“Controlli laschi”, ambientalisti contro il codice degli appalti

“Un vecchio armamentario in materia di lavori pubblici che si credeva superato dal nuovo codice appalti del 2016 e che poco ha a che vedere con lo scopo di sbloccare i cantieri”. Così viene definito lo sblocca cantieri da Kyoto Club, Legambiente e Wwf. Alla vigilia della settimana decisiva per il provvedimento che sta per affrontare il Senato, le tre associazioni ambientaliste scrivono al ministro alle Infrastrutture, Danilo Toninelli, proponendo una lunga lista di osservazioni e proposte di emendamenti.

Il giudizio degli ambientalisti è severo: “Allentamento delle regole di trasparenza e vigilanza che devono improntare l’azione della pubblica amministrazione e degli operatori economici nel delicato settore dei lavori pubblici del nostro Paese”. Ancora: Kyoto Club, Legambiente e Wwf sottolineano “il ridimensionamento sistematico e ingiustificato dell’Autorità Nazionale Anti-corruzione, Anac”. Giorni decisivi, tra molti mal di pancia nel M5S: “Lo sblocca cantieri, se andrà in porto così com’è, rischia di fare l’ennesimo favore alla Lega. Facendoci perdere un’altra fetta del nostro elettorato che si aspettava ben altro in materia di appalti”, sostiene un grillino dissidente che vuole restare anonimo. Ma andiamo nel dettaglio. Ecco che cosa chiede il dossier degli ambientalisti. Tanto per cominciare, si spiega, lo sblocca cantieri “elimina la distinzione tra progettisti ed esecutori di lavori pubblici riesumando fino al 2021 il rimosso meccanismo dell’appalto integrato che non garantisce una progettazione indipendente”. Ancora: “La soglia oltre la quale deve essere espletata la gara d’appalto viene alzata da 150mila a 200mila euro”. Invece per gli “appalti sotto soglia (5,225 milioni) è previsto che si faccia sempre riferimento al criterio del massimo ribasso e solo ‘previa motivazione’ si stabilisce che si possa fare riferimento al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa”. Ma l’elenco delle novità che lasciano perplessi gli ambientalisti è lungo: c’è per esempio “la possibilità per i comuni non capoluogo di gestire da soli le procedura di gara di maggior rilievo senza ricorrere a centrali uniche”. Ci sono poi gli appunti riguardo ai sub-appalti, perché in futuro potrebbe non essere prevista l’esclusione preventiva di soggetti “che abbiano riportato condanne definitive per reati gravi tra cui quelli di associazione mafiosa” oppure “abbiano commesso gravi infrazioni in materia di salute o sicurezza sul lavoro”. Ci sarebbe poi da dire dei poteri dei commissari, dell’estensione del silenzio assenso.

Analisi condivisa da Loredana De Petris, senatrice ecologista de ‘La Sinistra’: “Si è riscritto il codice appalti con 81 modifiche. E lo si è fatto con un decreto legge”. Tutto in fretta e furia: “Oggi (lunedì, ndr) ci saranno le audizioni. Non sono state nemmeno comprese le associazioni ambientaliste”. De Petris sottolinea tanti punti critici, per esempio nella disciplina dei subappalti “previsti fino al 50% dell’opera e aperti a chi ha partecipato alla gara e non ha vinto ”. Il timore del mondo ambientalista è chiaro: un salto indietro di anni per trasparenza, lotta al malaffare e tutela dell’ambiente e dei tesori del nostro Paese.

“Next stock…” Europa Le turbe dei milanesi sui trasporti pubblici

Questa è la storia di un cittadino qualunque di media cultura che usa i mezzi pubblici della sua città. Il “Fatto” ne racconterà i tormenti più intimi, forse violando il suo diritto alla privacy, ritenendo che essi abbiano un qualche interesse pubblico. Dimenticavamo: la sua città è Milano, la più europea d’Italia, anzi, come si dice da tempo, l’unica città “veramente europea” della nazione. Il nostro anonimo protagonista è orgoglioso di questa definizione. Che egli, amando Milano, propaganda con calore. Ed è pure orgoglioso, e molto, di un sistema di trasporti pubblici che segna la differenza siderale, incolmabile, della sua città da Roma. Apprezza a ogni viaggio la frequenza e la buona puntualità dei mezzi nonostante siano costretti a muoversi in un ginepraio di cantieri. Spesso maledice gli ignoti collaudatori che hanno dato il via libera a veicoli in grado di far ruzzolare a terra a ogni momento i passeggeri. Però è proprio soddisfatto.

Una sola cosa non capisce. Perché l’altoparlante che sui mezzi di superficie modernamente annuncia la prossima fermata in inglese (essendo l’unica città “veramente europea”…) dica next stop in modo così fastidiosamente simile, a sentirlo, a un comico next stock. Si domanda perché proprio su quell’ultima lettera la pronuncia si faccia così inopinatamente confusa. L’interrogativo interiore – poiché egli per orgoglio non ne fa parola con nessuno – si ripete negli infiniti viaggi quotidiani. Finché il nostro patriottico cittadino fa l’agghiacciante scoperta. L’altoparlante dice proprio next stock! Non c’è santi, riascolta più e più volte mettendo da parte i pregiudizi positivi, è next stock, nessun dubbio.

Ma come è possibile?, si chiede disperato. Che cosa penseranno i turisti? È vero, quelli della moda vanno in taxi. Ma gli altri, i giovani, gli studenti, i visitatori di musei, gli stranieri qualunque? Si faranno beffe di Milano quando torneranno a casa, “Sì, una bella città, però un po’ strana, pensa che sugli autobus dicono next stock”. E giù una bella risata su questo italian people… Perciò il cittadino continua con i suoi rovelli interiori. E si chiede come sia possibile che la cosa vada avanti da anni. Che non ci sia un assessore, un alto funzionario comunale, un dirigente dell’azienda trasporti, o anche un suo sindacalista (ne esistono), che usi i tram e che senta. E realizzi con raccapriccio il colpo inferto quotidianamente al prestigio dell’azienda e della stessa città. Poiché nessuno protesterà di certo per queste cose, ma ognuno penserà altrettanto di certo qualcosa. Con divertita sufficienza, come quando un infante sbaglia una parola.

Spontaneamente il nostro cittadino fa un gioco di immaginazione. E rivede il film. Un giorno un alto dirigente di ambizioni europee che dice: “Bisogna che sui mezzi pubblici si diano gli annunci in inglese”. E qualcuno sotto di lui che dice “signorsì”. E allora si apparecchiano persone e strumenti per registrare il messaggio di annuncio della prossima fermata. Viene dunque convocata una signora (un’impiegata dell’azienda?), perché la voce, finora non lo avevamo detto, è femminile. A cui qualcuno chiede, si suppone, di dire next stop, solo che lei dice next stock, evidentemente essendo stata reclutata proprio tra le dipendenti che quando andavano alla scuola media non avevano l’insegnante e nemmeno la supplente di inglese. Di più: scelta tra le dipendenti che per scelta sovranista non sentono musica in lingua inglese e non vanno mai in vacanza all’estero. E lo stesso deve essere successo per il signore che registra il messaggio, e che, quando tutto è finito, fa il gesto di ok, magari non dice ok (troppo cosmopolita) ma alza contento il pollice verso l’alto. Brava collega, ottimo lavoro. E lo stesso deve essere successo al superiore che ascolta il messaggio e ne autorizza la diffusione. Anche lui non aveva la supplente. L’alto dirigente da cui, magari su suggerimento politico, tutto è partito, ovviamente non controlla.

Si apre dunque la fase trionfale degli annunci (l’unico annuncio!) in inglese. Su tutti i mezzi di superficie, a ogni ora di ogni giorno, Milano esprime così il suo felice status di unica città “veramente europea”. E ognuno si tenga i suoi piccoli, ma insistenti, rovelli. Ognuno spenga la sua fiammella di vergogna. Il “Fatto” chiede scusa al cittadino se ne ha reso pubblici i privati sentimenti. Ma lo ha fatto proprio per aiutarlo a soddisfare il suo sogno patriottico. Vivere sul serio nell’ “unica città davvero europea” del Paese.

Riparte il Giro: ma l’Italia delle bici è lontana dall’élite

“Laggiù, fra i lampi, appare San Luca. Siamo vicini all’Ippodromo Zappoli di Bologna, la prima delle otto fatidiche mete”: è la notte, buia e tempestosa, del 13 maggio 1909. Centodieci anni fa. Sta per arrivare “il cronologico manipolo” del primo Giro d’Italia, dopo 400 (!) chilometri. Il via è stato dato a Milano, nel rondò di piazzale Loreto: alle 2 e 53 in punto del mattino. Già questo, epopea.

La stoica partenza “alle ore antelucane” ispira Achille Beltrame, il popolare disegnatore della Domenica del Corriere. La tavola del 23-30 maggio 1909 immortala la storica levataccia mentre la folla incita i 127 corridori (erano iscritti in 166): “Uno spettacolo strano e insolito quell’incrociarsi di auguri e di saluti, quello scintillìo di ruote, quello strepito di automobili, quel grigio confuso sotto le tenui stelle…”. Fin dall’inizio il Giro diventa luogo letterario. Omerico cimento. Palestra per sperimentare curiose invenzioni linguistiche. Chi lo racconta rende il ciclismo appassionante. Complici i ciclisti che rendono spirituali corpo e fatica. Più si pedala in bicicletta, più si pensa… Un giorno, Alfredo Martini, glorioso cittì della Nazionale, mi disse: “A quei tempi il ciclismo era sofferenza pura. Le tappe duravano una giornata intera, su strade infami. I corridori erano senza supporti tecnici, dovevano arrangiarsi e fare i meccanici. Le ore in sella le trascorrevi meditando”.

La prima tappa del primo Giro d’Italia fu vinta allo sprint dal giovane romano Dario Beni, “il prototipo dell’atleta fortissimo e degno degli allori supremi. Alto, vigoroso, nel suo sguardo penetrante ed incisivo si scorge a primo tratto l’animo risoluto, ed il cuore temprato”. Brividi patriottici, sovranisti direbbe Salvini: “Figlio di quella Roma immortale che di improvviso rivela le stigmate della fierezza antica: al corridore che seppe e volle imporsi al più grande nucleo di atleti chiamati a raccolta per le balze italiche”. L’Italia del Giro d’Italia cominciò così. Centodieci anni dopo eccoci di nuovo a Bologna: qui sabato 11 maggio parte il Giro numero 102. Con una breve, ferale tappa: 8 chilometri, da Porta San Felice a San Luca. Finale di pendenze che saranno subito sentenze.

A San Luca il Giro approdò la prima volta nel 1956: vinse Charly Gaul. Il “garzone con le ali” che volava in salita avrebbe poi conquistato la maglia rosa nella leggendaria tappa del Bondone, sconvolta da una bufera di neve e da un freddo polare.

Ma l’ascesa a San Luca del 1956 viene ricordata anche per l’impresa di Fiorenzo Magni. Una foto lo ritrae mentre spinge sui pedali, il volto trasfigurato dal dolore. Aveva clavicola e omero fratturati. Per aiutarsi, stringeva coi denti un laccio di gomma fissato al centro del manubrio. È l’immagine simbolica del campione indomito. Magni chiuderà quel Giro al secondo posto, staccato di 3’30” da Gaul: “Il ciclismo è uno sport da uomini veri”, dichiarò una volta, “il ciclismo è la vita: ti forgia e ti mette in condizione di affrontarla con uno spirito forte”.

Retorica che sa di Ventennio. Magni non nascose mai la sua fede politica. Per il poeta Alfonso Gatto fu il “fascista in maglia rosa”: era stato volontario nella Guardia Nazionale repubblichina. Accusato d’aver sparato nell’imboscata di Valibona, il 3 gennaio 1944, quando vennero trucidati alcuni resistenti toscani, fu assolto nel 1947 con formula dubitativa. Concluse il primo dei suoi tre Giri vittoriosi, nel 1948, subissato di fischi dalla folla. Lasciò il Vigorelli in lacrime.

Oggi è il ciclismo italiano che piange: nessuna formazione tricolore è tra le diciotto dell’élite World teams, la Champions delle due ruote. Costa troppo. I team più competitivi ed attrezzati hanno budget superiori ai 30 milioni (come l’ex Sky che si chiama ora Ineos). Eppure l’Italia è una grande potenza dell’industria ciclistica. Le biciclette generano un giro d’affari superiori agli 8 miliardi, ed oltre 800mila italiani le usano regolarmente per andare al lavoro. Le imprese del settore sono 550 (2500 addetti) ed altre 300 gravitano nell’indotto. Qualche mese fa, Mario Cipollini propose a Salvini un “salvataggio nazionale del ciclismo”, per mettere “in piedi la più forte squadra mai vista al mondo”, riportando “tutti i nostri corridori più forti sotto il tricolore”. Progetto impossibile, Salvini è rimasto impassibile.

Con le wild card, gli organizzatori del Giro hanno rimediato al cono d’ombra invitando tre squadre italiane del Continental Professional, il rango B internazionale. La globalizzazione e l’irrompere di nazioni nuove ha resettato la geopolitica ciclistica, facendo lievitare i bilanci che le medie e piccole imprese nostrane non si possono più permettere. Così, oltre alla fuga dei cervelli, abbiamo la fuga dei pedali. Altro che “prima gli italiani”. Per riuscirci, ci vorrebbe un miracolo di Vincenzo Nibali, che di Giri ne ha vinti due. Ma ha 34 anni e mezzo. I nemici sono ossi durissimi. L’ostico Tom Dumoulin, la “farfalla di Maastricht” (suo il Giro 2017), ha dalla sua le tre crono, l’ultima conclude il Giro a Verona. Lo sloveno Primosz (un nome, un destino) Roglic, è in gran spolvero, fila in salita e va come una locomotiva a crono. Per fortuna di Nibali, mancano molti dei migliori, a cominciare da Chris Froome che aveva promesso di correre il Giro (vinto nel 2018) ma lo ha tradito per il più reputato Tour de France. Sognare è gratis.

Padova, l’idea malsana dell’ospedale sulle mura

“Le cose belle lo sono meno se fuori posto: la perfezione dipende dalle convenienze e le convenienze dalla ragione”: la sentenza del grande moralista del Seicento francese Jean de la Bruyère si adatta a meraviglia al controverso caso della nuova Pediatria dell’Ospedale di Padova. Perché nessuno ha il minimo dubbio sul fatto che Pediatria sia una cosa bella: anzi, vitale. Ma appare assai poco conveniente e ragionevole costruirla, in forma di casermone colossale, su un nodo nevralgico delle mura cinquecentesche della città, che proprio ora dovrebbero finalmente essere tutelate e valorizzate da un Parco.

È proprio la loro enorme estensione che, unita alla dilatazione della città moderna, fa delle mura veneziane un ‘monumento invisibile’: un monumento che bisogna andare a cercarsi. E che, però, quando lo si cerca, si fa trovare: ed appare in tutta la sua imponenza. Undici chilometri di cortina muraria, cinque porte tuttora esistenti, 15 torrioni e quattro baluardi: un ‘segno’ architettonico ed urbanistico non ben conservato quanto quelli analoghi di Lucca o Ferrara, ma non meno importante. E accanto alle opere in muratura, ci sono quelle in acqua: perché le mura erano accompagnate da un sistema di canali che al tempo stesso servivano per aumentare la funzione difensiva e per accelerare le comunicazioni. Insomma, un complesso, meraviglioso sistema di governo della città e dell’ambiente: costruito da quella serenissima Repubblica di Venezia che del governo dell’ambiente (a partire dalla Laguna) aveva fatto il suo capolavoro culturale e politico.

E non è forse un caso che proprio oggi siamo dispostissimi a sacrificarne un pezzo cruciale, sbarrando definitivamente la strada al recupero di tutto il sistema-mura: oggi che facciamo i conti con la nostra incapacità di governare le città secondo giustizia, e l’ambiente secondo una sostenibilità proiettata nel futuro.

La Nuova Pediatria sarà un parallelepipedo di 55mila metri cubi, con una base di 72 per 35 metri e un’altezza di oltre trenta metri per dieci piani. Esattamente il doppio degli edifici ospedalieri di cui prenderebbe il posto, e che invece si sperava di vedere abbattuti e rimossi dal baluardo Cornaro: il primo e il maggiore dei due grandi bastioni progettati dall’architetto veronese Michele Sanmicheli, e costruito nel 1539-1540, quand’era capitano di Padova il veneziano Girolamo Cornaro.

Il cemento del nuovo padiglione gigante sorgerà a 17 metri dal baluardo e a 24 dalle mura: pare infatti che non si trovi traccia di un vincolo paesaggistico che imponga una tutela indiretta della cinta muraria. In altre parole, è vietato solo buttarle giù con la dinamite, ma non distruggerne la visuale o assediarle con tubi e cemento. Sarà la soprintendenza – decapitata di recente dalla prematura scomparsa del suo capo, l’architetto Andrea Alberti – a dire l’ultima parola, ma è evidente che le pressioni politiche ed economiche sono fortissime.

È palpabile l’irritazione del dirigente generale dell’Azienda ospedaliera padovana, Luciano Flor, che ha dichiarato che “se non si farà la nuova pediatria non si faranno nemmeno il Parco delle Mura né l’ospedale a Padova est. Salta l’accordo firmato da Regione e Comune”. Ora, i ricatti non sono notoriamente mai un buon viatico per sciogliere i nodi politici: ed è evidente che non è saggio usare come una clava le sacrosante aspettative del “Forum delle associazioni amiche della Pediatria” (cioè i genitori, le famiglie e gli amici dei piccoli degenti). Tutti a Padova vogliono una nuova e grande pediatria, a partire dai membri del Comitato Mura di Padova: che hanno figli e nipoti e tengono alla loro salute e a quella di tutti.

Il punto è se sia davvero necessario farla lì, in un luogo tanto strategico per il patrimonio culturale. Una saggia soluzione è stata proposta dalla sezione padovana di Italia Nostra, presieduta dall’architetto Titti Panajotti: “Liberare l’area di via Giustiniani consentirebbe di rivedere il progetto della Nuova Pediatria e consentirebbe la realizzazione di edifici di altezza compatibile con l’intorno”. E l’architetto Vittorio Spigai, già professore di progettazione architettonica e urbana allo Iuav, ha spiegato: “Si è ancora in tempo, il progetto esecutivo è appena iniziato. Non si chiede affatto di fermare l’intervento. Il nuovo polo di Pediatria va costruito al più presto e i fondi disponibili utilizzati; ma si può edificare identica volumetria su 4-5 piani, e non sui 10 previsti, utilizzando i terreni di proprietà dell’Ente ospedaliero situati a confine di via Cornaro. Alcuni dei più rinomati ospedali pediatrici italiani sono di 2-4 piani e pertanto la tipologia a torre non è affatto una strada obbligata”.

Proprio in quel Cinquecento a cui risalgono le mura padovane, Raffaello spiegava a papa Leone X che, invece di distruggere le rovine di Roma antica per costruire la modernità, “cerchi Vostra Santità, lasciando vivo il paragone degli antichi, agguagliarli e superarli come ben fa con grandi edifici”. La lezione è chiara: non ha senso mettere in competizione passato e presente, è possibile costruire cose nuove e moderne senza distruggere quelle antiche. Così come non ha senso contrapporre il diritto alla salute al diritto alla cultura: “Sortirne da soli è avarizia – ha scritto don Milani –, sortirne insieme è politica”.

Altro che fontane, oggi Totò vende i treni che volano

Ci danniamo tanto per la Tav e l’Alitalia, quando basta un treno volante. C’è pure chi lo vende, a piccoli pezzi. “L’occasione che capita una volta ogni 100 anni” dice il depliant, tra foto di ville a picco sul mare, lingotti, yacht e Bentley in bella vista. L’occasione si è presentata a Caronno Pertusella, poi a Cologno Monzese, e ora in una saletta dell’Hotel As di Limbiate, mezz’ora d’auto da Milano, tra fabbriche di materassi, capannoni e rotonde. Sono le nove di sera. Neon e palmizi accolgono curiosi e potenziali investitori accorsi alla presentazione di SkyWay, società con testa in Bielorussia e cassaforte ai Caraibi che promette munifici dividendi a chi finanzia il sistema di trasporto “a stringa” ideato dall’inventore Anatoly Yunitskiy negli anni settanta. L’incontro dura due ore e mezza. Slide e filmati riproducono vagoni sospesi a 15 metri da terra che schizzano tra futuristici quartieri a 500 chilometri orari, abbattendo traffico, smog e costo degli spostamenti urbani. Di questo sogno, al momento, esiste solo un parco dimostrativo tra i campi di Maryina Gorka, non lontano da Minsk. Gli accademici russi, lì vicino, non ci hanno mai creduto. Pure l’India ha detto picche. Solo chi può rischiare ci scommette, come lo sceicco del Dubai che il 30 aprile scorso ha annunciato un preaccordo con la società per costruire la prima linea al mondo. Alla notizia si festeggia anche in Italia. Da Messina a Milano, politici e amministratori locali hanno steso tappeti rossi agli emissari di SkyWay, salvo poi non farne nulla, secretare le audizioni per scansare accuse di creduloneria, diffidare chiunque dal citare un qualsivoglia impegno concreto verso i proponenti.

La saletta di Limbiate è però zeppa di gente comune, bombardata di pubblicità in rete su ritorni stratosferici. Crede alle parole di Emanuele Baroni, promotore e star della serata, quando dice che è il momento di scegliere: diventare oggi azionisti del trasporto del futuro o restare per sempre semplici passeggeri. Difficile distinguere tra sprovveduti e avvezzi al rischio, se sia per loro l’occasione della vita o d’essere spennati come polli. Il dubbio aumenta al ritmo delle promesse che piovono dal palco: fabbriche a 300 km di altezza, “città lineari” da costruire lungo le linee SkyWay. C’è anche un misterioso humus “grazie al quale l’erba cresce senza acqua, anche nel deserto”, e poi sementi di piante che “fai tre raccolti l’anno, e sostituiamo il petrolio!”. Il dubbio si fa quasi certezza. “Vi è chiaro che se qualcuno di voi ha una bella struttura sotto di sé può diventare schifosamente ricco?”. Baroni arriva così al sodo, e scatta l’applauso in sala.

Antiche piramidi

Sulle poltroncine siedono un centinaio di persone, i “nuovi” sono una decina. La maggior parte dei presenti ha frequentato altri meeting promozionali. Fanno parte di un network a piramide tipico dei multilevel marketing: più affiliati portano dentro, più guadagnano grazie alle provvigioni della struttura sotto di loro, mentre SkyWay si riempie le casse grazie ai versamenti di ogni affiliato. Un sistema che ricalca il classico “schema Ponzi” e prima o poi rischia di collassare, lasciando gli ultimi arrivati a bocca asciutta. Era successo alla Tucker, che anni fa vendeva in giro per l’Italia una marmitta spacciata per miracolosa. Ecco, Baroni era uno dei vertici di quella piramide, per via del suo crollo passò due mesi in carcere. In seguito fu assolto, come altri dirigenti, diversamente dai titolari, per i quali è stata accertata la truffa, salvo prescrizione. Dalle marmitte, Baroni è passato alle rotaie sospese. Ognuno di noi, dice, può acquistarne un pezzettino, non bisogna mica esser ricchi: per 2.700 azioni della SkyWay di Yunitskiy, ad esempio, basta versare 100 euro. Facile no? Ma attenzione, le azioni sono strumenti finanziari, non si possono vendere ai risparmiatori col passaparola. Il problema viene risolto nel 2014, quando dal sodalizio tra Yunitskiy e un esperto di multilevel crowdfunding ucraino nasce SkyWay Invest Group, sede nel paradiso fiscale delle Isole Vergini Britanniche, per vendere corsi di formazione e contestualmente “regalare” le azioni a chi li compra. La pensata è di tal Aney Khovratov, fondatore della “accademia dell’investitore privato” che può vantare un master in “realizzazione dei sogni”. Grazie ai suoi corsi, tutti possono diventare “geni della finanza”. È davvero così?

Geni della finanza

Per capirlo andiamo alla sede italiana di SkyWay Invest Group. Il sito la indica in viale Monza 258, periferia nord di Milano, ma lì non c’è alcuna insegna e al bar a fianco non hanno mai sentito parlare di SW. Sul sito c’è però un numero di cellulare: “Gli uffici sono in fase di ristrutturazione, vediamoci altrove”. In piazza Fidia, zona Isola, si presenta Antonio G., siciliano trapiantato a Milano, ufficialmente pensionato. In passato è stato coordinatore marketing in Asap, azienda sanzionata dall’Antitrust per attività di multilevel marketing. L’incontro avviene in un ufficio preso a prestito da un’agenzia assicurativa. Inizia dal catalogo dei corsi, per lo più lezioni online, ma c’è anche il fiore all’occhiello: il master Profi, una tre giorni dal vivo per 2.200 dollari. Meglio però acquistare il pacchetto da 6.200 dollari, che comprende 180mila azioni “in regalo”, la qualifica di consulente e di trainer del gioco “Genio della finanza”. È indispensabile per apprendere “le otto regole d’oro della finanza”: la n.4, ad esempio, suggerisce di diversificare gli investimenti (“non tenete tutte le uova in un cestino”). La 8 completa la serie con una raccomandazione definitiva: “Aumentare sempre il tuo capitale”.

Antonio guadagnerà su di noi. Dopo un po’ prende coraggio, affina le armi della persuasione fino a introdurci senza più schermi al lato oscuro del sistema. “Bisogna stare abbottonati – avverte – sostenere che stai vendendo corsi di formazione, mai dire ‘sì vendo le quote’. Poi alcuni neppure li fanno, io ne ho 400 così. Hanno comprato i corsi solo per avere le quote”. Sotto di sé ha una decina di affiliati ma da questi si è sviluppata una rete di oltre mille persone: “Persino in Perù. Ho fatto entrare un mio conoscente e solo da lì ne ho 300”. Antonio riceve una provvigione sui soldi versati a Sky Way da ognuno di loro: “L’8% dal primo livello, il 7% dal secondo e poi una quota da tutti, all’infinito”. Quanto si guadagna? “Più di mille euro al mese, senza impegnarmi troppo. Dalle 18 di ieri a questa mattina ho visto accreditare sul mio backoffice 220 dollari, senza far nulla”. Guadagni dichiarati o in nero? “In teoria devi pagare le tasse. Io qualcosa dichiaro, per sicurezza. Ma i soldi arrivano dall’estero, basta aprire un conto estero online. E sei solo uno straniero in vacanza in Italia”. Chi è in cima alla piramide? “Prende anche 40mila euro al mese”.

Soldi per tutti

“Diventare schifosamente ricchi”, diceva Baroni a Limbiate. Una promessa che continua ad attirare adepti e capitali, se è vero che la capitalizzazione di SkyWay – come si legge in una slide – è arrivata a 5 miliardi di dollari, con un incremento giornaliero negli ultimi quattro anni del 3%, merito del denaro rastrellato a livello mondiale. Così tanto che, garantisce il frontman di SW dal palco, “presto saremo anche una banca”. Di più. “Stiamo introducendo le Cryptounit, non una criptomoneta ma un’azione digitale. Una manciata di cent messi oggi nel 2028 varrà 1.250 dollari”. Chi è venuto ad ascoltare, ci crede. Qualcuno addirittura da Albenga, tre ore d’auto per arrivare e tre per tornare, in piena notte, insieme a un paio di amici: “Ho grande fiducia in questa start up”, confida. “Ho buttato tanti soldi in Borsa, ora almeno ho una prospettiva di guadagno”, dice un altro affiliato accorso per avere aggiornamenti sul suo “investimento”.

La Lega abbocca

A parole va tutto a gonfie vele. Certo, l’anfitrione Baroni omette che alcune opportunità sono sfumate. A Messina, dove l’idea di collegare Ganzirri a Pistunina con una linea SW è durata il tempo della campagna elettorale di Cateno De Luca. A San Marino, dove “la tecnologia è stata scartata perché presenta diversi problemi, i vagoni per esempio si spostano solo lungo linee rette. Senza curve”, dice Federico Cassani senior partner di Mobility in Chain, studio che sta lavorando al piano regolatore sul monte Titano. Ma i progetti avviati ci sono eccome, garantisce Baroni: “Lo scorso gennaio Regione Lombardia ha protocollato il progetto di una prima tratta tra Rho e l’area Expo, il 20 febbraio una delegazione politica è andata a Minsk per provare i treni e vedere gli stabilimenti”. Millanterie, in base alle verifiche fatte dal Fatto. In Regione però di SkyWay hanno sentito parlare per davvero. Il 7 marzo scorso tre rappresentanti di Yunitskiy sono stati invitati dal consigliere leghista Andrea Monti in commissione Trasporti. Erano emissari di SkyWay Capital, una struttura a piramide parallela che vende direttamente quote societarie. La seduta era pubblica, ma la Regione ha chiuso la saracinesca: il verbale sul sito non c’è, chiamando gli uffici si scopre che è stato secretato.

I fari di Consob

Resta la presa di posizione del consigliere del Pd Pietro Bussolati, l’unico a trasalire durante l’audizione sostenendo che gran parte di quanto veniva magnificato ai consiglieri era irrealistico e avvertendo che la Consob aveva ordinato l’interdizione di alcuni blog che sponsorizzavano l’acquisto della quote SkyWay. “Warning” analoghi sono stati emessi nei mesi scorsi dalle omologhe tedesca e greca. Sempre Consob a febbraio ha ordinato anche l’interdizione del sito di SkyWay Capital, che tuttavia è ancora online perché i server sono collocati fuori dalla Ue. Le due piramidi continuano così a proliferare, inglobando un investitore dopo l’altro, nonostante i fari della Consob, per prassi, attivino quelli delle procure.

“Credo che Grillo non verrà. Ha paura di confrontarsi”

Fammi una domanda alla volta, sono reduce da febbre e da un esperimento di cui parleró anche alla conferenza. Due mele e acqua per guarire”. Agostino Favari, 40 anni, laureato in ingegneria a Palermo, è l’organizzatore del convegno dei terrapiattisti che si terrà domenica in Sicilia.

Agostino, il terrapiattismo…

É la frontiera del complottismo, laddove i cosiddetti complottisti sono solo persone che nutrono dubbi sulle versioni ufficiali. Il vertice di tutti questi complotti, ordito da chi diffonde informazioni mainstream, è la terra piatta. É dimostrabile, numeri e carte topografiche alla mano. Mentre invece non lo è l’11 settembre (dimostrare che sia stata una congiura Usa, ndr) perché hanno rimosso tutti i residui delle torri. L’11 settembre è un po’ opinabile. La Terra piatta no.

Come nasce il suo interesse per queste teorie?

All’università mi sono avvicinato alla politica, ho capito che i politici facevano l’opposto di quanto dicevano. Anche le opposizioni, anche Grillo e i 5S. Così dentro di me c’è stata una rivoluzione. Ho iniziato a mettere in discussione tutto, anche l’11 settembre. Come è possibile che non abbiano preso Bin Laden vivo?

E la Terra piatta?

Ne sentivo parlare da tempo e ho deciso di verificare. Guardavo le nuvole: ma se la terra gira a 1600 chilometri l’ora, come mai non c’è una vorticosità attorno al globo? Come mai in alcuni giorni d’estate l’aria è ferma e non tira un filo di vento? Così mi sono informato, ho guardato video e documenti e poi ho voluto verificare a livello geometrico e topografico. Con i miei calcoli ho dimostrato che se la terra fosse sferica non avrei potuto vedere alcune isole all’orizzonte. Ho fatto i calcoli, con matita, carta e la mia capacità matematica e ingegneristica. Anche perché i calcolatori di curvatura online potrebbero essere alterati.

Perché non legare una telecamera a un pallone aerostatico?

Serve un’autorizzazione per far decollare un aereo in verticale e permettere alle persone di verificare da sole. Ma l’Enac non ce la dà. Io dico: dateci un’area in Sicilia dove non passano aerei o diteci gli orari e noi decolliamo in quegli orari.

Smascherereste il complotto…

Esatto, l’ennesimo raggiro elaborato o a fini positivi o negativi, sto cercando di capirlo.

In che senso?

Ultimamente sono orientato a pensare che c’è un fine positivo dietro. Chi è in cima alla piramide del potere potrebbe solo voler aspettare che noi ci accorgiamo di questi inganni, come il padre che guarda il figlio che gattona e aspetta che inizi a camminare.

E perché?

Dovremmo chiederlo a loro. Dovrebbero darmi la possibilità di intervistare i capi delle banche centrali o del fondo monetario.

Domenica prevede partecipazione?

La sala a Palermo è di 100 posti. Beppe Grillo ha detto che verrà. O scherza o viene per fare un comizio con parole taglienti. Dubito venga per confrontarsi con noi. Avrebbe paura di un confronto con tempi equi. Le persone hanno paura dei fatti.

Ha mai il dubbio che i suoi esperimenti siano fallaci?

Li ho verificati tante volte.

E chi non ha la preparazione matematica perché dovrebbe credere ai suoi calcoli?

Tanti terrapiattisti non hanno la capacità di farei calcoli. Ma poi pensano: esiste una legge che impedisce di andare in Antartide. Vogliono nasconderci la verità. E così hanno quasi una prova.

Terrapiattisti, l’inganno del grande inganno

L’equazione è semplice: “L’acqua non curva, quindi la terra è piatta”. È semplice, ma non tiene conto delle basilari leggi della fisica ed è infatti una di quelle equazioni promosse da chi crede che la Terra sia piatta. Il 12 maggio, a Palermo (comune che ha già preso le distanze dall’iniziativa) ci sarà il congresso italiano dei terrapiattisti. Si riuniranno in un hotel del centro (“Garibaldi – si legge in un post – l’eroe dei due mondi discoidali”), terranno interventi suddivisi in quattro sessioni, pranzeranno nel giardino Inglese con i relatori (“ma è facoltativo” specificano), parlaranno “dell’ assenza della curvatura terrestre”, introdurranno “all’astronomia zetetica” e alla “free energy”. Pare ci andrà di mezzo anche l’egocentrismo della stella polare.

Chi sono e cosa credono

Persone normali, laureati, diplomati, impiegati, anche con un livello di istruzione medio alto. Che, però, credono che il polo sud non sia altro che una parete di ghiaccio che circonda una enorme distesa di terra e acqua e che il sole e la luna siano soltanto delle luci che si muovono in circolo nel cielo dentro una enorme cupola ricoperta di stelle. Sostengono le loro teorie sull’empirismo, ritengono che sarebbe impossibile – se la terra fosse curva – riuscire a scorgere una città a chilometri di distanza visto che in teoria dovrebbe essere su un altro versante del globo. Non esiste rifrazione, non esistono gli effetti della luce e delle condizioni atmosferiche, non c’è legge della fisica che tenga. O se ci sono, i loro calcoli dimostrano sempre che quanto scritto e calcolato finora era sbagliato. “Quello che ci rende sempre più forti e che ci sta facendo vincere – dice Mark Sargent, uno dei volti mondiali più noti del terrapiattismo, nel documentario Behind the Curve – è che la scienza ha problemi a confutare quello che facciamo. Vinciamo contro la scienza perché la scienza risponde solo con formule matematiche mentre noi puntiamo il dito verso l’orizzonte e diciamo ‘Hey, quella è Seattle’. Questo è tutto: un’immagine vale più di mille parole”.

La storia e l’evoluzione

“Le teorie terrapiattiste – ci spiega Massimo Polidoro, segretario nazionale del Cicap (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze ) – si possono far risalire agli albori della civiltà sumera, all’idea che la terra fosse una superficie. Eppure, già dal sesto secolo avanti Cristo, che la terra fosse sferica era assodato. Lo si capiva dallo studio dei movimenti del sole, dalle ombre, dagli oggetti che si avvicinavano all’orizzonte”. Una convinzione che poi si è trasmessa per secoli. “Non è vero, ad esempio, che nel Medioevo si credeva che fosse piatta. Anche perché, se così fosse, non avrebbe avuto senso la spedizione di Colombo alla scoperta delle Indie che, in pratica, si basava proprio sull’idea di raggiungerle facendo il giro inverso della Terra” spiega Polidoro.

Le cose cambiano intorno alla metà dell’Ottocento quando Samuel Rowbotham, un eccentrico divulgatore inglese, pubblica un libretto di 16 pagine in cui sostiene che la Terra sia piatta. “Una interpretazione che serve a confermare la veridicità della sua fede religiosa – spiega Polidoro -. Rowbotham riteneva che astronomia e fisica fossero roba da atei”. Il libretto si intitola “Astronomia Zetetica: la Terra non è un globo” e da qui arriva l’aggettivo “zetetica” (dal greco zêtêin, che significa indagare) usato per definire la sua visione dell’astronomia: la Terra come un disco piano, con il Polo Nord al centro e il Sud costituito dalla circonferenza del cerchio. Negli anni, il libretto viene stampato diverse volte fino a diventare un volume di 430 pagine. E alla morte di Rowbotham nasce la Universal Zetetic Society che pubblica anche una rivista. Con le guerre mondiali, il movimento va in contro un progressivo declino.

Lo scontro con la Nasa

Tutto si rivitalizza intorno agli anni 50. Nel 1956 un membro della Royal Astronomical Society, Samuel Shenton, fonda la Flat Earth Society, proprio a ridosso delle scoperte della Nasa. Ci sono i primi satelliti in orbita, le missioni nello spazio, diventa sempre più difficile continuare a sostenere che la Terra sia piatta, le evidenze scientifiche a quel punto non sono più solo studi matematici ma anche osservazione. Con lo sbarco sulla Luna arriva il colpo finale. “Ovviamente chi crede che la terra sia piatta crede anche che sulla Luna non ci siano mai andati” spiega Polidoro. Insomma, anche se le fila dei terrapiattisti si ingrossano un po’, le evidenze continuano a surclassare il complotto. Che negli anni Novanta è circoscritto e tutto sommato ancora trascurabile.

Quando tutto cambia

Tutto cambia nei primi anni 2000. Internet, Youtube e i social media fanno cadere i confini globali. “I primi a commentare e a portare avanti le loro teorie antiscientifiche sono troll – spiega Polidoro -. Sono innocui, commentano le scoperte. Ma i social acuiscono la polarizzazione, bene o male che sia, si comincia a parlarne. E più si polarizza la discussione, più se ne parla e più crescono comunità pro e contro. E nasce un nuovo pubblico”. Si chiama cascata del consenso e, purtroppo, funziona.

I prodotti su misura

In effetti la rete è piena di prodotti sulle teorie terrapiattiste. Youtube si riempie presto di video in cui si spiegano con quali indizi sia possibile dimostrare che la Terra è piatta (“Perché non ci sono voli oceanici diretti ?” ), podcast, interviste che i terrapiattisti fanno tra loro (“I dinosauri sono una invenzione”), siti web con mappe e spiegazioni dettagliate sul complotto mondiale per nascondere la verità con foto e videomontaggi per confondere le idee (“Nasa in ebraico vuol dire ‘inganno’”). La pagina Facebook “Flat Earth”, che ha un forte taglio religioso, oggi ha 227mila follower. L’ultimo video pubblicato, a fine aprile, vuole dimostrare che l’11 settembre fosse già deciso.

In Italia, oggi, il gruppo Facebook più attivo si chiama “Terra magick, I Terrestri del Grande Geoide Geocentrico” ed è composto da circa 7400 utenti. Anche qui teorie, meme su chi non crede alle teorie e iniziative. Stanno raccogliendo 10 euro a testa per lanciare a 40 chilometri d’altezza un pallone sonda. “Lo scopo del progetto ATI – spiegano – è progettare, costruire e lanciare un pallone sonda con strumentazione scientifica per l’osservazione della terra dalla stratosfera alla quota stimata di 40.000 metri e di recuperare al rientro i diversi componenti”. Data e ora e luogo saranno comunicati una volta raccolto budget e permessi, specificano.

Cosa c’è davvero sotto

É una sorta di complotto del complotto. Si convincono, e riescono a convincere gli altri, che la scienza sia pilotata, che gli astronomi siano tutti d’accordo per nascondere al mondo che la Terra è piatta. “E più se ne convincono più, per quel fenomeno che si chiama dissonanza cognitiva, cercano e producono prove che rafforzano le loro convinzioni. Semplicemente ignorando le prove che vanno contro ciò in cui credono” dice Polidoro. Si tratta comunque di una platea molto vasta. Secondo una indagine 2018 in Usa, circa il 2% degli intervistati crede che la Terra sia piatta. E non si tratta solo di ignoranza. “Dietro c’è una diffidenza generalizzata che si ritrova in tutti gli ambiti. Viene portata al limite, si uniscono elementi e teorie totalmente scollegati tra loro. E i social creano e amplificano quelle che sono definite camere dell’eco, dove tutti si danno ragion e si incontrano perché credono nella stessa cosa, rafforzando le loro convinzioni”.

Soluzione cercasi

Deriderli, però, non è la soluzione. “I complotti ci sono sempre stati così come casi reali di insabbiamenti e alterazione della realtà. La differenza è che quando erano reali, sono stati scoperti” continua Polidoro. In sostanza, il senso critico, lo spirito combattivo, lo scetticismo sono spinte virtuose e sicuramente utili per la società. “Ma hanno bisogno di essere incanalate in binari seri”. Il bisogno di sentirsi parte di una comunità fa sì che queste credenze si autoalimentino. E più le si stigmatizza, più si rinforzano. “Per questo è importante non deriderli. Tutto nasce da bisogni profondi e sentimenti che avrebbero anche una utilità”. Forse, con pazienza, sarebbe utile spingere a verificare. In fondo, basta poco. Un drone collegato a un pallone aerostatico, non certo un razzo. Ma segnerebbe la fine dell’illusione.

La Lega di Salvini all’assalto della ricca e rossa Modena

Matteo Salvini vuole la vittoria a tutti i costi. Schiacciante, forte, senza mezzi termini. “A Modena – ha minacciato venerdì chiudendo il suo comizio in città – faremo un museo della sinistra e dei comunisti”. Dal palco ha recitato la solita parte. Quella del “prima gli italiani”, ovviamente modenesi, ha randellato i centri sociali al grido di “Zecche” e repertorio solito di insulti, ha magnificato la sua amicizia con il leader ungherese Orban e il suo filo spinato, il Far West della legittima difesa, e si è fatto i selfie. Ma questo è solo il copione buono per la piazza, perché il resto parla di una strategia più sottile per conquistare il sindaco della città governata ininterrottamente dal 1946 dal Pci e dai suoi eredi.

Salvini sa che una realtà come Modena non la conquisti con le urla e gli slogan da operetta. In una realtà che ha 73mila imprese che fatturano 13 miliardi di export, o parli con i ceti che producono ricchezza, e li convinci con proposte serie, oppure sei condannato alla marginalità. Chi ha costruito un sistema città dove il reddito pro capite è di 263.89 euro, non si accontenta di chiacchiere e distintivo, vuole progetti per affrontare il futuro. Un nuovo patto tra produttori. Come fece Palmiro Togliatti nel 1946, quando in un teatro a Reggio Emilia, indicò la strada ai comunisti emiliani reduci dalla resistenza in montagna. “Noi vogliamo che venga lasciato un ampio campo allo sviluppo dell’iniziativa privata, soprattutto del piccolo e medio imprenditore”, disse “il migliore”. A Modena il messaggio venne raccolto dal partigiano Alfeo Corassori, che fu primo cittadino dal 2 giugno del 1946 fino al 1962. Dalla ricostruzione della città fino agli albori del boom economico, certamente il sindaco più amato dai modenesi. E oggi, almeno nelle intenzioni di Salvini, tocca a Stefano Prampolini, 62 anni, commercialista, tentare di ripetere il miracolo, disegnare la città destinata ad affrontare la sfida dei prossimi decenni. Prampolini è un cattolico moderato, nel recente passato ha avuto stretti rapporti con Carlo Giovanardi, salvo poi mollarlo nella fase della costruzione della coalizione e lasciarlo solo con la sua lista Identità e azione. “Non sono iscritto a nessun partito”, ripete come un mantra nelle interviste. Ai “produttori” promette di snellire la burocrazia, di “tagliare lacci e lacciuoli”. Obiettivo la semplificazione e la “valorizzazione delle aziende che creano valore aggiunto”. Perché “Modena è un brand, non solo motor valley e Ferrari”. Prampolini, che già si presenta come “sindaco”, attacca il “sistema di potere del Pd”. “Che qui governa da settant’anni, la macchina comunale è ingessata, noi puntiamo alla competenza, non all’appartenenza”. E si presenta come il leader di una nuova classe dirigente pronta a sostituire gli ex comunisti e a garantire gli interessi del vasto mondo imprenditoriale e industriale. Ma con un occhio rivolto anche ai ceti più bassi. “Asili nido gratis per le mamme che lavorano. Perché le rette costano troppo e dissanguano le famiglie, mettendo in discussione il nostro tenore di vita”.

Quindi sicurezza (nelle classifiche la città è al 60esimo posto) e “controllo dell’immigrazione incontrollata”. Detto, però, senza le asprezze salviniane, ma moderatamente, perché Modena è una città dove vivono 28mila immigrati, il 15% della popolazione. Energie indispensabili per l’industria, l’agricoltura e l’agro alimentare. Prampolini dovrà vedersela con altri sei candidati a sindaco, ma la partita è tra la sua coalizione (Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia e la civica Siamo Modena), e il centrosinistra con sette liste. I Cinquestelle, che alle scorse comunali al primo turno bloccarono Gian Carlo Muzzarelli al 49,7% costringendolo al ballottaggio, appaiono fuori gioco. Muzzarelli è un ex bancario in politica da sempre, sa che la partita è impegnativa. “Salvini e Prampolini dicono che devo già preparare gli scatoloni per andar via, li deluderò”, dice sorridendo. Il suo programma si apre con un “Dai Mo’”. Parla di “Modena città aperta”, di innovazione e di auto elettrica, rassicura il mondo delle imprese e delle cooperative sul “buongoverno”, cita l’Europa, insomma ripropone se stesso e il Pd come gli unici che possono conservare quel sistema fatto di produzione, innovazione, e welfare, che è stato alla base dello sviluppo della città. Ma sul palco dove sabato si è guadagnato l’abbraccio di Nicola Zingaretti e il sostegno di Carlo Calenda, lancia un avvertimento al “moderato Prampolini”. “’Lei, Prampolini, sapeva o no dei dossieraggi nati nella fogna? Cosa pensa dei suoi colleghi di partito, quei dossier sono una vergogna. Prima di fare la morale a noi e ai modenesi fate i conti con gli indagati e tagliati i ponti con i fascisti e vergognatevi”. Si tratta di una brutta storia di dossier falsi per colpire il sindaco Pd della vicina Carpi, costruiti, secondo una inchiesta della magistratura, dal vicesindaco Pd della città in combutta con un esponente della Lega. Carte passate ai giornali nelle quali comparirebbe anche il nome della moglie del sindaco Muzzarelli.

Modena laboratorio, anche per i Cinquestelle. Che si presentano da soli e senza grande sostegno da Roma che per il momento ha deciso di non impegnare leader di peso. Il loro candidato sindaco è Andrea Giordani. È un operaio saldatore che vive al quartiere Crocetta, periferia con mille problemi legati alla sicurezza. Ha una visione chiara della sua città. “Dobbiamo avere la capacità di guardare a cosa accadrà nei prossimi dieci anni, prevedere gli effetti dei cambiamenti e affrontarli”. Siamo in Piazza Grande e Giordano si guarda intorno. “Questa è Modena ma se ti sposti di pochi chilometri incontri una realtà diversa. Questa è già una città cosmopolita, non basta dire prima i modenesi bisogna governare i processi. Il Pd è al potere da 70 anni e da tempo ha perso la capacità di leggere i cambiamenti. Si sono accasciati su se stessi amministrando l’esistente. Le scelte per affrontare il futuro, e lo dico anche guadando al sistema produttivo modenese, vanno fatte oggi”. Qui i Cinquestelle potevano costruire una coalizione con altre due liste civiche, Modena volta pagina, orientamento di sinistra che va da sola e candida Carolina Coriani, e Modena Ora di Cinzia Franchini, che raggruppa anche i dissidenti leghisti. Ma arrivò il niet da Roma e per il M5S Modena non fu laboratorio.

“Aspettiamo che il vento cambi, poi torneremo noi”

Il partito fa flop e lei, Stefania Prestigiacomo, si ritrova a spasso.

Corna e bicorna

È un’ipotesi

Gli italiani ci voteranno turandosi il naso. Lo faranno per disperazione dopo aver visto questi all’opera. Sono strasicura

Mettiamo che Forza Italia venga inghiottita dalla Lega.

Nessun problema. Mi rimetto in pista. Ho un sogno: aprire un’attività nel settore del turismo. La Sicilia è un’isola fantastica e io vivo in una città (Siracusa) che è veramente una perla.

E lei, Anna Ascani? Ha vissuto i fasti dell’età renziana. Ora il Pd sembra svanire nella nebbia dell’opposizione. Di lei cosa ne sarà?

Non esiste una realtà che non veda protagonista il Pd. Quanto a me: mi ritroverebbe insegnante in una scuola. Esattamente quel che ho sempre immaginato di fare

Ma due debolezze possono unirsi e – unendosi – fare una forza.Prestigiacomo “La fa facile lei. Zingaretti è troppo di sinistra. E poi come può pensare che Forza Italia, il perno del centrodestra, venga escluso da un’alleanza di cui è fondatrice? La Lega cos’è? Un colpo di tosse di un’Italia ammalata. Salvini è un bravo propagandista e poco altro. L’immortalità, nel senso di un movimento che resiste al tempo, è di Silvio Berlusconi. Lui ha cambiato il Paese”

Ascani “Non mi sembra che Forza Italia abbia un futuro. Il partito democratico non può immaginare come possibili alleanze così lontane”

P. “Non fatevi abbagliare dai tre casi siciliani delle ultime amministrative. Sono episodi molto locali, neanche io la vedo bene col Pd”

A. “Noi dobbiamo soltanto inventarci una parola d’ordine che ci faccia riconoscere. Parli di sicurezza e immigrazione? Pensi alla Lega. Parli di reddito di cittadinanza e di lotta alla casta? Pensi ai Cinquestelle. Quando parli del Pd a cosa pensi? Dobbiamo dare una immagine forte, una parola simbolo: la scuola, la cultura! Qualcosa che sia immediatamente riferibile a noi”

P. “Come fanno i leghisti senza di noi? Ma vogliamo scherzare? Ora, non per dire, ma vedendoli all’opera uno si mette a piangere dalla rabbia. Io sono mille volte più brava. Sono stata ministro, non ho alcun dubbio che oggi, dopo tanta esperienza in Parlamento, sarei assai più competente e capace”

A. “Noi del Pd dobbiamo farcela da soli. Puntare a divenire forza maggioritaria. Non c’è altra scelta. Io con i Cinquestelle non vado neanche al bar. Non per presunzione, supponenza o che so. Ma questo movimento è figlio di una srl il cui leader è tale perchè è figlio del fondatore. Ma scherziamo?”

P. “Salvini al Sud ha preso gente alla deriva, personaggetti che hanno militato in Forza Italia e ora cercano una casuccia nuova. Ma non sfonda. La gente mi ferma per strada e mi dice: ridò il voto a voi”

A. “Non dobbiamo farci infinocchiare dalla propaganda, né guardare ai sondaggi. La loro è una bolla, e noi del Pd dobbiamo avere la forza di resistere prospettando un’alternativa secca”

P. “Venticinque anni fa ero poco più che una ragazza. Sono stati anni bellissimi e io tanto fortunata a incontrare Berlusconi”

A. “La Gruber mi chiamò nel 2013: ero la più giovane candidata del Pd. Adesso ho trentuno anni, faccia lei il conto”

P. “Tutti a dire della bellezza, parlare delle donne di Forza Italia sempre sotto l’aspetto fisico. Quante me ne avete dette. Bella e un po’ così. Molto borghese, buona famiglia, le solite cose. A parte che da ragazza sono stata parecchio trasgressiva (anche ora in un certo senso), diciamo un po’ scapigliata. Mio padre dovette mandarmi in collegio per impedirmi di frequentare brutte compagnie”

A. “Io sono nata vecchia,. A vent’anni avevo già le rughe. Ora che ho superato i trenta qualcuna in più. Ma non mi frega”

P. “Le rughe me le tengo. È la vita, ed è giusto che si sappia apprezzarla. Mi sento più completa, naturalmente più matura”.

A. “Sono vicepresidente del partito, alla mia età non è poco. Di cosa dovrei dispiacermi? So che tutto passa. È passato Renzi, passerà anche Zingaretti. Figurarsi io”

P. “Ho messo nel conto di lasciare. Esiste una second life. Ho già le idee di cosa fare insieme a mio figlio. Progetti imprenditoriali, impegni a cui dedicarmi perchè so che finirà”

A. “Per adesso finisco il dottorato di ricerca. La filosofia politica è la branca del mio studio. Poi, se le cose dovessero andare male in politica, tornerei al mio grande amore: la scuola e l’insegnamento”

P. “Comunque io ci credo ancora”

A. “In Umbria, a Città di Castello, la Lega è giunta al 21 per cento partendo dallo zero virgola qualcosa. In un anno è cambiato tutto. Questo significa che il nostro è un tempo veloce. Se è cambiato così in fretta a loro favore, potrà pure darsi che poi il vento spiri da questa parte”

P. “Sa che la Capitaneria di porto di Siracusa mi ha multato perchè siamo saliti sulla Sea Watch contravvenendo agli ordini di Salvini? Una multa da ridere. Mi pare siano tremila euro, non so per quale infrazione. A me e Nicola Fratoianni, ricorda la nave dei migranti?”

A. “Con i Cinquestelle non c’è nessuna possibilità di intendersi, ma siamo seri: chi mai oggi può vedere un futuro per Forza Italia?”

P. “Io domando: chi mai oggi può vedere un futuro per Salvini senza Forza Italia?”.