La mappa sulle scorie nucleari arriverà solo dopo le Europee

È tutto pronto. La Sogin, la società del Tesoro incaricata di smantellare le centrali nucleari italiane, ha trasmesso la nuova versione della mappa delle aree idonee ad ospitare il deposito nazionale delle scorie radioattive. Mappa pronta fin dal 2015 e che è stata sottoposta ad aggiornamento due volte negli ultimi 15 mesi. L’ultimo ordinato su input del sottosegretario del ministero dello Sviluppo economico Davide Crippa che ha chiesto di eliminare le aree a rischio sismico, quelle dove sono possibili forti terremoti. A febbraio, infatti, il Mise aveva fatto presente di “non ritenere opportuno l’inserimento tra le aree idonee anche quelle classificate a rischio 2, al fine di evitare di creare negatività ingiustificate quando si andrà a dialogare con la popolazione”.

Un criterio cautelativo per rassicurare “gli abitanti delle località scelte ed evitare possibili contestazioni, anche se prettamente non motivato da rischi comprovati dal punto di vista scientifico, ma comunque necessario per presentarsi alle consultazioni pubbliche con le carte in regola”. Ma considerazioni di altra natura potrebbero incidere sull’ordine di idoneità delle aree o comunque condizionare il nulla osta del governo. “Costruire il deposito in Sardegna? Sarebbe antieconomico”, ha detto il ministro del Mise Luigi Di Maio sabato scorso nel corso del suo tour pre-elettorale.

Limature future a parte, è invece certo che nella mappa ora al vaglio dell’Ispettorato sulla sicurezza nucleare sono incluse alcune decine di siti con dimensioni che vanno dai 150 ai 1.500 ettari, tutti lontani da corsi d’acqua e dai centri abitati. L’area che verrà scelta ospiterà una struttura (un deposito con annesso parco tecnologico) progettata per custodire 100 mila metri cubi di scorie e con requisiti tali da garantire la massima condizione di sicurezza, anche a fronte di attentati della più varia natura, persino attacchi aerei.

Entro la prima decade di giugno, ossia qualche giorno dopo le elezioni europee, il dossier sarà sul tavolo dei ministri Di Maio e Sergio Costa (Ambiente) per il via libera alla pubblicazione della lista delle aree. Ma il condizionale è d’obbligo dato il clima di perenne campagna elettorale. Che è fattore che pesa, eccome: ne sa qualcosa l’ex ministro del Mise Carlo Calenda che, a sorpresa, si disse pronto a rivelarne i contenuti prima delle politiche del 4 marzo 2018. Ma non se ne fece più nulla. Fibrillazioni politiche a parte, c’è pure il rinnovo dei vertici di Sogin che a breve concluderanno il mandato con l’approvazione del bilancio. Altro snodo significativo per sondare le reali intenzioni del governo sul deposito.

Lo smantellamento degli impianti nucleari italiani ha risentito negli anni delle mancate decisioni sulla destinazione finale delle scorie, mentre inesorabilmente sono continuate a correre le spese per questa attività finanziata dai contribuenti con le bollette elettriche: dal 2001 un conto di circa 4 miliardi di cui 1,7 per il trasferimento nel Regno Unito e in Francia dei materiali a più alta attività che una volta sottoposti a trattamento faranno poi ritorno in Italia. Quando? Tra il 2020 e il 2025, secondo quanto previsto dal contratto del 2007 con la francese Areva. Che, temendo che alla fine possano restargli sul groppone oltre i termini concordati, ha già interrotto l’importazione dell’ultimo stock di materiali pronti a varcare le Alpi. Il nuovo Eldorado, si fa per dire, delle scorie italiane pare essere la Slovacchia. Dove saranno portati 5.500 fusti di resine utilizzate in passato per la filtrazione dell’acqua del reattore di Caorso che altrimenti non potrà essere smantellato. E 350 fusti di fanghi che a breve, sempre da quel sito, dovrebbero partire con destinazione Bohunice dopo che nel 2015 la società slovacca Javys si è aggiudicata in associazione con Ansaldo un contratto multimilionario.

E poco importa se per poterli incenerire è stato necessario realizzare ex novo un impianto di macinazione preliminarmente dei materiali. Dopo l’estate, se i test andranno a buon fine, inizieranno i trasporti dall’Italia su scala industriale verso la Slovacchia. Che è ritenuta una metà appetibile, se è vero che sempre nello stesso impianto finiranno altri 1.000 fusti di rifiuti liquidi radioattivi provenienti dal deposito di Cemerad di Statte (Taranto).

Se in Slovacchia verranno bruciati (le ceneri torneranno a Caorso), i metalli delle ex centrali di Garigliano, Latina e Trino finiranno, invece, in Svezia per essere fusi forse già entro l’anno: anche in questo caso una volta completate le operazioni i materiali torneranno nei siti italiani da dove sono partiti. E sempre in attesa di poterli poi portare al deposito nazionale. Forse.

Salario minimo, il governo apre ai minimi tabellari

Passi avanti nella definizione del salario minimo orario, che il ministro del Lavoro Luigi Di Maio punta a vedere legge entro settembre. Inserendo, ma non sarà facile, anche la norma sui rider, i ciclofattorini delle consegne a domicilio. C’è, infatti, un’apertura dal fronte del governo e una tiepida soddisfazione dalle parti sociali dopo il tavolo che c’è stato ieri pomeriggio al ministero del Lavoro, dove è emersa l’intenzione da parte del governo di inserire un emendamento al ddl, richiamando i minimi tabellari dei contratti nazionali di lavoro. Posizione che viene incontro all’idea dei sindacati, ancora però contrari sulla soglia dei 9 euro lordi sostenuta dal M5S. Mentre per Cgil, Cisl e Uil, occorre attribuire valore legale ai trattamenti economici già previsti dai contratti nazionali. Nulla di conclusivo, ovviamente, ma una apertura verso i sindacati che disinnesca peraltro il rischio, ventilato da Cgil Cisl e Uil, di una fuoriuscita delle imprese dai grandi contratti nazionali verso ‘accordi’ meno onerosi economicamente. I 9 euro lordi comunque restano per ora all’interno dell’articolato di legge anche se non è ancora chiaro per chi potrebbero essere validi. Si tornerà comunque a discuterne tra 10/15 giorni.

La corsa per dare indietro il reddito? Ad oggi non esiste

“Secondo i dati Caf, 130mila persone rinunceranno al reddito di cittadinanza perché gli importi sono troppo bassi e non quelli annunciati in campagna elettorale, l’ennesima sconfitta di @luigidimaio e @matteosalvinimi”, scrive su Twitter Debora Serracchiani, ex governatrice del Friuli e ora vicesegretario del Pd. Non è l’unica ad aver rilanciato un dato che, al momento, non esiste. È una stima molto vaga citata da un articolo del Messaggero di domenica che si basa su una catena di ipotesi tutte da dimostrare: 1) che ci siano molte persone scontente degli importi assegnati come reddito di cittadinanza, sulla base della documentazione presentata; 2) che queste persone preferiscano rinunciare a tali somme piuttosto che entrare nel programma di formazione professionale e rispettarne gli obblighi; 3) che questi beneficiari scontenti facciano effettivamente domanda per la rinuncia. Lo stesso Messaggero chiarisce che non esistono neppure le procedure per la rinuncia al reddito, forse saranno pronte nelle prossime settimane. Le ipotesi del Messaggero sono fragili: chi riceve somme basse è la minoranza dei richiedenti che ha redditi o patrimoni relativamente più elevati, sono cioè i meno bisognosi. E riqualificare e mettere in condizione di trovare un lavoro chi è in una situazione di povertà meno grave è, a parità delle altre variabili, più semplice che aiutare un povero cronico, con redditi molto lontani dalla soglia della sopravvivenza. I beneficiari di importi bassi sono, insomma, quelli che potrebbero trarre i maggiori benefici da un programma di formazione (pubblico, coi centri per l’impiego e privato con le agenzie) che dà priorità a chi è più facilmente impiegabile. Chi volesse poi rinunciare al beneficio, dovrebbe anche restituire quanto già incassato. E gli studi di economia comportamentale dimostrano che rinunciare a soldi già nella nostra disponibilità è più difficile che accettare la perdita di incassi futuri.

Borse in calo per la guerra Usa-Cina sui dazi

L’annuncio del presidente americano Donald Trump di aumentare i dazi americani sui prodotti cinesi ha avuto effetti dirompenti sui mercati: ha perso il petrolio (-2,29% il Brent), il settore auto, la componentistica e la tecnologia che hanno fatto affondare le borse. Nessuna è riuscita a salvarsi. Lo choc partito dai mercati asiatici (Shanghai -5,58%, Shenzhen -7,38%) ha contagiato le piazze europee con ribassi per Milano (-2%), Francoforte (-1,01%), Parigi (-1,18%) e (Madrid -0,84%). Wall Street, solo in chiusura, è riuscita a ridurre le perdite (-0,76%). Si è salvata Londra, ma solo perché la borsa era chiusa per festività.

Tutta colpa dei colloqui commerciali fra Stati Uniti e Cina che, secondo Trump, vanno avanti “troppo lentamente”. E per questo motivo da venerdì, i dazi americani su 200 miliardi di prodotti Made in China saliranno dal 10% al 25%. Ma non è escluso che le sanzioni vengano estese a ulteriori 325 miliardi di dollari. Da dieci mesi a questa parte, la Cina è già soggetta a dazi del 25% su 50 miliardi di dollari di tecnologia avanzata e del 10% su 200 miliardi di dollari di altri prodotti.

Così, quando tutti pensavano che l’accordo commerciale tra Stati Uniti e Cina fosse ormai ad un passo, la guerra dei dazi torna a diventare la grande incognita insieme alla Brexit e all’Iran. “Con la Cina perdiamo 500 miliardi di dollari. Scusate, ma non succederà più!”, ha twittato Trump. Ma la minaccia del presidente Usa non sembra aver turbato Pechino, la cui delegazione “si sta preparando per andare negli Usa” per il nuovo round negoziale sul commercio dell’8 maggio, come ha fatto sapere il portavoce del ministero degli Esteri, Geng Shuang, augurandosi che “Usa e Cina possano trovare una soluzione a metà strada”.

Del resto, fanno notare gli analisti, non è la prima volta che il presidente degli Stati Uniti arriva a minacciare la Cina. Ma non è bastato ai mercati. Se le parole di Trump sono una minaccia o la verità si scoprirà solo nelle prossime ore. Per ora è evidente solo da dove arrivi la ruggine tra le due potenze: la paura di Trump è che i cinesi vogliano rinegoziare dossier già chiusi, tra cui quello sulla sicurezza delle reti. Tra accuse e repliche sull’utilizzo del 5G di Huawei, gli Usa stanno ancora valutando come e quali informazioni condividere con i cinesi per l’utilizzo delle apparecchiature Made in Cina.

Sblocca cantieri, il rischio degli accordi tra le imprese

Ci sono i cantieri da sbloccare e il governo ha perso settimane prima di emanare il testo definitivo, così ora il Senato condensa 14 audizioni in un giorno solo per accelerare la conversione in legge del decreto Sblocca-cantieri. Per i problemi di agenda, ne manca una che ha un forte valore simbolico: quella di Raffaele Cantone, il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione che ha come prima mansione quella di verificare che dai contratti pubblici non nascano occasioni di corruzione. Raffaele Cantone non ha parlato, in Senato, ma al governo sanno bene come la pensa: nelle scorse settimane ha denunciato più volte i problemi di un provvedimento che, secondo i dati dell’Anac, più che i cantieri sbloccherà gli accordi di cartello tra imprese concorrenti per alzare i prezzi ai danni dello Stato.

A Confindustria lo Sblocca-cantieri piace molto (“un segnale di ritrovata attenzione alle ragioni della crescita economica); a sindacati, associazioni di professionisti e Corte dei Conti molto meno. Le imprese hanno parecchio da guadagnarci: prima dello Sblocca-cantieri, per affidare lavori fino a 150.000 euro la stazione appaltante pubblica poteva evitare la gara ma doveva scegliere tra 10 preventivi, che diventavano 15 per lavori tra 150.000 e 350.000 euro. Oggi, invece, fino a 200.000 euro basteranno soltanto tre preventivi. Sopra scatta la gara. Soprattutto nelle zone dove è più forte la criminalità organizzata, agli amministratori locali compiacenti basta frammentare i lavori in bandi appena sotto la soglia, per esempio di 190.000 euro, per riuscire ad affidare senza gara importi di fatto maggiori. Bastano due bandi da 190.000 euro per dare lavori senza gara per 380.000 euro, quasi due volte la soglia.

Verrebbe da pensare, quindi, che i cantieri bloccati fossero quelli piccoli, sotto i 200.000 euro. E invece, secondo i dati dell’Anac, non è così: gli appalti sotto i 200.000 euro nei settori ordinari sono saliti da 4,7 miliardi nel 2016 a 5,3 nel 2017. E nei primi sei mesi del 2018 gli appalti aggiudicati hanno raggiunto, nel complesso, 10,1 miliardi. Da quattro anni il mercato delle commesse pubbliche cresce, è tornato sopra il livello precedente all’introduzione di quel codice degli appalti che ha rappresentato uno choc tale da bloccare per un po’ i lavori.

I cantieri piccoli, quindi, sono già sbloccati. Ma per le imprese ora diventa più semplice e perfino legale fare accordi di cartello che magari evitano i contenziosi (e questo, è vero, riduce i tempi dei lavori) ma di sicuro aumentano i costi per lo Stato. Se l’impresa A batte le concorrenti B e C perché presenta un’offerta migliore, potrà poi subappaltare parte dei lavori a B e C.

Cosa che finora era vietata proprio per evitare che le varie imprese si spartissero i contratti tenendo però alti i prezzi per il committente pubblico.

Torna anche il meccanismo del massimo ribasso, cioè di una valutazione che premia chi promette di fare i lavori al costo più basso, senza andare troppo per il sottile su come ottiene tali risparmi. I sindacati sono preoccupati che a pagare possano essere i lavoratori (nell’edilizia è anche una questione di sicurezza). L’Anac vede anche il rischio che chi vince col massimo ribasso poi recuperi la differenza chiedendo varianti ed extra-costi in corso d’opera. E c’è un’apposita norma nello Sblocca-cantieri che rende il gioco semplicissimo: per risparmiare tempo ed energia, la Pubblica amministrazione affida i lavori sulla base di un progetto semplificato, poi sarà l’azienda a redigere il progetto dettagliato e, quindi, a valutare i costi effettivi. Non solo: l’impresa (cioè il “soggetto aggiudicatore”) può anche approvare da sola varianti fino al 50 per cento del valore del progetto. Lo Stato si limita a ricevere il conto e a pagare.

Royal Baby. Non potendo arrivare al trono, Meghan ambisce alle copertine

 

La gravidanza di Meghan Markledoveva essere una cosa riservata e privata, e invece sappiamo tutto del royal baby sin dal momento della nascita: il sesso, quanto pesa, le regole che la Markle dovrà rispettare. Avevano anche annunciato che non si sarebbe visto neanche il suo aspetto, e invece nei prossimi giorni saremo bombardati da fotografie. Ma quindi non cambia niente rispetto al passato, e tutti i reali devono passare necessariamente per questo iter di protagonismo mediatico?

Giorgio Berti

 

Caro Giorgio, temo che Meghan Markle abbia voglia di privacy quanto la regina Elisabetta di un tè con Paul Gascoigne. E in effetti, quando il simpatico Harry è uscito dalla clinica per dare il lieto annuncio ai giornalisti, ha pronunciato la frase: “È incredibile cosa possa fare una donna!” convincendo tutti che parlasse dei travagli del parto. Invece no. Il buon Harry ha assistito, dal matrimonio in poi, a tutto quello di cui Meghan è stata capace pur di mettere in ombra la futura regina e cognata Kate, dall’epurazione di mezza famiglia d’origine allo sfoggio di un guardaroba che ad oggi sarà costato quanto l’Imu su Buckingham Palace, fino al tour di mezzo mondo col primo accenno di pancia e ai cinque giorni di sobri festeggiamenti con le amiche a New York pagato (dal palazzo) la modesta cifra di mezzo milione di dollari. Direi che tutto sommato è Kate, la futura regina, la cocca di nonna Elisabetta, colei che regala qualche accenno di sobrietà, non certo la coppia Meghan/Harry.

Ricordiamoci, del resto, che Kate può anche permettersi una foto con la famosa ricrescita bianca e il celebre vestito Zara da 29 euro e 90, tanto la linea di successione al trono parla chiaro. Le chiappe sul trono le poserà lei. Meghan sa che a meno che non scoppi un’epidemia di peste nera a Buckingham Palace che abbatta i Windsor come birilli mentre lei e Harry sono nel loro cottage fuori Londra, lei regina non lo diventerà mai. Non sul trono, almeno. Sulle copertine, però, è un’altra storia.

Selvaggia Lucarelli

Mail Box

 

Le Province non devono essere il primo bersaglio dei tagli

Le Province sono sicuramente un serbatoio di poltrone, ma se si vogliono tagliare le poltrone, le Regioni così come sono adesso, dovrebbero essere il primo bersaglio dei “tagliatori”.

Le Province rappresentano, insieme ai Comuni, un’aggregazione territoriale molto più vicina ai cittadini e ai loro bisogni quotidiani. Una delle (poche) cose buone fatte dal Pd è la proposta di legge Morassut-Ranucci, da anni chiusa nel cassetto, riguardante l’accorpamento delle Regioni che dovrebbero passare da 20 a 12. Una proposta che oltre a garantire un alleggerimento degli sprechi ben più incisivo (e terrorizzante per i politicanti), appare molto più funzionale alla recente istituzione delle Città Metropolitane i cui bilanci oggi vanno sempre più a scapito dei territori provinciali. Proprio per questo dovrebbe restare una rappresentanza autonoma e diretta dei territori presso la regione di riferimento, specie se si approvasse la suddetta legge.

Il cambiamento deve essere incisivo sugli sprechi della politica ma deve anche garantire ai Cittadini una maggiore vicinanza delle Istituzioni e la scomparsa delle Province, a mio parere, non va in questa direzione

Enrico Cesarini

 

Il Pd si è tirato un autogol in modo veramente ingenuo

Accolgo con felicitazione la notizia secondo cui Luigi Zanda abbia ritirato il provvedimento che equiparava gli stipendi dei parlamentari italiani a quelli europei, senza però farsi mancare di rivendicarlo. Ho notato che tra i Dem ci sono molte persone che ritengono la cultura qualcosa di molto importante e fanno dell’intellettualismo una loro propria medaglia, perciò mi domando come possano delle persone che mettono così in primo piano l’intelligenza fare cose tanto sciocche. Senza entrare nel merito banalmente monetario della questione (e senza farci imbrogliare dalla differenza che passa tra compenso, diaria e vantaggi vari su cui troppi politici giocano, pensando che la gente non sia in grado di capire la differenza), ma come può saltare in mente a una forza che chiede i voti agli ultimi di proporre riforme del proprio stipendio quando non si è neanche in grado di votare il salario minimo per i cittadini?

Si è offerto il fianco in mondo davvero ingenuo. Per quanto non si sforzi neanche più di non voler sembrare la forza classista di destra che ormai è diventato, il Pd abbia almeno la decenza di scegliere meglio le proprie priorità.

G.C.

 

Diritto di replica

In relazione all’articolo a firma di Andrea Moizo pubblicato il 5 maggio la Uirnet S.p.A. intende precisare quanto segue:

1) Aspi possiede l’1,40% di Uirnet, non ha mai partecipato alla governance e non ha mai avuto alcun vantaggio dall’essere nella compagine sociale;

2) Uirnet non è un operatore di mercato, non può distribuire dividendi e deve reinvestire gli utili nella gestione e manutenzione della piattaforme ad alta automazione e a ridotto impatto ambientale di supporto a nodi di scambio viario intermodali;

3) Uirnet dovrà fare investimenti su fondi nazionali diversi per svariati milioni sia per la realizzazione del varco di Levante del porto di Genova, che per partecipare al progetto E-Bridge finanziato dalla Ue al 50%;

4) le infrastrutture da realizzarsi nell’ambito del decreto Genova saranno appaltate ed eseguite secondo il Codice dei contratti pubblici;

5) il governo ha appostato 30 milioni di euro al cofinanziamento di un intervento di pari importo della Bei, indispensabile per il completamento degli interventi infrastrutturali e informatici fondamentali per lo sviluppo del Porto di Genova e non solo;

6) le aree buffer saranno realizzate e gestite con criteri di economicità ed efficienza;

7) gli espropri allo stato sono da attuarsi da parte del ministero delle Infrastrutture.

Prof. Rodolfo De Dominicis, presidente e ad UIRnet spa

 

Ringrazio il professor De Dominicis per le precisazioni al mio articolo, che confermano la piena correttezza di quanto in esso riportato. E in particolare (punto 4) che Uirnet farà da stazione appaltante per le infrastrutture in questione e potrà così ambire (punto 5) a un cofinanziamento Bei. Il fatto che lo farà nel rispetto del vigente Codice degli appalti è una buona notizia. Non scontata, dato che, come spiegato nell’articolo, il decreto che le ha attribuito tale ruolo (senza rispettare invece il Codice) le consentirebbe di ignorare la normativa sugli appalti pubblici.

Andrea Moizo

 

 

Gentile Direttore, a proposito dell’articolo “Zingaretti dice sì a Mattarella: governissimo tecnico post-voto”, si precisa che il segretario Nicola Zingaretti non ha mai avuto incontri o colloqui col presidente Mattarella sul tema elezioni. E comunque, in caso di crisi di questo governo – come già detto e ribadito decine e decine di volte – il Pd chiederà al presidente della Repubblica di tornare al voto. Altre ipotesi non sono contemplate.

Ufficio Stampa PD

 

Non aver avuto colloqui o incontri sul tema elezioni, non significa non averne avuti su scenari di governo per quanto ipotetici, come nel pezzo si specificava bene. Per il resto, prendiamo atto che il Pd chiederà di tornare al voto, ma resta da vedere se tale richiesta verrà accolta.

Wanda Marra

Daje Luigi Zanda, un gattopardo dal crine di setola

La cosa che più colpisce di Luigi Zanda, da sempre, è niente. L’ineffabile Zinga, per dar segno di quanto il suo Pd sarà nuovo, lo ha fatto subito tesoriere. E questo è oltremodo inattaccabile: tutti noi, se per esempio volessimo donare nuova linfa e vita al rock, chiederemmo per certo a Memo Remigi di incidere Stairway to heaven con l’ukulele. Zanda è nuovo, Zanda è bello, Zanda è giusto. E Zanda è pure indomito nonché sbarazzino, perché da decenni ha sostituito il suo natio crine con un modellino scala 1:1 del famoso pennello Cinghiale che bloccava il traffico in quel vecchio spot. Ieri, attraverso un’intervista al Corriere della Sera, ha ritirato la sua proposta salvo poi querelare Di Maio che ne aveva denunciato il contenuto. Bello: un po’ come ammettere d’aver fatto una bischerata e dare poi un cazzotto a chi te l’aveva fatta notare. Quando si dice la lucidità politica. “Attualmente i senatori guadagnano al netto 11.134 euro, quelli europei, a cui il mio ddl equipara gli stipendi, 10.499. Si aggiunga poi che il fisco italiano è più severo di quello europeo”. Per quanto però fosse “un’ottima soluzione”, Zanda ha ritirato la proposta perché “non voglio che il Pd debba subire due volte al giorno le manipolazioni politiche di Di Maio e dei suoi”. E magari non vuole neppure che l’ineffabile Zinga, come giovedì scorso, si riduca come un Poro Asciugamano qualsiasi a chiamare in diretta Piazzapulita per sconfessare (malino) le parole appena pronunciate in studio dal sottosegretario 5 Stelle Di Stefano. Di contro Di Maio ha cantato vittoria: “Era tutto vero. Zingaretti è stato sbugiardato dal suo stesso tesoriere. Zanda ha dichiarato che ritirerà la vergognosa proposta Pd. Avevamo ragione noi! Zanda e tutto il Pd si vergognino. Il Partito Democratico è in confusione totale”. Una “confusione” ribadita ieri da Zingaretti: “I parlamentari guadagnano troppo? No. E i sindaci e consiglieri prendono poco”.

Il rapporto tra il rutilante Zanda e i vitalizi è sempre stato molto passionale: se glieli toccano, lui reagisce come la Fusani quando le critichi la Boschi. Accadde anche nella precedente legislatura col “ddl Richetti”. Zanda, capogruppo Dem al Senato, si mise di traverso con panegirici vagamente legulei: “Bisogna valutare a fondo i profili di costituzionalità. Se approviamo una legge per convenienza, senza pensare al merito e alla giustezza del provvedimento, rischiamo di diventare tutti dei carrieristi”. Come fosse Antani prematurata. Richetti ci rimase male e, in una chat di renziani del Pd modenese, scrisse: “Mi vergogno per tutto il Pd. Tutto. Non hanno capito cosa c’è in gioco. I senatori si sono dimostrati di un’avidità incomprensibile”. È però ingiusto attaccare Luigi Enrico Zanda Loy, nato a Cagliari nel 1942, segretario-portavoce di Francesco Cossiga al ministero dell’Interno (1976-1978) nonché alla Presidenza del Consiglio dei ministri con il primo e il secondo governo Cossiga (1979-1980). E già così si sogna di brutto, perché quando pensi al rinnovamento pensi subito a un 77enne che ha fatto per anni (e che anni!) il portavoce di una delle figure più notoriamente immacolate della Prima Repubblica. Presidente di Lottomatica e (col sindaco Rutelli) dell’Agenzia romana per la preparazione del Giubileo del 2000, senatore della Margherita e del Pd, Zanda c’è sempre stato. Pronto per ogni evenienza: un gattopardo dal crine di setola, su cui Zingaretti – con fiuto antico – ha puntato deciso. L’ineffabile Zinga & il rutilante Zanda: forse una nuova serie Marvel o forse il capolinea di un partito nato di per sé stanco. Daje compagni!

La vergogna del reddito è la propaganda

“Le polemiche creano sconforto”, “girano tante falsità”. Lo scoramento del professor Tridico – “papà” del Reddito di Cittadinanza e neo presidente dell’Inps – non basta a rendere l’idea: quella cui assistiamo sul sostegno ai poveri è una delle pagine politiche e mediatiche più tristi degli ultimi anni.

Una misura che dovrebbe mettere d’accordo tutti i partiti, a maggior ragione a sinistra trattandosi di un aiuto ai più deboli (che se sono più di 5 milioni è anche grazie a chi ha governato in passato), ampio e sostanzioso come mai prima d’ora, e che dovrebbe essere salutato con un “finalmente la politica si occupa degli ultimi, invece dei soliti noti”, è stato prima liquidato e ridicolizzato (“tanto non si farà mai”, “costa troppo, non avrà coperture”, “sarà una promessa mancata”…), poi – quando si è fatto reale – gufato (“sarà il caos”, “il sistema andrà in tilt”, “finirà ai furbi”…) e ora che le code paventate non ci sono state e, nei tempi previsti, le prime domande sono state liquidate, la nuova parola d’ordine è: flop. “Domande inferiori alle attese”, “sussidi irrisori”, “molte rinunce perché il gioco non vale la candela: meglio lavorare in nero” e via a screditare. Una vergogna.

A oggi le domande presentate sono di poco superiori al milione. Tante, ma meno del previsto, anche perché nei decreti attuativi sono stati inseriti paletti volti a evitare furbi, furbetti e furbastri evocati dai gufi di cui sopra. Bene che non ci sia stata una richiesta di massa, che rischiava di essere incontrollabile e avrebbe alimentato l’allarme “assistenzialismo”, “ora a questi chi glielo trova un lavoro?”. Bene che così si possano risparmiare un bel po’ di risorse rispetto a quelle stanziate. Qualcuno degli uccelli del malaugurio per caso l’ha scritto? Certo che no.

Alla faccia del caos poi, al 19 di aprile l’Inps ha già elaborato quasi 500 mila domande, circa la metà. Quindi quegli incompetenti grillini hanno messo a punto un sistema di verifica che ha consentito di rispettare i tempi promessi? Sì, ma anche questo è bene non scriverlo.

E siamo ai sussidi irrisori: chi è riuscito a sfuggire alle paginate o ai servizi tv sui beneficiari delusi, che si sono visti accreditare solo 50 euro? Nessuno, perché pure gli eremiti sono stati raggiunti dalla ferale notizia tramite piccioni viaggiatori.

Eppure, scorrendo i primi dati ufficiali, si scopre che delle prime 500 mila pratiche liquidate, ben il 71 per cento supera i 300 euro al mese – 50 per cento tra 300 e 750 euro e 21 per cento oltre 750 – con una media di dotazione di 520 euro. Non male, direi. Solo il 7 per cento è tra 40 e 50 euro: eppure giornali e tv non hanno parlato d’altro.

Conta più il 7 o il 71 per cento? E con quale faccia bollano 50 euro al mese come elemosina umiliante gli stessi che osannavano gli 80 euro di Renzi? (80 euro che peraltro non vanno ai poveri, ma a chi una busta paga ce l’ha e senza nessun obbligo di spesa nel mese successivo, come previsto invece dal RdC per rilanciare i consumi). Soprattutto: chi ha fatto credere agli italiani che avrebbero ricevuto 780 euro al mese? I 5Stelle – che hanno sempre ripetuto che quella sarebbe stata la soglia massima, per un single senza entrate né casa di proprietà, mentre gli altri avrebbero avuto un’integrazione al reddito fino ai 780 – o la torma di editorialisti, esperti, politici “responsabili” che così potevano rilanciare il mantra “costa troppo”? Brutta bestia la propaganda.

Meno parlamentari, troppo governo

La riduzione del numero dei parlamentari attualmente in discussione ha motivazioni solo di risparmio, senza alcun riguardo al ruolo che il Parlamento deve svolgere. Questa modifica della Costituzione può essere l’inizio di un cambio preoccupante della democrazia nel nostro Paese, delle sue regole, della sua capacità di composizione dei conflitti. Il parlamento ha un ruolo centrale nella nostra Costituzione e le motivazioni del taglio del numero dei parlamentari sono al di sotto della sua importanza nel nostro assetto istituzionale.

Da tempo è prevalsa l’opinione che in Italia il problema di fondo sia rafforzare il ruolo del governo. Ammesso che questa riflessione avesse un fondamento anni or sono, attualmente il ruolo del governo è addirittura debordante. I governi da almeno due decenni usano a piene mani i decreti legge, che come è noto entrano immediatamente in vigore e debbono essere convertiti entro 60 giorni dal parlamento. Così di fatto gli esecutivi decidono le scelte del Parlamento e ne influenzano le decisioni, spesso invocando per i decreti ragioni di urgenza che non esistono. Questo governo non fa eccezione. Ha imparato in fretta dai precedenti che l’intreccio tra decreti legge e voti di fiducia può trasformare i parlamentari in soldatini del voto, a proprio favore ovviamente. Perfino le giravolte politiche e le contraddizioni del governo vengono scaricate sul Parlamento, come nel caso della legge di bilancio alla fine del 2018, che i parlamentari hanno votato a scatola chiusa, senza poterla leggere e tanto meno modificare. Scelte verticistiche nelle candidature prima delle elezioni, grazie a una legge elettorale che esalta il potere decisionale dei capi, e ora la richiesta a raffica di voti di fiducia e le minacce ai dissidenti ribaltano i rapporti tra governo e Parlamento.

Il governo, secondo la Costituzione, dovrebbe infatti essere l’esecutivo che attua le decisioni parlamentari. Ora è un mondo capovolto. Il governo decide e i parlamentari (della maggioranza) debbono approvare, perfino a scatola chiusa. Nel governo, poi, c’è un direttorio ristretto, composto da presidente del Consiglio e due vicepresidenti che sono anche capi dei rispettivi partiti, gestiti in modo centralizzato. Un gruppo ristretto decide le scelte del governo e il governo impone le sue decisioni al Parlamento, a cascata. Il taglio dei parlamentari è una tappa di questo percorso.

La democrazia parlamentare disegnata nella nostra Costituzione così è destinata a cambiare in modo sostanziale. Come ci si può meravigliare se i parlamentari svolgono un ruolo non adeguato alle aspettative: è esattamente quello che qualcuno vuole per giustificarne la riduzione. Un parlamentare autonomo, pensante, che risponde del suo operato agli elettori e usa i poteri che gli attribuisce la Costituzione è il sale della democrazia rappresentativa.

La riduzione dei parlamentari dovrebbe essere coerente con una visione alta del funzionamento del Parlamento, invece è motivata solo con il risparmio degli stipendi. Pochi hanno notato che alla proposta di ridurre il numero dei parlamentari con la sola motivazione di risparmiare è collegata l’approvazione di una legge elettorale che rende eterna quella attuale (Rosatellum) che sottrae di fatto agli elettori la possibilità di decidere i loro rappresentanti, perchè se voti il partito ti prendi il parlamentare che a sua volta si porta dietro una catena di altri parlamentari e tutti i nomi sono decisi dal capo del partito.

Stefano Rodotà, anni or sono, aveva ipotizzato di conservare la sola Camera dei deputati, purché con più poteri ed eletta con legge proporzionale, garantendo così la possibilità agli elettori di scegliere direttamente i loro rappresentanti. Voleva ridurre il numero dei parlamentari ma in un quadro di allargamento della democrazia e di stabilizzazione del rapporto tra parlamento, governo ed elettori.

Per di più resta l’eco delle dichiarazioni sul ruolo del Parlamento che sarebbe in esaurimento. Per questo è bene non dimenticare che nel programma del centro destra c’è il presidenzialismo, cioè uno stravolgimento della Costituzione nata dalla Resistenza.

La camicia di forza di pochi capi che decidono tutto è troppo stretta per funzionare come democrazia Se la Camera confermerà il testo del Senato per la riduzione dei parlamentari e di rendere eterno il Rosatellum vuol dire che la maggioranza ha chiuso gli spiragli di confronto. Almeno il Parlamento eviti un’approvazione con i due terzi che impedirebbe ai cittadini di chiedere il referendum costituzionale. Prepariamoci alla sfida.