, dove al coro di “El centrodestra unido jamas serà vencido” intonato dalle parti di Forza Italia e Fratelli d’Italia praticamente a ogni elezione regionale, risponde un Gianfranco Miccichè dalla Sicilia che ripropone la necessità di un nuovo Nazareno che coinvolga tutti i moderati, dal Pd a Forza Italia, come argini agli estremismi. Poche idee e ben confuse insomma. Questi sono i tempi in cui se non hai due forni, o almeno la velleità di averli, non sei nessuno. Poi che magari tu non riesca a sfornare nemmeno due sfilatini, né da un lato né dall’altro, quella è un’altra storia, però intanto sei competitivo. E dunque giusto, meglio “non essere”, per rendersi più facilmente plasmabili all’occorrenza. Anche perchè se invece decidi che le alleanze non le fai per principio, vedi alla voce Cinque Stelle, poi finisci comunque impiccato a un contratto di governo con un partito di destra, delle cui idee non condividi nulla, ma dal quale non sei in condizione di smarcarti.

In questi giorni, il grande teatrino nazionale degli accordi e disaccordi, trasloca su palcoscenici oltre confine, in occasione delle elezioni europee, dove Popolari rimasti senza popolo, Socialisti che hanno dimenticato il sociale e l’ossimoro ambulante di sovranisti raccolti in un’Internazionale, sono tutti in gran fermento per capire con chi si devono alleare. Tutti temporeggiano sul cosa, perchè prima di legarsi eccessivamente a dei contenuti che limitino la libertà di movimento, conviene prima capire con chi.

Commovente l’impasse del Ppe per esempio, indeciso se cedere alla tentazione sovranista sperando di ricorroborarsi e di scongiurare l’estinzione, facendo fare da battistrada a Orban, lo stesso appena sospeso per le politiche illiberali, o se rimanere stretto nell’abbraccio coi socialisti mentre fuori tutto trema. Quasi commovente come la Lega, che è convinta che a scongiurare i 23 miliardi di aumento dell’Iva sarà la nuova Commissione a impronta sovranista, mentre, nel frattempo, il portavoce dell’Afd, uno dei componenti della suddetta Internazionale, dichiara senza alcuna incertezza come le loro visioni sui conti pubblici siano del tutto divergenti.

Ma di questi tempi funziona così: le alleanze si portano con leggerezza. E soprattutto, senza impegno.

La strada impervia dal Salone di Torino a Casal Bruciato

Andare o non andare: that is the question. Attorno al Salone del libro di Torino (straziato in questi anni da indicibili guai e salvato dalla dedizione e dagli sforzi del gruppo di lavoro guidato dal direttore editoriale Nicola Lagioia) si sta consumando un dramma a cui non siamo nuovi. Come è noto all’intero orbe terracqueo – vista la risonanza della notizia – a causa della presenza di un editore vicino a CasaPound alcuni scrittori e intellettuali (tra cui i nostri amici Tomaso Montanari e Salvatore Settis) hanno annunciato che non saranno al Lingotto, per protesta contro la presenza dei fascisti, incompatibile con la loro. Contemporaneamente alle defezioni, è partita la campagna #iovadoatorino, sostenuta da altri scrittori che invece intendono ribadire la loro posizione antifascista non lasciando il campo libero ai sedicenti nipotini del Duce. C’è chi pensa che il Comitato di indirizzo debba fare una sorta di “scrematura democratica” quando concede gli spazi e chi pensa che le idee si combattano con altre idee, dunque con la presenza e non con l’assenza.

Per un decennio chi scrive ha raccontato ai lettori di questo giornale le edizioni del Salone. Quelle berlusconiane, in cui gli editori si mobilitavano contro le leggi bavaglio o in cui i vertici del Salone (e della Regione, allora forzista) prendevano le distanze dal professor Franco Cordero reo di sbeffeggiare il sire-caimano, a quelle in cui si registrava la presenza degli stand della massoneria. O peggio, anzi peggissimo: abbiamo raccontato di editori discussi e discutibili come le Edizioni di Ar di Franco Freda (sulla cui fede fascista e peggio ci sono pochi dubbi e qualche sentenza) o Sensibili alle foglie dell’ex brigatista Renato Curcio (che ha scontato 28 anni di carcere). Non abbiamo mai pensato naturalmente di appiccicare al Salone di Torino l’etichetta di massone o terrorista.

Però è vero, il confine è molto sottile e genera interrogativi davvero amletici: sdognare la censura costituisce un pericoloso precedente e facilmente mette i nuovi Catone dalla parte del torto, perché li fa incappare nel medesimo errore/orrore che vorrebbero denunciare, ovvero l’intolleranza. Però è vero che i principi costituzionali non possono essere calpestati in nome della libertà d’espressione. Gli editori fascisti, o nazisti, al Salone ci sono sempre stati, e dunque? Settis e Montanari indicano nel “contesto” le ragioni della differenza con la situazione di oggi: non hanno tutti i torti. L’editore contestato ha pubblicato un libro intervista all’onnipresente Matteo Salvini (a cui purtroppo è stata fatta molta pubblicità gratuita) le cui idee, secondo alcuni, sono in urto con i principi costituzionali. Ma la battaglia al Salone è forse fuori luogo, nel senso letterale dell’espressione: sarebbe più opportuno combatterla a Casal Bruciato, dove per la terza volta in pochi mesi, una famiglia Rom è stata pesantemente minacciata da attivisti di CasaPound e dove certamente una campagna anti-fascista per affermare l’uguaglianza e la dignità di tutti non rischierebbe di apparire salottiera (o autopromozionale). Le liste di proscrizione evocano i fantasmi che si vorrebbero cacciare, ma soprattutto: sostenere la necessità di una patente democratica elargita da qualcuno ci espone tutti al pericolo di venire prima o poi tacitati. L’idea costituzionale è superiore proprio perché si fonda sulla tolleranza. Ora la magistratura, dopo la denuncia di Chiamparino e Appendino, forse accerterà se Casapound e affini fanno apologia di fascismo: ad alcuni apparirà come un escamotage per escluderli dal Salone, ma non è affatto un male. Sono gli anticorpi giusti, quelli costituzionali.

B. e la triste parodia del don Giovanni

Abbiamo visto, riprodotto su ogni medium possibile come i filmati delle catastrofi, il video di Berlusconi che si concede ai microfoni all’uscita dal San Raffaele, dove è stato operato d’urgenza per un’occlusione intestinale: al netto dell’illogica spacconeria dei suoi anni verdi stirati nell’inverosimile presente (o forse proprio in virtù di questa), ci siamo intristiti pensando che la sua con l’Italia è a tutti gli effetti una storia d’amore.

Lo stato attuale della relazione tra il Paese e l’amante ferito Berlusconi è una pace terribile, dopo la violenta ebbrezza, la vitalità gagliarda, il furore d’autodistruzione morale che ha portato la sua vicenda biografica e ghiandolare a sovrapporsi all’identità e ai destini di una nazione. Il Berlusconi che riferisce agli italiani il suo bollettino medico è un uomo che non vuole lasciare ad altri il racconto delle sue gesta geriatriche, come Giulio Cesare; da lui abbiamo appreso di sue prostatiti, uveiti, tendiniti, malori da comizio; abbiamo commentato con parole sue ogni impianto di pacemaker, sostituzione di valvola, intervento chirurgico, beninteso di medicina interna e mai invece quelli estetici, che afferiscono paradossalmente alla sfera del segreto perché riguardano la superficie, la dimensione che gli è più cara.

“Tutti sanno che i dolori, le disavventure fisiche non mi hanno mai fermato. L’unica malattia inguaribile che mi affligge è l’ottimismo” aveva detto al Corriere il giorno prima, con l’anestesia ancora in circolo. Costretto anche nell’indisposizione a mostrarsi disponibile, nella malattia a mostrarsi sano, nella convalescenza a mostrarsi riabilitato, sempre costretto dal suo destino, cioè dal suo carattere, a onorare come vero il contrario di ciò che è vero, ostentando l’abbronzatura antica egizia da lungodegente dei lettini a raggi Uva ha rassicurato: “Ho avuto una ripresa formidabile”. Certo, aveva un attimo prima evocato la morte, ma proprio come fanno gli amanti traditi, che minacciano l’irreparabile per dare più sostanza alla recita della spensieratezza che sola si accompagna a Eros: “Ho avuto una bella paura. Tante cose che si sono succedute negli ultimi tempi mi hanno fatto pensare di essere arrivato alla fine del girone”.

Fa riflettere quel lapsus, “girone” in luogo di “giro”, se la sua vita è stata una giostra, come pensavamo, e non un inferno come si dovrebbe dedurre Freud alla mano; e nel caso chissà quale girone pensa di aver abitato finora, visto che, messa sotto la lente dantesca, la vita che ha condotto consegnerebbe la sua anima ad almeno sette cerchi diversi: Lussuriosi; Fraudolenti; Ruffiani e Seduttori; Adulatori e Lusingatori; Barattieri (che traggono profitti illeciti dalle loro cariche pubbliche); Ladri; Falsari; forse anche Maghi e Indovini (coloro che sono convinti di avere poteri riservati esclusivamente a Dio), e chissà come Minosse giudicherà. (Ci viene ora in mente che forse il girone a cui Berlusconi alludeva fosse quello calcistico, dove il suo ventennio è stato l’andata e le prossime Europee saranno il ritorno del suo personale e interminabile campionato, e allora ridiventa tutto coerente e incredibile, tutto berlusconiano).

“Farò campagna elettorale nelle due ultime settimane prima del voto, mi sento ancora utile per il futuro degli italiani, degli europei e dell’Occidente”, e questa è variazione recentissima dentro una vecchia fiaba, suggerita chissà da chi (Tajani?): che lui si frapporrà col suo corpo, con tutte le sue vicissitudini intestinali, tra l’Italia e la Cina che ci vuole colonizzare; Forza Italia unico argine alla caduta della civiltà.

La vecchia gloria del cabaret indossa il trucco e parrucco di sempre ignorando il baratro che si è spalancato sotto i suoi piedi, non tanto quello anagrafico, quanto quello dell’amore smagnetizzato con l’oggetto della sua ossessiva voluttà predatoria. L’Italia l’ha tradito prima con Renzi (un amorazzo finito male), ora con Salvini, e il priapismo delle statuine goliardiche delle famigerate cene (e quindi il suo) non può risolversi in quel caldo e sereno affetto di cui il libro celebrativo post-ospedaliero L’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio (Mondadori, 2010) è il manifesto massimo, ma solo in un’irreparabile malinconia. Non però la malinconia di Don Giovanni: dell’antieroe tragicomico di Mozart, l’eroe teleculturale Berlusconi è la perfetta parodia (ve lo immaginate Leporello pagare testimoni perché giurino sulla castità del suo signore?). Sciascia scrisse della sindrome di Don Giovanni come della ripetizione nella vecchiaia della legge per la quale da bambini si vuole sentire sempre la stessa fiaba: “Il dongiovannismo è un prolungamento di immaturità: fino al rimbambimento, che è poi la giusta preconclusione, e alla morte… Ci faccia caso: tutti i dongiovanni finiscono col rimbambire”; a ben vedere, l’unica legge a cui Berlusconi sia mai sottostato.