Ponte Morandi, l’ultima volta nelle case che saranno abbattute

L’addio alle case come un messaggio nella bottiglia. Prima di chiudere per l’ultima volta la porta dell’appartamento sotto il ponte, Mimma Certo e sua sorella hanno preso un vecchio quadro. Proprio quell’acquerello con due persone che si abbracciano che per decenni era stato nell’ingresso. E ci hanno scritto un messaggio: “Siamo arrivati qui il 13 giugno 1960 e ce ne andiamo oggi 7 maggio 2019. Abbiamo passato in questa casa momenti felici”. Poi hanno lasciato lì le loro parole, nell’appartamento che tra pochi giorni sarà demolito. Un messaggio per chissà chi; forse per i vigili del fuoco che entreranno a prendere le ultime cose. Per chi sarà incaricato di abbattere il palazzo. Forse soltanto per la casa.

Questa è davvero l’ultima volta. Gli sfollati del ponte Morandi hanno cominciato le visite alle loro abitazioni. Finiranno domenica prossima. Poi chiuderanno definitivamente la porta, si lasceranno il passato alle spalle.

Un addio rinviato a causa dell’allarme lanciato dai sensori posti sul ponte. A Genova nel weekend scorso c’erano freddo e vento forte. Ma poi le operazioni sono cominciate. C’è stato chi ha preso le rose del giardino, chi le lettere dei genitori. Succede così che all’ultimo si lasciano i mobili nelle cucine, le poltrone nei salotti e invece si prendono le parole e i ricordi. “Ho pensato prima di tutto all’anima”, cerca di sorridere Mimma. Lei ha lasciato i piatti, la cucina: “Intanto – racconta – quello che resta andrà alla Comunità di Sant’Egidio”. Nelle ultime quattro ore in casa Mimma ha preso i libri di naturopatia, la sua grande passione insieme con la poesia. E la cosa che le stava a cuore più di tutto: “Una fotocopia della lettera di Galileo Galilei a Thomas Hobbes che avevo fatto durante un viaggio in Inghilterra con un compagno. Era un ricordo troppo prezioso”. Forse i genovesi non sono così pratici, concreti come li si dipinge.

Rogo di dicembre al Tmb Salario, indagati tre vigilanti addetti ai controlli nel centro per rifiuti

Controlli inadeguati al Tmb Salario di Roma. Per questo tre addetti della vigilanza sono stati iscritti nel registro degli indagati della Procura di Roma con l’accusa di incendio colposo per il rogo dell’impianto di trattamento meccanico-biologico (Tmb) Salario dello scorso 11 dicembre. Era uno dei centri più importanti della municipalizzata Ama, che raccoglieva circa 600 tonnellate di rifiuti al giorno, pari a circa un quinto della produzione giornaliera cittadina, che raggiunge picchi medi di 4.500 tonnellate. I tre indagati avrebbero mansioni diverse: il primo al momento del rogo si sarebbe trovato in un’area esterna all’impianto, il secondo era all’interno, mentre il terzo sarebbe il responsabile della sicurezza. In sostanza, secondo gli investigatori, con il loro comportamento avrebbero contribuito indirettamente al rogo. L’impianto Salario era già finito nel mirino dei pm Nunzia D’Elia e Carlo Villani, che hanno aperto un fascicolo per inquinamento ambientale e attività di rifiuti non autorizzata, scaturita dalle denunce dei residenti che ne chiedevano la chiusura, lamentando continui miasmi dei fumi prodotti dallo stoccaggio e trattamento.

Ma tornando al rogo dell’11 dicembre, nei mesi scorsi gli inquirenti hanno cercato di capire perchè l’allarme non sia entrato in funzione, e come mai le telecamere risultavano spente già il 7 dicembre, quattro giorni prima del disastro. Inoltre anche l’allarme anti-incendio non era funzionante. La risposta sta per ora nell’omesso controllo dei vigilanti, che adesso sono finiti sotto indagine. I pm indagano anche sull’incendio dell’altro impianto Ama di Rocca Cencia, andato in fumo il 24 marzo. In questo caso il reato ipotizzato è danneggiamento seguito da incendio, con il sospetto che sia stato doloso. Come per il Salario, anche in questo caso ci sarebbe stata un’inefficienza nel funzionamento delle telecamere, che sarebbero state puntate verso l’esterno.

Operai della Blutec incatenati ai cancelli della fabbrica: “Andremo avanti a oltranza”

Gli operai della Blutec di Termini Imerese sono tornati a manifestare fuori dallo stabilimento nel Palermitano con tre ex lavoratori che hanno deciso di incatenarsi ai cancelli per una protesta che, hanno annunciato, “andrà avanti a oltranza”. Dovevano essere protagonisti della rinascita dello stabilimento ma, dopo anni di ritardi, gli operai si sono ritrovati con un’azienda posta sotto sequestro in un’inchiesta per malversazioni. “Questi lavoratori sono stati tutti licenziati e 62 sono senza ammortizzatori sociali dal primo di gennaio”, spiega Roberto Mastrosimone, segretario regionale della Fiom Cgil. “Gli operai continueranno la protesta fino a quando non arriveranno risposte concrete da parte del ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, che è venuto ben due volte a Termini Imerese prendendo impegni precisi sia sul fronte della tutela degli ammortizzatori sociali sia sul fronte del rilancio dello stabilimento”, spiegano dalla Fim Cisl e dalla Uilm.

Sono 8 anni (e 6 governi) che i 700 dipendenti, 1.000 compreso l’indotto, vengono presi in giro con la consueta girandola di tavoli pluriennali. Nessuno però è riuscito a far ripartire lo stabilimento che la Fiat ha deciso di chiudere nel dicembre del 2009 e che ha abbandonato nel 2011. Da allora le tante ipotesi di rilancio si sono dissolte tra scandali e inchieste giudiziarie che hanno coinvolto alcuni dei gruppi che in questi anni si sono fatti avanti. In ultimo la Blutec, i cui vertici – il patron Roberto Ginatta e l’amministratore delegato Cosimo Di Cursi, sono accusati di malversazione ai danni dello Stato. L’ipotesi è che non abbiano speso 16,5 milioni di euro di finanziamenti pubblici sui 22 milioni ricevuti in totale da Invitalia per la reindustrializzazione della fabbrica siciliana. Il finanziamento sarebbe stato usato per spese non ammissibili, costi fantasma e strani movimenti bancari.

“Trattativa Stato-mafia, da Mannino turpe do ut des con i boss che facevano le stragi”

“Le acquisizioni probatorie confermano inoppugnabilmente il timore dell’imputato di essere ucciso e le sue azioni per attivare un turpe do ut des, con l’obiettivo di stoppare la strategia stragista attivata da Cosa Nostra”. Lo ha detto il sostituto pg di Palermo Sergio Barbiera, affiancato dal collega Giuseppe Fici, motivando ieri in aula la richiesta a 9 anni di reclusione nei confronti dell’ex ministro Calogero Mannino, imputato per minaccia a corpo politico dello Stato nel processo-stralcio di appello per la trattativa Stato-mafia. È la stessa condanna chiesta dal pm nel giudizio di primo grado (celebrato con il rito abbreviato e conclusosi il 4 novembre 2015 con un’assoluzione “per non aver commesso il fatto”) e la replica del politico non si è fatta attendere: “La richiesta che l’ufficio della Procura generale ha avanzato – ha detto – è priva di ogni fondamento e prova”. Mannino ha definito una fake news la tesi della Procura generale secondo cui l’ex ministro, convinto di essere finito nella black list dei nemici di Cosa Nostra, nel ’92 fornì ai suoi contatti del Ros l’input per avviare una interlocuzione sotterranea con le cosche e salvarsi la vita.

Il processo di secondo grado è iniziato il 10 maggio 2017 davanti ai giudici della prima sezione della Corte d’appello di Palermo presieduta da Adriana Piras. Durante il dibattimento, la Corte ha riaperto l’istruttoria per riascoltare alcuni testi tra cui la giornalista Sandra Amurri, querelata dall’imputato, l’ex presidente della Camera Luciano Violante, il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, il geometra Pino Lipari, e Nicola Cristella, l’uomo che scortava il vicecapo del Dap, Francesco Di Maggio. Brusca in aula ha confermato di aver ricevuto l’incarico di predisporre, subito dopo l’attentato di Capaci, l’omicidio di Mannino. Nella requisitoria, il pg Barbiera ha ricordato anche le dichiarazioni del pentito Francesco Onorato, che riferì come Mannino “si doveva uccidere”. E quelle del collaboratore Antonino Giuffrè che ha spiegato come “Falcone, Lima e Mannino fossero nella lista delle persone da uccidere”. Quasi un anno fa, nella sentenza del processo celebrato parallelamente col rito ordinario davanti alla Corte d’assise di Palermo (depositata il 19 luglio 2018) i giudici, ribaltando l’assoluzione del gup Marina Petruzzella, hanno scritto che l’ex ministro dc non si rivolse al generale del Ros Antonio Subranni per essere protetto, ma proprio per attivare un canale “info-investigativo”, e hanno sostenuto che “le preoccupazioni di Mannino non sono state estranee nella maturazione degli eventi poi definiti come trattativa Stato-mafia”.

Nei giorni scorsi, a Palermo, davanti alla Corte d’assise d’appello di Palermo, si è aperto anche il giudizio di secondo grado nei confronti degli altri imputati della Trattativa: alla sbarra, oltre allo stesso Brusca e Subranni, gli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, i boss Leoluca Bagarella e Antonio Cinà, Massimo Ciancimino e l’ex senatore di FI, Marcello Dell’Utri, tutti condannati in primo grado.

“Ferita da guerra”, colpita con proiettile “full metal jacket”

Ha riportato “una ferita da guerra”. Così il primario di chirurgia pediatrica Giovanni Gaglione del Santobono, racconta quello che è successo alla piccola Noemi, colpita per errore venerdì 3 maggio durante una sparatoria in piazza Nazionale a Napoli, e ora ricoverata in prognosi riservata. La bimba di appena 4 anni “è sedata e collegata al ventilatore meccanico per il persistere dell’insufficienza respiratoria”. Il proiettile è entrato dalla spalla destra ha trapassato i polmoni: si tratta di un calibro 9 “full metal jacket” con all’interno una corazza di acciaio e all’esterno di gomma. Grazie anche alla forma arrotondata “ha una grande capacità di penetrare, e soprattutto non esplode in tanti frammenti nell’urto con le ossa, come invece accade con una pallottola comune. Quest’ultima – ha precisato il medico – avrebbe distrutto il cuore, l’aorta e gli organi interni: la bambina sarebbe morta all’istante”.

Ieri anche il ministro dell’Interno Matteo Salvini, in campagna elettorale, le ha fatto visita, dopo che nel pomeriggio era arrivato in ospedale anche il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca.

“Io, ex narcos, torno in strada per salvare i figli di Gomorra”

È facile incontrare Pietro Ioia, a Napoli. Basta andare di fronte al carcere di Poggioreale, qualche metro più in là dal luogo in cui venerdì è stata colpita la piccola Noemi, assieme alla nonna seduta in un bar di Piazza Nazionale. La stessa piazza in cui, due giorni fa, si è riunita la rete “DisarmiAmo Napoli” per manifestare contro l’ennesimo fatto di sangue. Antonio Piccirillo, figlio di un boss, megafono in mano, ha preso e distanze dal padre e lanciato un appello: “Dissociatevi da questo schifo e costruitevi il vostro futuro. Lo dico soprattutto ai figli di camorristi: ribellatevi a quel sistema malato”. Antonio – 23 anni, occhi azzurri e biondo come il padre, Rosario ’o biondo – ha ringraziato, “per la spinta a tirare fuori quello che ho dentro” Pietro Ioia, ex camorrista e narcotrafficante.

Ogni mattina, tre giorni alla settimana, Pietro Ioia lo trovi di fronte al carcere, tra il banchetto dove si vendono le borse per le donne che portano il “pacco”, per i loro cari detenuti, e il locale che, per un’ironia tutta napoletana, ha l’insegna “Bar della Libertà”. “Nella mia vita sono partito col piede sbagliato”, dice lui, 60 anni di cui 22 passati in carcere. Oggi Pietro è un’attivista per i diritti di detenuti ed ex detenuti (sua la denuncia delle violenze nel carcere di Poggioreale); un attore (di teatro e di cinema, nel film La paranza dei bambini era il boss che insegnava ai guaglionecelli a tagliare la droga e a gestire una piazza di spaccio); uno scrittore (suo è l’autobiografico La cella zero: morte e rinascita di un uomo in gabbia, Marotta&Cafiero editore). A dimostrare che “se si è tolto il marchio uno come me, possono farlo tutti”.

Come ha conosciuto Antonio Piccirillo?

Sei mesi fa, fu lui a cercarmi. “Io ho mio padre a Secondigliano”, mi disse. Il padre lo conoscevo negli anni ‘80: era il capozona della Torretta. Antonio mi parlò di un problema: nella sala colloqui, in carcere, dove i detenuti possono incontrare per un’ora alla settimana un familiare, era rotto l’orologio. A quelle lancette è appesa tutta l’attesa di una settimana per un sorriso, una carezza, un abbraccio. Anche un secondo in più con i tuoi cari aiuta a resistere dentro. Mi colpirono i suoi modi: spesso chi ha un boss come padre si atteggia a figlio di potente. Antonio no.

Antonio ha urlato agli altri ragazzi come lui: “Dissociatevi”.

Dopo che Noemi è stata colpita, stava come un pazzo. Voleva andare in piazza. Ma non potevo immaginare un discorso così…

Solo a Napoli negli ultimi anni sono stati arrestati almeno 17 ragazzi per 30 omicidi: tutti “figli d’arte” della camorra.

Antonio è una mosca bianca. Ma ci sono altri 4-5 ragazzi con cui sono in contatto, pronti a dare una svolta alle loro vite. Non chiediamo di rinnegare i propri padri, ma di dissociarsi, sì. Come aveva fatto tanti anni fa Nunzio Giuliano, che si era dissociato dal fratello Lovegino e dalla famiglia: era diventato un esempio. Questi ragazzi devono avere un input.

“Sono partito con il piede sbagliato”, lei ha detto rispetto agli errori che l’hanno portata in carcere.

Io all’inizio avevo una piazza di spaccio di hashish da 10 milioni di lire a settimana. Finisco in carcere a 20 anni, una volta fuori partii per la Spagna, e lì conobbi una donna colombiana: mi propose di andare a Pereira per conoscere il suo patrigno, un narcotrafficante della zona. Feci carriera: la prima volta feci entrare 5 chili di cocaina. Avevo denaro, donne. Sarò entrato e uscito 5-6 volte da Poggioreale. Una volta fuori, un po’ perché non cambiavo mentalità e un po’ perché non trovavo lavoro, tornavo a sbagliare. La malavita è un ammortizzatore sociale.

Era giovane, come questi ragazzi che sparano in una guerriglia permanente…

Ero incosciente, colpa anche del luccichio del denaro. È quello che vogliono questi ragazzini: i soldi subito, facili.

Cosa l’ha fatta cambiare?

In carcere ho fatto un corso da carpentiere. Una volta uscito, sono andato a Modena. Ho lavorato per tre mesi, ma non mi hanno assunto: colpa del certificato penale. Per me fu quello l’input per cambiare vita. E poi la cultura, la cultura per me è stata vita. Mi ha fatto rinascere. È l’unico vero antidoto che abbiamo contro il male. Perché le istituzioni estirpano le radici con i blitz, ma se poi su quella terra non ci si lavora, a livello sociale ed economico, la malapianta rinasce. La vera sicurezza è questa: sapere che hai un’alternativa che ti dà da mangiare. Con la mia associazione di ex detenuti Don, anni fa ci dettero la possibilità, grazie a un progetto della Regione Campania, di fare le guide turistiche a Napoli. Finiti i soldi, il progetto è morto. È stato come se ci avessero detto: “Tornate a rubare”.

Alla manifestazione di domenica eravate in pochi…

La gente è stanca. Ma se noi non siamo presenti sui territori con queste manifestazioni, se le istituzioni fanno solo le passerelle in ospedale, come possiamo intercettare i ragazzi come Antonio?

Sono riesplose le polemiche sul “modello drogato degli eroi di Gomorra”, ha detto il sindaco di Napoli.

Ai miei tempi c’era Il Padrino, ma io non sono stato influenzato da quel film. Con o senza Gomorra, la criminalità ha una forza di attrazione fortissima nei confronti dei ragazzi. E se mancano i modelli positivi non è per una fiction o un libro.

Case popolari ai Rom: assedio a una famiglia guidato da CasaPound

Ancora tensioni a Roma sulle case assegnate ai rom. Per la seconda volta a Casal Bruciato, periferia est. Ieri circa 40 persone sono scese in piazza insieme ai militanti di CasaPound, per protestare contro l’assegnazione di una casa popolare a una famiglia rom di origini bosniache (madre, padre e 12 figli) in via Sebastiano Satta. “A partire dalle 17, ci riuniremo in un’assemblea pubblica mentre nei prossimi giorni ci sarà una manifestazione di CasaPound – annuncia Fabrizio Montanini, del comitato di quartiere Tiburtina-Beltramelli –. Una protesta per contrastare i criteri di assegnazione delle case popolari che favoriscono i rom a discapito dei romani”. La famiglia assegnataria dell’alloggio è entrata nell’appartamento scortata dalla polizia: “Ci siamo barricati in casa e abbiamo paura ad uscire”, hanno dichiarato la madre e il padre. Già a Torre Maura e Casalotti, periferie della Capitale, i militanti di estrema destra erano scesi in piazza contro la presenza nel quartiere di rom e migranti. I trasferimenti delle famiglie rom negli alloggi popolari fanno parte di un piano del Campidoglio per superare i campi nomadi.

Bomba contro gli Irriducibili laziali. Sospetti sugli ultrà dell’Atalanta

Per gli ultras laziali e l’estrema destra romana è un episodio di “chiara matrice politica” che addirittura richiama “a un clima da anni 70”. Ma gli investigatori puntano sulla rivalità fra tifoserie. Con un occhio, molto preoccupato, alla finale di Coppa Italia che si giocherà il 15 maggio nella Capitale tra Lazio e Atalanta. Si indaga negli ambienti del tifo atalantino per individuare gli autori dell’attentato incendiario avvenuto nella notte tra domenica e lunedì ai danni della sede degli Irriducibili Lazio di via Amulio, nel quartiere Appio-Tuscolano. Quadrante caro all’estrema destra romana, a pochi passi da una delle principali sedi di Forza Nuova e dall’ex sede del Msi di Acca Larentia, dove nel 1978 alcuni estremisti di sinistra assassinarono due giovani militanti del Fronte della Gioventù (un terzo fu ucciso più tardi da un carabiniere).

Proprio domenica pomeriggio allo Stadio Olimpico di Roma si era disputato il match di Serie A fra Lazio e Atalanta, le due finaliste della Coppa Italia. La Questura di Roma sta già lavorando al piano sicurezza per la finale. È tutto l’anno, infatti, che le due tifoserie se le promettono. I bergamaschi, in parte di sinistra, lo scorso ottobre scorso hanno solidarizzato con i tifosi “gemellati” dell’Eintracht Francoforte, mettendo a segno vari raid ai danni dei rivali biancocelesti, sia in Germania sia nel concitato ritorno nella Capitale. E in un finale di campionato che vede la Dea inaspettata protagonista, anche i suoi ultras appaiono particolarmente intemperanti, come prima della semifinale di Coppa Italia a Firenze, quando in seguito agli scontri sono stati fermati tre giovani ultras nerazzurri. Cresce la tensione in vista della finale, come succede spesso da quando si gioca a Roma: nel 2014, si ricorderà, fu ucciso il napoletano Ciro Esposito.

I capi degli ultras laziali vedono invece un attentato di natura politica, forse una risposta allo striscione da loro esposto a Milano il 25 aprile con scritto “Onore a Benito Mussolini”. Una provocazione, nel giorno della Liberazione dal nazifascismo, a due passi da piazzale Loreto. “Se vogliono tornare al terrorismo degli anni 70, a quel clima, noi siamo pronti. Anzi, io non vedo l’ora e di certo non ci tiriamo indietro”, ha detto Fabrizio Piscitelli, conosciuto come Diabolik, storico capo della Curva Nord dell’Olimpico. “Sanno dove stiamo, sanno dove abito – ha insistito –. Siamo fascisti, gli ultimi fascisti di Roma e non rinneghiamo nulla”. Forza Nuova e CasaPound Roma Sud sono con lui.

Cucchi, il processo ai medici azzerato dalla prescrizione

La prescrizione arriva come una manna dal cielo per i cinque medici dell’ospedale Pertini di Roma imputati di omicidio colposo per la morte di Stefano Cucchi. Il giovane fu arrestato dai carabinieri il 15 ottobre 2009 per possesso di droga e morì dopo una settimana al Pertini per le percosse ricevute in caserma.

Dal momento della sua morte c’è stata una catena impressionante di depistaggi: documenti falsificati, carte sparite e perizie mediche smentite dopo anni. Sono stati i depistaggi a far sì che il primario Aldo Fierro e i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo potranno godere della prescrizione a cui, se volessero, potrebbero rinunciare. Prescrizione che non sarebbe scattata se fosse in vigore la riforma scritta dal ministro Bonafede che la blocca dopo la sentenza di primo grado ma sarà legge, se va bene, nel 2020.

“È una sconfitta per la giustizia” ha detto ieri con grande amarezza il sostituto procuratore generale Mario Remus, durante la requisitoria del terzo processo d’appello ai medici, verso i quali è stato durissimo: “Sarebbe bastato un tocco di umanità, un gesto, per convincere Stefano Cucchi a bere e a mangiare un po’ di più, per salvarlo”. Quando fu portato in ospedale – ha proseguito – “da parte dei medici ci fu un sordo disinteresse per le sue condizioni, non c’è stato alcun ascolto clinico. È vero, forse era un paziente difficile, ma perché aveva anche delle recriminazioni per come la giustizia lo stava trattando, visto che era incensurato”. Il pg ricorda “gli elementi che indicano la sciatteria e la negligenza che imperversava all’ospedale”, prova ne è la cartella clinica che non indicava mai “quanto beveva. Era un paziente trascurato o forse si voleva nascondere qualcosa”. I medici, inizialmente processati per abbandono d’incapace, furono co-imputati anche di tre agenti della polizia penitenziaria finiti sotto accusa per i depistaggi dei carabinieri, assolti in via definitiva e parte civile al processo in corso a cinque militari, imputati a vario titolo di omicidio preterintenzionale, falso e calunnia.

I medici, invece, furono condannati nel giugno 2013 per omicidio colposo e poi assolti in appello, ma la Cassazione annullò con rinvio la sentenza. Altra assoluzione all’appello bis, altro annullamento della Cassazione e ora terzo appello e prescrizione.

Il pg Remus sottolinea che il processo “evidentemente è iniziato male, con imputazioni traballanti e con una perizia in primo grado che è arrivata a valutare i fatti in maniera evidentemente erronea”. Il riferimento è alla prima perizia che aveva parlato di morte per “sindrome da inanizione”, per fame e sete, cioè si escludeva che Cucchi fosse arrivato in ospedale con lesioni alle vertebre lombari, in particolare alla L3, come stabilito tre anni dopo dal professor Carlo Masciocchi, un luminare della radiologia interpellato dalla famiglia Cucchi e dall’avvocato Fabio Anselmo. Il professore ha testimoniato anche al processo in corso ai carabinieri così come la dottoressa Beatrice Ferragalli, coinvolta a sua insaputa nella prima perizia del 2012 . Ha raccontato che le arrivarono “un sacco di ossa, tra cui uno” di Cucchi, per esaminarli con un nuovo apparecchio, ma per dentisti. Riuscì a vedere, ha spiegato, solo una parte della L3, molto importante per l’indagine: “Un referto ufficiale l’avrei anche fatto se me l’avessero chiesto. Oppure no, non lo so”.

“È un processo del tutto sbagliato, fatto a spese e sulla pelle della nostra famiglia” è la reazione di Ilaria Cucchi e l’avvocato Anselmo definisce la dichiarazione di prescrizione “lo stigma finale di 7 anni di depistaggi dei quali, dal 21 maggio in poi saranno chiamati a rispondere generali e alti ufficiali dei carabinieri”. Imputati in udienza preliminare, tra gli altri, il generale Casarsa e i tenenti colonnelli Cavallo e Soligo.

Soldi per i permessi a rifugiati e migranti: 18 arresti in 2 indagini

Soldi in cambio del permesso di soggiorno o dell’asilo: 18 arresti ieri in due diverse indagini della polizia, una a Cagliari e una a Bergamo. Nel capoluogo sardo, il “prezzo” andava dai 500 ai 6 mila euro: 11 ordini d’arresto ma tre dei destinatari sono latitanti. Parte del denaro era per i due segretari della Commissione territoriale della Prefettura per il riconoscimento della protezione internazionale, dipendenti del ministero dell’Interno: sono stati ripresi della telecamere mentre contavano il denaro, ora sono in carcere. Secondo il Gip, i due garantivano una corsia preferenziale a chi pagava. Al vertice dell’organizzazione, l’ex presidente della Comunità bengalese di Cagliari, che aveva il compito di procacciare i clienti. A Bergamo, invece, la polizia ha arrestato 10 persone. Fornivano false residenze a cittadini cinesi con una tecnica rodata: accompagnavano i clienti in appartamenti dove rimanevano giusto il tempo del controllo della polizia. Lo scopo era ottenere il nulla osta al ricongiungimento familiare di un parente. Il costo di una pratica di ricongiungimento si aggirava sui 9 mila euro, mentre il rinnovo del permesso di soggiorno sui 3 mila.