“Non espellete Camelia”, eroina spagnola incinta degli anti-Eliseo

I francesi hanno preso a cuore il caso di Camelia, 34 enne spagnola fermata durante il corteo del primo maggio con uno sorta di scudo di fortuna per proteggersi e la maschera antigas e che ora è sotto minaccia di espulsione. Camelia, che è dunque cittadina europea, vive a Parigi dal 2002, ha un compagno (francese), lavora (con contratto a tempo indeterminato, ma piccolo stipendio) in un’associazione per la cura degli animali ed è al secondo mese di gravidanza. Da novembre si è unita alla protesta dei Gilet gialli e dice di non aver perso neanche un sabato. È scesa in strada anche il primo maggio.

Camelia si definisce “militante pacifista”. Lo ha scritto anche sul suo scudo: “Mi serve solo per proteggermi. Non attacco”. Per non respirare i lacrimogeni si porta dietro la maschera antigas. Ma il giorno della festa dei lavoratori i poliziotti che la controllano sul boulevard Raspail le trovano addosso “potenziali armi”. Dopo 34 ore di fermo, la procura archivia il caso e la giovane donna torna a casa.

Due giorni dopo, la sorpresa: Camelia si trova la polizia alla porta che la trasferisce in un Centro di espulsione amministrativa, a Parigi, con l’obbligo di lasciare il territorio francese. Il motivo? “Minaccia all’ordine pubblico”. Scoppia il caso: i media parlano di lei, circolano delle petizioni online per chiedere la sua liberazione, i social si scatenano, esperti e giuristi analizzano la situazione che responsabili socialisti definiscono “inaccettabile”. Il collettivo Droits des femmes lancia un appello a manifestare davanti al tribunale di Parigi. Alla fine, domenica, i magistrati hanno deciso di rimetterla in libertà, ma la minaccia di espulsione resta. L’avvocato di Camelia ha fatto ricorso. Per lui “questa procedura è illegale”.

“Isolare l’ultradestra si può. In Spagna”

“Per ora quest’ultradestra non mi fa paura. Mi spaventa di più il fronte sovranista in Europa”. A una settimana dalle elezioni che in Spagna hanno dato la vittoria ai socialisti dopo 11 anni – ma che hanno anche portato i sovranisti di Vox al Parlamento per la prima volta dalla fine della dittatura – lo scrittore e saggista Antonio Muñoz Molina ci parla della “nuova Spagna”, “un altro paese” rispetto a quello de Il vento della Luna. Il suo romanzo che presenterà al Salone di Torino narra l’allunaggio visto da un adolescente della Spagna rurale ai tempi di Francisco Franco.

Com’è il suo Paese oggi rispetto a 50 anni fa?

Allora stavamo per aprirci al mondo come il bambino che si affaccia al mondo degli adulti. Mancavano 6 anni alla morte di Franco, ma già molto stava cambiando. Oggi è un altro mondo, il Primo.

Il dittatore è descritto come un vecchietto quasi ridicolo.

Sì, perché è visto da un bambino. Quando pubblicai il libro, mi criticarono per aver dato una visione edulcorata del franchismo. Non è così: ma per un dodicenne del ‘69, Franco era un vecchietto ridicolo che parlava in tv con una vocetta flebile.

D’altra parte, i suoi nonni ancora lo temevano al punto da alzarsi in piedi vedendolo in tv.

Hanno partecipato alla Guerra civile, per loro non era finita.

Sembra che qualcosa di quegli anni sia tornato, come l’ultradestra di Vox.

Questa ultradestra è più europea, anche se in ogni paese utilizza argomenti locali. Ha in sé una parte molto antiquata, simile a quella di quegli anni, e a me questo mi fa tremare. Quando parla di “anti-Spagna” mi ricordo quando lo dicevano i franchisti. Ma è anche moderna, somiglia a quella italiana o ungherese. Con una differenza fondamentale: la spagnola per ora non ha radicamento popolare.

La teme?

Per ora no. Avevo paura che la destra moderata fosse così miserabile da essere disposta a farci un patto.

Sembra che non accadrà

Fortunatamente no. E ne sono molto contento.

Negli anni 60 e 70 gli Stati Uniti rappresentavano il progresso. È così oggi?

No. Ora siamo molto più avanzati di loro. Quello era un miraggio ispirato anche dal cinema. Il mondo rurale dell’America allora non era più sviluppato della Spagna. Ma ci vendevano sogni come pacchetti di patatine.

Il protagonista pensa al futuro sempre in positivo, non avrebbe immaginato che il 2000 avrebbe inaugurato il terrorismo.

A quell’epoca si facevano mille ipotesi sul futuro, tutte incoraggianti. Ora si pensa al futuro solo per predire catastrofi. Il terrorismo ha cambiato molto le cose.

Come vede la Spagna tra 20 anni?

Non sono pessimista. Ho visto migliorare molto la vita in questo Paese più di quanto fosse immaginabile quando morì Franco. Nessuno allora pensava che potessimo diventare un Paese europeo, sviluppato, democratico, egualitario, dove le donne avessero gli stessi diritti degli uomini, con il matrimonio omosessuale. Non è che ci sembrasse impossibile, neanche lo immaginavamo.

Come è stato possibile?

Grazie agli emigrati che tornarono portando la prosperità economica con l’arrivo della democrazia. E poi abbiamo avuto la fortuna di entrare nell’Unione europea. Noi sappiamo cosa significhi essere isolati dal resto del mondo.

Sequestro per i Gilet gialli. Yanis spaventa la Francia

Blagnac, periferia di Tolosa, sud della Francia. Sono le 16 e 15 di ieri. Un giovane di 17 anni parcheggia la moto davanti ad un bar tabacchi e fa irruzione dentro. Ha il volto coperto dal casco, una telecamera GoPro fissata sul davanti del giubbotto ed è armato. Chi c’è dietro il casco? Yanis D. vive a Blagnac e il prossimo mese compierà 18 anni.

È un gilet giallo. “Sono il braccio armato dei gilet gialli di Tolosa”: così si è definito il giovane in una lettera, una sorta di testamento, lasciata ai familiari e trovata dagli inquirenti nella sua abitazione. Alle 16 e 21 le cose degenerano. Forse voleva rapinare il locale e andarsene con i soldi, cominciano a dire alcune fonte locali.

Ma le cose non sono andate così. Il diciassettenne si barrica dentro e prende in ostaggio cinque persone. Tra loro ci sono quattro donne, la proprietaria del locale e tre clienti. Diversi veicoli del Raid, le forze speciali della polizia francese, arrivano sul posto. Vedendosi accerchiato il sequestratore abbassa le saracinesche del bar. Il quartiere viene isolato. I dipendenti e clienti di un’agenzia di viaggi accanto al bar è stata evacuata. Gli abitanti sono pregati di restare chiusi in casa.

Dopo più di cinque mesi di crisi sociale, sarebbe il primo gesto del genere a essere portato avanti in nome del movimento di protesta che da novembre scorso scuote la Francia e che tutti i sabato spinge nelle strade migliaia di persone.

Nella sua lettera Yanis ha scritto che “ha a cuore” il movimento di protesta, a cui rivendica l’appartenenza.

Il procuratore della Repubblica di Tolosa, Dominique Alzeari, ha detto ieri sera che dalla lettera emerge che il suo è lo stato d’animo di una persona “depressa”. Ha scritto che si “preoccupa per la sua salute” ma ha anche precisato che “non era sua intenzione” di fare del male agli ostaggi. Che voleva solo fare “un’azione spettacolare”.

La pista terroristica, la prima a venire in mente in Francia in questi casi, è stata dunque subito scartata.

Il procuratore Alzeari ha confermato che il giovane era noto alle forze dell’ordine per fatti di violenza, in particolare contro la polizia, e per furto. Ogni volta è stato condannato.

A dicembre è stato fermato a Tolosa durante una marcia dei gilet gialli per “aver partecipato ad un raduno in vista di commettere violenze e danni”. Ma non era catalogato come “individuo pericoloso”, ha precisato il procuratore.

Dopo essersi chiuso nel bar con gli ostaggi, è stato lui a chiamare la polizia, secondo i primi elementi che sono emersi con il contagocce nel corso del pomeriggio. Ha chiesto di parlare con un “negoziatore” ma ha anche intimato ai poliziotti di non provare ad entrare nel bar e di allontanarsi altrimenti avrebbe “abbattuto un ostaggio”. Ha più volte sparato in aria e contro gli agenti per convincerli a ritirarsi. Al negoziatore avrebbe dunque riferito le sue rivendicazioni.

Tre ore dopo, il primo ostaggio, un uomo, un cliente del bar, è stato liberato: “È entrato col casco in testa, ma il volto non era coperto – ha raccontato l’uomo – e aveva anche un telecamera GoPro. Ci ha detto che era per il nostro bene”.

Solo verso le 20 un secondo ostaggio è stato liberato, una delle donne.

Alle 21 ha lasciato uscire anche le altre tre donne che si trovavano con lui all’interno del bar tabacchi. Sono tutte “sane e salve e in buona salute”, ha precisato Étienne Guyot, il prefetto della regione Haute Garonne.

Alle 22 di ieri sera l’uomo era ancora asserragliato, da solo, all’interno del bar, e il braccio di ferro con le forze dell’ordine era ancora in corso.

Al-Sarraj a Conte: “Maggior sforzo italiano può risolvere la crisi”

“L’Italia con il suo pesointernazionale” potrebbe fare la differenza in senso positivo nel risolvere la crisi libica”. Questa l’esortazione – affidata alla pagina Facebook del governo di concordia nazionale libico – che il capo del consiglio presidenziale libico, Fayez al-Sarraj avrebbe rivolto al premier italiano Giuseppe Conte nel colloquio di ieri Roma. Sarraj ha auspicato “maggiori sforzi” degli “amici italiani” visto il ruolo internazionale del nostro paese tale da poter avere effetti positivi sull’“atteggiamento esitante dei Paesi europei”. Ciò, secondo Serraj, potrebbe accelerare l’interruzione dell’”aggressione” contro Tripoli, “il ritorno delle forze di Haftar nei luoghi da dove sono venute ed evitare ulteriori spargimenti di sangue”. L’impegno del governo italiano “per rivitalizzare un processo politico efficace e sostenibile” è stato ribadito da Conte, che ha “confermato la necessità di evitare ulteriori spirali di violenza per poter avviare un confronto tra le parti sotto l’egida dell’Onu”. Conte ha sottolineato la volontà di “incontrare presto anche il generale Haftar”. Il premier libico “si è felicitato anche per il contributo umanitario dell’Italia contro il terrorismo a Sirte”, così come nell’appoggio alla Guardia costiera libica per rimediare agli effetti” della “migrazione illegale”, nonché “per l’apertura dell’ambasciata”.

“Obiettivo: strade e ponti”. L’affondo di Haftar per i soldi

Un aereo da combattimento di fabbricazione francese, Mirage F21, della milizia di Misurata, alleata del governo di Fayez al-Sarraj, è stato abbattuto dagli uomini del generale Khalifa Haftar. Il pilota, un mercenario portoghese, Jimmy Reiss, 29 anni si è lanciato con il paracadute ed è stato catturato. Durante un interrogatorio, il cui filmato è stato diffuso dai social, ha ammesso di essere stato incaricato di bombardare e distruggere strade e ponti. Ha raccontato di essere stato arruolato da un uomo che si chiama Al Hadi, ma di non conoscere il suo vero nome. Fonti vicine al generale della Cirenaica hanno raccontato che il pilota durante le sue missioni ha colpito obiettivi civili a Tarhunam, Qasr bin Ghashir e Sog Al Khimi. Il primo ministro Fayez al-Serraj è in giro per l’Europa a chiedere sostegno per il suo governo riconosciuto dalle Nazioni Unite ma seriamente minacciato dal generale Khalifa Haftar.

Ufficialmente il generale va sbandierando che “occorre liberare Tripoli dai terroristi islamisti che controllano la capitale”, ma in realtà ci sono altri problemi che attanagliano le popolazioni che gli sono fedeli o delle quali controlla i territori, primo tra tutti il mancato pagamento degli stipendi ai funzionari pubblici. Con gli accordi di Skhirat del 2015, le Nazioni Unite hanno riconosciuto i cosiddetti “organi sovrani”, l’agenzia della contabilità dello Stato, la Banca Centrale, la Compagnia petrolifera nazionale. In base alle intese raggiunte, le royalty pagate dalle compagnie petrolifere vengono versate direttamente alla Banca Centrale la quale poi le distribuisce ai vari attori, al governo di Sarraj e al parlamento di Tobruk, eletto con elezioni organizzate con la supervisione dell’Onu nel 2014. I due governi si adoperano poi per distribuire a chi ne ha diritto le risorse sul territorio che controllano. Da gennaio però la Banca centrale non ridistribuisce più alle regioni orientali e meridionali, controllate da Haftar, la quota spettante, con il risultato che gli stipendi dei funzionari pubblici non sono stati più pagati, cosa che ha messo il generale in seria difficoltà con la sua gente. Il governo Al Thinni, tramite la sede locale della Banca Centrale, quindi ha reagito accendendo prestiti con i Paesi del Golfo, in particolare con gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita. Ecco perché i due Paesi mediorientali lo stanno appoggiando nella sua guerra per conquistare Tripoli. Ma proprio ieri il governo Sarraj ha lanciato pesanti accuse verso gli Emirati Arabi Uniti, alleati di Haftar che, secondo un rapporto dell’Onu, avrebbe usato droni di fabbricazione cinese per bombardare obiettivi civili. La denuncia arriva dopo la rivelazione dell’agenzia France Press che ha preso visione di un rapporto di un gruppo di esperti delle Nazioni Unite incaricato di monitorare l’embargo delle armi, varato nel 2011. Il 19 e 20 aprile è stato registrato un attacco missilistico dell’Esercito Nazionale Libico di Haftar, contro un sobborgo di Tripoli. Persero la vita numerosi civili. Il panel di esperti ha esaminato le fotografie dei rottami degli ordigni e ha concluso che si tratta di missili aria-terra Blu Arrow, in dotazione soltanto a tre Paesi, Cina, Kazakhstan e Emirati, mai usati finora in Libia. Nel rapporto segreto inviato al Consiglio di Sicurezza – secondo il resoconto della France Presse – c’è scritto che il “team di indagine sta investigando sul possibile uso dei droni da parte dell’esercito di Haftar o di un soggetto terzo che sostiene il generale”.

Il Consiglio di Sicurezza è profondamente diviso sull’atteggiamento da tenere nei confronti della Libia. Nei giorni scorsi una risoluzione britannica che chiedeva l’invio di una forza multinazionale di interposizione di caschi blu è stata accantonata per l’opposizione di Russia e Francia ma anche, alla fine, degli Stati Uniti che hanno chiesto tempo. Anche il governo britannico comunque ora sostiene che, nonostante l’offensiva su Tripoli, qualunque soluzione politica non può prescindere dalla presenza di Haftar in un futuro governo.

Pace fiscale, oltre 1,7 milioni di richieste. Riapertura domande

Ammontano a 1,7 milioni le domande per aderire alla “pace fiscale” che comprende la rottamazione ter e il saldo e stralcio. Mentre sono 5 milioni i contribuenti che, su una platea di circa 12 milioni, si sono visti stralciare in automatico a inizio anno le micro-cartelle da 1.000 euro ricevute da Equitalia tra il 2000 e il 2010. La rottamazione ter (quella per le cartelle che vanno dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2017) ha fatto registrare un’adesione oltre le aspettative, anche perché offre delle condizioni molto più vantaggiose: un piano di pagamento fino a 5 anni. Non va, invece, oltre le 300mila adesioni la sanatoria per chi ha un Isee fino a 20.000 e che consente di chiudere i conti versando un quota a forfait (16, 20 e 35%) a seconda dell’Isee. Secondo i dati contenuti nel Def, le operazioni di rottamazione degli ultimi tre anni garantiranno nel 2019 incassi per 949 milioni di euro, che saliranno a 1,5 miliardi di euro nel 2020, 1,3 miliardi di euro circa nel 2021, per sfiorare 1,7 miliardi di euro nel 2022. Il sottosegretario del ministero dell’Economia Massimo Bitonci ha confermato la riapertura dei termini grazie a un emendamento al dl Crescita. Ma la nuova pace non riguarderà il 2018.

L’euro-Pd di Zinga riparte dal burocrate

Appare a un certo punto in collegamento, dall’alto, su una sorta di mega schermo Pierre Moscovici al Tempio di Adriano a Piazza di Pietra, a Roma. Più di un ospite d’onore, quasi un’entità astratta, da tenere in altissima considerazione il commissario europeo agli Affari economici. L’occasione è l’apertura della campagna elettorale del dem Roberto Gualtieri, eurodeputato uscente, presidente della Commissione per i problemi economici e monetari, collocato nel 2016 da politico tra gli otto deputati più influenti del Parlamento europeo. Sul palco con lui, Paolo Gentiloni. In prima fila, Pier Carlo Padoan.

Ma lo sponsor principale è proprio Moscovici, il “fustigatore” numero 1 dell’Italia. Quello che a settembre si spinse a dire: “C’è un problema che è l’Italia nella zona euro. C’è un clima che assomiglia molto agli anni 30. Chiaramente non c’è Hitler, forse dei piccoli Mussolini”. Quello che ha sempre additato il nostro Paese come “fonte di incertezza” per l’Europa. Note poi le sue prese di posizione per le riforme costituzionali di Renzi (bocciate nel referendum del 6 dicembre 2016) e prima delle elezioni dell’anno scorso, quando definì l’appuntamento del 4 marzo “un rischio politico” per l’Italia.

Il testimonial perfetto, però, per il Pd zingarettiano e gentiloniano. “Con l’Italia il dialogo è continuo, l’Italia è un Paese talmente importante e rilevante che non possiamo interromperlo – ha detto ieri – l’Italia è una grande economia nella zona euro, che ha successo se ha successo l’Italia”. Per questo “è necessario un riallineamento” dei conti dell’Italia. Poi le indicazioni: “Servono misure che non sono quelle di oggi”. E l’endorsement diretto: “Abbiamo bisogno della sinistra in Italia contro quel populismo che minaccia la Costituzione europea, per questo auguro successo a voi e a Gualtieri”.

L’Europa del presente benedice uno degli eurodeputati di punta del Pd, che non caso è sostenuto in primis dal deus ex machina della vittoria di Zingaretti alle primarie, Goffredo Bettini.

Non solo. Arriva pure quella di Giorgio Napolitano, che manda il suo “augurio caloroso”. Lodi incorporate per Moscovici e Gentiloni, “con i quali ho sviluppato negli anni uno stretto sodalizio personale”.

Gualtieri parte all’attacco: “La tassa Salvini-Di Maio ci costa in tre anni 11 miliardi di interessi aggiuntivi sul debito, che ci portiamo dietro dalla firma del contratto di governo, 150 punti base in più sullo spread che costano 4 miliardi all’anno per l’assenza di credibilità del governo”. E Gentiloni, dall’alto, rincara: “Sono orgoglioso di essere amico di Moscovici, che non è il carnefice dell’Italia, ma è stato l’interlocutore che ha permesso all’Italia di fare i bilanci negli ultimi anni”. Il bersaglio è chiaro: il governo gialloverde e il sovranismo alla Salvini. Piccola notazione: fino a oggi gli endorsement di Moscovici sono stati garanzia di sconfitta sonora. Provare ancora per vedere se il trend si conferma.

Crescita zero e rischio debito: la Commissione avverte l’Italia

L’Italia è il Paese che cresce meno dell’Unione europea, nelle nuove stime della Commissione soltanto +0,1 per cento nel 2019, contro una media Ue dell’1,6. Anche la Germania sta frenando, quest’anno dovrebbe segnare +0,5, ma già l’anno prossimo tornerà a correre a +1,5 mentre l’Italia continuerà ad arrancare a +0,7.

Notizie spiacevoli, quelle contenute nelle previsioni economiche della Commissione presentate ieri, ma prevedibili. Eppure hanno suscitato reazioni: Pd e Forza Italia attaccano il governo, Matteo Salvini minimizza (“le previsioni saranno smentite”), il Movimento Cinque Stelle grida al complotto (“tentativo di colpire il governo”).Intanto lo spread arriva a 266 punti.

“La bassa crescita economica e l’allentamento fiscale avranno effetti sulle finanze pubbliche, con un aumento del deficit e del debito”, si legge nel documento presentato ieri dal commissario Pierre Moscovici. Il tono di queste previsioni è più quello di un avvertimento al governo Conte, più che di una critica. A Bruxelles tutti sanno che i problemi dell’Italia rischiano di diventare rapidamente problemi di tutta Europa, soprattutto se le tensioni politiche e la crescita stagnante dovessero mettere in allarme gli investitori che operano sul mercato dei titoli di Stato. Le due pagine delle previsioni sull’Italia sono quindi caute, ma elencano i problemi che il governo dovrà affrontare dopo le elezioni europee. A cominciare dall’Iva: se il governo non troverà una copertura alternativa, il primo gennaio 2020 l’Iva salirà per garantire un gettito di 23 miliardi. Se il premier Giuseppe Conte manterrà la promessa di Lega e M5S di non aumentare l’Iva, in assenza di coperture alternative il deficit schizzerà al 3,5 per cento, con inevitabile una procedura d’infrazione per deficit eccessivo. Il debito nel 2020 si impennerebbe al 135,2 per cento.

Già si capisce quale sarà la linea delle raccomandazioni della Commissione al governo attese per giugno (il Consiglio europeo, Italia inclusa le dovrà poi approvare): far salire l’Iva e usare i risparmi su reddito di cittadinanza e quota 100 per ridurre il deficit.

Per ora Bruxelles non infierisce, per il timore di polemiche pre-elettorali (Moscovici però se le va a cercare: prima presenta i numeri critici sull’Italia gialloverde, poi va all’iniziativa elettorale di Roberto Gualtieri del Pd). La Commissione teme che il contesto internazionale diventi più sfavorevole con le tensioni dovute alla guerra dei dazi Usa-Cina e la Brexit, mentre consumi e investimenti in Italia restano bassi. Se così fosse, l’Italia si troverebbe priva della principale leva di crescita: l’export. È in arrivo anche un peggioramento del mercato del lavoro, con la disoccupazione che arriverà all’11 per cento nel 2020 (dal 10,2 attuale), ma questo – avvertono da Bruxelles – potrebbe essere in parte un effetto statistico del reddito di cittadinanza: chi prima non cercava lavoro ed era contato “inattivo”, se ottiene il sussidio ed entra in un percorso di formazione verrà classificato “disoccupato”.

Come si concilia questo quadro così precario con i numeri positivi arrivati dall’Istat sul primo trimestre 2019? Il rimbalzo del Pil dello 0,2 per cento, che permette di proclamare la fine della recessione, è arrivato inaspettato. Da giorni gli economisti si interrogano su un dato che non sembra coerente con le attese e con altri indicatori che suggerivano stagnazione.

Bisognerà aspettare i dati definitivi dell’Istat per capire se l’economia italiana si è rimessa in moto un po’ a sorpresa o se è solo un rimbalzo con ragioni diverse, come la ricostituzione di scorte nei magazzini. Dalla risposta dipenderà molto di come il governo si comporterà in autunno, con la legge di Bilancio, nel quadro difficile delineato ieri dalla Commissione.

Penna: “Non sono assenteista, ho avuto un ictus”

Nel numero di ieri Il Fatto Quotidiano ha pubblicato un articolo (“Cerno, Brambilla e gli altri: onorevoli desaparecidos”) sull’assenteismo dei parlamentari. Tra i deputati più assenti è stato citato, basandosi sulle statistiche di Open Parlamento, Leonardo Penna del M5S. Il deputato grillino ieri ci ha spiegato quanto segue: “Ho avuto un ictus mentre ero in campagna elettorale, il 14 febbraio dell’anno scorso. Ogni giorno mi sottopongo a terapia. Sono in malattia, ma partecipo ugualmente ai lavori in aula perché voglio onorare il mandato. Non riesco a essere presente a tutte le votazioni perché ho difficoltà a spostarmi. Ma sto lavorando a due disegni di legge che mi auguro vengano approvati in questa legislatura e che riguardano l’assistenza alla emotività, affettività e sessualità delle persone disabili e i contratti prematrimoniali”. Penna ci tiene anche a precisare: “Agli stessi uffici che hanno fornito i dati sulle presenze avevo a suo tempo firmato una liberatoria per poter esplicitare le motivazioni delle mie assenze”. Purtroppo quelle “motivazioni” non compaiono nelle statistiche ufficiali e non eravamo a conoscenza delle condizioni di salute di Penna: ce ne scusiamo con lui e coi lettori.

La rivolta del selfie: legittima difesa social contro Salvini

Finalmente abbiamo scoperto un modo efficace per sabotare la propaganda social di Matteo Salvini: la rivoluzione del selfie.
Si tratta di andare a uno dei suoi comizi (o preferibilmente arrivare verso la fine, così da non fare numero) e mettersi in fila per fare un selfie con il ministro dell’Interno.

Durante l’attesa, per non destare sospetti tra adoratori e militanti leghisti, è consentito pronunciare frasi quali “Chissà come mai i primi della fila sono solo ragazzoni ben vestiti e in carne, le donne e i bambini dove stanno?” a anche “La fila è lunga ma se voi siete con me, amici, io non mollo!”.

Arrivati al cospetto del capitano, bisogna salutarlo con reverenza e tenere il cellulare pronto in modalità foto o video perché nella pasticceria locale lì accanto sfornano i dolci 20 minuti dopo e lui deve fare il selfie con la crostata ai mirtilli, per cui non ha tempo da perdere. Appena guardate tutti e due in camera e Salvini sfoggia il suo sorriso da ebete 2.0, dovrete dare il via alla protesta facendo o dicendo qualcosa che possa metterlo in profondo imbarazzo.

A oggi, c’è chi gli ha chiesto che fine abbiano fatto i 49 milioni di euro, chi gli ha dato della “merda letale”, chi si è messo a limonare alle sue spalle (due ragazze), chi gli ha chiesto conto di sue frasi sul Sud Italia pronunciate tempo fa. Osservare il sorriso di Salvini che si contrae, che si richiude di scatto a mo’ di pianta carnivora che ha appena ingoiato una mosca, è un momento di godimento assoluto. Diventa persino un po’ rosso sulle gote, il capitano, perché umiliazione a parte, comprende perfettamente cosa accadrà di lì a poco. Sa che quel video, quella foto finiranno in rete, sulle home dei siti di informazione, sulle nostre bacheche Facebook e avrà sì, la viralità che tanto cerca, ma in modalità “zimbello”. Ed è questa la protesta che gli brucia di più. Più di qualunque attacco di Conte, di video di Saviano, di risposta di Fazio, di lezione di Di Maio. In quel caso, lui usa i nemici importanti per rafforzare il suo messaggio, per sottolineare il contrasto tra lui e i buonisti, per enfatizzare il suo manicheismo da bar.

Alla pernacchia del popolo non sa cosa rispondere, perché nella sua narrazione, nella sua propaganda, lui è il popolo. È per questo che la rivoluzione del selfie dovrebbe propagarsi nelle piazze e diventare il peggior spauracchio di Salvini. Altro che Siri, altro che le indagini per sequestro di persone, altro che l’Europa. Bisogna combattere la sua strategia del terrore giocata sulla paura nei confronti degli stranieri con altrettanta strategia del terrore, il terrore dei selfie.

Ogni volta che Salvini vedrà una fila di selfisti ad attenderlo in una piazza, dovrà temere che lì in mezzo ci siano dei sovversivi, dei sinistroidi buonisti radical chic mascherati da leghisti, dei ragazzi, dei vecchi, delle donne pronti a percularlo e a restituirgli un’idea di sé ben più accurata di quella che gli restituisce un selfie. Dovrà cominciare a temere pure il panino con la Nutella o la fetta di torta del pasticcere di Nola o di Cremona, perché magari non se ne accorge, ma sul pan di spagna, in controluce, appare la scritta “Salvini pirla”. Dovrà guardare i telefonini altrui come fossero granate, dovrà vivere in uno stato perenne di legittima difesa, visto che gli piace tanto il concetto. E che Salvini viva le contestazioni pubbliche con un disagio incontrollabile, lo dimostrano gli ultimi due episodi accaduti proprio nelle piazze.

A Salerno una ragazza gli chiede un selfie e intanto, riprendendo tutto col suo cellulare, gli domanda “Ma noi del Sud non eravamo dei terroni di merda?”. Non fa neanche in tempo a finire la frase che Salvini le dice “Cancella!” e la Digos le sequestra il telefonino, tra le proteste della ragazza che ne pretende la restituzione. Cioè, dopo l’agghiacciante pubblicazione del loro selfie after-sex in accappatoio non ha fatto sequestrare il cellulare alla Isoardi e lo fa sequestrare a un’anonima contestatrice. Ma la cosa peggiore è accaduta sempre a Salerno e riguarda invece una protesta vecchia maniera, anch’essa però destinata a diventare virale. Una signora ha appeso sul suo terrazzo uno striscione con su scritto “Questa Lega è una vergogna”. Le persone in piazza lo fotografano, lo pubblicano sui social. Poco dopo la polizia bussa alla porta della signora, che è invitata a togliere lo striscione, altrimenti ci saranno delle non meglio specificate conseguenze legali. Il 41 bis, probabilmente.

Di questo passo attendiamo le prime accuse formali di vilipendio di selfie col ministro o un emendamento alla legge sulla legittima difesa che estenda il diritto di sparare anche a persone che appendono striscioni di protesta sulla facciata di condomini, perché se li esponi nel salotto di casa tua non ti succede niente, ma se mi sbucano fuori all’improvviso tra i fili per i panni e la grondaia io sparo.

Morale: la nuova forma di resistenza al pensiero salviniano parte da qui, dalla rivoluzione del selfie. Viralizziamo la nostra protesta usando la sua faccia. Facciamo che i metodi della sua propaganda diventino i nostri e che la nostra telecamera frontale diventi un autentico frontale, per lui e per il suo proselitismo. Facciamolo adesso, finché non gli verrà in mente di chiedere ordine e disciplina pure ai suoi selfisti da piazza, presto tutti in fila, con un grembiule liso, tra militari e cani lupo.

P.s. in questi giorni Salvini è nelle Marche. Durante il selfie chiedetegli che almeno, la prossima volta, la Lega ’sti 49 milioni se li spenda tutti in ciauscolo.