A notte fonda “L’ora di legalità” va a scuola da Liliana Segre

Dal binario 21 della Stazione Centrale partirono in 605, tornarono in 22. Il direttissimo Milano-Auschwitz non effettuava fermate intermedie, tra quei 22 c’era una ragazzina di 14 anni di nome Liliana Segre. Per inaugurare L’ora di legalità (Rai3, domenica, 0.25) Loris Mazzetti ha scelto di intervistare la senatrice a vita, e non si poteva fare scelta migliore. Questa donna straordinaria ha la dolce intransigenza di chi ha visto coi propri occhi: “Io non perdono. Io ricordo”. Non esiste antifascismo più efficace del raccontare che cosa il fascismo è stato: la promulgazione delle leggi razziali, “anzi, razziste”, il carro bestiame Milano-Auschwitz, il campo di lavoro “dove anche la paura della morte passa in secondo piano”, come raccontò Primo Levi a Enzo Biagi.

Il fascismo, dice Michela Murgia, è il contrario della democrazia; ma è soprattutto il contrario della memoria, l’alibi dell’indifferenza, il braccio armato della rimozione, l’epurazione del diverso. Una questione molto privata. Di cosa può essere nostalgico chi oggi fa il saluto romano, se non di ciò che per sua fortuna non ha mai conosciuto? E quando la nostalgia è finta, niente può essere vero. Per questo la tentazione del fascismo sopravvive più di quella del suo gemello diverso, il comunismo. Ecco cos’è l’ora della legalità – ma perché confinarla a notte fonda? –; ecco cos’è la lezione di Liliana Segre: aprire i tanti “armadi della vergogna” ancora sigillati, spalancare gli occhi davanti a chi li chiude.

Istanbul, affondato il sindaco anti-Erdogan

Il sogno di aver strappato Istanbul al partito Akp del presidente Erdogan, per Ekrem Imamoglu, candidato del Chp, principale partito di opposizione, si è infranto ieri sera. Il 17 aprile Imamoglu dopo le elezioni amministrative era stato eletto sindaco, ma la Commissione elettorale suprema (Ysk) ha accolto il ricorso di Akp e Mhp, annullando l’esito del voto del 31 marzo. Brusco risveglio per coloro che mal digeriscono la politica del presidente e che nella scelta del candidato Chp vedevano l’inizio dell’affrancamento dallo strapotere di Erdogan; il prossimo appuntamento elettorale sarà il 23 giugno.

La Commissione elettorale suprema ha annullato il risultato per brogli, decisione presa con una maggioranza di 7 voti contro 4; prevede la revoca del certificato di elezione, consegnato a Imamoglu 20 giorni fa. La tesi, accolta, di Akp e Mhp era che il 31 marzo avevano votato 40 mila persone che non ne avevano il diritto. Questo, secondo il governo, aveva influito nella sconfitta dell’ex premier Binali Yldirim.

Ma non solo: l’Akp ha contestato irregolarità nel conteggio dei voti, discrepanze tra gli elettori registrati e il numero dei voti espressi, la scelta dei presidenti di seggio e legami di alcuni funzionari con il predicatore islamico Fetullah Gulen. Questo è un punto saldo dell’azione di governo di Erdogan; dove c’è il sospetto della presenza di “gulenisti”, scattano le manette; per il presidente, è stato lui ad ordire il colpo di Stato, poi fallito, del luglio 2016. Gli arresti hanno coinvolto centinaia di persone fra alti ufficiali, docenti universitari, militari.

La reazione del Chp è stata veemente: Onursal Adiguzel, il vice presidente ha definito un atto di “dittatura” la scelta della Commissione elettorale suprema. “Vincere contro l’Akp è illegale – ha scritto Adiguzel sul suo profilo Twitter – questo sistema che annulla la volontà della gente e ignora la legge non è per niente democratico, né legittimo”.

Gli analisti non sembrano essere sorpresi da quanto stabilito dalla Commissione: più volte Erdogan aveva dichiarato: “Chi vince Istanbul vince la Turchia”; per lui, dunque, ogni mossa è valida per ribaltare il risultato sfavorevole, con l’intento di giungere ad altra conclusione nella prossima elezione. La situazione economica non è delle migliori, la lira turca ha perso il 30% nell’ultimo anno, per il presidente l’unico modo per salvare la propria leadership è continuare a vincere politicamente sugli avversari più temibili, proprio come Imamoglu. È lui che rappresenta il volto della generazione più giovane del Chp; è entrato nel partito nel 2008 e nel 2014 è stato eletto presidente del consiglio del distretto di Beylikduzu, a Istanbul. La sua popolarità dopo il successo elettorale stava diventando ingombrante per la leadership dell’Akp. Dunque, tutto da rifare. Imamoglu non mette da parte il suo stile: “Non perdiamo la speranza. Se restiamo uniti, tutto andrà per il meglio”.

La breve tregua sulla Striscia pagata dal Qatar

L’ultimo round di guerra a Gaza è finito lunedì mattina più o meno come i precedenti. Il “cessate il fuoco” tra Israele e i gruppi armati palestinesi è entrato in vigore poche ore dopo essere stato inizialmente annunciato a Gaza, nonostante le ripetute smentite di Israele durante la notte di domenica. L’annuncio del Comando del Fronte interno israeliano alle 7 di ieri mattina, secondo cui i residenti potevano riprendere la loro vita normale, con scuole e uffici aperti nel sud di Israele, ha confermato ufficialmente che l’escalation era finita, senza che la leadership politica del Paese rilasciasse un solo commento.

Queste 48 ore di battaglia sono state le più violente e le più letali dalla guerra del 2014. Quattro civili israeliani uccisi e 31 morti palestinesi a Gaza, tra cui donne e bambini ma anche 11 miliziani di jihad islamico e Hamas. Circa 700 razzi sono stati sparati contro le città israeliane, paralizzando praticamente la vita normale in tutto il sud di Israele, oltre 300 i bombardamenti dei caccia israeliani sulle città della Striscia. Eppure nonostante tutta la violenza e tutto il sangue sparso, anche questa battaglia non ha portato nessun cambiamento sul terreno.

L’accordo di questo “cessate il fuoco” – mediato da Egitto e Qatar – fornirà nelle prossime ore ad Hamas esattamente ciò che Israele si era impegnato a dare un mese e mezzo fa – durante la campagna elettorale – ma che lo Stato ebraico era riluttante a consentire: il denaro dal Qatar, 15-20 milioni di dollari al mese, per pagare i dipendenti di Hamas; l’allargamento della zona di pesca a 6 miglia marine; facilitazioni ai valichi di frontiera per merci e persone. Esattamente ciò che era stato concordato prima delle elezioni dello scorso 9 aprile in cambio di un periodo di “calma” sul confine con Gaza. E allora, si chiedono oggi diversi giornali israeliani in prima pagina, cosa è andato storto?

L’intesa raggiunta l’altra notte può calmare la situazione, per giorni o forse settimane. Il primo ministro Benjamin Netanyahu – che è tornato a occuparsi a tempo pieno della formazione del suo nuovo governo – ha ragione nella sua riluttanza a impegnarsi in una guerra nella Striscia di Gaza che richiederebbe un altissimo costo di vite umane e nessuna garanzia di piena vittoria. Il problema resta come sarebbero percepite in Israele concessioni più ampie alla gente di Gaza, senza le quali è davvero difficile raggiungere una situazione stabile con la Striscia. Tra alleati, ex alleati e avversari politici è una pioggia di critiche all’operato del premier in questi mesi. La nuova coalizione di governo che Netanyahu sta poi cercando di formare sarà composta soprattutto da “falchi” – religiosi, suprematisti ebraici e nazionalisti – certamente poco inclini a “cedimenti” agli arabi della Striscia. Il timore di apparire deboli e la decisa svolta a destra nell’elettorato, rendono la possibilità di un nuovo scontro a breve quasi inevitabile. È solo una questione di tempo.

Se una deterrenza è stata in qualche modo ripristinata, la situazione a Gaza è così esplosiva che non può non essere affrontata. Hamas deve essere rimpiazzato da una leadership incentrata sui bisogni della sua gente e non ossessivamente sulla distruzione dello Stato di Israele. Questo dovrebbe essere l’obiettivo da raggiungere.

Nell’esercito israeliano si sta già iniziando a discutere delle prospettive di una campagna militare più ampia a Gaza nei prossimi mesi. La costante pressione sulla Striscia – che è sull’orlo di una crisi umanitaria mentre le sue strutture civili stanno collassando – porta inevitabilmente verso lo scontro.

Una volta formato il nuovo governo Netanyahu, consumate le grigliate del Memorial Day e scelto un nuovo vincitore dell’Eurovision a Tel Aviv il prossimo 18 maggio, Israele e Hamas potrebbero riprendere lo scontro. Esattamente da dove è terminato all’alba di ieri.

Collaboratrice domestica denuncia lady Netanyahu

Una “nazista”: chi ha lavorato per Sara Netanyahu, la first lady israeliana, non nutre certo un grande affetto per lei. O perlomeno, è quanto racconta Shira Raban, che ha presentato al tribunale del lavoro di Gerusalemme la richiesta di un indennizzo di 225 mila shekel (che corrispondono a più di 50 mila euro). Una somma non indifferente, giustificata dai presunti danni psicologici subiti da Raban dopo 13 giorni vissuti alle dipendenze dirette della moglie del premier nella residenza ufficiale di Gerusalemme, nel settembre 2017: le prevaricazioni quotidiane che la donna racconta di aver subito hanno costituito la base per un memoriale di 180 pagine; ci sono anche gli sms inviati al colmo dello sconforto. Nei messaggi si legge: “Ho rifatto i letti dei due figli 80 volta. Nulla le va mai bene. È pazzesco”. E anche: “Mi pagano 100 shekel all’ora (25 euro). Ma nessun compenso giustifica quello che si patisce con quella malata mentale”. Stando sempre agli sms, in alcuni casi la collaboratrice aveva lavorato “dieci ore senza una pausa, solo insulti”, e questo l’avrebbe portata a scrivere, al termine della giornata: “Sono appena uscita dal carcere”. Ovviamente, la moglie del premier non incassa in silenzio: Yossi Cohen, il suo legale, ha dichiarato che si tratta di “denigrazioni scellerate” espresse nel “tentativo di estorcere una somma astronomica per meno di un mese di lavoro”.

Il quotidiano israeliano Haaretz, che per primo ha lanciato la notizia, aggiunge anche che non è l’unica bega legale a cui deve badare la signora Netanyahu: ieri infatti è stata al tribunale di pace di Gerusalemme per risolvere una questione sui pasti confezionati. Il costo del cibo preparato per gli ospiti della casa, infatti, è stato addebitato all’ufficio di suo marito senza previa autorizzazione.

France Telecom, la bottega degli orrori. E dei suicidi

Sono passati dieci anni da quando Yonelle Dervin, ex tecnico a France Télécom, a Troyes, ha tentato di togliersi la vita piantandosi un coltello nello stomaco durante una riunione di lavoro. Era il 9 settembre 2009. All’epoca aveva 49 anni e 30 anni di anzianità nell’azienda.

Un superiore lo aveva convocato per comunicargli che sarebbe stato trasferito in uno dei call center della società. “È stato come ricevere una bastonata in testa. Crolli, sprofondi sempre di più, per te è la fine”, ha raccontato a France 3. Il suo caso non era isolato. Tra il 2008 e il 2009, almeno 19 dipendenti France Télécom si sono suicidati e 12 hanno tentato il suicidio, secondo i dati dei sindacati. A decine sono caduti in depressione. All’epoca il gesto clamoroso di Yonelle aveva spinto i vertici dell’azienda a correre ai ripari. Il direttore generale, Didier Lombard, aveva promesso un piano anti-stress e abbozzato un mea culpa poco credibile: appena qualche giorno prima, per descrivere ciò che accadeva, aveva parlato di “moda di suicidi”.

L’ex numero uno dell’azienda di telefonia (diventata Orange nel 2013), rimasto in carica fino al 2011, e altri sei ex dirigenti, tra cui l’ex numero due, Louis-Pierre Wenes, e l’ex direttore delle risorse umane, Olivier Barberot, ieri sono comparsi in tribunale a Parigi per un maxi processo, con più di 40 udienze, che si terrà fino al 12 luglio. Devono rendere conto di mobbing su vasta scala e rischiano un anno di prigione. I sindacati si sono riuniti davanti al tribunale con lo striscione “No al management del terrore”: chiedono le scuse pubbliche di Didier Lombard. Nella loro prima denuncia del 2009 avevano scritto che “sin dal 2006 la direzione era stata allertata più volte della situazione dai medici del lavoro, dai sindacati e dall’ispettorato del lavoro”. Tutto inizia nel 2004 quando lo Stato decide di privatizzare l’azienda in situazione di debito cronico e portare la partecipazione pubblica al 50%. Nominato nel 2005, Lombard annuncia la soppressione di 22.000 posti di lavoro su 110.000. “Che passino dalla porta o dalla finestra le persone saranno mandate via”, aveva detto. I sindacati si aspettano molto da questo processo, che per loro deve servire da esempio. Altre aziende, come Renault e Pôle Emploi, l’ente pubblico per l’impiego, hanno avuto suicidi fra gli impiegati.

Il problema è emerso di recente nella polizia nazionale. È con il caso France Télécom che in Francia si comincia a parlare di “sofferenza sul lavoro” e i sindacati si battono per far riconoscere il burn-out come “malattia professionale”. Il 14 luglio 2009, Michel D., 51 anni, dirigente France Télécom nella sede di Réattu, a Marsiglia, da 12 anni, si è tolto la vita nella sua casa lasciando una lettera: “Mi suicido a causa del mio lavoro – aveva scritto – è il solo motivo. Sono diventato un relitto, meglio finirla qui”. Denunciava proprio quel “management del terrore”. Parlava di “mancanza di formazione”, di “sovraccarico di lavoro”, di un clima di “urgenza permanente”. I magistrati hanno elencato i vari “dispositivi di destabilizzazione personale” dell’azienda: la “mobilità forzata”, la “marginalizzazione”, i “controlli eccessivi”. Ieri in tribunale c’era Yves Minguy, 67 anni, ex dirigente informatico, arrivato a France Télécom “ai tempi di Giscard d’Estaing”: “Un po’ alla volta ti ritirano le mansioni, finisci nel dimenticatoio – ha raccontato – e una mattina mi hanno detto di prendere le mie cose e di andare a rispondere a un telefono. È stato molto violento”.

C’era Francis Le Bras, assunto nel 2004 come responsabile tecnico: “Nel 2007 hanno cominciato a dirmi che avrei dovuto fare altro, aprire un’agenzia immobiliare, mi avrebbero anche dato dei soldi. Nel 2008 il mio posto è stato soppresso”. C’era anche la famiglia di Rémy Louvradou che, dopo aver lavorato a France Télécom per 33 anni, il 26 aprile 2011, a 56 anni, si è dato fuoco. Suo figlio Raphaël, ha detto alla stampa che il padre aveva scritto alla direzione nel 2009: “Se non cambia nulla, una è la soluzione logica: il suicidio”. La lettera non ha mai avuto risposta.

“Il problema sono i legami con Salvini: noi non ci stiamo”

Come il collettivo di scrittori Wu Ming e come Carlo Ginzburg, anche noi abbiamo deciso di annullare la nostra partecipazione al Salone del Libro di Torino: avremmo dovuto presentare il nostro manuale di storia dell’arte per le scuole, improntato alla Costituzione. Ma non lo faremo: per protestare contro la decisione della Fondazione del Salone del Libro – e cioè di Aie e Adei (le associazioni degli editori), del Comune di Torino e della Regione Piemonte – di assegnare uno stand a un editore collegato direttamente a CasaPound, e che ha in catalogo testi esplicitamente fascisti e nazisti.

Crediamo sia stato un grave errore imporre questa presenza alla direzione editoriale del Salone, che con il suo direttore Nicola Lagioia aveva scritto: “Per quanto riguarda me e il comitato editoriale crediamo che la comunità del Salone possa sentirsi offesa e ferita dalla presenza di espositori legati a gruppi o partiti politici dichiaratamente o velatamente fascisti, xenofobi oppure presenti nel gioco democratico allo scopo di sovvertirlo”. Parole forti e chiare, che sono state clamorosamente smentite dagli editori e dalle autorità pubbliche che, pur potendo dire no, hanno invece ritenuto di dire di sì.

Noi non comprendiamo le ragioni di questo sì: crediamo che la Costituzione, e le leggi Scelba e Mancino dessero tutti gli strumenti per dire di no.

E, in ogni caso, è una questione politica, con la ‘P’ maiuscola: noi non abbiamo alcuna intenzione di partecipare, per la nostra minuscola quota, a un oggettivo, ulteriore sdoganamento della presenza della voce fascio-nazista nel dibattito pubblico italiano.

Ci chiediamo dove stia portando la diffusa volontà di non vedere, dal vertice della Repubblica giù giù fino a Torino: rimangono senza risposta le richieste di prendere atto che CasaPound è fuori legge, e che dunque va sciolta. E ora il ministero per i Beni Culturali (per bocca della sottosegretaria leghista Paola Borgonzoni) interviene nella vicenda del Salone (di cui detiene il marchio) non per espellere l’editore fascista, ma per minacciare Christian Raimo, che l’aveva attaccato e che si è dovuto infine dimettere lui dal Salone. Ebbene, crediamo che qualcuno debba iniziare a dire di no. Per il poco che tocca a noi, sentiamo il dovere morale di opporci: per questo non saremo a Torino. Al Salone ci sono probabilmente sempre stati editori fascisti. Ma oggi è il contesto a essere diverso: ed è il contesto a conferire significato ai singoli testi. Oggi quell’editore pubblica un libro-intervista al ministro dell’Interno. Oggi la massima agenzia culturale del Paese, la Rai, è presieduta da un uomo di Salvini che suggerisce che “il vero scopo” della politica migratoria della Unione europea sia arrivare a “una destabilizzazione e a uno sradicamento identitario e culturale della civiltà europea”. Il modello che viene opposto a quello europeo è quello della Russia di Putin: “Piazza Rossa, Mosca. Città pulita. Non c’è un mendicante, non c’è un lavavetri, non c’è un Rom, non c’è un clandestino, non c’è un rompiscatole” (Matteo Salvini, 2014). Ed è dal palco di piazza del Popolo il 25 febbraio 2015 (la più grande manifestazione pubblica della Lega salviniana) che il leader romano di CasaPound Simone Di Stefano dice: “Noi condividiamo ogni singola parola del programma di Matteo Salvini”.

È tempo di aprire un dibattito serio e documentato sulla vera natura della Lega: il partito cui il cinismo del Pd e l’opportunismo complice dei 5Stelle hanno consegnato di fatto il Paese. Uno di noi (Settis) ha scritto, fin dal 2010 su Repubblica, circa le radici esplicitamente naziste dell’etnonazionalismo padano della Lega fondato sul sangue e sulla stirpe. Non è folclore: è una matrice culturale terribilmente attiva, e supportata da una folta pubblicistica (che oggi celebra se stessa al Salone di Torino) e da una rete di persone che, dall’epoca di Bossi, arriva fino al più stretto cerchio magico di Matteo Salvini (uno tra i tanti: Gianluca Savoini, ben noto all’entourage di Franco Freda e Maurizio Murelli, e poi portavoce di Salvini e tra i promotori, per dirne una, della conferenza stampa del nostro ministro dell’Interno all’agenzia Tass a Mosca, nel luglio 2018).

Sarebbe un errore aspettarsi di vedere Salvini in camicia nera, per quanto i suoi tweet con motti fascisti, la sua iconografia neo-mussoliniana e alcune esplicite rivendicazioni possano dare quella impressione. Il punto è quali forme nuove e ‘moderne’ assuma oggi la pianta velenosa che rinasce da quel ceppo storico.

In Origini del totalitarismo, Hannah Arendt sostiene che “a convincere le masse non sono i fatti – neppure quelli inventati – bensì la robustezza dello schema in cui i fatti vengono inseriti”. Lo schema del discorso pubblico della Lega è molto chiaro: crediamo che questo schema non debba trovare benevolenza, accoglienza, diritto di cittadinanza in nessun luogo o evento finanziato o sostenuto dalla Repubblica italiana. Se questo avviene, noi non ci stiamo.

Dentro o fuori Salone. Chi va e chi no al Lingotto

Più che un Salone sta diventando un saloon, una disputa su chi andrà o no, su chi parlerà o no, su chi boicotterà o no, su chi manifesterà o no. Il cosa è presto detto: la presenza – otto metri quadrati di stand nella zona Oval, la sezione distaccata rispetto ai tre padiglioni principali – di un editore “sovranista” e vicino a CasaPound, Altaforte, che ha appena sfornato un libro-intervista a Matteo Salvini e il cui fondatore, Francesco Polacchi, si dice “fascista senza problemi”.

Il suo salto di qualità da picchiatore a editore ha disgustato molti, da Christian Raimo – il primo a dissociarsi dalla kermesse, di cui pure era consulente – al collettivo Wu Ming e allo storico Carlo Ginzburg, che domenica hanno annullato le rispettive partecipazioni appellandosi alla “responsabilità politica e morale” di ospitare “neofascisti e razzisti”.

Il Comitato di indirizzo del Salone numero 32 si è smarcato citando l’articolo 21 della Costituzione che garantisce la libertà di pensiero, espressione e, soprattutto, acquisto di uno stand. Il comunicato, però, non ha rassicurato gli animi: ieri si sono defilati la giornalista Francesca Mannocchi, la presidente nazionale dell’Anpi Carla Nespolo (“è intollerabile la presenza di Altaforte che pubblica volumi elogiativi del fascismo oltreché la rivista Primato nazionale denigratrice della Resistenza”), il grande autore per l’infanzia Roberto Piumini (“L’istituzione può cavillare, distinguere e riservare alla magistratura il compito di combattere il fascismo. Il singolo cittadino può invece praticare un antifascismo più diretto e sanguigno”) e Zerocalcare, al secolo Michele Rech: “Mi è davvero impossibile pensare di rimanere tre giorni seduto a pochi metri dai sodali di chi ha accoltellato i miei fratelli, incrociarli ogni volta che vado a pisciare facendo finta che sia tutto normale”. E oggi annunciano il loro passo indietro, proprio qui accanto, Salvatore Settis e Tomaso Montanari.

Le defezioni stanno suscitando non pochi malumori tra le piccole case editrici, mentre Raimo ha fatto un mezzo passo indietro: “Andrò, non più da consulente, ma da autore, lettore e cittadino”. Agita il fronte #iovadoatorino – l’hashtag lanciato su Twitter perché “Torino è antifascista”, come ha dichiarato la sindaca Chiara Appendino – Michela Murgia, che sarà presente con due libri, Io sono tempesta e Istruzioni per diventare fascisti: “Se la Lega governa il Paese chiedo forse la cittadinanza altrove? No. Non lo faccio perché da sempre preferisco abitare la contraddizione piuttosto che eluderla”. Perciò invita tutti ad affollare il Lingotto “con un libro che incarni i valori offesi dal fascismo… Vorrei vedere quei libri sollevati come uno scudo silenzioso”. Seguono appelli simili di Helena Janeczek, Chiara Valerio, Tommaso Pincio e dello stesso direttore Nicola Lagioia. Anche l’Einaudi, infine, ha ribadito la propria partecipazione “con convinzione e impegno, contro qualsiasi oscurantismo”.

 

 

LaScheda
Polacchi, dal fascio alla fascetta
Passare dal fascio alla fascetta (dei libri) è così facile che lo può fare un Francesco Polacchi qualsiasi, 33 anni, ex-responsabile di Blocco studentesco (per cui devastava piazza Navona con gli amici armati di mazze), riciclatosi come imprenditore tessile ed editore, nonché coordinatore di CasaPound: un intellettuale completo. Commentando le polemiche sulla sua casa editrice, Altaforte, si è così esibito: “È l’antifascismo il vero male di questo Paese… Io sono fascista. Nessuno me lo impedisce, nemmeno la legge… A volte servono le maniere forti”. Le letture forti non pervenute

Un esordio da elefante per Ivan Talarico

Sul Cambridge Dictionary con l’espressione idiomatica “elephant in the room” si fa riferimento a un problema ovvio o a una difficile situazione di cui nessuno vuol parlare. Così il 37enne Ivan Talarico ha voluto intitolare il suo disco d’esordio Un elefante in una stanza: “Ormai – confessa – pensavo fosse tardi per debuttare, progettavo un esordio prematuro nella mia prossima vita, e invece eccomi qua con questo primo album fatto di canzoni leggere come nuvole in un giorno di pioggia”. Composto da 12 brani che affrontano con poesia e ironia la realtà, Ivan Talarico confeziona un album ispirato sia nei testi sia nelle musiche, sotto la supervisione di Filippo Gatti. Canzoni bizzarre ma affascinanti di uno showman ironico e sbalestrato, persino timido, dall’impostazione vocale gaberiana, che cerca di portare il surreale nel quotidiano. Ora aspetta solo che il grande pubblico si accorga di lui: in uscita il 10 maggio per l’etichetta Folkificio, Un elefante nella stanza verrà presentato dal vivo al Monk di Roma l’11.5.

Da barbone a star. Che favola, cowboy Seegers

“La vedi? È un po’ come una stanza molto grande e spaziosa. Tutto sommato ci stavo bene”. Doug Seegers ha 67 anni, è nato a Long Island nello stato di New York e la stanza di cui parla – nel documentario che ne ha raccontato l’incredibile storia – non è per nulla una stanza: è un angolo dimenticato di mondo di Nashville, in riva al fiume e giusto sotto un ponte.

Lì, per tante e troppe notti, Doug ha dormito come un senzatetto. Da senzatetto. Ora che il successo gli ha arriso, e come spesso accade per caso, lui non dimentica e ripete a tutti coloro che lo accompagnano anzitutto una cosa: “Ricordatevi sempre che io, come molti di voi, cinque anni fa dormivo sotto i ponti”. Il 30 maggio uscirà il suo nuovo disco A Story I Got To Tell (BMG) e per questo è in Italia per un breve tour promozionale. Da noi due anni fa ha fatto anche qualche concerto. Nulla di clamoroso, erano tutti piccoli posti: da noi Doug Seegers è un nome di nicchia. E forse neanche un nome (peccato: il talento c’è e pure i tanti estimatori illustri, compreso Jackson Browne e Joe Henry che infatti suonano nel nuovo disco). La nazione che per prima e più di tutte si è innamorata di lui è stata la Svezia. Per colpa – cioè merito – sua oggi Doug è “Cinderella Man”: l’ex senzatetto divenuto a più di sessant’anni star.

Un passo indietro. Il giovane Seegers ama il country e il country, tutto sommato, sembra amare lui. Per un po’ suona a New York e poi ad Austin, Texas: la città di Stevie Ray Vaughan. Il successo non arriva e nel frattempo Doug mette su famiglia. Si sposa, diventa padre. Poi accade qualcosa. Nell’autobiografia – è uscita anche quella, ma per ora non in Italia – racconta la sua implosione. Per un po’ lavora come falegname e la musica se ne sta sullo sfondo. Poi il divorzio, l’alcol e le droghe. Seegers si inabissa e ricompare anni dopo a Nashville, dove il country scorre come antico sangue cittadino. È qui che Seegers canticchia, per strada e non di rado unicamente per se stesso, per poi dormire sotto i ponti. È un hobo, un homeless, un vagabondo. Non ha nulla. Spesso si esibisce al Little Pantry That Could, un ente di carità di West Nashville che distribuisce cibo ai senzatetto e organizza serate cantautorali. L’ente è gestito da Stacy Downey, che fornisce a Doug – oltre ai pasti caldi e qualche parola buona per ritardar la tempesta – anche le corde per la chitarra acustica.

Un giorno Jill Johnson, affermato musicista country svedese, arriva a Nashville per girare proprio lì una puntata del suo programma Jills Veranda. È Stacy Downey a dirgli che non può non ascoltare Seegers: “Quel Doug lì ha la voce più incredibile della musica country”. Johnson si fida e, col suo staff, trova Seegers accanto alla “sua” panchina in un parco nei pressi del Little Pantry That Could. Armato di sola chitarra e stravaccato a terra ma col suo stile, Doug interpreta Going Down The River: un brano, molto autobiografico, che ha scritto da solo. Johnson se ne innamora e si batte perché quella canzone venga incisa nel vecchio studio di registrazione di Johnny Cash a Nashville. Così accade. Il brano diventa subito numero uno su iTunes in Svezia e raggiunge i 5 milioni di visualizzazioni. Il disco che ne nasce resta a lungo primo (sempre in Svezia) e il tour in Scandinavia è sempre sold out.

Nell’album suona anche Emmylou Harris, cantautrice di rara voce nota anche per le molte collaborazioni illustri (Mark Knopfler, Neil Young). Lei lo descrive così: “Quando ho sentito per la prima volta la voce di Doug Seegers, così piena di anima ed emozioni crude, sono rimasta sbalordita. Quest’uomo ha vissuto queste canzoni, non nella sua immaginazione ma ogni giorno e lungo troppi anni difficili: sta davanti a te ora, pronto a testimoniarlo”.

Seegers incide altri dischi, ormai affermato, e nel frattempo si sforza di non cambiare e al contempo d’esser sobrio ringraziando Dio. Nella sua musica, tipica del Sud degli Stati Uniti, ci sono country e blues, soul e rock. Non fatichi a immaginarlo, due o tre vite fa, accanto ad Aretha Franklin o più ancora a Elvis. Non è laureato e neanche diplomato, ma – come direbbe lui – alla scuola della vita ha studiato parecchio. Conduce un’esistenza si direbbe felice, che negli ultimi anni somiglia a una favola perfino didascalica nel lieto fine. Ma quel sorriso dolce, che spunta da sotto il cappello da cowboy, se l’è meritato tutto.

Facce di casta

 

Bocciati

TWEET FOR DUMMIES E proprio dopo la settimana in cui tutti l’hanno ingiuriato per la foto di Salvini col mitra, chiedendo al Capitano di prendere le distanze dal suo social media manager, Luca Morisi tocca la sua vetta comunicativa più alta in occasione del dibattito riapertosi sulla castrazione chimica. Il leader del Carroccio infatti ha annunciato: “La Lega raccoglierà firme a sostegno della sua proposta di legge per introdurre la castrazione chimica (oltre al carcere)”. Morisi, l’ideatore dei ‘bacioni’ e del pane e nutella ha deciso di spingersi un gradino oltre nella sua avanguardistica ricerca comunicativa, e dal messaggio elementare che permetta a ciascuno d’identificarsi col vicepremier della porta accanto, si spinge a sperimentare il tweet for dummies. “Chi mette le mani addosso ad una donna o un bambino, chi spezza un fiore, non merita solo la galera ma necessita di essere curato. Castrazione chimica e non lo rifanno più”: dice Salvini nel video postato e sottotitolato con analoga didascalia. Ma ecco il tocco dell’astuto Morisi: dove posizionare il Segretario, a scanso d’equivoci, se non proprio accanto ad un cespuglio di fiorellini fucsia, per illustrare plasticamente il parlato? La comunicazione del Capitano supera tutte le frontiere della comprensione: l’importante è essere certi che il messaggio arrivi anche ai più duri di comprendonio. Anzi, soprattutto a loro.

voto 4

 

GLI EFFETTI COLLATERALI DELLE SERIE. Dopo gli effetti di Gomorra sulla gente, questa settimana ci tocca assistere agli effetti di Games of Thrones sui politici. Non la sola, ma indubbiamente quella che si è fatta notare di più, è stata Giorgia Meloni, che per un manifesto elettorale ha scelto questo slogan: “Invasi da masse di estranei? NON OGGI! BLOCCO NAVALE SUBITO, DIFENDIAMO I CONFINI!”, chiaramente stampato con la grafica di GOT. Ora, noi capiamo che il 26 Maggio is coming e che ciascuno s’ingegna come può per evitare l’Eterno Inverno elettorale, ma ci terremmo ad informare la Meloni che nel Trono di Spade gli Estranei sono i morti che superano la Barriera per insidiare i vivi, mentre nel Mediterraneo quelli che salgono sui gommoni, per quanto effettivamente spesso siano ridotti in condizioni estreme, sono ancora vivi, e superano il mare nel tentativo di rimanerlo. Che ci riescano o meno poi dipende in buona parte anche da noi.

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Promossi

COME SI CAMBIA Con la capacità icastica di cui non perde occasione di dare prova sui suoi profili social, Gianfranco Rotondi sceglie l’ambito dei comportamenti alimentari dei politici per fotografare il cambio d’epoca: “La mia difficoltà ad adattarmi alla terza repubblica è che nella Dc era vietato farsi fotografare mentre si mangiava (il marchio di forchettone era in agguato). Oggi i politici postano spaghetti, cappuccini, tutto”. Effettivamente da quando “attovagliarsi” era il simbolo di una politica che nell’opulenza enogastronomica andava a curarsi gli affari suoi alla faccia della gente, all’epoca dell’ostentazione del cibo come elemento di somiglianza con il proprio elettorato, ne è passata di acqua sotto i ponti.

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