La dieta delle diete: mangiare di tutto e godersi la vita

Ha provato la dieta Atkins, quella South Beach, la dieta della resistenza all’insulina, del Ph, del gruppo sanguigno, la dieta Rosedale, la vegana crudista, la paleo-dieta, la dieta Gaps, infine quella per cui le francesi non ingrassano. E tutte funzionavano benissimo, ma solo per le prime settimane, visto che l’esito era inevitabilmente lo “yoyo dell’assunzione compulsiva di cibo e del conseguente pentimento, oppure il passaggio a una nuova dieta”.
Così Caroline Dooner, scrittrice e attrice comica, ha deciso di scrivere un libro – The F*uck it Diet. Basta con le diete. Mangiare è semplice. Ti dico come e perché(Sonzogno) – con una dedica speciale: “Al formaggio: non ti abbandonerò mai più”. Ma The F*uck it Diet (letteralmente: la dieta del “fanculo ogni dieta”) è un (anti) metodo serissimo, che la Dooner ha provato su centinaia di persone. Quasi tutte, come lei, perennemente a dieta, terrorizzate dai carboidrati e dagli zuccheri, convinte per anni che la cura dalle abbuffate fosse “la forza di volontà”. Dooner capovolge la teoria: le diete non funzionano e la magrezza non genera felicità. Di più: le diete rovinano il metabolismo e la capacità di ascoltare il proprio corpo.

La spiegazione è semplice: l’autrice ha ripreso alcuni studi fatti durante la Seconda Guerra Mondiale su alcuni volontari, privati di cibo fino a scendere a 1600 calorie al giorno (più di certe diete di oggi). Ebbene, questi individui diventavano progressivamente sempre più ossessionati dal cibo, oltre che depressi. Quello che succede anche a noi, sostiene l’autrice, quando mettiamo il corpo in un “regime di carestia”, andando contro la biologia e producendo fissazione alimentare e consumo compulsivo del cibo, con conseguenti sensi di colpa o stress. Contare le calorie, controllare il cibo è sempre stato innaturale: al contrario oggi abbiamo sviluppato una vera e propria ossessione patologica per la purezza – i cibi non sono mai abbastanza sani, il corpo non è mai abbastanza pulito – che ha anche un nome: “Ortoressia”. Non solo: le modalità di “sopravvivenza alla carestia” o di “combatti e fuggi” innestate dalle diete ci riempiono di adrenalina dannosa, “mentre tutto quello di cui avremmo bisogno è attivare la modalità mangia, riposa e digerisci”. E infatti la soluzione è incredibilmente semplice: “Buttate bilancia e barrette proteiche”, e “smettetela con le restrizioni: fidatevi del vostro appetito, mangiate tranquillamente e normalmente per il resto della vostra vita (godendovela)”. Dooner osa di più e invita a mangiare anche i cibi “su cui non avete controllo”, persino alimenti poco sani, fino ad essere sazi, anzi mangiando anche se non si ha troppa fame. Il peso tenderà inizialmente a salire, ma poi- spiega – si assesterà da solo, anche perché, quando non proibito, un cibo può cessare di essere desiderato. L’obiettivo infatti è neutralizzare il cibo, privarlo del potere di farci sentire in colpa. “Il cibo non è la tua identità e non ti rende una persona buona o cattiva, capito?”, si legge sulla quarta di copertina. Ma sono tante le indicazioni di Dooner: “Magiare emotivamente è normale. Sentirsi in salute è un desiderio legittimo, vivere nell’ossessione del cibo no. Diventate il vostro maledetto guru”. E infine: “Prendetevi cura di voi con fantasia, vedete gli amici, uscite nella natura, dormite molto, dite no alle cose che odiate fare, abbassate la posta in gioco. E, magari, mangiate un po’”.

La settimana incom

 

Bocciati

Uber Allen. Secondo il New York Times quattro case editrici avrebbero rifiutato di pubblicare il libro di memorie che Allen avrebbe scritto in questo ultimo periodo. Non solo: molte celebrità dichiarano di essersi pentite di aver lavorato con lui (Greta Gerwig, Ellen Page, Evan Rachel Wood, Michael Caine, Colin Firth e Timothée Chalamet, che ha addirittura dichiarato di voler donare i proventi ricevuti per girare Un giorno di pioggia a New York, il suo ultimo film, in beneficenza). Secondo Vanity “a pesare sulla scelta sarebbero il rischio di un possibile boicottaggio da parte dei lettori e un’attività di promozione che gli avrebbe impedito di presentare il libro senza il peso della critica preventiva, da sempre poco incline a valutare con obiettività il lavoro di un autore accusato di una cattiva condotta sessuale”. Un’epidemia di pentimenti. Come al solito, vizi privati e pubbliche tribù.

 

Promossi

Ero Arboriano. Nino Frassica si racconta ai Lunatici di Radio Due: “Devo tantissimo ad Andy Luotto. Avevo letto che Andy Luotto aveva fatto una telefonata spiritosa ad Arbore e poi Arbore lo ha chiamato. Imitando Andy ho cercato Arbore, perché l’umorismo che facevo era molto simile al suo. Ero ‘arboriano’. Ho iniziato a lasciargli dei messaggi spiritosi in segreteria. Lasciavo il messaggio e non dicevo chi fossi. Né che volevo lavorare con lui. Non gliel’ho mai detto, non gliel’ho mai chiesto. Volevo lavorare con lui, ma non l’ho mai chiesto. L’ho incuriosito, lo facevo ridere. Quando poi ho lasciato il numero mi ha chiamato, mi ha voluto conoscere, dopo tre anni ho iniziato a lavorare con lui”. Meravigliao.

Un sacco Sergio. Trent’anni fa scompariva il grande Sergio Leone. Su Instagram lo ricorda uno dei suoi più talentuosi allievi. Carlo Verdone, che fa una passeggiata nei ricordi su Ponte Sisto. “Il ponte dei miei ricordi più belli perché la mia casa paterna era parallela alla sua destra. Su quel ponte Il mio primo bacio ad una ragazza, mia madre che lo attraversava quando tornava dalla scuola dove insegnava, il mio primo complimento ad un attore che camminava davanti a me (Gian Maria Volonté). Il ponte dove si suicidava di tanto in tanto qualcuno e si formava un capannello di gente dove ognuno dava un’informazione sbagliata sulla persona e sul movente. Il ponte che mi ispirò la scenetta dei ‘due cervi a Ponte Sisto’. Il ponte dal quale gettai nel 1985 un anello che avevo comprato per la mia ragazza che poco prima mi confessò di avere un’altra storia con uno. Il ponte che Sergio Leone mi fece attraversare per fare due passi al fine di calmarmi la notte precedente all’inizio di Un Sacco Bello”. C’era una volta il cinema.

Inflazione, l’incantesimo dei prezzi bassi e il brusco risveglio dei mercati

A tenere banco, sui mercati finanziari in frenesia da record, è un dibattito che pareva troncato e sopito: l’inflazione data per dispersa da un decennio è defunta? O si annida, subdola, pronta ad aggredire proditoriamente banche centrali e consumatori? In Eurolandia il tasso annuale di inflazione (al netto di cibo e carburanti) da inizio 2013 oscilla tra lo 0,6% e l’1,5%. Negli Usa è tra l’1,6% e il 2,2% ma comunque entro la soglia di guardia della Fed.

In Giappone, dai primi mesi del 2013, l’indice dei prezzi è aumentato tra lo -0,3% e l’1%, a parte la fiammata (con un massimo del 2,5%) tra il 2014 ed il 2015, dovuta all’aumento delle imposte indirette. Persino in Cina l’inflazione dalla fine del 2011 è stata quasi sempre inchiodata tra l’1,2% e il 2,2%. In definitiva la politica ultra accomodante delle maggiori banche centrali invece di scaricarsi sui prezzi al consumo ha gonfiato i prezzi di azioni e obbligazioni. Quanto potrà durare questo incantesimo di inflazione?

Per rispondere va analizzato cosa comprime i prezzi. L’intensificarsi della globalizzazione ha impedito alle imprese di porre i propri listini al riparo dalla concorrenza internazionale e ai lavoratori di richiedere aumenti salariali consistenti. Peraltro con l’irrompere impetuoso delle vendite online ormai si possono confrontare i prezzi dall’Alaska alla Tasmania in pochi secondi. Questo vale per i consumatori finali ma soprattutto per le catene produttive globali. Se un fornitore non mantiene standard elevati di efficienza, viene rimpiazzato in pochi mesi. In definitiva, aumenti salariali e di prezzi avulsi dall’incremento di produttività e dalla competizione globale sono preclusi. Seppure un’azienda li concedesse sarebbe costretta a chiudere o a trasferire la produzione altrove. Quindi approntiamo il funerale dell’inflazione? Per quanto Fed e altre banche centrali amino recitare il De profundis, esistono segnali che il Nosferatu dei prezzi non trova pace eterna. Dopo anni di crescita, ora le buste paga nei Paesi emergenti tendono ad allinearsi a quelle dei Paesi avanzati. Rimangono alcune aree marginali con salari dickensiani, tipo Vietnam, Kenya o Bangla Desh.

L’epicentro della svolta sono gli Usa. Con la disoccupazione a livelli minimi per attirare lavoratori (o non farseli sfuggire) le imprese allargano i cordoni della borsa. L’avvisaglia è arrivata dai primi bilanci trimestrali del 2019 redatti dalle imprese nell’S&P500. In dieci degli 11 settori industriali i margini di profitto sono diminuiti rispetto a un anno fa. Le relazioni hanno citato come causa prima l’aumento del costo del lavoro, oltre all’aumento delle materie prime, altro segnale foriero di inflazione. Se questo fenomeno dovesse consolidarsi nel corso del 2019, i banchieri centrali e i mercati finanziari si risveglierebbero bruscamente dal placido sonno.

Non sei italiano? La cura è solo nel tuo Paese

Matteo Salvini (e non solo lui) deve sapere questa storia. Un tunisino di 31 anni, in cura in un ospedale di Torino per leucemia mieloide cronica, con l’entrata in vigore del decreto Sicurezza, legge bandiera di Salvini, non ha potuto ricevere il farmaco salvavita di nuova generazione.

È necessario infatti inserire il codice fiscale nel modulo di richiesta all’Aifa. Nonostante i solleciti dei medici la Prefettura non ha concesso il codice perché il farmaco (ma non lo stesso per i medici!) potrebbe procurarselo in Tunisia. Il paziente si è aggravato e l’ospedale ha deciso di farsi carico del medicinale per salvargli la vita. Venerdì il presidente dell’ordine dei medici di Torino, Guido Giustetto, ai candidati regionali ha presentato 10 proposte, tra cui quella di garantire le cure anche a chi non ha la cittadinanza. “Il contrasto alle disuguaglianze e la solidarietà – scrive – sono un dovere e una priorità, con l’obiettivo dell’assistenza universalistica, per non lasciare nessuno indietro”.

Carte di credito, i troppi balzelli (legali e non) sui pagamenti

Netto taglio alle commissioni per l’uso di una carta di credito da parte, ad esempio, di un turista americano o russo in visita nel Vecchio continente. La Commissione europea ha reso vincolanti gli impegni che Mastercard e Visa (i colossi che controllano i principali circuiti di pagamento elettronico in Europa) si sono assunti nel corso di un procedimento Antitrust e che permetteranno di abbattere i costi fino al 40% anche per i commercianti e per tutti gli altri consumatori. Quello delle commissioni interbancarie è un meccanismo che si avvita: quando si utilizza la carta di credito la banca del rivenditore (acquirente) paga alla banca del titolare della carta (emittente) una tassa che poi finisce nel prezzo finale del bene acquistato. In altre parole, il commerciante scarica sul cliente il costo della commissione.

A inizio anno la Commissione europea ha multato Mastercard per oltre 570 milioni di euro per abuso di posizione dominante. Per Bruxelles il gigante delle carte di credito, fino al 2015, ha limitato la possibilità dei negozianti convenzionati di beneficiare di condizioni migliori da parte delle banche europee, facendogli sborsare commissioni interbancarie più alte.

Ma ci sono voluti anni di indagini formali per arrivare alla multa. Così come lunghissima è la battaglia dell’Ue contro tutti i sovrapprezzi applicati alle carte di credito che solo nel 2018 si è concretizzata con l’entrata in vigore di una direttiva europea sui servizi di pagamento (Psd 2) che impone commissioni non superiori allo 0,2% del valore dell’acquisto per le carte di debito (bancomat) e dello 0,3% per quelle di credito. A quel massimale dello 0,2%, i Paesi europei possono però aggiungere 5 centesimi a transazione. Mentre la spesa deve essere ancora più contenuta se la transazione vale meno di 5 euro, vietando di imporre sovrapprezzi a chi acquista online con una certa carta di credito. In questo modo, i siti di e-commerce e le compagnie aeree (che sono state sanzionate diverse volte nel corso degli anni perché i loro siti, al momento del completamento dell’operazione di acquisto, aggiungevano costi di transazione del valore anche di 5 o 10 euro) non possono più far lievitare il costo di un oggetto o di un servizio quando il cliente paga con la carta. Qualcuno si è però accorto di queste novità che, nelle intenzioni della Commissione europea, avrebbero fatto risparmiare fino a 550 milioni di euro all’anno?

Probabilmente no, perché gli espedienti messi in atto sono svariati . Il caso più eclatante resta quello dell’acquisto di un biglietto aereo. Basta scegliere come metodo di pagamento la propria carta di credito e non quella sponsorizzate dalla compagnia aerea e il prezzo del volo che si sta per acquistare aumenta improvvisamente. È una prassi vietata dal Codice al consumo e dalla direttiva Ue sui Diritti dei consumatori, che è stata aggirata facilmente: le commissioni aggiuntive sono state trasformate in costi di gestione da parte delle compagnie. Così, a seconda della forma di pagamento e della sede del gestore di servizi di pagamento, Ryanair applica una commissione di pagamento fino all’1,2% del valore totale della transazione, mentre Easyjet impone un extra costo dell’1%.

L’applicazione delle commissioni riguarda anche l’Aci. A gennaio il Consiglio di Stato, accogliendo il ricorso della società, ha annullato il provvedimento con cui nel dicembre 2016 l’Antitrust gli aveva comminato una sanzione di 3 milioni di euro per avere addebitato agli utenti un costo aggiuntivo del’1,2% sul bollo pagato con carta do credito. In pratica se il bollo era di 300 euro si pagavano 3,6 euro di commissioni. Chi ha pagato con bancomat negli uffici Aci ha, invece, subito una commissione fissa di 20 centesimi. Ma secondo Palazzo Spada Aci non ha applicato un sovrapprezzo per un prezzo o servizio, ma ha fatto pagare una commissione per un’opportunità aggiuntiva offerta agli automobilisti: cioè pagare il bollo auto con strumenti di pagamento elettronico.

Una decisione che dà la possibilità ad Aci di continuare ad applicare le commissioni. A non poter applicare nessun balzello, sono, invece, i tabaccai quando si acquistano con il bancomat o la carta di credito le sigarette, le marche da bollo o i biglietti e gli abbonamenti per l’autobus o la metro.

C’è, infine, l’annosa questione del Pos. Nonostante sia diventato obbligatorio già dal giugno 2014, non ci sono ancora le multe per i commercianti che non accettano il bancomat. A rimandare alle calende greche l’applicazione delle sanzioni, fino a 30 euro – che hanno il chiaro scopo di agevolare l’utilizzo della moneta elettronica fino all’importo di 5 euro – è stato sempre il Consiglio di Stato che ha messo in stand by il meccanismo, perché “di fatto si sanzionerebbe la mancata accettazione della moneta elettronica e non la presenza o meno del Pos nel negozio”.

Alleanza Francia-Germania per le batterie

“L’Europa non è destinata a dipendere dalle importazioni tecnologiche di Usa e Cina”, spiega il ministro delle finanze francese Bruno Le Maire. Ma finora va così, almeno nell’industria delle batterie: attualmente quella europea non raggiunge l’1% di produzione di celle agli ioni di litio, mentre la Cina è già al 60%. Forse, entro il 2025, il Vecchio Continente potrà arrivare al 10-15%. La dichiarazione di Le Maire è arrivata nel corso di una conferenza congiunta col ministro tedesco Peter Altmaier e con Maros Sefcovic, vicepresidente della Commissione europea con delega all’Energia, in cui si è ufficializzata la collaborazione tra Francia e Germania per lo sviluppo dell’industria degli accumulatori con la nascita di un importante piano, una sorta di “Airbus” delle batterie. L’impresa ha sicuramente una portata storica (e politica) significativa, ma mai quanto quella finanziaria. Gli investimenti previsti andranno infatti da 5 a 6 miliardi di euro, con l’Ue che sarebbe già pronta a sborsarne 1,2: un piano che consentirebbe entro il 2023 di far fiorire i primi due centri produttivi in Francia e Germania, ciascuno dei quali a garanzia di 1.500 posti di lavoro. Sono almeno 35 le aziende del settore automotive ed energetico che hanno mostrato interesse, le quali metterebbero sul piatto 4 miliardi di euro in tutto. Tra queste Saft, controllata di Total, che ha già all’attivo una collaborazione con Siemens, Manz e due compagnie belghe per lo sviluppo di una nuova generazione di batterie. Anche Psa non disdegna, ma prima di entrare nel progetto, ha fatto sapere, aspetterà il concreto passo in avanti dell’Ue, atteso per ottobre.

L’aprile dei motori tra mercato e ponti

Sono stati mesi difficili per l’auto in Italia. Da gennaio a marzo 2019, periodo in cui di solito si registra quasi un terzo delle immatricolazioni dell’intero anno, il mercato ha perso il 6,5% tra crociate anti-diesel e disquisizioni su bonus-malus. Che pare non abbiano inciso molto sul computo neanche ad aprile, quando le vendite hanno ricominciato a crescere dell’1,5%, nonostante i tanti ponti in calendario. Anzi, secondo il Centro Studi Promotor è anche merito dei ponti: gli italiani avrebbero spinto per farsi consegnare l’auto nuova nella prima metà del mese, per poi godersela nella seconda. Ma intanto le previsioni sull’intero anno continuano a indicare una contrazione intorno al 5,8%, il che significherebbe passare da 1,91 milioni di vetture del 2018 a 1,8 milioni.

Nel frattempo, a proposito di mercato, illustrando i numeri della trimestrale Fca (utili dimezzati per il sodalizio italo-americano) l’ad Mike Manley ha dichiarato che “le misure di riduzione dei km zero e di altri canali di distribuzione con bassi margini stanno già avendo effetti positivi”. Un’inversione di tendenza importante da parte del maggior player nazionale, che non potrà che giovare al mercato stesso. Insieme a quella di cui forse non è stata compresa a fondo la portata: “Nei prossimi 2 o 3 anni ci saranno significative opportunità di partnership e alleanze nell’auto a livello globale”. Contrariamente a quanto ci avevano raccontato finora, Fca non vuole più ballare da sola.

DS, un futuro elettrico. DS3 e DS7 Crossback ibride

Nel 2019 DS festeggia i suoi primi cinque anni da brand premium indipendente, nato da una costola di Citroen e ora allo Zenith di gruppo Psa. “I modelli Ds che erano presenti nell’offerta Citroen sono stati un punto di partenza ideale da cui creare il marchio, legato all’eredità della prima DS del 1955 e al suo intrinseco valore tecnologico”, sostiene Yves Bonnefont, amministratore delegato DS: “Siamo però consapevoli che per consolidarci sul mercato e ottenere una forte identità di marca avremo bisogno di 15/20 anni”.

Uno sbarazzino B-suv 100% elettrico – il primo nel suo segmento – e uno sport utility plug-in a trazione integrale, capace di percorrere 50 chilometri a zero emissioni: è così che si compone la gamma elettrificata del costruttore e di cui fanno parte DS 3 Crossback e DS 7 Crossback. “Abbiamo optato per l’elettrificazione totale: da quest’anno, tutte le nostre vetture sono proposte in versione E-Tense, cioè elettrica o ibrida ricaricabile”, annuncia Yves Bonnefont: “Dal 2025 lanceremo solo auto elettrificate”.

La DS 3 Crossback E-Tense sfrutta un motore elettrico da 136 Cv di potenza e 260 Nm di coppia, alimentato da una batteria a litio da 50 kWh (che recupera energia in decelerazione e frenata), montata sotto il pianale. L’autonomia è di 320 km omologati Wltp. Con la ricarica rapida a 100 kW si ripristina l’80% dell’accumulatore in 30 minuti, che diventano 5 ore con la Wallbox trifase e 8 ore con la ricarica monofase. Il prezzo parte da 39.600 euro.

La DS 7 Crossback E-Tense 4×4, invece, è un SUV di medie dimensioni, ibrido plug-in (ricaricabile con la Wallbox in 105 minuti) e in grado di marciare per 50 chilometri in modalità elettrica (fino a 135 km/h), grazie all’energia stoccata nella batteria da 13,2 kWh: la meccanica sfrutta un motore a turbobenzina e due elettromotori, per 300 Cv e 450 Nm complessivi. Il consumo medio omologato Wltp è di 2,2 l/100 Km. Prezzo? A partire da 51.500 euro. Inoltre, DS propone un’app con cui programmare o attivare le ricariche dei modelli E-Tense e seguirne lo stato attraverso lo smartphone.

“DS è nata in Francia, nel cuore dell’Europa, dove è la nostra origine”, spiega Bonnefont. Che aggiunge: “Tuttavia, aspiriamo a essere un brand mondiale, proprio come gli altri costruttori premium. Siamo presenti in 14 paesi, fra cui la Cina, e arriveremo a internazionalizzarci ancora di più”. Anche negli Usa viene da supporre, specie se il vociferato matrimonio Psa-Fca diventasse realtà, garantendo ai francesi l’accesso al Nordamerica. “DS fa leva sull’emozione e sul piacere di guida. Pertanto – conclude Bonnefont – non escludo che in futuro potremo offrire pure un veicolo sportivo ai nostri clienti”.

Che bello se gli animali votassero

Tra qualche settimana si vota per il referendum abrogativo sulla caccia promosso dai Radicali, i Verdi, la Sinistra stranamente unita, e Legambiente. Hanno a cuore la protezione degli animali. No, la Lega Nord non c’è, loro vanno matti per i fucili. Non m’intendo di politica, ma per questo referendum mi sono interessata alla campagna di sensibilizzazione. Dappertutto, anche in aperta campagna dove sono andata a passeggiare in cerca di qualche cacciatore da convertire. La stagione della caccia è chiusa, ma qualche maniaco del grilletto si trova sempre a impallinare e catturare prede innocenti. Ne ho trovato uno: nella rete aveva due merli, una beccaccia, un leprotto… e addirittura un’istrice. Un assassino seriale. Trascinava quei cadaverini incurante e indifferente. Gli ho chiesto perché lo facesse e lui mi ha risposto che si divertiva, che la caccia è nata con l’uomo, e che poi la selvaggina è buona da mangiare! “Pure l’istrice?” gli chiedo “Prelibato!” mi risponde. Sul consumo di carne, io per lo più vegetariana ho idee contrastanti tra la mia coscienza e le mie abitudini, ma cosa c’entra la caccia col bisogno di mangiare carne? Che bello sarebbe se gli animali votassero in questo referendum. Il bisogno per un cacciatore è quello di sentirsi padrone e libero di uccidere. Ho cercato di spiegarglielo, e lui, forse mosso a compassione mi ha raccontato di aver ucciso di tutto, uccelli, cinghiali, perfino scoiattoli, ma l’unico animale che non è mai riuscito ad ammazzare è l’agnello: “Piangono troppo signorì, sembrano creature, me manca er core. Io a Pasqua, l’abbacchio nun lo magno, mejo na fettina”. Purtroppo non sono riuscita a fargli cambiare idea sul referendum, ma forse, un dubbio, un piccolo seme in germoglio, magari gliel’ho fatto cadere nel cuore. Speriamo.

 

Plebei vs patrizi: Landini vuole il sindacato unico

Nel corso del tradizionale comizio del 1 maggio, il neosegretario della CGIL Maurizio Landini ha lanciato la proposta della costituzione di un unico grande sindacato: non è più tempo di divisioni anacronistiche per affrontare le sfide aperte dalle trasformazioni della contemporaneità al mondo del lavoro e dei lavoratori. Sembra una questione della postmodernità, eppure il tema dell’organizzazione dei lavoratori contro lo sfruttamento dei ‘padroni’ e più in generale delle classi dominanti costituisce un tema antico. A cercare antecedenti si finirebbe, stando a Plutarco, per risalire addirittura alle origini di Roma, esattamente al secondo re, Numa Pompilio. A questo sovrano sabino, amato per la sua indole pacifica, oltre al suo prezioso ruolo di legislatore e di ordinatore dei culti religiosi, si riconosceva appunto il merito di aver organizzato i lavoratori ai fini di una maggiore coesione sociale, attraverso la creazione di associazioni di mestiere: “Flautisti, orefici, falegnami, tintori, cuoiai, conciatori, fabbri, vasai. Gli altri mestieri li riunì insieme, costituendo con tutti essi un’unica organizzazione” (Plutarco, vita di Numa 17). Di portata e valenza diversa furono, invece, la modalità di lotta politica della plebe nel V secolo a.C. contro quella che fu chiamata la ‘serrata’ dei patrizi. Tutti insieme come un sol uomo, i plebei nei momenti più caldi del conflitto sociale attuavano la secessione, rifiutavano cioè di rispondere alla leva o di coltivare i campi. Esponendo così a pericolo l’esistenza della città, conquistavano rispetto e nuovi diritti dai patrizi. Organizzatevi, dunque, lavoratori, in qualunque forma, magari la più unitaria possibile, perché ce n’è stato sempre bisogno.