Poche leggi, ma le Camere pesano più che in passato

Tempo di primi bilanci per la XVIII legislatura che entrava nel vivo giusto un annetto fa. La prima seduta fu, infatti, il 23 marzo 2018 ma – visto che non si riusciva a formare il governo – il Parlamento restò fermo per settimane. Fu proprio tra aprile e maggio che arrivò alle Camere il primo atto di rilievo, esaminato dalle commissioni speciali visto che non erano ancora costituite quelle “normali”, vale a dire il Documento di economia e finanza del governo Gentiloni.

E dunque, anche se l’attività entrò nel vivo solo in estate, un anno di lavori parlamentari. Un dato balza agli occhi: le leggi approvate sono la metà rispetto a un periodo analogo della XVII legislatura, il che ovviamente non vuol dire nulla (l’unica cosa che non manca di certo in Italia sono le leggi): dal 15 marzo al 31 dicembre 2013 infatti, quindi in circa nove mesi di lavoro, il Parlamento che aveva dato la fiducia al governo di Enrico Letta (ma gliel’avrebbe tolta a breve) sfornò 98 leggi tra ordinarie (49), decreti legge (43) e ddl inerenti il bilancio dello Stato (6), quelli di iniziativa parlamentare furono 14 cioè poco più del 14,2% dell’intera.

Come detto, la performance numerica della legislatura in corso è assai peggiore, che però – e questo è un dato positivo in una Repubblica parlamentare – vede crescere il peso dell’iniziativa parlamentare: dall’inizio della legislatura sono state infatti approvate “solo” 43 leggi (quelle ordinarie sono 25, le conversioni di decreti legge 15, i ddl inerenti il bilancio dello Stato 3), di cui 13 di iniziativa parlamentare e una mista, oltre il 30% del totale. Insomma, se il numero delle leggi si dimezza, la percentuale di quelle proposte dalle Camere raddoppia.

Cala – sempre in rapporto all’inizio della legislatura scorsa (e sensibilimente se il paragone è col precedente governo Monti) – il ricorso al voto di fiducia: l’esecutivo Letta, tra aprile e dicembre 2013 (otto mesi e qualche giorno), incassò il via libera del Parlamento 14 volte, Conte e soci in 11 mesi l’hanno chiesta invece 10 volte (ovviamente, essendo scesa drasticamente l’attività legislativa, aumenta però la percentuale sul totale dei provvedimenti).

Non solo questa legislatura ha approvato poche leggi, ma anche pochi emendamenti: 989 modifiche in totale nelle 43 leggi approvate (cioè 23 a provvedimento), 218 dei quali proposti da parlamentari dell’opposizione e 13 bipartisan.

Come al solito va invece a rilento l’attività di legislazione secondaria, questa di competenza principalmente del governo. Funziona così: le leggi approvate in molti casi rinviano a regolamenti o normative di dettaglio da adottare in seguito e Giuseppe Conte e i gialloverdi non hanno fatto eccezione.

Le leggi fin qui approvate prevedono288provvedimenti attuativi di rango non legislativo (escluse, dunque, le deleghe al governo): in particolare si tratta di 4 decreti del Presidente della Repubblica, 45 Dpcm, 158 decreti ministeriali e 81 atti di altra natura. Secondo il conto che tiene lo stesso governo, ad oggi risultano realizzati solo 48 di questi adempimenti, vale a dire il 16,6% del totale. Nulla di nuovo sotto il sole. Basti dire che, ad oggi, mancano ancora 12 provvedimenti attuativi del governo Letta (326 totali), 139 del governo Renzi (su 946) e ben 279 del governo Gentiloni (su 541).

Zanda ritira il ddl che aumentava la paga degli eletti

Nicola Zingaretti ha capito che il disegno di legge di Luigi Zanda sulle indennità ai parlamentari non era sostenibile per il Pd in campagna elettorale. E così, un paio di giorni fa, ha chiesto al tesoriere che si è scelto di ritirarlo. Cosa che lui ha fatto ieri, dopo averlo annunciato in un’intervista al Corriere della Sera.

Nel dettaglio, Zanda aveva depositato la sua proposta il 27 febbraio, pochi giorni prima delle primarie del Pd. Una volta uscita fuori la notizia, non erano mancate le polemiche. Ma niente, il ddl era ancora lì: tanto è vero che era stato incardinato in commissione Affari costituzionali il 15 aprile. La proposta voleva equiparare i compensi dei parlamentari italiani a quelli europei. L’aumento tecnicamente non era sullo stipendio effettivo (l’indennità), ma sulla cosiddetta diaria, ovvero sul rimborso spese giornaliero (che poi da sempre è la vera materia del contendere), e altre voci. Nel dettaglio, lo stipendio sarebbe passato da 10.385,31 euro a 8.757,70 euro. E la diaria da 7.240 euro a 9.313 euro, cui aggiungere spese di viaggio e collaboratori pagati a parte (mentre oggi il loro stipendio deve uscire dal contributo fisso).

Per i 5 Stelle,la riforma avrebbe portato a un aumento dello stipendio annuo di circa 72mila euro per ogni parlamentare: un irrinunciabile argomento di campagna elettorale. Zanda si è difeso giocando sull’ambiguità tra indennità e diaria: “Di Maio è il vicepresidente del Consiglio e deve smetterla di raccontare bugie. Sostiene che io, chiedendo di equiparare gli emolumenti dei parlamentari italiani a quelli europei, vorrei aumentare quelli di senatori e deputati italiani. È falso. Il mio disegno di legge non li aumenta nemmeno di un euro, anzi li diminuisce. Il mio ddl prevede, soprattutto, che il nostro sistema applichi quella trasparenza che c’è nel parlamento europeo”. E i calcoli sono stati smentiti da una batteria di parlamentari dem, che sono intervenuti uno dietro l’altro. “Quelli del Pd non ce la possono fare. Ne fanno una dietro l’altra”, è stata la risposta via Facebook del vicepremier Di Maio che ha definito “kafkiana” la decisione del tesoriere dem di querelarlo dopo aver ritirato il suo ddl.

Zingaretti, dal canto suo, quando era venuta fuori l’esistenza del disegno di legge ci aveva tenuto a chiarire che non era una proposta del Pd. Posizione difficilmente sostenibile, visto che il tesoriere è di fatto il numero 3 del partito. Poi giovedì scorso s’è ritrovato a telefonare in diretta a Piazza Pulita per replicare al sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano, che s’era presentato in studio con dei cartelli per “spiegare” le proposte del Pd: aumento dello stipendio dei parlamentari, reintroduzione del finanziamento pubblico ai partiti e reintroduzione dei vitalizi. “Noi non proponiamo né di alzare gli stipendi dei parlamentari né di ripristinare i vitalizi”, aveva replicato Zingaretti: “Quella legge (quella presentata da Zanda, ndr) non propone l’aumento dello stipendio dei parlamentari, ma propone un adeguamento con le indennità dei parlamentari europei”. E aveva annunciato di voler presentare “una legge sulla trasparenza, su come si finanziano tutti i partiti, anche sul web”.

non è bastato.Alla fine, Zingaretti si è deciso a chiedere al tesoriere il ritiro. Troppo tardi e in maniera maldestra, come fa notare la minoranza fu renziana: “Finisce un’altra bufala dei 5 Stelle: non era previsto nessun aumento degli stipendi dei parlamentari, ma solo elementi di trasparenza e di passi in avanti per far decidere un corpo terzo sullo stipendio dei parlamentari”, ha dichiarato ieri il segretario dem, dopo che il suo tesoriere aveva annunciato querela nei confronti di Luigi Di Maio, “reo” di diffondere falsità.

Il resto è polemica politica. Da notare Ugo Sposetti, storico tesoriere dei Ds, che – definendosi “l’ultimo giapponese” – difende a spada tratta la proposta. E non solo l’uomo del “tesoro del Pci”, anche i collaboratori parlamentari sono scontenti. “L’annunciato ritiro del ddl Zanda sugli emolumenti dei parlamentari lascia intatta l’urgenza di sanare l’anomalia europea della mancata regolazione dei contratti dei collaboratori parlamentari italiani”, afferma José De Falco, presidente dell’Associazione dei collaboratori parlamentari (Aicp): “Quel ddl aveva il pregio di prevedere che le amministrazioni delle Camere dovessero farsi carico degli oneri dei contratti dei collaboratori”. Per tenersi più grosse porzioni del contributo fisso versato dal Parlamento, infatti, spesso i parlamentari pagano poco o nulla i loro “portaborse”. Le conseguenze della casta.

Cerno, Brambilla e gli altri: onorevoli “desaparecidos”

Se anche per i parlamentari valessero le norme che la ministra Giulia Bongiorno vorrebbe applicare agli assenteisti della Pubblica amministrazione, alla Camera e al Senato ne vedremmo delle belle. Fortunatamente per gli eletti non è così, anche se ce n’è più d’uno che latita durante le sedute, qualcuno addirittura con percentuali che sfiorano il 100% in questa XVIII legislatura, entrata nel vivo giusto un anno fa con l’arrivo in Parlamento del Documento di economia e finanza varato dal governo Gentiloni il 26 aprile.

I dati sono su openparlamento.it. Breve premessa: il conteggio delle assenze include anche l’astensione dal voto, cioè un legittimo atto politico. Partiamo dalla Camera coi suoi 628 deputati. Già a luglio era scoppiata la polemica per il caso del deputato-velista Andrea Mura, cacciato dai 5 Stelle e passato al gruppo Misto: è cessato dalla carica a settembre. A Montecitorio ci andava una volta alla settimana, il resto del tempo lo dedicava al mare perché – a suo dire – più che deputato, era un “testimonial in difesa degli oceani”.

Veniamo a chi resta: nella top ten degli assenteisti quattro su 10 sono di Forza Italia. In cima alla classifica c’è Michela Vittoria Brambilla, assente al 98,5% delle votazioni: impegnata com’è tra dog show, dibattiti sulla caccia, 35 gatti, 12 cani, 2 cavalli, 2 asinelli, 7 capre e via dicendo, di tempo a disposizione ne ha ben poco. La scorsa legislatura superò di poco l’1% di presenze, ma non risultò tra gli assenteisti per via di una straordinaria percentuale di missioni, vale a dire attività autorizzate fuori da Montecitorio, pari all’80%.

Al secondo posto c’è un habitué, Antonio Angelucci. Da portantino a imprenditore milionario, plurindagato, con una richiesta di condanna a 15 anni per truffa ai danni della sanità, proprietario dei quotidiani Il Tempo e Libero, anche lui è di Forza Italia: è assente all’89% delle votazioni. Segue lo scrittore grillino, amante della cronaca nera, Leonardo Penna: Aldo, come solitamente si fa chiamare, ha presenziato solo al 22% delle votazioni, ma per ora resiste alle purghe grilline. Fuori dal podio l’imprenditore tuttofare, Guido Della Frera, berlusconiano pure lui, col 74,8% di assenze: d’altra parte ha il suo daffare col gruppo di famiglia, di cui è presidente, attivo nei settori sanitario, turistico, alberghiero, ristorativo e immobiliare.

Al quinto posto si piazza Giorgia Meloni: “Noi difendiamo chi lavora e produce, non i mantenuti”, s’è sgolata a Jesolo per la festa del 1° maggio. Ecco, la leader di Fratelli d’Italia ha una percentuale di assenza che supera il 73%. Quasi la stessa al centesimo di Vittorio Sgarbi, eletto con Forza Italia e oggi traslocato nel gruppo Misto. Seguono due nomi di peso: con il 69,1% di assenze l’ex ministro Antonio Martino, uno dei fondatori del partito-azienda di Berlusconi, in Parlamento dal 1994, e l’ex presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, che in questa legislatura ha partecipato a un terzo delle votazioni (67,3% di assenze). Ottavo, nono e decimo posto sono, rispettivamente, di Erasmo Palazzotto di LeU (63,7%), Fausto Longo, eletto in Sud America nelle liste del Pd e ora nel Misto (60,1%), e della vicesegretaria del Pd Paola De Micheli (59,6%).

In Senato, invece, composto da 320 membri, le percentuali di assenteismo sono in generale più contenute. Tolti i senatori a vita, in pole position c’è Tommaso Cerno, l’ex direttore dell’Espresso, finito nelle liste del Pd per volere di Matteo Renzi. Per lui, come recita il proverbio, assalto francese e ritirata spagnola: all’inizio sempre presente al fianco di Renzi, ora desaparecido. Ha partecipato a 818 votazioni su 3.550: la sua percentuale di assenze è del 76,9%. Secondo in classifica, impegnato com’è a difendere nei tribunali Silvio Berlusconi, è Niccolò Ghedini, che in questa legislatura ha raggiunto il 61,3% di assenze. Segue – sempre targata Forza Italia – la figlia di Bettino, Stefania Craxi (57,38%). Medaglia di legno per il vice presidente del Senato ed ex ministro, l’avvocato Ignazio La Russa (Fratelli d’Italia) col 55,46% di assenze, seguito da un ex collega nel governo Berlusconi, Paolo Romani (45,69%). A continuazione – tutti del gruppo Misto – l’ex viceministro socialista Riccardo Nencini (36,2%), la leader di +Europa Emma Bonino (35,75%) e il calabrese d’argentina Adriano Cario (32,5%), eletto all’opposizione ma fattosi subito governativo. Chiude la top ten la regina dei salotti televisivi, Daniela Santanché, che comunque risulta presente o in missione in oltre il 70% dei voti.

Ovviamente non mancano gli stakanovisti: alla Camera i primi cinque sono grillini, ma il 100% delle votazioni ce l’ha solo Marco Bella, chimico, insegnava in California quando le sirene di Di Maio l’hanno riportato a casa. Per rigore, però, vincono i senatori: ce ne sono ben 19 presenti a tutte le votazioni (9 sono del M5S, 8 della Lega, uno di FdI e uno di FI).

Diceva questa estate la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati: “Per quanto riguarda il contenimento dei costi della politica, è evidente che il dibattito non si esaurisce certo con i vitalizi. Ad esempio quando non si è presenti in aula o in commissione deve esserci una sensibile diminuzione degli emolumenti. È un principio di giustizia e meritocrazia”. Per ora, questo principio non pare una priorità delle Camere.

I fondi a Bossi: il pg impugna l’Appello sull’improcedibilità

La Procura generale di Milano ha impugnato la sentenza della Corte d’Appello che lo scorso gennaio aveva dichiarato il non luogo a procedere nei confronti di Umberto Bossi e di suo figlio Renzo, condannati rispettivamente a 2 anni e 3 mesi e a 1 anno e 6 mesi per appropriazione indebita. L’improcedibilità è scaturita dalle norme approvate nel 2017, che vincolano alla querela i processi per questo tipo di reato. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva scelto di sporgerla soltanto nei confronti dell’ex tesoriere del partito, Francesco Belsito, condannato a 1 anno e 8 mesi e 750 euro di multa, salvando così i Bossi. Un patto firmato quattro anni fa con scrittura privata, tra Salvini e Bossi, ha sancito la salvezza per il fondatore della Lega e suo figlio. Ma per la Procura generale la querela va estesa anche a loro, imputati come Belsito per uso a fini personali dei fondi del partito. Gli atti della sentenza della Corte d’Appello sono stati resi pubblici qualche giorno fa. Secondo i giudici, il segretario di un partito non può disporre “a suo piacimento” dei fondi versati dagli associati o erogati dai presidenti di Camera o Senato come “rimborso delle spese elettorali”.

Roma, altro vertice tra i pm e i difensori di Arata e del leghista

I difensori del sottosegretario alle Infrastrutture Armando Siri e dell’imprenditore Franco Arata hanno incontrato ieri in Procura a Roma i magistrati capitolini titolari del procedimento che vede accusati i loro assistiti di corruzione. L’incontro è servito a definire le date (sulle quali si tiene il massimo riserbo) per i rispettivi interrogatori, previsti a breve. A essere ascoltato per primo (e forse già oggi) sarà l’imprenditore Arata, accusato della “promessa o dazione” di 30 mila euro all’esponente della Lega in cambio di un suo intervento per far inserire in provvedimenti normativi “emendamenti contenenti disposizioni in materia di incentivi per il cosiddetto mini-eolico”. Poi toccherà a Siri farsi ascoltare dai pm: in realtà i magistrati per ora hanno ricevuto la richiesta, tramite il suo legale, di rendere spontanee dichiarazioni. Se le circostanze non cambieranno, il sottosegretario potrà difendersi davanti ai magistrati che però non potranno fare alcuna domanda né mostrare le prove che hanno raccolto in questi mesi di indagine.

Perché Il Cdm può e deve giudicare l’Armando

La nozione di garantismo, nei termini attuali, ha acquistato risalto dopo il famoso invito a comparire a Berlusconi nel 1994. Da allora il politico chiamato a misurarsi con accuse penali viene spacciato per vittima di una giustizia a orologeria e i pm per perfidi oppositori politici che si scagliano su quel modello di probità che è l’accusato. Innocentissimo fino al terzo grado del giudizio. Le stesse anime nobili del garantismo hanno seguito con malcelata soddisfazione le inchieste sui loro oppositori e non si sono strappate i capelli quando Virginia Raggi è stata sottoposta a otto ore di interrogatorio con l’accusa di un reato impossibile.

Nella serie di perseguitati è finito il sottosegretario Armando Siri che, secondo la sua parte politica, non si deve dimettere perché soltanto indagato e sicuramente innocente. Il suo comportamento, se ancora privo di rilevanza penale, va comunque valutato sotto il profilo della coerenza con i doveri d’istituto, cioè in senso disciplinare.

Siri è un funzionario (onorario) pubblico e, in quanto tale, deve ritenersi assoggettato a regole analoghe a quelle previste per gli altri dipendenti pubblici. L’articolo 55-ter dello statuto dei dipendenti pubblici ha stabilito una cesura tra procedimento penale e disciplinare relativi ai fatti per i quali procede l’autorità giudiziaria. Il contegno del pubblico dipendente, perciò, è valutato in sede disciplinare indipendentemente dalla sussistenza o meno del reato. Perciò il comportamento del sottosegretario può essere sindacato in Consiglio dei ministri e determinare, se del caso, la revoca dell’incarico. Un principio che vale per tutti i pubblici dipendenti va sicuramente esteso, con le dovute cautele, a un pubblico funzionario onorario che va giudicato dal suo consesso di appartenenza.

Il premier giura: “Niente conta in Consiglio”. Ma nei gialloverdi monta la paura del “fango”

Probabilmente si salveranno, un attimo prima di uscire strada. Perché probabilmente andrà come dice il premier Giuseppe Conte: “Troveremo una soluzione in Consiglio dei ministri mercoledì mattina”, cioè domani. E così “si ricomporrà tutto, senza andare alla conta”.

Un’ordalia esclusa anche dal capogruppo della Lega in Senato, Massimiliano Romeo: “Non si andrà alla conta, alla fine accetteremo la scelta di Conte”. E la via d’uscita dovrebbero essere le dimissioni last minute di Armando Siri, il sottosegretario indagato per corruzione di cui “il Carroccio non chiede le dimissioni” assicura Romeo, però “se prima del Cdm deciderà di lasciare sarà una sua scelta”, e pare un elegante modo per indicargli l’uscio. Ma nell’attesa ai piani alti di Lega e Cinque Stelle è un affollarsi di cattivi pensieri. Perché la fosca telenovela sul destino del sottosegretario è la febbre che racconta anche altri problemi. E la sensazione è che forse i gialloverdi sono già andati troppo oltre. Forse hanno toccato equilibri e punti nevralgici che non andavano toccati dandosele per davvero dopo aver iniziato a picchiarsi per finta. Così nelle stanze dei bottoni gialloverdi monta la paura. Il timore che il governo abbia innescato “una macchina del fango” con schizzi incrociati, che non si potrà più fermare. Negli ultimi giorni lo hanno sentito dire a Giancarlo Giorgetti, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, nonché numero due del Carroccio: “So come vanno queste cose, rischiamo di essere sommersi dai veleni”. Perché il governo è troppo malfermo, quindi esposto ad accuse interne ed esterne.

E a questo si mescolano le preoccupazioni dei leghisti indagati o rinviati a giudizio. “Si sentono più fragili ora” soffia una fonte di governo. Tradotto, temono i cascami del caso Siri, perché se “la questione morale” può essere la mannaia per lui, indagato, figuriamoci per i condannati: anche di governo. Ansie a margine della corrida quotidiana, che ieri ha tirato dentro anche Conte. Perché è vero, Romeo ai microfoni de ilfattoquotidiano.it scandisce sillabe che sembrano tregua: “Non ci sarà nessuna crisi di governo, si troverà una soluzione nell’interesse di tutti e confermiamo la fiducia a Conte”.

Però poi il leghista morde proprio lui, il premier: “Siamo esterrefatti per le sue parole su Siri, come avvocato dovrebbe essere garantista o avrebbe almeno dovuto aspettare che il sottosegretario parlasse con i magistrati. Sembra che si sia sbilanciato in maniera abbastanza chiara dalla parte del M5S, perdendo il ruolo di arbitro”. E a Palazzo Chigi la prendono male: “Parole gravi”. Tanto che il premier risponde: “Non ho mai accettato di fare l’arbitro, ma di fare il premier, che è concetto ben diverso”. Ed è la rivendicazione del ruolo di capo del governo, che non può essere solo un mediatore di lusso. Così vuole essere Conte, che nei sondaggi distanzia Matteo Salvini e quasi doppia Luigi Di Maio. Ed è un altro nodo. Però ora contano soprattutto altri fantasmi, quello di una guerra sporca tra gialloverdi. E sarebbe l’esito incontrollabile, nella lite continua tra i due vicepremier. E comunque prima c’è sempre da risolvere il caso Siri, e non è ancora fatta, anche a vedere il forte nervosismo dentro Lega e M5S.

Ieri sera non era ufficiale neppure la data di domani mattina per il Cdm, ed è la milionesima spia dello stato delle cose. Anche se dal M5S soffiano caustico ottimismo: “La questione della casa a San Marino svelata da Report ha ulteriormente indebolito il sottosegretario, capiranno che deve farsi da parte”. Però Salvini ancora non molla: “Gli contestano di avere un mutuo, allora è un reato che stanno compiendo milioni di italiani”. E c’è anche Giorgetti, con sillabe da oracolo: “Su Siri è evidente che ci sia un po’ di clima persecutorio. Prima di mercoledì qualcosa succederà, e sarà chiaro a tutti come andrà a finire”. E chissà come, finirà.

Nuovo fascicolo a Milano sui soldi alla onlus leghista

Non solo da Roma. Alla Lega stanno per arrivare nuove grane. Sull’associazione Più Voci, presieduta dal tesoriere leghista Giulio Centemero, sta infatti indagando anche la Procura di Milano. Alcuni documenti, inviati nei mesi scorsi dai magistrati di Brescia, sono ora all’attenzione dei pm guidati dal procuratore milanese Francesco Greco, che stanno verificando se alcune donazioni, sulle quali si tiene il massimo riserbo, destinate alla onlus di area leghista siano regolari o se si tratti di finanziamenti illeciti. Proprio come già avvenuto a Roma. Bocche cucite sull’inchiesta che potrebbe diventare una replica di quella romana, dove Centemero è già indagato per finanziamento illecito, ma su finanziamenti diversi, maturati a Milano.

Nella capitale, i magistrati Paolo Ielo, Luigia Spinelli e Barbara Zuin stanno esaminando i 250 mila euro che nel 2015 l’associazione Più Voci ha ricevuto da una società che era riconducibile al gruppo di Luca Parnasi, l’imprenditore romano poi finito sotto inchiesta con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata a commettere reati contro la pubblica amministrazione, come la corruzione. È proprio indagando sul costruttore che gli investigatori ascoltano alcune conversazioni in cui si fa cenno a versamenti alla Più Voci. Viene intercettato un dialogo avvenuto dopo che Parnasi era stato contattato da un giornalista dell’Espresso che aveva chiamato per avere chiarimenti proprio sui 250 mila euro, versati alla onlus in due tranche da 125 mila. Il commercialista Gianluca Talone propone a Parnasi: “Cerchiamoci una giustificazione, perché è stata fatta l’erogazione liberale!”. E Parnasi replica: “Possiamo giustificare che abbiamo un progetto ex post! Se no bisognerebbe incontrarli domattina, capito? Dovremmo fare… se tanto firmo io basta fare un pezzo di carta”. E poi aggiunge: “Posso chiamare Giulio Centemero, è il braccio destro!”. In seguito però ci ripensa: “Andrea (Manzoni, commercialista, membro del consiglio dell’associazione Più Voci, estraneo alle indagini, ndr) va benissimo! Chiama Andrea da un fisso ufficio, e dici: ‘Senti, ci ha chiamato L’Espresso!’”.

La procura di Roma quindi ora sospetta che la onlus possa essere stata usata per una dazione indiretta alla Lega. Circostanza che il tesoriere Giulio Centemero in passato ha sempre smentito: più volte ha ripetuto che si trattava di contributi regolari, spiegando che neanche un centesimo è mai andato al partito di Matteo Salvini.

A spiegare a cosa servissero quei soldi poi è stato Parnasi quando è stato interrogato. Il 28 giugno 2018, al pm Paolo Ielo che chiede: “Era un modo per far affluire i soldi direttamente alla Lega?”, l’imprenditore romano spiega: “Il mio fu un modo per fidelizzare un gruppo di persone che comunque sia mi avrebbero forse potuto creare delle opportunità imprenditoriali”. Il pm insiste: “Un modo per far arrivare i soldi alla Lega?”. Parnasi prima risponde: “Probabilmente sì”. Poi quando Ielo ripropone la domanda: “Era un modo per far arrivare i soldi alla Lega attraverso questa fondazione?”, dice: “Non posso dirle con certezza questo”.

Questa è la vicenda romana. Ora sulla onlus Più Voci si è appuntata l’attenzione anche i della Procura di Milano, dove Centemero non risulta indagato. Nel mirino dei magistrati c’è un altro contributo sul quale si tiene il massimo riserbo. Ma è un’inchiesta che potrebbe riservare nuove sorprese.

Grana bis per Siri: inchiesta sul denaro per la palazzina

Anche la Procura di Milano indaga sugli affari di Armando Siri, il sottosegretario leghista già sotto inchiesta a Roma per corruzione e al centro in questi giorni dello scontro politico dentro il governo tra Cinquestelle e Lega. Il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, che si occupa dei reati di riciclaggio, autoriciclaggio e corruzione internazionale, ha aperto un’inchiesta, al momento “a modello 45”, cioè senza ipotesi di reato né nomi di indagati, sulla compravendita di una palazzina da parte di Siri, che per l’affare ha utilizzato un generoso finanziamento di 585.300 euro concesso da una banca di San Marino. La storia, raccontata dal programma di Rai3 Report, inizia il 31 gennaio 2019, quando nello studio a un passo dal Duomo di Milano del notaio Paolo De Martinis, Siri firma il rogito per l’acquisto di una palazzina a Bresso, città giardino alle soglie di Milano. Sono sette appartamenti, un negozio, un laboratorio più alcune cantine. La mediazione immobiliare è realizzata da una società di Policarpo Perini, vecchia conoscenza di Siri, per essere stato nel 2013 il candidato sindaco a Bresso del Partito Nuova Italia (Pin) fondato da Siri prima della sua conversione alla Lega. I solai della palazzina sono acquistati invece dal padre dell’agente immobiliare, Marco Luca Perini, presidente dell’associazione Spazio Pin, che gestisce i corsi di formazione della Lega, oltre a essere attiva nel campo dei corsi di meditazione, ipnosi e massaggio.

A finanziare l’operazione è la Banca agricola commerciale di San Marino, diretta dal luglio scorso da Marco Perotti, uomo molto vicino a Siri, che concede al sottosegretario un prestito di oltre 585 mila euro, che transitano su un conto corrente aperto dal notaio De Martinis. La palazzina è stata intestata alla figlia di Siri, 25enne, a cui l’immobile è stato girato a titolo di liberalità, dunque senza alcuna imposta. La ragazza ha poi firmato una procura irrevocabile al padre a vendere l’immobile a se stesso o a terzi.

Il notaio però segnala subito l’operazione all’Uif, l’Unità d’informazione finanziaria di Banca d’Italia, che fa entrare in campo la Guardia di finanza: il Nucleo di polizia economico-finanziaria delle Fiamme gialle esamina la vicenda e poi stila un rapporto che è stato inviato alla Procura di Milano e ricevuto sabato scorso dal dipartimento guidato da Fabio De Pasquale.

Secondo quanto risulta al Fatto Quotidiano, gli organi di controllo italiani e della repubblica di San Marino avrebbero rilevato che l’operazione è difficilmente qualificabile come riciclaggio, poiché il finanziamento della banca sammarinese è stato concesso senza alcun bene a garanzia. Ma proprio per questo il trattamento riservato dall’istituto di credito al sottosegretario del governo italiano è da considerare, se non illecito, di certo sorprendente, perché è davvero raro che un prestito di queste dimensioni possa essere concesso senza alcuna garanzia, senza alcuna ipoteca o fideiussione.

Il procuratore della Repubblica Francesco Greco ha garantito che ci sarà “massima collaborazione” tra il suo ufficio e la Procura di Roma, che sta indagando Siri per corruzione, con l’accusa di aver accettato una mazzetta di 30 mila euro, ricevuti o solo promessi dal faccendiere Paolo Arata, in cambio della presentazione di un emendamento legislativo che favoriva i finanziamenti al settore eolico e che sarebbe stato utile agli affari di Arata e di Vito Nicastri, imprenditore ritenuto in relazione con il latitante Matteo Messina Denaro, considerato l’ultimo capo di Cosa Nostra.

“A Siri adesso contestano di avere un mutuo”, ha dichiarato il segretario della Lega Matteo Salvini, dopo un comizio tenuto a Salerno. “Allora è un reato che stanno compiendo milioni di italiani. Io sono tranquillo, possono aprire tutte le inchieste che vogliono”. Gli ha risposto, a distanza, la vicesegretaria del Pd, Paola De Micheli: “A quanti italiani viene concesso un mutuo a San Marino senza garanzie? A quanti italiani viene concesso nonostante una condanna per bancarotta? A quanti italiani lo stesso notaio che esegue l’operazione fa subito partire una segnalazione per sospetto riciclaggio?”. Il riferimento è al patteggiamento chiesto da Siri nel 2014 dopo il fallimento della sua società Mediaitalia, per i reati di bancarotta e di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte.

Carige, via libera delle altre banche al piano di Blackrock

A quattro mesi dal varo del decreto che prevedeva la possibilità di ingresso dello Stato nel capitale di Carige, la banca si prepara a diventare più statunitense che ligure. Lo Schema volontario del Fondo interbancario di tutela dei depositi ha dato il via libera al piano concordato con il fondo Blackrock – già socio di Unicredit e Intesa – che sarebbe pronto a mettere sul piatto circa 400 milioni di euro diventando primo azionista. Mentre il fondo a cui aderiscono i principali istituti convertirà in azioni il bond subordinato da 320 milioni. L’operazione prevede un aumento di capitale di importo ancora non definito, ma con un tetto massimo di 720 milioni, 90 milioni in più rispetto al piano approvato a febbraio. La famiglia Malacalza, principale socio con il suo 27,5%, per ora non si è espressa, ma è in trattativa ed è probabile che parteciperà all’aumento. “Se l’aumento di capitale di Carige sarà intorno ai 720 milioni, il Fondo deterrà il 43%”, ha detto il presidente del Fitd, Salvatore Maccarrone, secondo il quale “è molto verosimile che Blackrock nominerà l’ad”. Tutta l’operazione si concluderà entro l’anno: il prossimo passo è l’assemblea. Poi, entro il 17 maggio, sarà presentato alla Bce il piano Blackrock.