pallottole su chi occupa le fabbriche?

Non vorrei fosse un’esagerazione, ma temo che vi sia un aspetto, anche se certamente estremo, che è stato trascurato nel dibattito sulla riforma appena varata della legittima difesa. Si tratta dei riflessi che essa potrebbe avere anche nelle vertenze operaie.

C’è infatti una forma di lotta sindacale, efficace quanto simbolica, cui è spesso ricorso il movimento operaio. Si tratta dell’occupazione delle fabbriche, una misura la cui liceità è stata oggetto di un tormentato dibattito, tra chi la colloca a tutti gli effetti tra le espressioni legittime del diritto di sciopero e chi la considera tout court illegale. Ma essa è comunque rimasta nella pratica sindacale e mantiene ancora oggi intatta la sua forza.

Ebbene, leggendo la nuova formulazione dell’articolo 52 del codice penale, laddove si allarga per così dire la sfera di operatività della legittima difesa, non solo alla tutela della incolumità fisica di un essere umano, ma anche alla difesa dei beni, parrebbe proprio che, di fronte a un gruppo di operai armati di cesoie e bastoni, che forzino i cancelli della fabbrica e entrino per occuparla, sia legittimo sparare, e anche ucciderli. La proporzionalità è “presunta” per legge. E non c’è dubbio che sarebbe un atto compiuto “per respingere l’intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone”.

Non è certo una novità, nella storia del movimento sindacale, che operai in lotta vengano falciati dal fuoco di fucili e mitraglie durante gli scioperi e le manifestazioni. Si sperava, però dovesse restare un ricordo del passato. Quello del generale Bava Beccaris, “il feroce monarchico Bava”, del massacro degli spartachisti, o del Cile di Pinochet. Qui poi c’è l’ulteriore novità che il fuoco non verrebbe dalla forza pubblica, ma da vigilantes privati, qualcosa che fino a oggi sembrava appannaggio esclusivo delle grandi fazendas

centroamericane, e dei feroci impiegati delle multinazionali della frutta.

E che cosa possiamo dire di questa delega che lo Stato fa dell’uso della forza ai privati cittadini? Che si tratta di una forma esasperata di federalismo? Un federalismo spinto oltre ogni limite conosciuto? Ognuno “padrone a casa sua”, letteralmente, con diritto di vita o di morte su chi entra. Ricorda certi romanzi apocalittici di fantascienza o i castelli che provvedevano da sé alla propria difesa nei periodi più oscuri della nostra storia.

Una sorta di pena di morte, comminata ed eseguita senza altra procedura che non sia quella di premere il grilletto, una specie di esecuzione extragiudiziaria, come quella che certi Stati condividono con Cosa Nostra e le gang latino-americane della droga.

Ho paura che questa riforma della legittima difesa non sia stata una buona idea. E credo che non servirà nemmeno a dissuadere troppo i criminali. I dati storici forniti dallo Fbi dimostrano che, negli Stati Uniti, il tasso di omicidi è stato, negli Stati che hanno mantenuto la pena capitale, superiore a quello registrato negli Stati che l’hanno abolita. Dunque, altro che dissuasione!

D’altronde la criminologia e il pensiero scientifico, fin dai tempi di Cesare Beccaria, lo hanno sempre saputo.

Un effetto però la pena di morte lo ha sicuramente, quello di imbarbarire ancor più i delinquenti. Non vorrei – ma lo temo – che ciò accadesse anche con questa pena di morte “privata” appena introdotta nel nostro ordinamento.

Non vorrei, per dire, che chi decidesse di rubare in casa altrui (e non si lasciasse dissuadere dalle nuove norme), ci andasse bene armato, sapendo che lo è probabilmente anche il proprietario. E state certi che sarà lui a sparare per primo…

È così che si faceva nel Far West, in quella idilliaca – per qualcuno – stagione in cui ognuno era “padrone in casa sua” e provvedeva da sé alla propria difesa.

Verso l’archiviazione gli spari al presunto ladro sedicenne

Tivoli (Roma)

Un po’ di elementi certi ci sono. L’irruzione “violenta” nell’appartamento con un piede di porco. Uno dei ladri ferito “quasi sicuramente” all’interno dell’abitazione. E una spranga di ferro nella disponibilità dei malviventi che “anche con la vecchia legge era da considerarsi un oggetto atto a offendere”. Insomma, si va verso la richiesta d’archiviazione in favore di Andrea Pulone, il 29enne di Monterotondo, vicino Roma, che il 26 aprile ha sparato ferendo un sedicenne sorpreso a rubare, insieme a tre complici, nella villa del padre, il noto astrofisico Luigi Pulone. E potrebbe bastare la vecchia legge, senza tirare in ballo la nuova norma.

L’episodio è rilevante perché il giovane è il primo indagato per eccesso colposo di legittima difesa dopo la promulgazione della nuova legge – avvenuta proprio il 26 aprile – voluta dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Le indagini della Procura di Tivoli, comunque sia, non si concluderanno prima che la nuova norma entri definitivamente in vigore, il prossimo 17 maggio, quindi la riforma sarà applicata anche a questo caso come sempre avviene per le leggi più favorevoli all’indagato. “Ma alla verifica dei fatti fin qui effettuata non emergono differenze fra l’una e l’altra”, si è lasciato scappare a un certo punto il procuratore di Tivoli Francesco Menditto, per poi sottolineare: “Si cerca di andare sempre in favore della vittima del primo reato. Se non basterà la vecchia legge applicheremo la nuova”. “Qui a Tivoli abbiamo archiviato la posizione di una persona che, legittimamente, ha ucciso due rapinatori”, ha raccontato a un certo punto Menditto al termine della conferenza stampa convocata ieri.

Fra gli elementi nuovi, c’e’ il numero dei colpi, cinque, esplosi da Pulone nel tentativo di cacciare i quattro malviventi. Tre proiettili sono stati rinvenuti nel salotto dove il ragazzo si è trovato faccia a faccia con i ladri; il quarto e il quinto all’esterno, nel giardino, ma comunque nei pressi della via di fuga. Certo, ci sono ancora alcuni nodi importanti che le indagini, affidate al pm Giuseppe Mimmo, devono dirimere. Innanzitutto, c’è uno stretto riserbo sulle modalità del ferimento del sedicenne albanese. Il proiettile calibro 45 ha attraversato da parte a parte il ventre del ragazzino, ma non viene specificato se il foro d’entrata si trovi nella parte anteriore o posteriore del corpo; di conseguenza, non è chiaro se l’adolescente fosse già in fuga al momento dello sparo. In secondo luogo, andrebbe definito con precisione se la spranga di ferro (un piede di porco con cui è stata divelta l’inferriata della finestra che affaccia al salone della villa) era brandita da uno dei malviventi – così Pulone ha raccontato ai pm e confermato anche al Fatto – oppure se si trovava a terra. “Mi aspetto una piena archiviazione” ha spiegato l’indagato, che si è anche candidato con una lista civica di centrosinistra alle elezioni comunali a Monterotondo. “Con nuova o vecchia legge? Non sta a me dirlo, ho piena fiducia nella magistratura. Ho sparato cinque volte? Non ricordo, ero molto spaventato”.

Nel frattempo, i carabinieri della compagnia di Monterotondo hanno arrestato i tre complici del ragazzo ferito. Il “capo banda” è un 34enne di nazionalità romena, con diversi precedenti specifici ma mai colpito da provvedimento di espulsione. “Ancora una volta non è stata rispettata la norma – ha detto il procuratore Menditto –. Segnalerò personalmente il nominato al prefetto di Roma e spero che stavolta l’espulsione venga eseguita”. Gli altri complici sono due giovani di origini serbe, un diciannovenne e un sedicenne residenti alla Borghesiana, quartiere a est della Capitale. I militari sono risaliti a loro grazie alla targa della Fiat Tipo Sw.

Dopo aver lasciato il sedicenne ferito davanti al Policlinico Gemelli, i malviventi avevano prenotato un’auto a noleggio con l’intenzione di fuggire in direzione della Francia.

La figlia di Moro: “Stop beatificazione di mio padre Aldo”

“Santità, la prego di interrompere il processo di beatificazione di mio padre Aldo Moro sempre che non sia invece possibile riportarlo nei binari giuridici delle norme ecclesiastiche. Perché è contro la verità e la dignità della persona che tale processo sia stato trasformato, da estranei alla vicenda, in una specie di guerra tra bande per appropriarsi della beatificazione stessa strumentalizzandola a proprio favore”. A pochi giorni dal 9 maggio – anniversario del ritrovamento del corpo dell’ex presidente Dc – Maria Fida Moro, figlia primogenita del leader ucciso dalle Br nel 1978, ha rivolto una lettera-appello al Papa.

Nel processo di beatificazione – sostiene la Moro – “ci sono delle infiltrazioni anomale e ributtanti da parte di persone alle quali non interessa altro che il proprio tornaconto e per questo motivo intendono fare propria e gestire la beatificazione per ambizione di potere. Vorrei proprio che la Chiesa facesse chiarezza. Dal 9 maggio di 41 anni fa è cominciato il ‘business’ della morte e lo sciacallaggio continuativo per sfruttare il suo nome a fini indebiti”.

Penali e doppio contratto: è tutto nelle mani di Fazio

Una penale da oltre 7 milioni di euro. Per la precisione, 7 milioni e 88 mila. Questa la cifra che la Rai dovrebbe sborsare nel caso di mancato adempimento al contratto sottoscritto con Fabio Fazio e la società Officina. I contratti, infatti, sono due, e legano conduttore e società per 32 prime serate di Che tempo che fa (domenica) e 31 seconde serate di Che fuori tempo che fa (lunedì) su Raiuno, con scadenza il 30 giugno 2021. Se Viale Mazzini volesse uscirne, dovrebbe sborsare nell’ordine: 2.240.000 euro, ovvero il compenso annuale di Fazio; 704.000 euro per l’uso del format di Che tempo che fa pagati a Officina; più 600.000 euro di penale. Moltiplicando per due (le stagioni 2020 e 2021) si arriva appunto a 7.088.000 euro. Una cifra notevole.

Ricordiamo che il contratto di Fazio vede la Rai sborsare pure 10.644.400 euro l’anno a Officina srl per i costi di produzione (organizzazione della puntata, ospiti, ecc..), mentre circa 5 milioni sono i costi industriali a carico della tv pubblica. Così, tra tutto, per i 4 anni di messa in onda si arriva a circa 73 milioni di euro. Un contratto-monstre stipulato dall’ex direttore generale Mario Orfeo che oltretutto non è legato a parametri di share o di introiti pubblicitari. A suo tempo, però, l’accordo fu giustificato dicendo che in realtà la Rai risparmiava, perché una fiction in prima serata costa più dei 410 mila euro a puntata di Che tempo che fa.

L’unico modo che Viale Mazzini ha per ritoccare queste cifre è un nuovo accordo col diretto interessato, Fazio, e con la società Officina, che per metà è dello stesso conduttore e per il resto di Banijay (ex Magnolia). E qui deve essere l’assemblea dei soci a essere d’accordo. Il dialogo tra l’ad Fabrizio Salini e il giornalista-conduttore è in corso e quest’ultimo si è detto disponibile a intavolare una trattativa che però riguardi tutto il pacchetto. Tradotto: se volete ridurmi il compenso, ci posso stare, ma deve ridursi anche l’impegno, quindi il numero delle puntate.

Al momento le ipotesi sono tre. La prima prevede un ritocco ai due contratti e al numero delle puntate, su Raiuno. In seconda battuta si sta pensando allo spostamento della trasmissione su un’altra rete, probabilmente Raidue, rinegoziando i contratti con Fazio e Officina, sempre con il loro benestare. Terza ipotesi, chiudere Che tempo che fa e inventarsi altre trasmissioni sempre con Fazio (Rischiatutto?), mantenendo però sempre gli stessi termini di contratto, altrimenti ci sono le penali. E in questo caso la scelta sarebbe più di natura politica che televisiva. E da questo punto di vista le parole di Marcello Foa al festival della tv a Dogliani (“Che tempo che fa va in onda dal 2003, ha perso quella carica innovativa e gli ascolti non aumentano”) sono suonate come un campanello d’allarme.

Quel che è certo, però, è che la trattativa la sta gestendo Salini. “Con Fabio Fazio, che considero uno dei talenti televisivi in forza alla Rai, stiamo valutando diverse ipotesi”, ha detto l’ad sempre in quel di Dogliani. L’obiettivo è sciogliere il nodo in tempo per la presentazione dei palinsesti, a giugno. Poi, naturalmente, c’è lo scontro politico. I continui attacchi da parte di Matteo Salvini sono saliti di tono e intensità con l’avvicinarsi del 26 maggio, segno scagliarsi contro “il comunista col Rolex” (Salvini dixit) forse porta consensi. Il problema, per Fazio, è però quello di non avere grandi sponde nel M5S e nemmeno in tutto il Pd. Michele Anzaldi, per esempio, da anni lo morde proprio sul mega contratto.

Nel frattempo in Vigilanza sta per essere depositata la proposta della Lega (by Capitanio e Morelli) che prevede un tetto (tra il milione e il milione e mezzo) ai compensi di artisti e conduttori. Il che non aiuta.

Berlusconi dimesso dall’ospedale: “Pronto a fare campagna”

Silvio Berlusconi è stato dimesso ieri mattina dall’ospedale San Raffaele di Milano dove era ricoverato dal 30 aprile per una occlusione intestinale. La prima dichiarazione a caldo ai giornalisti dche lo aspettavano all’esterno della struttura è ottimistica: “Sto bene, sono pronto per fare la campagna elettorale”. L’ex Cavaliere però ha riconosciuto lo spavento: “Ho avuto una bella paura. Tante cose che si sono succedute negli ultimi tempi mi hanno fatto pensare di essere arrivato alla fine del girone, invece ho avuto una ripresa formidabile”. Così si prepara all’ennesima fatica elettorale, malgrado i medici gli abbiano consigliato il riposo: “Credo non farò comizi pubblici, basteranno giornali e tv: mi sento ancora utile per il futuro degli italiani, degli europei e dell’Occidente”. L’ex premier ha inoltre anticipato i suoi nuovi propositi: “Noi di Forza Italia ci siamo dati due missioni. Una per l’Italia: avere i voti che diano la possibilità di un nuovo governo con nuove elezioni. L’altra per l’Europa, che è assolutamente da cambiare. Per farlo, il Ppe deve lasciare l’alleanza con la sinistra e cercarne di nuove con i liberali, i conservatori, la destra democratica e anche magari con quella testa matta di Orban e con Salvini”.

Il candidato sindaco leghista con il vizietto delle risse

“Anticonformista”. Di più: “Polemico allo stato puro”. Di più: “Ribelle per eccellenza”. L’autobiografia social di Riccardo Galligani, candidato sindaco leghista di Poggibonsi (Siena, dove si vota il 26 maggio) è uno sturm und drang che solo chi ha il vento in poppa può permettersi, appena scelto da Matteo Salvini per mettere un altro tassello verde in quella che una volta era tutta terra Rossa, almeno alle urne.

Eppure la grande occasione per Galligani arriva dopo una gioventù turbolenta, in piena fede con la sua descrizione: undici anni fa il candidato sindaco concludeva con il patteggiamento una lunga vicenda legale conseguenza di una rissa notturna nella provincia senese. Peccatucci da diciannovenni, si potrebbe dire, anche se i magistrati del Tribunale di Siena raccontano di un Galligani “spranga in mano”, affiancato da un amico armato di coltello tra i colli di Monteriggioni e Poggibonsi. Non proprio una scaramuccia da niente. Qualche anno più tardi, poi, altra rissa e altro patteggiamento, concluso nel 2014: “Lì patteggiai più che altro per togliermi di torno la causa – si giustifica Galligani – perché mi presi molte più colpe di quelle che avevo, fu il mio amico a picchiarsi davvero”. Stavolta niente ferri insomma, “solo” un ceffone che gli costa un anno e quattro mesi, prima di una conversione zen: “Ora la politica mi ha cambiato, mi ha aiutato a essere più calmo e razionale, a non reagire in maniera sbagliata. Anzi, colgo l’occasione per dire che non è con la violenza che si risolvono i problemi”. Galligani si pente e si duole, giura di “non andar fiero di quegli episodi”, rivendica di aver pagato quanto dovuto “anche in termini economici”, si propone di rendere pubblico il casellario giudiziario. Con un velo d’amarezza finale: “Certo che queste storie saltano sempre fuori in campagna elettorale…”.

“Resto Iena, mi autorizza Tarantino”

Non c’è pace per Dino Giarrusso. Neanche il tempo di passare da una campagna elettorale all’altra, da un incarico in Regione Lazio a uno al Miur, che l’ex Iena deve fare i conti col fuoco amico della sua ex redazione e con qualche equivoco normativo. A venti giorni dal voto per le Europee, in cui Giarrusso è candidato con il Movimento 5 Stelle, migliaia di persone in Sicilia e Sardegna hanno già ricevuto il classico santino elettorale col suo volto e il suo nome. Non potendo fare a meno di notare un paio di particolari.

Il primo, per i più acuti osservatori: nel bigliettino, così come in molti manifesti, manca il nominativo del committente responsabile, ovvero della persona che per legge ogni candidato deve scegliere per gestire spese e introiti della propria campagna elettorale. Una legge del 1993, resa ancor più stringente quest’anno, prevede infatti che “tutte le pubblicazioni di propaganda elettorale a mezzo di scritti, stampa o fotostampa, radio, televisione (…) debbono indicare il nome del committente responsabile”. Obiettivo: rendere trasparente chi gestisce i soldi raccolti per la campagna elettorale. Che però, per legge, inizia solo trenta giorni prima del voto, motivo per cui Giarrusso minimizza la mancanza: “Per questo sui miei bigliettini non c’è il nome del committente. Li ho stampati tempo fa e a qualcuno magari è arrivato adesso”. Sui prossimi ci sarà questo nome? “Certamente, rispetto le regole al cento per cento”.

Che poi, più che “Dino Giarrusso”, su quei bigliettini balza all’occhio il soprannome: “Detto Iena”. Professione che si fa nickname, scandito persino nelle liste ufficiali per le Europee. I siciliani e i sardi, dunque, potranno votare Giarrusso anche solo scrivendo “Iena” sulla scheda: “Qui nelle isole in tanti mi chiamano così, mi gridano per le strade ‘Ienaaa!’”. Eppure alla trasmissione non l’hanno presa bene, tanto che hanno persino chiesto a Dino di cambiare look: “A Giarrusso i migliori auguri per il futuro – ha scritto la redazione in una nota – sperando però che la smetta con il vizio di vestirsi come noi, rimettendo la divisa nell’armadio, e di usare il passato a Le Iene per la sua campagna elettorale”.

Robetta al cospetto di una campagna elettorale lanciatissima: “Mi ha autorizzato Quentin Tarantino in persona, dicendomi che vuole bene alle Iene ma ora anche basta con questa cosa di usare il nome del suo film per fare audience”. Giarrusso sì, la Marcuzzi e Giulio Golia no. Che poi, tutto sommato, lo smoking non porta molti voti: “Ma sì, io amo i jeans. Ho usato le foto di quando ero Iena perché erano in alta definizione”. La cravatta ha stufato: “Non l’ho messa neanche alla laurea, è scomodissima. Ho imparato a fare il nodo a Italia 1”. Compromesso accettabile allora, almeno per lenire i dolori del giovane Dino: divisa da Iena sui santini e sui manifesti – ma solo perché le foto d’archivio sono le migliori –, abbigliamento casual in giro per le piazze.

E poi testa al futuro: “Ho un programma importantissimo per i miei territori, che dell’Europa hanno tanto bisogno. Davvero anziché parlare di cose serie dobbiamo parlare di come sono vestito?”. Al nome – meglio: al soprannome – però non si rinuncia: “Perché devo levarmi dei voti? Quello me lo tengo e pazienza se qualcuno si prende male. Dino Giarrusso detto Iena”. Nel segno di Quentin.

I ras del Sud con Casanova: tutti insieme a Mr. Papeete

Procede a vele spiegate la campagna di Massimo Casanova, mister Papeete, verso un seggio nel prossimo Parlamento europeo. Il fondatore dello stabilimento più famoso della Riviera romagnola, amico fraterno di Matteo Salvini, è il nome più caldo della Lega che si prepara a sfondare al Sud.

La sua candidatura è un’idea personale dello stesso Salvini, che appena può lo raggiunge nella splendida tenuta pugliese di Casanova a Borgo Isola, vicino a Lesina (provincia di Foggia). Un legame talmente profondo che secondo le cronache locali l’imprenditore romagnolo starebbe costruendo un’abitazione personale per il vicepremier all’interno dei suoi terreni con vista sul mare del Gargano. Il Capitano in compenso ha puntato davvero forte su di lui, al punto da concedergli in prestito anche la storica portavoce Iva Garibaldi.

Non bastasse, per blindare l’elezione di Casanova è stata arruolata anche una vecchia volpe della politica locale: Roberto Marti è il nuovo responsabile della Lega in Salento.

Tra i primi a correre sul carro di Salvini in Puglia, il suo intuito che gli ha permesso di essere rieletto al Senato, dopo una legislatura alla Camera con Forza Italia. Non proprio una figura di primo pelo, l’onorevole ha costruito la discreta carriera politica nel Pdl salentino. Era un uomo di Raffaele Fitto proprio come Andrea Caroppo, l’ex responsabile della Lega pugliese che ora è il nemico numero uno di Casanova in Regione. Marti ha un brutto guaio giudiziario. La sua voce è stata registrata mentre dialogava con Luca Pasqualini, protagonista di un’inchiesta che ha dilaniato la giunta comunale di centrodestra a Lecce e portato a indagare (oltre a Marti) altre 33 persone: l’ipotesi è che pacchetti di voti elettorali siano stati ceduti in cambio di alloggi popolari, una vicenda che sfiora anche personaggi vicini alla Sacra Corona Unita. I magistrati leccesi hanno scritto alla Camera (all’epoca dei fatti Marti era eletto a Montecitorio) chiedendo di poter utilizzare quelle intercettazioni. Dopo un po’ di melina, la Camera ha deciso di non decidere: la competenza spetterebbe ai colleghi del Senato. Intanto il salentino è stato “promosso” da Salvini, e ora tira la volata all’amico Casanova.

Non è l’unico big della Lega meridionale che appoggia mister Papeete. Nei giorni scorsi la campagna elettorale calabrese di Casanova è stata impreziosita dagli incontri con il deputato Domenico Furgiuele. La figura dell’onorevole non è delle più limpide, almeno per 200 esponenti locali del Carroccio che a febbraio – come scritto da Lucio Musolino sul sito del Fatto – avevano chiesto a Salvini di rimuoverlo dal suo ruolo di coordinatore regionale. Sulle sue spalle pesa la parentela con il suocero Salvatore Mazzei, un imprenditore considerato contiguo al mondo della ‘ndrangheta e condannato in via definitiva per estorsione aggravata dal metodo mafioso. Furgiuele rivendica che le colpe dei suoceri non possono cadere sui generi. Vero, ma il suo rapporto con Mazzei passa anche per un episodio. L’imprenditore era proprietario dell’albergo Phelipe di Lamezia Terme, dove nel 2012 dormirono tre killer della cosca Patania dopo un omicidio. Quella stanza la pagò proprio Furgiuele (che non è mai stato indagato). Ascoltato dalla Squadra mobile, il futuro leghista confermò di essersi occupato dell’onorario di quella stanza, ma – disse – solo per fare una cortesia a un amico che gli aveva chiesto di ospitare un parente proveniente da Roma. I suoi nemici nel partito hanno chiesto la sua rimozione per “essere meno attaccabili e al centro di continue perplessità e ombre”. Ma è ancora al suo posto, e anche lui in questi giorni si spende per Casanova. È la Lega di Salvini al Sud.

Dopo cinque mesi, l’Antitrust ha il suo presidente

Sono passatiquasi cinque mesi dal 20 dicembre scorso: Natale, Pasqua, l’inizio ancorché dubbioso della primavera, moltissima acqua sotto i ponti eppure il magistrato Roberto Rustichelli, che il 20 dicembre scorso era stato nominato presidente dell’Autorità garante per la concorrenza e il mercato (in breve, l’Antitrust) non riusciva a insediarsi. Il problema, com’è noto, è che il nome scelto dai presidenti di Camera e Senato (e soprattutto da quest’ultima, Maria Elisabetta Alberti Casellati, era incappato nella legge Severino che prescrive che i magistrati non possono stare “fuori ruolo” per più di dieci anni. Problema: il buon Rustichelli aveva superato la fatale soglia dei due lustri. Fortunatamente per Roberto Fico e soprattutto per Casellati e per lui, il Consiglio superiore della magistratura ha stabilito – non del tutto coerentemente con la ratio della legge – che quella previsione (il tetto dei 10 anni) non si applica alle Autorità garanti come l’Antitrust. “Onorerò l’incarico con gli stessi valori di indipendenza, di imparzialità e di terzietà a cui mi sono ispirato nei miei tanti anni di attività in magistratura”, ha detto Rustichelli prendendo finalmente possesso dell’ambita poltrona.

Il segretario dem: “L’articolo 18? Non è una priorità”

Ripristinare l’articolo 18? “Così no, non è la priorità. Andrebbe riformato il mercato del lavoro”. Lo ha detto il segretario de Pd, Nicola Zingaretti, durante Quarta Repubblica su Rete 4. Un’intervista a tutto campo, in cui dice no anche alla patrimoniale: “Quello che però serve è una maggiore equità fiscale. Non la flat tax che è una cosa allucinante”. E ancora: i parlamentari guadagnano troppo? “No specie per quelli che lo fanno bene. Oggi sono i sindaci e i consiglieri comunali a guadagnare poco. E visto che c’è una polemica sull’iniziativa del tesoriere del Pd, dico una cosa: se le indennità sono troppo basse, alla fine la politica la fanno solo i ricchi”. Il segretario del Pd, poi, ribadendo che non ha intenzione di aprire un dialogo con i Cinque Stelle, ha chiarito che non abolirebbe il reddito di cittadinanza. Mentre su “quota 100” sulle pensioni sostiene: “Cadrà il prossimo anno: M5S e Lega lo aboliranno perché non ci sono le risorse per finanziarla. Io credo che le risorse investite su quota 100 andrebbero messe in un piano di finanziamenti per ridurre il costo del lavoro”. Insomma, “la vera sfida sarà mettere tutte le risorse in manovra sul taglio del cuneo fiscale dal lato del lavoro, per aumentare gli stipendi bassi”.