Quando la Storia manda a dire: “L’Italia come Weimar nel 1933?”

Mai letto un libro simile. È una conversazione benevola, narrata con criteri di buon senso, col tono di qualcuno che, alla tavola di casa, rievoca le vicende di un affare di famiglia, un po’ complicato e sgradevole, ma alla fine perfettamente plausibile. È il buon senso (un modo di coprire il rigore storico della narrazione e la certezza, sperimentata da noi tutti, di fatti realmente accaduti) che attrae il lettore con una certa serena leggerezza, senza avere coscienza immediata di alcune cose che sono appena accadute (sono accadute davvero ) intorno a noi, e che assomigliano stranamente a vicende della recente e triste storia contemporanea.

Il nostro autore (Siegmund Ginzberg, Sindrome 1933, Feltrinelli Editore), uno dei più agili e abili nel giocare fra pace apparente e tragedia narrata ovvero tra serenità e macerie, compie qui uno straordinario e unico lavoro. Narra il minaccioso presente italiano come se di esso (del che cosa potrà accadere tra poco) sapesse tutto, accenna senza calcare la mano, alle conseguenze inevitabili e al come andrà a finire un Paese penetrato, come le pareti di una casa in pericolo, da grandi macchie di umidità del fascismo.

Mostra che una volta entrati nel labirinto nel modo in cui siamo entrati, la via d’uscita non c’è o non è in vista. La narrazione di Ginzberg è un irresistibile “c’era una volta” di una fiaba finita un pò male nel 1933, in Germania e in Italia. E la strana ripetizione dello stesso “C’era una volta” in un presente che dovrebbe essere storicamente non ripetibile. Leggi e ti domandi: com’è possibile? Il libro di Ginzberg, scritto con lieve ironia, una bella narrazione, e ben verificate analogie di circostanze storiche, dimostra che la storia di ciò che è accaduto in Europa (sopratutto Germania e Italia) nel 1933, oggi, come nei riti fascisti, risponderebbe “presente!”.

Il gioco accurato, cauto, ben congegnato, perfetto nei dettagli, una vera trappola per i lettori che non riescono a sganciarsi, mostra ciò che tutti negano sempre: la storia sta ripetendosi, e le coincidenze sono impressionanti. Una è che nel 1933 (Repubblica di Weimar) quasi chiunque avrebbe negato la situazione e assicurato che si stava andando verso il meglio (e persino Hitler in persona avrebbe negato, come ha fatto, l’inizio di ogni persecuzione e la pratica della cattiveria come programma) isolando i pochi che osavano annunciare il pericolo.

Un’altra, la più incredibile delle coincidenze, è che quasi nessuno a Weimar, nel 1933, voleva più riconoscersi nella democrazia che perdeva forza, voce, rappresentanza. E negava con prontezza, persino con orgoglio, problemi e rischi del “nuovo” che stava dilagando. Con il tono di uno storico dedito con serenità e precisione al passato, Siegmund Ginzberg ci sta raccontando il nostro presente, mentre si espande il fascismo, con vari nomi, eventi diversi e crudeli, affinità, imitazioni, emulazioni, nelle scuole, nella burocrazia, in alcuni tribunali stranamente fermi o stranamente concitati. L’autore ha una bella voce narrante (oltre che un elenco impeccabile di documenti) che bisogna per forza ascoltare.

L’Occidente senza bussole e ideologie: i reazionari sono a destra o a sinistra?

Il lessico della politica registra l’inaspettato ritorno di una locuzione desueta: “Reazione”. Si ricomincia, infatti, dal riecheggiare del no pasaran! in Spagna, con la vittoria alle elezioni di Pedro Sánchez . Il vincitore esce sul balcone in jeans e camicia – con le maniche ai gomiti – e da lì urla: “Abbiamo mandato un segnale all’Europa e al mondo, la reazione può essere sconfitta”. È così che la reazione dei reazionari – nel trentennale dalla caduta del Muro di Berlino, dunque nello sgretolarsi della rivoluzione bolscevica – si restituisce al linguaggio corrente della politica. Non è mai mero nominalismo – non è un innocente lapsus – quel che riguarda l’uso della parola nella trasformazione dei rapporti sociali.

La sanguigna e passionale Spagna, nella conclusione del primo ventennio degli anni 2000, ingaggia dunque un dramma dal gusto retrò quando il conflitto, nella globalizzazione compiuta, ha dismesso con l’intero modernariato novecentesco, l’utopia. È già un copione del surrealismo, se non fosse una banalità manierista – e lo è – Sànchez è solo un Sancho in lotta contro i Mulini a vento della Reazione in agguato.

Un servo di scena orbo di atto e di testo, allora, se l’emancipazione in ragione del progressismo (il ‘48 e figurarsi il ‘68), e l’ossessione di raddrizzare il legno storto dell’umanità, in questo suo aggiornarsi liberal riavvolge il nastro di un dipanarsi già risolto: quella secolarizzazione – quell’andarsene via da Dio nel disbrigo del mondo – dove la “reazione” rediviva dei reazionari immaginari è solo un ritardo metodologico (oppure, un capovolgersi nell’esatto contrario se i conservatori, oggi, hanno espunto dalla propria dottrina politica il primato dell’azione come “interiorizzazione del divino” ).

Il conservatorismo di oggi, infatti, si esercita nell’irreligione di una parodia dei valori. Steve Bannon – il teorico della destra occidentalista – è il campione di questa mistificazione.E a trent’anni dal crollo della DDR, nello stesso anno della scomparsa di Augusto Del Noce, c’è da chiedersi cosa se ne farebbe della farina di questi mulini reazionari il filosofo “cristiano e politico” che, per la sinistra aveva profetizzato il “suicidio della Rivoluzione” mentre, di converso, per la destra, il cedimento alla modernità senza averne l’uso e la prassi (col risultato di cristallizzare la minorità politico-culturale nei confronti dei moderni). Non può non dirsi politico, il cristianesimo, nell’elaborazione filosofica di Del Noce, un filosofo tra i sommi nella scena europea. E una domanda, giusta l’attualità, s’impone. La Bannon’s academy for the global alt-right, va nella direzione indicata dal filosofo torinese?

No, la restaurazione dei principi passa sempre da un unico tramite, l’eterno, e quando Luca Del Pozzo, studiandone l’intero corpo delle opere (Filosofia cristiana e politica in Augusto Del Noce, il Borghese, euro 18,00), instilla il dubbio che il non voler scegliere tra rivoluzione e reazione dei reazionari non sia il superamento delle due posizioni – fosse pure la destra e la sinistra – bensì un’indecisione, questo perdersi tra i comizi di Sancho-Sànchez e la farina dei Mulini in agguato, attarda il dilemma nel non saper decidere dell’uno e degli altri.

Quello di chi pur professandosi “conservatore” non riesce a distinguere tra un ordine in progredire dell’esistente e chi dissolve le verità assolute nell’ideologia: quella di un Sancho con neppure più un Don Chisciotte cui andare dappresso.

Mariti finti (oltre la Prati). “Da 44 anni lui è inesistente, sesso nullo, mia figlia è sola”

Gentile Selvaggia, leggo con crescente interesse la curiosa vicenda Prati e le considerazioni a margine su mariti immaginari e donne che hanno bisogno di inventarsi una storia d’amore perché non ne hanno una nella realtà. Beh, mi duole dirle che le capisco e che da donna sposata quale sono da 44 lunghissimi anni, ho un marito immaginario pure io. Non mi fraintenda. Non è che da 34 anni amici e parenti mi vedano in giro a braccetto con un uomo invisibile e io parli sola come le medium coi morti. Mio marito esiste. Mentre scrivo ho anche guardato il suo passaporto nell’armadietto per avere conferma del fatto che ha 67 anni suonati, non mi sia rincitrullita del tutto (per certe cose sono già andata, per dire due giorni fa ho fatto gli auguri a mio nipote ed era il compleanno di mia figlia). Dicevamo. Mi dica lei se mio marito si può considerare reale o immaginario. Dunque, quando l’ho sposato lavorava col padre nel commercio di pietre preziose e almeno 4 mesi l’anno (non continuativi) girava per l’Italia e il mondo inviandomi gentili cartoline che profumavano sempre troppo di bellezze esotiche (e non parlo di giungle o paraventi in bambù). Io fingevo di non sapere e le battutine complici col padre quando tornavano da lunghi tour in India o in nord Africa mi scivolavano addosso come olio di cocco. Poi ha smesso di girare e ha aperto una gioielleria in centro, nel frattempo mia figlia aveva 19 anni e io l’avevo cresciuta praticamente da sola, smazzandomi scuola, pubertà e pure un momento di sua ribellione autentica in cui per mia figlia lui, mio marito, era l’uomo libero e generoso e io la donna castrante e autoritaria. Capito? Se esisti sei la cattiva, se sei immaginario sei il buono. La gioielleria era il tempio di mio marito. Da lui andavano in pellegrinaggio vergini e ancelle di ogni età e ceto sociale, mentre io, se mi presentavo all’ingresso, ero trattata come un rapinatore col passamontagna. Sempre scocciato, sempre “devo lavorare”. Quando era tempo di vacanze, lui pretendeva di portarci nei pressi di qualche luogo in cui poter andare a cavallo, per cui ho passato tutte le estati della mia vita in Toscana e a La Camargue che per carità, luoghi bellissimi, ma alla lunga una noia tombale. Lui passava mezza giornata o più a cavallo, sempre, e noi ad aspettarlo perché “io scendo da cavallo quando sento che il cavallo vuole stare da solo”. Il sesso tra noi è sempre stato un parchetto riservato ai cani più che un parco divertimenti: un’aiuola misera, pudica, recintata da un muretto d’abitudine più resistente di quel muro ungherese che guardava ammirato Salvini, in questi giorni. Mi sono ritrovata vecchia senza che lui mi abbia mai fatta sentire davvero giovane. Nella sostanza, senza che io sia mai stata davvero maritata, perché mio marito è uno con cui mi sono scambiata un anello e poi mai più nulla, un’emozione, un’esperienza, un dolore, perfino. Per cui io le donne che hanno un marito immaginario non solo le capisco, ma le invidio pure. Viviamo con lo stesso marito, solo che io gli devo davvero preparare la cena, senza immaginare di cucinargliela.
Lidia

Cara Lidia, ma un divorzio vero, di quelli tangibili e comprovati da parcelle d’avvocato autenticamente criminali, non l’ha mai considerato? Perché accanto a un marito FINTO c’è sempre una VERA fessa, lo tenga presente cara Lidia.

 

Scambisti senza divertimento “Fedifraga pentita, e ora?”
Cara Selvaggia, la mia storia è una di quelle in cui nessuno decide da che parte stare perché abbiamo sbagliato tutti. Io cerco un po’ di tifo per me: ho sbagliato, lo so, ma ora ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a rialzarmi. Riassumendo. Cinque anni fa apro un asilo privato. Tanta fatica, sacrifici e responsabilità; il mio matrimonio con F. ne risente. I guadagni aumentano ma ci vediamo poco, e quando avviene siamo esausti e spompati. In breve, io conosco un altro uomo, il proprietario del bar di fronte l’asilo. Inizia una relazione coinvolgente ma non penso di lasciare mio marito, stiamo insieme da sempre. Lui un giorno riceve un messaggio su Facebook dalla moglie del mio amante, che ha scoperto la relazione grazie a un cameriera del bar. Mi lascia. Va dai genitori, ma ritorna dopo un mese per riprovare. Intanto il mio ex amante e la moglie si sono lasciati. Io e mio marito ci riproviamo ma lui è spesso assente, strano. Scopro che ha un’amante e qui viene il bello. L’amante è l’ex moglie del mio amante, che un giorno, fuori dall’asilo, me l’aveva giurata: “Ti porto via il marito, brutta…”. L’ha fatto davvero. Ho provato a far capire a mio marito che è l’oggetto di una vendetta, non certo dell’amore di una donna, ma ha perso la testa. Lei, manipolatrice, l’ha convinto a lasciarmi. Disperata, ho cercato conforto nel mio ex amante, ma lui non vuole più avere a che fare con me, col mio ex marito, con la sua ex moglie e che se mai cercherà una donna, “sarà fuori da questo malsano quartetto di pazzi che si scambiano le coppie senza neppure divertirsi”. Tutti mi considerano la causa, il primo pezzo del domino che ha fatto cadere tutta la fila. Vero, ma ho cercato di rimediare e alla fine hanno sbagliato tutti. Domanda: che posso fare?
Angela

Potresti aspettare la fiamma del tuo ex marito fuori dal bar e dirle con aria di sfida “Ti porto via tuo padre!”, per poi metterti con il suocero del tuo ex marito, in una catena di sfregi e faide familiari che Brooke Logan molla Beautiful e va a vendere lupini nella spiaggia di Vasto.

 

Inviate le vostre lettere a: il Fatto Quotidiano 00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2. selvaggialucarelli @gmail.com

Sud senz’anima: tutti contro il “matto”, come a Manduria

Sono nato e cresciuto in una provincia fatta di paesi minuscoli dove “i matti” (definizione mai offensiva che si usava per indicare il tipo un po’ diverso dagli altri), erano parte della comunità. Nel dialetto “il matto” era “’o paccio”, un soggetto un po’ strambo. Oggetto di piccoli scherzi, di risate in piazza o davanti a un bar, ma mai violenti o crudeli. Il “matto” non si perdeva una festa e un bicchiere di vino, lo invitavano alle mangiate, se aveva bisogno lo aiutavano. Era parte del “villaggio” e andava protetto. Non dimenticherò mai un “matto” particolare nei giorni del terremoto del 1980 a Lioni. Il paese era raso al suolo, la gente passava giorni e notti al freddo, arrivarono le prime tende per ripararsi e lui, “’o paccio”, ne chiese subito una. Non per sé, ma per il suo cavallo. Un malandato ronzino che amava cavalcare senza sella facendo lo slalom tra le macerie. Vengo da una provincia così, perché così era il Sud, così si viveva nei suoi paesi. Ma oggi, dopo gli orrori di Manduria, dove otto disgraziati (sei di loro minorenni) hanno reso la vita impossibile al povero Antonio Stano, tormentandolo, minacciandolo, derubandolo delle sue poche e povere cose, intimidendolo, il tutto fino a portarlo alla morte, vedo un Sud diverso. Diventato da anni un’enorme periferia. Periferia identica nell’abbandono e negli orrori, a quelle metropolitane, dove non c’è più posto per “i matti”. Antonio aveva urlato la sua disperazione, denunciato, ma nessuno lo aveva ascoltato e protetto. Come Frank Dummer, la sua lingua “non poteva esprimere ciò che” gli “si agitava dentro, e il villaggio” lo “prese per matto”. Una “cosa” da prendere a calci, da terrorizzare e filmare, per poi “divertirsi” a rivedere le immagini con gli amici e vantarsi di quella “bravata” da guappi di cartone, tanto per passare una serata. A Manduria, 33mila abitanti, 23 chiese e neppure un cinema, quegli otto giovani avevano deciso di divertirsi così. Con il corpo e l’anima di Antonio.

Il Dante leghista verso Strasburgo, tra i cibi nostrani e l’inferno-droga

Lambrate, periferia milanese. Il manifesto elettorale per la circoscrizione Nord-Ovest (in palio 20 seggi sui 76 destinati all’Italia) si distingue subito. Fermo la macchina. Clicco la foto col telefonino. La posto su Messenger. Lo spudorato candidato s’è cinta la testa d’alloro. Si chiama Dante, appunto come il Divino Poeta. Per accentuare l’affinità elettiva, ha coniato uno slogan che un tempo avremmo definito goliardico: “Questa Europa è un Inferno, facciamola diventare un Paradiso!”. Sotto: #votaLega#scriviDante.

Giuro, non è uno scherzo. Il demenziale ma geniale manifesto esiste. Furoreggia nel web. Il novello Dante si chiama Cattaneo, cognome doc lombardei, direbbe Gianni Brera. Il Dante Cattaneo si ispira all’invettiva per antonomasia che domina il sesto canto del Purgatorio: “Ahi, serva Italia, di dolore ostello/nave senza cocchiere in gran tempesta,/non donna di province, ma bordello!”. Se rifletti, caro Enrico, c’è tutto il salvinismo. Il Capitano non si erge a cocchiere per pilotare questa povera Italietta sballottata dall’infernale tempesta Ue? Lo spregiudicato Dante Cattaneo ha 36 anni. Vuole saltare a bordo della navicella condotta tra i flutti domati dal mentore Salvini. È sindaco leghista uscente di Ceriano Laghetto, piccolo comune della provincia di Monza e Brianza, col bilancio perennemente privo delle necessarie risorse per riparare le strade ma con il sogno di costruire uno stadio: 6.521 abitanti, di cui 251 (dati del 2018) stranieri, ossia il 3,8% della popolazione. Difficile chiamarla invasione… Così, Cattaneo ha trovato un’altra emergenza, imbarcandosi in una crociata contro i tossici e gli spacciatori che infestano il contiguo Parco delle Groane, e si è messo a difendere i prodotti agroalimentari nostrani, in ossequio al dogma salviniano “prima gli italiani”. Il Cazzaro Verde lo ha premiato col sesto posto della lista per le europee. Nel 2014 la Lega strappò due seggi (11,7 % dei voti), i sondaggi dicono che li potrebbe triplicare. Ed offrire al Dante di Ceriano Laghetto la Commedia di Strasburgo.

Comincia il Ramadan, la Quaresima dell’Islam: digiuno e purificazione

Comincia oggi anche per un milione e 600mila musulmani “italiani” il digiuno del mese di Ramadan, uno dei cinque “pilastri” dell’Islam (gli altri quattro: la professione di fede, la preghiera, l’elemosina legale, il pellegrinaggio alla Mecca). A dire il vero, per altre comunità del nostro Paese è iniziato ieri 5 maggio: in merito non c’è uniformità.

Questioni politiche ma anche di calcolo dell’anno lunare. Al contrario del nostro calendario gregoriano, basato sul ciclo solare, quello islamico conta dodici mesi lunari per un totale di 354 o 355 giorni, e non 365 o 366. In ogni caso il mese di Ramadan è l’unico citato nel Corano e celebra la rivelazione dei primi versetti del Libro Sacro al profeta Muhammad (Maometto). Il digiuno va dall’alba al tramonto e non è solo alimentare ma anche sessuale.

Per il diritto islamico è obbligatorio per tutti i credenti, sia sunniti sia sciiti senza distinzione, ma al di là della dottrina teocratica, la sua pratica quotidiana per un mese rimanda al valore spirituale del digiuno nella tradizione abramitica. Il digiuno rappresenta infatti un filo di continuità fra le tre grandi religioni monosteiste che discendono da Abramo: cristianesimo, ebraismo e Islam. Dal Corano: “A ognuno di voi abbiamo assegnato un rito e una via, ma se Dio avesse voluto avrebbe fatto di voi un’unica comunità”.

Quest’anno, poi, l’inizio del Ramadan segue di poco la Pasqua cristiana, che a sua volta segna la fine di un altro digiuno, quello della Quaresima, lungo quaranta giorni per ricordare il periodo trascorso da Gesù nel deserto, tentato dal demonio. E anche nella Quaresima, così come nel Ramadan, sono centrali i concetti di astensione (astinenza) e purificazione. L’esatto contrario della guerra santa, jihad, che con l’avvento dell’Isis ha reso sanguinoso questo mese con la bufala teologica che un attentato durante il Ramadan vale più di mille altri.

Difficile però spiegarlo alla destra clericale che rimpiange lo scontro di civiltà e adesso spera nei campioni crociati dell’internazionale sovranista, tra cui l’italiano Matteo Salvini, cristiano sui generis che teorizza la società chiusa.

Chi è il più grande? Messi surclassa Cr7

600-600. Quando Leo Messi, la notte di mercoledì 1 maggio, ha portato in parità, con la fantastica punizione del 3-0 al Liverpool, il conto dei gol nella sfida infinita con CR7 (che ha poi segnato il suo 601° nel derby di Torino, ndr), rivale da sempre, la domanda che in tutti è sorta spontanea è stata: chi vincerà, anche con l’avallo dei numeri, la sfida del miglior calciatore dell’ultimo ventennio? Solo il tempo lo dirà: ma è certo che Messi, dotato di una classe pura imparagonabile, per limpidezza, a quella di CR7, sembra avere dalla sua, già da ora, anche i numeri. E persino le scelte opposte operate dai due mostri sacri in questi loro fine carriera sembrano premiare Messi e condannare CR7. Non ci credete? Seguiteci.

ETÀ. Il primo dato da cui occorre partire è la carta d’identità che ci dice che CR7 ha due anni e quattro mesi più di Messi: il 5 febbraio scorso Cristiano ha compiuto 34 anni, il 24 giugno Leo ne compirà 32. Ciò significa che i suoi 600 gol CR7 li ha segnati giocando due stagioni più di Messi (iniziò nel 2002 con lo Sporting Lisbona, Leo nel 2004 con il Barcellona): 600 gol realizzati in 17 stagioni (media: 35,3 a stagione) contro i 600 in 15 di Messi (media: 40 a stagione), il che fa una bella differenza. Anche i gol messi a segno in Champions (127 CR7, 112 Messi) vanno tarati sul totale delle partite giocate: 166 Ronaldo, 134 Leo. Insomma, chi segna di più dei due è Messi, che lo fa alla media di 0,84 gol a partita contro lo 0,77 di CR7.

PALMARES. Come noto, in dieci anni (dal 2008 al 2017) i due si sono divisi (5-5) i dieci Palloni d’Oro in palio. Nel 2018, anno del trionfo di Modric, CR7 ha scelto di lasciare il Real (club con cui aveva conquistato 4 Palloni d’Oro) per approdare alla Juventus; che confermando la sua inadeguata statura europea è stata eliminata nei quarti di Champions mentre il Barça, trascinato da Leo, ha già ipotecato la finale di Madrid. Difficile, oggi, pensare a un vincitore di Pallone d’Oro 2019 diverso dall’argentino: che al 90% scalzerà Ronaldo anche da questo trono, quello cui il portoghese tiene forse di più, portandosi sul 6-5. Se poi il Barça, in sovrappiù, dovesse conquistare la coppa con le orecchie, Messi annullerebbe (5-5) anche il vantaggio di CR7 in fatto di Champions vinte.

SOLDI. Non avendo mai digerito di guadagnare al Real meno soldi di Messi al Barcellona (l’ultimo rinnovo di Leo è stato firmato a 43 milioni netti a stagione più bonus di 75 legato a vittorie in Spagna e in Europa più un cadeau di 50 milioni di una tantum come “bonus alla firma”), CR7 se n’è andato alla Juve per 31 milioni netti fino al 2022, ma sapendo di incamerarne almeno altrettanti, ogni anno, grazie agli sgravi fiscali introdotti nel 2017 dal governo Renzi (pagherà solo 100 mila euro su tutti i ricavi da diritti d’immagine): CR7 riceve dalla Nike 24 milioni l’anno e una ventina tra sponsor come Toyota, Samsung, EA Sports e altri. Sorpasso compiuto almeno in banca, quindi? Macchè. Se CR7 intasca più di 70 milioni, Messi rischia d’incassare, oltre ai 43 di stipendio e ai 27, tassati, dei suoi sponsor (Huawei ecc.), tutti i 75 del bonus: il Barça ha vinto il campionato, è in finale di Coppa del Re (25 maggio vs. Valencia) e ha più di un piede in finale di Champions. Anche nella sfida dei soldi si va verso un Messi-CR7 120-70. Ubi Messi, CR7 cessat.

L’embargo di Trump rafforza i radicali e strangola l’Iran

Le sanzioni annunciate da Donald Trump dividono i responsabili iraniani: i radicali, che sanno di essere più forti dopo le sanzioni, vogliono chiudere il paese come una fortezza, i pragmatici invece preferiscono aprire i negoziati con gli Stati Uniti. Quale è la soglia limite oltre la quale il calo delle esportazioni di greggio sprofonderà l’economia iraniana nella crisi? La questione è decisiva nella Repubblica islamica dove le contestazioni sociali assumono una connotazione politica, com’è successo con le violente manifestazioni dell’inverno 2017-2018 e delle rivolte dell’acqua dell’estate 2018. Secondo il think thank americano International Crisis Group, che si basa sulle analisi di ufficiali locali, il punto di rottura va posto sotto la barra dei 700 mila barili al giorno (b/g). Dal ritiro degli Stati Uniti di Trump dal Joint Comprehensive Plan of Action, l’accordo di Vienna del 2015 sul nucleare iraniano, e la successiva entrata in vigore delle diverse sanzioni, le esportazioni di Teheran sono crollate a circa 1,1 milioni di b/g: più del 50% rispetto all’anno precedente. Per Trump però non basta: l’obiettivo è “zero esportazioni di petrolio”. Di qui la nuova batteria di sanzioni che entra in vigore a maggio. Giovedì scorso Teheran ha reagito instaurando un nuovo sistema di razionamento del carburante per gli automobilisti e un rincaro dei prezzi alla pompa, provocando lunghe file d’attesa alle stazioni di servizio. È con un tweet, com’è sua abitudine, il presidente Usa ha deciso di mettere fine ai waivers, le deroghe al blocco dell’import di petrolio iraniano, entrate in vigore lo scorso anno e arrivate a scadenza a maggio, e che riguardano otto paesi importatori di petrolio iraniano, tra cui Cina, India e Turchia. La fine delle esenzioni, con la minaccia di sanzioni da parte degli Stati Uniti per i paesi disobbedienti, dovrebbe portare le esportazioni iraniane a 800 mila b/g a partire da giugno 2019, un livello cioè molto vicino alla soglia critica. E forse anche al di sotto, fino a 500 mila b/g, se Trump non dovesse rinnovare i waivers concessi a Giappone e Corea del Sud.

A Teheran, dove inevitabili battaglie sono scoppiate tra pragmatici e radicali, la preoccupazione è palpabile. Però le due fazioni ritengono che l’Iran non deve aspettarsi nulla dai paesi europei e che non bisogna credere ai meccanismi di “elusione” dell’embargo americano che l’Ue sta tentando di attuare, tra cui un canale di pagamento simile al baratto (battezzato Instex) che evita l’uso del dollaro nelle transizioni. Questa posizione è stata formulata in modo inequivocabile dal più moderato dei responsabili politici iraniani, Javad Mohammad Zarif, ministro degli Esteri, al khamenei.ir, il sito ufficiale della Guida suprema: “L’Europa è incapace di aggirare le sanzioni americane (…). Non abbiamo mai riposto in lei le nostre speranze”. Un discorso profondamente diverso da quelli portati avanti finora da Zarif, che aveva sempre difeso il dialogo con i paesi europei. È evidente che anche l’ayatollah Ali Khamenei si prepara al peggio. Lo dimostra un recente decreto che riduce in modo significativo la parte di risorse petrolifere destinate al Fondo nazionale iraniano, il cui scopo è prestare alle aziende e agli istituti finanziari iraniani, favorire lo sviluppo del paese e attirare capitali stranieri. Il potere iraniano si prepara dunque a vivere giorni difficili. La situazione economica è del resto già drammatica. Secondo il Fondo Monetario Internazionale (Fmi), un ulteriore potenziamento delle sanzioni americane potrebbe far crescere l’inflazione in Iran al suo livello più alto dal 1980 (prima dell’annuncio di Trump sui waivers era già al 37%). Ora i prezzi al consumo potrebbero crescere del 50% nel 2019. L’Iran si ritroverebbe allora al terzo posto nel mondo dietro Venezuala e Zimbabwe, e allo stesso livello del Sudan. La moneta iraniana ha perso i due terzi del suo valore e l’economia dovrebbe confermarsi in recessione per il secondo anno consecutivo. Le previsioni del Fmi sono pesanti anche sulla contrazione del Prodotto nazionale lordo (Pnl), che potrebbe arrivare al 6% nel 2019, dopo il livello allarmante del 2018 (-4%). L’Iran cercherà di esportare il suo greggio ricorrendo al contrabbando, come aveva fatto dopo l’embargo precedente durato 40 anni. Il Paese dispone di una flotta petrolifera, di migliaia di autocisterne e di numerose frontiere con Stati poco scrupolosi sulla provenienza del petrolio, come hanno mostrato in passato i traffici con lo Stato Islamico. Ma sembra che gli Usa stiano lavorando molto sulle reti clandestine di esportazione. Senza contare che il barile di greggio iraniano rischia di essere venduto a un prezzo derisorio, di molto inferiore al mercato. Di fronte alla minaccia il regime è diviso. I pragmatici cercano di ammorbidire le tensioni con Washington. Non in modo diretto però, per non esporsi alle critiche dei radicali, ma, come proposto da Zarif, appoggiato dalla stampa riformatrice, attraverso un approccio umanitario che passerebbe innanzi tutto dallo scambio di prigionieri tra Washington e Teheran. Questa proposta avanzata all’amministrazione americana sei mesi fa è rimasta senza risposta. Il ministro degli Esteri sperava invece che potesse aprire un varco e permettere all’Iran e agli Stati Uniti di trovare un punto di incontro.

Trump ha accettato il principio del negoziato, ma con un’accezione fondamentale: che le trattative non siano segrete, ma ufficiali, e che si concludano con un incontro al vertice tra lui e Rohani – come è accaduto già con la Corea del Nord. “In ogni modo, su cosa potrebbero negoziare? Qualunque dovessero essere le richieste di Washington, come per esempio il riconoscimento dello Stato d’Israele, Teheran non potrebbe accettarle. Sarebbe l’equivalente di un regime change”, sottolinea Nasser Etemadi, un giornalista e analista iraniano che vive e lavora a Parigi. Per il campo radicale, una tale apertura non è immaginabile. “Dialogare con Trump è fuori questione. Quell’individuo è pericoloso. Non commettiamo l’errore”, ha dichiarato di recente Ali Larijani, l’influente presidente del Majles, il Parlamento iraniano, facendo apertamente riferimento alla proposta di Zarif. Lo stesso tipo di discorso sale dai pasdaran, i Guardiani della rivoluzione, nella persona del generale Qasem Soleimani, alla testa della “Quds Force”, la divisione per le operazioni all’estero, e sicuramente l’uomo più potente in Iran dopo la Guida suprema: “Il nemico vuole trascinarci al tavolo dei negoziati per mezzo di pressioni economiche, ma negoziare col nemico nelle circostanze attuali sarebbe un segnale di sottomissione. Gli iraniani non accetteranno mai una tale umiliazione”. L’ayatollah Ali Khamenei, a cui i due uomini sono molto vicini, è sulla stessa linea. Al di là delle divergenze, tuttavia, si nota che il regime sta cercando di saldare i diversi ranghi. Il presidente Hassan Rohani ha dunque a sua volta accantonato gli abiti del riformista per incarnare una linea più dura e ora non è più bersaglio di attacchi violenti da parte dei suoi avversari conservatori. L’opzione “strangolamento economico” di Trump appare meno preoccupante agli occhi dei dirigenti iraniani dell’opzione militare, che sembrano privilegiare Benjamin Netanyahu, John Bolton e l’Arabia Saudita. “Si ritiene che l’Iran possa sopravvivere a un assedio economico fino alla fine del mandato di Trump e anche di un eventuale secondo mandato, sottolinea il giornalista Nasser Etemadi. E questo sulla base dell’idea, formulata da Ali Larijani, di creare una ‘barriera fortificata’ intorno all’Iran”. Si tratterebbe anche di tornare ad uno dei concetti fondatori della Repubblica islamica, il khod kafai, una forma di autosufficienza.

Una differenza c’è tuttavia con il periodo che ha seguito la rivoluzione: l’economia iraniana oggi è integrata a tutti gli effetti all’economia mondiale, di qui la sua vulnerabilità, soprattutto per il settore privato, di fronte all’embargo e alle sanzioni. La politica di Trump, introducendo una sanzione dopo l’altra, rinforza la linea iraniana più dura. Anche la recente decisione del presidente americano di iscrivere i pasdaran nella lista delle organizzazioni terroristiche, alla luce della campagna di “massima pressione” contro Teheran, va in questo senso. Non c’è da aspettarsi che essa spinga il regime verso il tavolo dei negoziati né che abbia la minima influenza sugli interventi in Siria, Iraq e Yemen. Non si tratta di una banale misura simbolica. “In Iran è vista come una minaccia proveniente da un nemico interno, spiega Negar Mortazavi, ricercatore iraniano per la fondazione Carnegie, con sede a Washington. In questo modo, i moderati iraniani non hanno altra scelta che allinearsi con i Guardiani della rivoluzione. Ogni critica nei loro confronti sarebbe considerata come un tradimento e avrebbe un costo politico elevato.

La politica di massima pressione dell’amministrazione Trump continua a indebolire le forze moderate che vogliono relazioni migliori con l’Europa, riducendo il loro campo diplomatico. Essa, inoltre, avverte Mortazavi, spingerà i radicali a reprimere la società civile, i militanti dei diritti umani e quanti lavorano per un Iran più democratico”.

 

L’Egitto che resiste ad Al-Sisi ha un’icona di libertà: Salah

Provate a passeggiare per i vicoli di Rosetta, lungo l’estremo corso del Nilo, provate a fotografare le barche che si allineano agli yacht, le architetture ottomane: presto vi troverete pedinati da un paio di anziani signori in borghese che avvicineranno il vostro autista, e gli intimeranno di farsi scortare fino all’uscita della città. Provate a seguire i riti pasquali della cattedrale copta di San Marco, ad Alessandria: sarete perquisiti tre volte in 50 metri da tre distinti corpi armati che vivono ancora nel terrore degli attentati della domenica delle Palme di due anni fa (18 morti).

Nulla deve sfuggire all’occhio del potere in un Paese sempre più provato dall’insicurezza e dall’austerità, dall’aumento dei prezzi e da una crisi economica che non lascia scampo. Mentre i giornali decantano i successi del regime nella promozione dei diritti umani, nell’industrializzazione e nella lotta alla droga, e mentre le tv presentano il Cairo come la soluzione a tutte le crisi regionali (dalla Libia al Sudan allo Yemen), le strade le scuole le moschee sono ancora tappezzate dai manifesti con il faccione del presidente Al-Sisi che invita i concittadini a votare nel referendum costituzionale del 20-22 aprile (quando si dice “personalizzare un referendum costituzionale”…). Passata con l’88,8% di sì e un’affluenza del 44,4%, la riforma chiarifica che il difensore e garante della democrazia è l’esercito (gli islamici ortodossi che vi vedono il pericolo della laicità), rafforza il già asfissiante controllo presidenziale sulla magistratura, promette quote fisse in Parlamento per le donne (25%) e “adeguata rappresentanza” a categorie varie (giovani, cristiani, operai, contadini, residenti all’estero), reintroduce il Senato abolito nel 2014 (ma un terzo dei suoi membri sarà nominato direttamente dal Presidente), e soprattutto prolunga l’attuale mandato di Al-Sisi fino al 2024, consentendogli di ripresentarsi per governare fino al 2030: dal colpo di Stato del 2013 saranno allora passati ben 17 anni, più di quelli di Nasser e di Sadat. Tuttavia non sarà il tempo, da solo, a donare al generale una visione di riforme economiche o la destrezza di politica internazionale che caratterizzò quei due grandi predecessori. L’unico elemento di sicura continuità, per ora, è l’autoritarismo.

La repressione di Al-Sisi (60mila i prigionieri politici) ha colpito non solo i giornalisti o gli intellettuali d’opposizione, non solo i Fratelli Musulmani dell’ex-presidente Morsi (l’unico eletto in libere elezioni, da anni detenuto), ma anche i tanti giovani che tra il 2011 e il 2012 avevano immaginato per il Paese un futuro diverso, dai ragazzi delle rivolte di Piazza Tahrir fino alla leggenda del calcio africano Mohamed Aboutrika, iscritto da un paio d’anni sulla lista nera dei “terroristi” e ora in esilio in Qatar.

La parabola delle speranze deluse di una generazione è bene incarnata nella protagonista del documentario Amal, di Mohamed Siam, che segue i sogni e la disillusione di una ragazza cairota dalla “primavera egiziana” 2011 al 2017.

In Amal, come in tutta la storia recente dell’Egitto, gioca un ruolo fondamentale la mattanza dello stadio di Port Said (1 febbraio 2012), in cui 74 tifosi dell’Al-Ahly (la squadra del Cairo tra i cui ultras vi erano molti agitatori anti-Mubarak) furono uccisi dalle violenze degli ultras dell’Al-Masry, in un massacro condotto con la compiacenza delle forze di polizia. Quel giorno Aboutrika era in campo e soccorreva i feriti; quel giorno il suo emulo più dotato, Mohammed Salah, decideva di lasciare il Paese per una carriera che l’avrebbe portato in Svizzera e poi in Italia (alla Fiorentina si prese la maglia 74, il numero dei morti di Port Said). Oggi, il venerdì o il sabato sera, tutto l’Egitto, dai ristoranti troppo vuoti delle Piramidi al Football Club “Roma” di Aboukir (che ancora inalbera sul portone le foto della coppia giallorossa Salah-El Shaarawy), si ferma per guardare la partita del Liverpool in Premier League. Le gesta dell’eroe, che mantiene il contegno umile e gentile di chi non dimentica le proprie origini in un villaggio del Delta, e che si è tenuto alla larga dalle strumentalizzazioni politiche d’ogni segno, rappresentano forse la sola arma di speranza di un popolo che gli ha tributato sua sponte oltre 1 milione di voti alle presidenziali dell’anno scorso, alle quali beninteso non era candidato.

La popolarità di Salah potrebbe rappresentare alla lunga un’insidia per lo stesso Al-Sisi, a meno che non venga anche lui estromesso dal Paese con qualche pretesto.

Chissà cosa penserebbe di questa Liverpool-connection il grande poeta greco di Alessandria Costantino Kavafis (1863-1933), che proprio tra Londra e Liverpool iniziò ad amare la letteratura europea: nel cimitero greco ortodosso dove riposa, e nel limitrofo cimitero cattolico, giace irrimediabilmente scomparsa la grande città mista e libertina, affluente e poliglotta, di Ungaretti e Thuile, di Tsirkas e Forster. Quell’Alessandria dove Kavafis abitava in una casa di rue Lepsius, nel cui cortile oggi hanno improvvisato una baraccopoli; quell’Alessandria che secondo Lawrence Durrell era “dopo Hollywood il posto più ricco di belle ragazze” (e oggi prolifera il niqab), ma anche l’unico luogo dell’Egitto dove poter vivere, “perché ha un porto e un litorale piatto di trementina – una via di fuga”.

I raid diventano guerra: piovono missili su Gaza

Settecento missili lanciati in due giorni e oltre 300 missioni dei caccia con la Stella di David nei cieli di Gaza annunciano che questa non è una crisi passeggera, una battaglia isolata. Con il passare delle ore sta diventando una vera guerra. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha ordinato di inviare rinforzi nel sud, arriverà una brigata di carri armati per sostenere la “Divisione Gaza” dell’Idf (esercito israeliano) che presidia i confini della Striscia.

È il primo passo per il build up militare, che potrebbe portare a una rapida escalation perché l’intero sud del Paese è bloccato – campi agricoli, scuole, fabbriche e uffici deserti anche ieri – e oltre un milione di israeliani è riparato nei rifugi. Per legge in ogni casa deve essercene uno ma molti municipi hanno deciso di aprire quelli collettivi. Il bilancio delle vittime si aggiorna di ora in ora, sul lato israeliano 4 i morti di questi giorni e una trentina i feriti seriamente. I palestinesi da Gaza denunciano 20 morti e oltre 100 feriti. Le strade della Striscia sono deserte, anche perché caccia, elicotteri e droni israeliani sparano su qualunque cosa si muova nella convinzione che siano miliziani in spostamento verso le rampe di lancio nascoste fra i campi coltivati, allevamenti di polli e case abbandonate.

Gli aerei da guerra israeliani ieri pomeriggio hanno colpito l’edificio del ministero della pubblica sicurezza a Gaza City. L’edificio, nel centralissimo quartiere Rimal, è stato distrutto dopo che i jet dell’IAF hanno attuato la politica del knock the roof, cioè bussare sul tetto. Colpire prima lo stabile con un missile a basso potenziale per mettere in guardia chiunque all’interno e dargli il tempo di evacuare, per poi 5 minuti dopo distruggerlo con 2 bombe ad alto potenziale.

Nei raid aerei l’aviazione israeliana ha bombardato diverse strutture apparentemente civili, tra cui le case di leader terroristi dove venivano conservate munizioni nelle città di Khan Yonis, Rafah e il campo profughi di al-Shati, nonché una moschea sempre a al-Shati che secondo l’Idf veniva usa come quartier generale dalla Jihad islamica.

Secondo il portavoce militare, il generale Ronen Manelis, da sabato 600 razzi e colpi di mortaio sono stati sparati contro Israele, 510 dei quali hanno attraversato il confine tra Israele e Gaza. 150 missili sono stati intercettati dal sistema di difesa missilistica Iron Dome. Molti razzi sono atterrati in zone aperte ma oltre 35 sono finiti in zone popolate.

L’alto ufficiale ha inoltre confermato che Israele ha compiuto un’uccisione mirata di un membro di Hamas nel centro di Gaza – la prima operazione del genere dal 2014. Un “cambiavalute” legato ad Hamas è stato centrato da un missile mentre era a bordo della sua auto nel centro di Gaza City.

Hamas e Jihad islamica sembrano sorde al momento agli appelli delle Nazione Unite e dei tradizionali mediatori arabi: l’Egitto e il Qatar. Anzi rilanciano con proclami voler colpire Israele ancor più in profondità. In un video la Jihad islamica minaccia l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv (80 km di distanza da Gaza) e l’impianto nucleare di Dimona, nel deserto del Negev. Entrambe le località, come già avvenuto nel 2014, sono nel raggio di azione dei missili nelle mani degli islamisti della Striscia.

“Ci stiamo preparando a diversi giorni di battaglia”, ha spiegato ancora ai giornalisti il generale Manelis, svelando anche un’altra strategia adottata dall’Idf. Sin dalle prime ore della domenica, i caccia israeliani hanno colpito le case private dei comandanti di medio livello di Hamas e della Jihad islamica. Secondo l’Idf, oltre 30 case sono state prese di mira nella la Striscia, anche in aree come Khan Yunis e Rafah nel sud e Shati nel nord. È l’approccio secondo cui coloro che ordinano il lancio di razzi contro le case israeliane non troveranno più una loro casa dove tornare.