Sharif&C: Roma ha la lista degli assassini di Regeni

La rivelazione di un super testimone forse non scalfirà il muro di gomma alzato dal governo egiziano sul caso Regeni, ma potrebbe farne Il testimone chiave. L’uomo avrebbe ascoltato, per caso, durante un pranzo, la confessione di uno dei 5 agenti iscritti nel fascicolo dell’inchiesta della procura di Roma sull’omicidio del ricercatore friulano. “Regeni l’abbiamo sequestrato noi”, avrebbe detto l’agente spiegando a una terza persona che il ragazzo sarebbe stato scambiato per “una spia inglese”. “L’abbiamo caricato in auto e picchiato. Io stesso l’ho colpito più volte”, avrebbe quindi aggiunto , senza sapere di essere ascoltato per giunta da una persona. I 5 agenti iscritti, nel dicembre del 2018, nel registro degli indagati, a Roma, sono ufficiali appartenenti al dipartimento di Sicurezza nazionale (servizi segreti civili) e all’Ufficio di investigazione giudiziaria del Cairo (polizia investigativa). Secondo quanto riportato dal Tg La 7, l’agente menzionato dal super testimone, sarebbe Sharif Magdi Abdelal, 35 anni, ufficiale della National Security, il servizio segreto interno egiziano, che ha ammesso di essere stato uno dei rapitori di Giulio Regeni. La novità emergerebbe dai documenti appena inviati dalla Procura di Roma a quella del Cairo, sui quali l’altro ieri c’è già stato un primo confronto telefonico tra il premier Conte e il presidente egiziano Al Sisi. Sempre per il tg di Mentana, il testimone non è italiano e si trovava nell’estate del 2017 in Kenya, a Nairobi, dove si sarebbe trovato casualmente ad ascoltare una conversazione nel tavolo accanto al suo. Un pranzo in cui Sharif Magdi, chiacchierando della situazione politica egiziana e della lotta all’opposizione, ha messo se stesso al centro del sequestro Regeni.

La procura di Roma, ritenendo credibile quanto affermato dalla fonte, ha inoltrato venerdì all’Egitto una rogatoria in 12 punti, nell’ambito del lavoro di condivisione giudiziaria con la procura del Cairo, che comprende elementi investigativi e spunti da approfondire.

Per gli inquirenti italiani ci sarebbero indizi sufficienti a ipotizzare il coinvolgimento del anche del generale Sabir Tareq, del colonnello Uhsam Helmy, dell’assistente Mahmoud Najem e del colonnello Ather Kamal. Finora ci si era basati essenzialmente sui tabulati telefonici e le testimonianze raccolte in Egitto. Ora si aggiunge questa prova testimoniale, sebbene de relato, che conferma e arricchisce il quadro probatorio costruito fino ad ora.

Secondo quanto si apprende da fonti giudiziarie, della nuova rogatoria fanno parte elementi che nascono dagli ultimi 7 mesi dell’attività di Ros e Sco, tre memorie frutto del lavoro difensivo della famiglia di Giulio, depositate tra marzo e aprile, e alcune dichiarazioni di recente acquisite dagli investigatori, coordinati dal pm Sergio Colaiocco.

Salvini: “M5S taccia”. Di Maio: “Se ne vada”

Il sottosegretario leghista Armando Siri, indagato per corruzione e saldamente oscillante al suo posto, continua ad agitare la maggioranza gialloverde. Chi pensava che con la presa di posizione del premier Conte la vicenda fosse avviata verso un esito scontato (le dimissioni), ha dovuto ricredersi in fretta con il botta e risposta domenicale tra i due vicepremier.

La giornata inizia con il leghista Matteo Salvini, in tour elettorale in Toscana, che difende Siri: “Io sono abituato a non abbandonare mai gli uomini con cui si è fatto un pezzo di strada insieme, e questo vale a livello locale come a livello nazionale”. Mentre in un’intervista al Corriere aveva già alzato una nuova asticella per le dimissioni di Siri: “Almeno un rinvio a giudizio. Non si dice una condanna in terzo grado, ma almeno un rinvio a processo. In caso contrario, la democrazia corre dei rischi”. I Cinquestelle rispondono così con un post infuocato sul Blog delle Stelle in cui, senza mezzi termini, chiedono alla Lega di “tirare fuori le palle” e di “far dimettere” Siri.

Una linea ripresa anche da Luigi Di Maio, ospite di Mezz’ora (Rai Tre): “È bello fare il forte con i deboli, ma questo è il momento del coraggio”, dice il leader M5s definendo “inutile” la sfida della conta in Consiglio dei ministri. “Io non solleverò nessuna crisi di governo, se vogliono farlo loro, l’ultimo che ha sollevato una crisi su un indagato è Mastella”, è la provocazione di Di maio. Un botta e risposta che prosegue fino a tarda serata. “Gli amici dell’M5s pesino le parole – replica Salvini – Questo governo va avanti 5 anni, basta che la smettano di chiacchierare e rompere le scatole”. Per poi aggiungere: “Mi dicono ‘tiri fuori le palle’? Ricevo buste con proiettili per il mio impegno contro la mafia. Tappatevi la bocca, lavorate e smettete di minacciare il prossimo. È l’ultimo avviso”, tuona Salvini.

Parole che scatena Di Maio, ospite in serata di Non è l’Arena (La7). “Con la corruzione non ci si tappa la bocca, si parla e si chiede alle persone di mettersi in panchina. Ora si faccia fare un passo indietro prima del Cdm”, sottolinea il leader M5s, ricordando di avere la maggioranza assoluta.

Intanto la partita su Siri è tutt’altro che chiusa con unConsiglio dei ministri – che dovrebbe tenersi mercoledì (non c’è ancora stata la convocazione ufficiale) – diventato di cruciale importanza per la tenuta del governo.

Siri, il palazzo con il mutuo e il denaro da San Marino

C’è un mistero negli affari immobiliari del sottosegretario Armando Siri legati a un finanziamento ricevuto da San Marino. Che garanzie ha dato il leghista, indagato per corruzione nell’inchiesta con al centro il faccendiere Paolo Arata, per ottenere un mutuo da 585.300 euro da una banca sammarinese senza l’accensione di un’ipoteca? E perché prontamente il notaio che fa il rogito segnala l’operazione sospetta alla Uif, unità di informazione finanziaria di Bankitalia che indaga sul riciclaggio di denaro? A chiedersi come il senatore sia riuscito ad acquistare a Bresso, in provincia di Milano, una palazzina di due piani (composta da 7 appartamenti, un negozio, un laboratorio e alcune cantine) è la trasmissione Report – in onda questa sera su Rai Tre – con un’inchiesta firmata da Claudia Di Pasquale, con la collaborazione di Lorenzo di Pietro, Norma Ferrara e Aldo Ciccolella.

La compravendita della palazzina residenziale di mille metri quadrati nel piccolo Comune a Nord di Milano c’è stata lo scorso 31 gennaio quando il senatore leghista ha intestato la proprietà alla figlia di 25 anni. Il denaro, come scritto nell’atto, è stato messo a disposizione dal padre, a titolo di liberalità, pertanto non soggetto all’imposta di donazione. Poi separatamente la ragazza ha firmato una procura irrevocabile al padre a vendere l’immobile a se stesso o a terzi. Ma l’operazione è stata subito segnalata come sospetta dal notaio. Una denuncia che si fa quando, tra le altre cose, si sospetta la provenienza dei capitali illeciti. I 585mila erogati per il mutuo sono un importo assai elevato, soprattutto perché non è presente una garanzia reale nell’atto, come un’ipoteca o la fideiussione. E questa è quantomeno una procedura atipica, anche se l’avvocato del senatore Siri, contattato da Report, ha sottolineato la correttezza dell’operazione. Eppure, in base alle verifiche effettuate, i soldi ottenuti per l’acquisto della palazzina provengono da un conto intestato a Siri presso la Banca agricola commerciale di San Marino, il cui direttore dallo scorso luglio è Marco Perotti, uomo molto vicino al sottosegretario. Ma Siri è riuscito a schermare l’operazione facendo aprire un altro conto corrente al notaio, come permette la legge, sui cui poi sono transitati i 585mila euro. Una bella somma per l’ideologo della flat tax che, come emerge dall’unica dichiarazione dei redditi pubblicata sul sito del Senato, nel 2017 ha dichiarato solo un reddito di 25mila.

Inoltre Siri dal 2011 – anno in cui l’Inpgi (l’ente di previdenza dei giornalisti) gli ha portato via la casa per un debito di 45mila euro – a luglio 2018 non risulta possedere immobili, mentre tre anni e mezzo fa ha patteggiato una pena per bancarotta fraudolenta per il fallimento della MediaItalia, trasferendo il patrimonio a un’altra impresa la cui sede legale è stata poco dopo spostata nel Delaware, paradiso fiscale Usa.

A gestire la vendita dell’intera palazzina, posseduta da due fratelli, è stata la società immobiliare di Policarpo Perini. Uomo vicino al sottosegretario. L’agente, infatti, nel 2013 si è candidato a sindaco di Bresso con Pin, il Partito Italia Nuova fondato da Siri prima di entrare nell’orbita della Lega. Ma è anche il padre del capo segreteria del sottosegretario Siri, Marco Luca Perini, attuale presidente di Spazio Pin, l’associazione che oltre a gestire i corsi di formazione della Lega, affitta anche sale per master di ipnosi, sedute di meditazione, corsi per massaggi. E che ha acquistato con 14.700 euro il solaio di 27 metri quadrati della palazzina.

Ma è Siri ad aver fiutato l’ottimo affare: non solo ha comprato l’immobile pagandolo 175mila euro in meno del prezzo richiesto di 760mila, ma ora è proprietario di una struttura il cui prezzo di mercato arriva a superare un milione di euro. Inoltre la proprietà produce già reddito, visto che 5 dei 7 appartamenti, che in tutto misurano 402 metri quadrati, sono già affittati.

Ma mi faccia il piacere

Suffragio particolare. “Banalizzano e fanno decidere gli incompetenti: perciò sono contro i referendum” (Sabino Cassese, giudice costituzionale emerito, Il Dubbio, 30.4). Si può sempre fare una legge per levare il diritto di voto a tutti gli italiani fuorchè a Sabino Cassese.

L’incensurato pregiudicato. “Chi è indagato deve restare al suo posto… Siri è stato trattato dai media come un condannato definitivo” (Giulia Bongiorno, Lega, ministro dei Rapporti col Parlamento, Repubblica, 1.5). Manco avesse patteggiato 1 anno e 8 mesi per bancarotta fraudolenta e sottrazione fraudolenta di beni all’imposizione fiscale.

Congiuntivite. “Il congiuntivo? Non mi ha mai dato da mangiare” (Antonio Razzi, ex deputato Idv e Pdl, ora concorrente a Ballando sotto le stelle, Nuovo, 27.4). Se era per quello, era già morto di fame.

Pizza e fichi/1. “Noi a Parma non abbiamo neppure mancato l’appuntamento delle firme sull’euro, che sono state raccolte a centinaia” (Federico Pizzarotti, allora sindaco M5S di Parma, 3.2.2015). “Su tanti temi i 5Stelle cambiano idea a seconda del momento… Addirittura avevano indetto un fantomatico referendum per uscire dall’euro e non si è mai saputo che fine avessero fatto le firme o se le avessero raccolte. La posizione dei 5Stelle è sempre opportunistica per definizione” (Federico Pizzarotti, ora sindaco ex M5S di Parma, candidato alle europee per +Europa e alleato del Pd alle Regionali, Otto e mezzo, La7, 29.4). Invece chi raccoglie le firme per uscire dall’euro e poi si candida con la lista +Europa è coerente per definizione.

Pizza e fichi/2. “Di Maio farà la fine di Renzi” (Federico Pizzarotti, sindaco di Parma, ex M5S ora candidato con +Europa e alleato alle regionali col Pd, ibidem). Ma potrebbe andargli pure peggio: fare la fine di Pizzarotti.

Colpa di Virginia. “Ho preso un pezzo di porfido sporgente e il cellulare mi è saltato fuori dalla tasca. Le strade di Milano sono una tragedia: in due anni e mezzo, avrò forato una ventina di volte. In un paio di occasioni mi è esploso letteralmente il copertone” (Carlo Tedeschi, ex imprenditore, ora rider di Giovo a Vigevano, La Verità, 3.5). Diavolo di una Raggi: riesce a bucare anche le strade di Milano.

Il nemico alleato. “Buona visita al ministro Salvini ai cantieri del Tav: magari se riesce porti pure il suo collega Toninelli, così si rende conto della situazione. Ora, alla Camera la prossima settimana la Lega voti a favore della mozione del Pd che chiede di dare il via libera ai bandi di gara per continuare i lavori della Tav, così non ci saranno più dubbi. Basta parole, servono fatti!” (Sergio Chiamparino, governatore Pd del Piemonte uscente, 24.1). “Frenare l’onda leghista: è questa la carta che può farci vincere” (Chiamparino, Repubblica, 29.4). “Salvini? Con uno che definisce derby il 25 Aprile non prendo neanche un caffè” (Chiamparino, La Stampa, 29.4). Però ci faccio il Tav.

Paghi tu? “Quel che Grillo non sa di Radio Radicale. La trasparenza, la disintermediazione, l’informazione senza filtri: il M5S vuole chiudere un’emittente che ha anticipato i suoi principi” (Roberto Saviano, l’Espresso, 28.4). Tranne uno: l’informazione privata o di partito non la paga lo Stato.

Primo Meno. “I soliti teppisti No Tav con Askatasuna, accompagnati da consiglieri comunali e regionali dei 5Stelle, hanno partecipato al corteo del Primo Maggio con un unico scopo: far abbandonare il corteo al Pd. Poi è arrivata la polizia che gli ha fatto assaggiare i manganelli… finalmente!” (Joseph Gianferrini, vicepresidente Pd a Torino, Facebook, 1.5). È l’ultima svolta del più grande partito della sinistra italiana: Falce e Manganello.

Betulla colpisce ancora. “Il feroce Califfo dell’Isis è solo un ciccione che si tinge. Al Baghdadi nel 2014 era magro e aveva la barba nera. Dopo la sconfitta in Siria ha messo su chili ed è rossiccio e brizzolato. Semplicemente: è brutto” (Renato Farina, Libero, 1.5). Immediata la replica dell’Isis: “A Fari’, sei bello tu: ma te sei visto?”.

Il titolo della settimana. “Luigi Di Maio: castrazione chimica non serve, aumentare pene” (SkyTg24, 29.4). È una parola.

Il fotografo di moda e il poeta: la strana coppia Schatzberg/Dylan

I libri, se sono riusciti, non invecchiano mai. Se poi raccontano e fotografano momenti irripetibili, di quelli che hanno lasciato un segno indelebile nella memoria del mondo, a riprenderli in mano anche a distanza di qualche mese dalla loro uscita si offrono con la stessa freschezza di emozioni della prima volta.

È il caso di Dylan/Schatzberg. Robert Allen Zimmerman è già Bob Dylan – un poeta in musica, che applaudito folksinger è pronto a farsi accusare di “blasfemia”, fregandosene, utilizzando addirittura una chitarra elettrica al Newport Folk Festival – e Jerry Schatzberg è uno dei fotografi di moda più richiesti da Esquire e Vogue. Si incontrano in studio, Dylan sta registrando Highway 61 Revisited. A Schatzberg ne hanno parlato con entusiasmo Nico (algida modella tedesca prossima icona dei Velvet Underground) e un critico musicale, lui si è limitato a rispondere: “Ditegli che la prossima volta vorrei fotografarlo”. La moglie di Bob, Sara, lo invita a farlo.

Ha inizio una frequentazione assidua – forse un’amicizia – che porta a una serie di scatti capaci raccontare l’uomo Robert Zimmerman molto meglio di quanto riescano a fare le parole del Bob poeta. Quello con l’enigmatico sguardo di sfida diventa la copertina di Highway 61 Revisited, e l’altro “mosso e tremolante”, inafferrabile come Bob, è l’immagine di Blonde On Blonde.

Schatzberg scatta in studio ma sente di avere bisogno di altro, in mente ha il quartiere dei mattatoi – da ragazzo ci andava col padre pellicciaio nel Bronx – e la casualità lo aiuta. “In tanti ci hanno voluto vedere altro ma la verità è che era febbraio, uno dei giorni più freddi che ricordi, nessuno di noi aveva gli abiti adatti e io ero tremante di freddo, non tutti gli scatti vennero sfocati ma Bob scelse quello mosso senza esitare”.

Pagina dopo pagina il racconto dello strano rapporto fra il fotografo di moda e il poeta della nuova generazione prende forma. Schatzberg incontra e “immortala” per Esquire anche i Beatles – “Non me fregava niente ma il magazine voleva una copertina natalizia” –, i Rolling Stones e Zappa, ma è con Bob Dylan che pare capirsi al meglio. Si separano nel 1966, Dylan deve curarsi dopo un grave incidente in moto e Schatzberg sta progettando il suo esordio alla regia con Mannequin. Frammenti di una donna (1970), protagonista Faye Dunaway. Si rivedranno saltuariamente, entrambi seguono ormai rotte differenti.

Jerry Schatzberg continua con la regia e porta sullo schermo l’esordiente Al Pacino (Panico a Needle Park) e l’indimenticabile romanzo di Fred Uhlman L’amico ritrovato. La fama di Dylan non ha più confini, vende milioni dischi e veleggia verso il Nobel del 2016 “per aver creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione musicale americana”.

Di quel loro incontro restano il racconto ma soprattutto le immagini, diventate sinonimi visivi dell’affermarsi di un nuovo modo di fare musica, arte, poesia, di guardare il mondo con occhi diversi. Da leggere e riguardare con attenzione.

Berlioz, il “grande sconfitto” che amava Byron e il latino

Quando Hector Berlioz morì centocinquant’anni fa, aveva sessantasei anni. Trascorse gli ultimi anni nell’amarezza e nella solitudine. Era distrutto nel fisico e nel morale da due cose: aveva vissuto molte vite, ed era stato un lottatore come ce ne furono pochi. Lottatore per i suoi ideali artistici, che anteponeva alla stessa sua opera di compositore; e lottatore per le sue composizioni.

Fu uno dei sommi genî della musica; taluni glielo riconobbero in vita, a cominciare da Liszt, che quanto a penetrazione e generosità verso l’arte altrui non aveva rivali. Ma in realtà morì da vinto. I suoi successi, molti e forti, vennero superati dalle sconfitte e da una diffidenza nei suoi confronti che pare inspiegabile. Oggi la situazione non è diversa. Sommo compositore, sì; ma nella vita musicale posposto a un’infinità che non valgono la millesima parte di lui.

Tra le sue Opere teatrali, la più alta è Les Troyens, finita nel 1858. È una vertiginosa vicenda ch’egli, anche poeta, trasse dal II e dal IV libro dell’Eneide. La distruzione di Troia, con i foschi bagliori dell’incendio. L’amore di Didone per Enea, vietato dagli dei, e il suicidio dell’eroina. Virgilio ha avuto tanti melodrammi tratti da Metastasio, ma questo è il solo omaggio degno del più grande poeta mai vissuto. Berlioz non ascoltò mai Les Troyens. La prima esecuzione avvenne nel 1890 a Karlsruhe sotto la direzione di Felix Mottl: ironia della storia, un seguace di Wagner. Ancor oggi, quanti possono dire di aver ascoltato il capolavoro a teatro? O anche solo in esecuzioni concertistiche? Che poi sarebbero preferibili. Vedere Enea in abito da tupamaro e Didone vestita da Marina Berlusconi… Quando Berlioz, innamorato della Salammbô di Flaubert, gli si rivolse per consigli sulla storia e la vita di Cartagine…

Nell’Ottocento molti compositori erano dotati di vasta cultura generale. Sovente, la filosofia la inquinava. Berlioz di filosofia s’intrigava poco; è anche uno dei più eleganti scrittori francesi del secolo, con una vena, persino, di narratore surreale (Les Grotesques de la Musique, Les soirées de l’orchestre) che meriterebbe miglior fortuna di molti romanzi di Dumas. Ha coltivato Byron, dedicandogli una meravigliosa Sinfonia, Harold en Italie; ma al vertice del suo amore sono Shakespeare e Virgilio, adorati con assoluta equanimità. Poi viene Goethe, al quale s’è ispirato, modificando il poema, per la geniale Dannazione di Faust. E per quanto tocca Shakespeare, insieme con Verdi è stato il più grande di tutti i compositori shakespeariani.

Ma la sua cultura era diversa. Era un latinista. Quando, in ritardo perché per quattro volte era stato bocciato, vinse il Prix de Rome, invece di fare i compiti se ne girava per la Campagna Romana pensando alle vestigia dell’antica grandezza. E Roma è anche l’oggetto di un altro suo capolavoro teatrale. La Roma del Rinascimento. Nel Benvenuto Cellini la scena più terribile e commovente è quella della fusione della statua di Perseo: mancandogli il metallo, Cellini getta nella fucina tutto quel che ha, il suo oro, persino altre sue opere. È uno dei più bei simboli della creazione artistica trasformati in teatro.

Quando tornò a Parigi, compose La Sinfonia fantastica. È purtroppo l’unica sua opera effettivamente in repertorio. E dico purtroppo giacché perpetua di Berlioz la falsa immagine, sempre prevalente sulla vera. È un pezzo di pseudo autobiografia, di pseudo automitografia. Rappresenta i delirî di un giovane artista in preda all’oppio, il quale si perde dietro all’immagine fantastica di una donna amata, impersonata da una melodia ricorrente. Al poeta viene tagliata la testa. Indi scende all’inferno, ritrova la sua melodia orribilmente sconciata e infine si disperde nel Sabba del quale fa parte anche la melodia liturgica del Dies irae.

Venne e viene classificato come l’esponente di un Romanticismo estremo e caduco. Non si comprese che la Sinfonia fantastica è scritta del tutto a freddo, che ogni effetto è studiosamente calcolato, e che dietro il pandemonio si cela una perfetta forma classica.

Solo partendo dal fatto che l’aspetto letterario, a partire da un nuovo tipo di venerazione per Shakespeare, di Berlioz, è romantico, ma quello musicale classico, si può inquadrare la sua figura. Riesce a trasformare Romeo e Giulietta non in un banale melodramma, ma in una Sinfonia che sintetizza il dramma e usa il coro come narratore da Tragedia greca. Compone un Requiem al quale Verdi si è ispirato per il suo e che gli è persino superiore. Nelle ultime battute le parole di speranza sono contraddette da un accordo di Sol maggiore fatto da tre timpani soli, l’immagine del Nulla.

Ha rinnovato l’idea stessa del timbro orchestrale: tutti i compositori gli debbono qualcosa, da Wagner a Verdi a Liszt a Rismkij-Korsakov a Ravel e Debussy. Il suo Trattato di orchestrazione venne tradotto in tedesco da Richard Strauss: è un monumento di dottrina e di gusto che aiuterebbe moltissimo i direttori d’orchestra. Salvo che ormai la gran parte dirige a orecchio. Il Grande Sconfitto contempla dal Nulla il Nulla della civiltà.

 

“Ne ho combinate tante, non ho paura di niente. E quella volta con Depp…”

Alle ore 20 di una sera più autunnale che primaverile, seduta su una sedia improbabile e in mezzo a un prato bagnato, Claudia Gerini, riscaldata solo da un maglione nero, sfrutta i venti minuti di pausa dal set di Burraco Fatale (prossimo film di Giuliana Gamba) per mangiare un’insalata scondita (“si sono dimenticati l’olio? Vabbè, non importa, andiamo avanti”), trattare con apparente remissione, reale decisione, l’orario di rientro della figlia quindicenne (“no, non oltre mezzanotte e un quarto. Ti vengo a prendere io”), rispondere alle nostre domande e respingere le incursioni della produzione (“Claudia c’è il trucco, andiamo?”).

Non si scompone mai.

Se poi qualcosa le stona, il suo sguardo non lascia molti appigli ai “se” e ai “ma”.

Macchina da guerra.

Ma no, sono solo organizzata, ed è fondamentale per non soccombere (Le arriva un messaggio sul cellulare). Sono le mie amiche.

Ne ha molte?

Le donne con me non si sentono in competizione diretta, e probabilmente perché non ho puntato solo sull’aspetto fisico, sulla sensualità, sull’erotismo.

Sabrina Impacciatore la considera una sorella.

E lei per me. Ho un gruppo di amiche storiche, la nostra chat si chiama “Le galline”, e siamo io, Mariasole Tognazzi, Alessia Barela, Francesca Figus, Sabrina Impacciatore e Valentina Cervi…

Però la Impacciatore…

Quando ho vinto il David di Donatello (con Ammore e malavita) mi ha mandato un video mentre piangeva per la felicità: lei è proprio connessa con la spiritualità delle persone; con lei e le altre c’è reale “sorellanza”.

Lei è l’ape regina.

Che fa l’ape regina?

In qualche modo tiene unito un gruppo.

Un po’ sì, però mi piace in assoluto sentire questa solidarietà femminile. Anche nel film di Muccino (A casa tutti bene), eravamo molte donne, e pure lì è nato qualcosa tra di noi.

Muccino ha dichiarato di essere molto fisico sul set.

Lui è un grande direttore d’orchestra; ogni tanto parte e abbraccia, deve sentire l’attore, ti deve connettere fisicamente.

Si imbarazzava?

No, anzi lo trovavo giusto.

(Arriva la telefonata della figlia: “Chi è Mario? Va bene… Ti vengo a prendere io… Che fai domani? Va bene. Non oltre mezzanotte e un quarto. A dopo”).

Mezzanotte e un quarto è stretta…

Ha quindici anni, è piccola.

Lei, di sicuro, rientrava dopo.

Io scappavo.

Appunto.

Vabbè, lasciamo perdere su quello che combinavo (scoppia a ridere, subito dopo cambia tono della voce, più serio); però ero molto responsabile, andavo bene a scuola; alla fine ero una ragazzetta tanto perbene.

Alla fine.

Molto curiosa del mondo.

Molto.

Ne ho combinate…

I compagni di classe come la trattavano?

Ero quella che voleva diventare attrice, poi ho cambiato classe alla fine del quinto ginnasio, e da Ostia sono arrivata a Roma.

I ragazzi della sua età osavano invitarla a uscire?

Qualcuno sì, ma perché allora l’attività extrascolastica da attrice non era così predominante. Della mia carriera a scuola si sapeva, ma senza esagerare.

Ha iniziato presto con i film.

A 15 anni con Sergio Corbucci, maestro della commedia all’italiana, ma durante il liceo non ho lavorato tantissimo, giusto qualcosina e alcuni spot, la vera carriera è partita dopo la maturità.

Con Corbucci era nel cast di “Roba da ricchi”, insieme a Laura Antonelli e Lino Banfi.

La Antonelli era molto riservata, ancora non conoscevo certe liturgie da set, avevo giusto quindici anni, così un giorno sono entrata nella sua roulotte, e senza avvertire: le stavano sistemando la parrucca, indossava la calza in testa. Scocciata mi ha fatto allontanare.

Ci è rimasta male?

No, in assoluto ero troppo divertita dall’ambiente: giravamo a Nizza perché secondo Corbucci i film andavano realizzati solo in posti belli, “dove si riesce a godere”, ripeteva spesso.

Epicureo.

Diceva: “Per me vanno bene posti come Nizza o Cannes, con alberghi fighi, e poi se magna bene”.

Intimorita dai primi ciak?

In qualche modo sapevo di poter dare qualcosa, amavo già il momento del trucco, del parrucco, la scelta dei vestiti, la preparazione dietro la scena; la macchina da presa mi ha sempre affascinato.

Subito.

Ripenso ai miei quindici anni, e mi rendo conto che ero già molto avanti, molto istintiva, seria, professionista.

L’agitava più un’interrogazione?

Senza dubbio, specialmente i compiti in classe di greco.

Prima ha detto che era convinta del suo futuro.

Lo sapevo, e ripetevo a me stessa: “Prima o poi qualcuno mi noterà”.

Qual è il suo “dono”?

Dare verità ai personaggi che affronto, e sono riuscita interpretare ruoli molti differenti tra di loro, quindi a cambiare vita, pelle, ed è uno degli aspetti di cui vado più fiera; Enza Sessa (la Gerini in Grande, grosso e… Verdone) non è il clichè della bora o della coatta, è proprio lei, sembra reale, una che puoi incontrare per strada.

L’esordio da coatta è con Jessica in “Viaggi di nozze”.

Il mio primo film con Carlo, esperienza meravigliosa e divertente, con un momento topico: per la scena della piscina, quando si è buttato in acqua al grido “la vojo fa’ strana sta pupa”, tutta la troupe ha sentito un tonfo inquietante. Il giorno dopo si è presentato sul set piegato in due “me so’ fatto male all’ernia del disco” (la chiamano per trucco e parrucco). Ci dobbiamo spostare.

Va bene.

Ieri sera l’ultimo ciak è stato alle quattro e mezzo del mattino.

Si diverte?

Tantissimo. Qualche giorno fa ne parlavo con una collega, e mi chiedeva: “Non ti sei stufata?”. Questa domanda mi ha colpito, perché non era retorica, i suoi occhi erano assolutamente sinceri.

Risposta?

Le ho consigliato di variare i ruoli, altrimenti la monotonia arriva, come in qualunque altro lavoro (Ci pensa un attimo). Mi rompo solo delle continue mani addosso: sul set ti sistemano in continuazione, dai capelli ai vestiti, devi essere precisetta, e nella quotidianità non lo sono.

Cosa le chiedono le giovani attrici?

Seguo come docente due master class di recitazione, ma in realtà non so offrire consigli tecnici, posso spiegare come ci si muove in questo mondo, quali sono i meccanismi, come si prepara un personaggio, non oltre; per usare una metafora calcistica, non tutti gli allenatori sono stati grandi giocatori.

Totti non è allenatore.

Non lo nomini così altrimenti mi sento male.

Era allo stadio il giorno del suo addio al calcio?

Certo! In mezzo a Sabrina Ferilli e Claudio Amendola, e tutti piangevamo, ma non ai livelli di Claudio.

Disperato.

Singhiozzava come non ho mai visto nessun altro.

Ammetta: ha insultato Spalletti per come ha trattato Totti…

Quello sempre, per mesi gli abbiamo declinato qualunque tipo di improperio, siamo arrivati a detestarlo: il capitano non si tocca.

Torniamo a lei: secondo Cecchetto “il successo è un mestiere”.

È necessario imparare a gestirlo, anche nella scelta dei copioni, con un equilibrio complicato tra la tua indole e la ragione, senza mai farti fagocitare dai desideri altrui.

Non è un’attrice depressa.

Per niente.

Molti suoi colleghi lo sono.

Ma non per il lavoro specifico, lo sarebbero stati anche da farmacisti; l’attore, se ha la giusta indole, e la vocazione, ha la possibilità di vivere grazie a un mestiere bellissimo…

Mentre…

Per alcuni di noi la sofferenza è d’obbligo, soprattutto per quell’intellighenzia di cui non ho mai fatto parte: quelli vivono tutto in maniera “alta”.

Lei no.

Quando esco dal set chiudo con il ruolo, a meno di una scena iper drammatica come la violenza.

Pragmatica.

Non mi chiudo nell’eremo, ho i figli, la spesa, la vita reale.

Ipocondriaca?

Per niente, e fa sempre parte della depressione, o almeno è quel ceppo.

Non conosce la paura.

Io mi butto. A 18 anni ho preso qualche lezione di basso elettrico, poi mollato; anni dopo (nel 2003) sono a Sanremo e gli autori mi chiedono di suonarlo in diretta con i Negrita. Accetto. Stessa cosa nel 2007 quando presento il Primo Maggio e allora stavo con Federico Zampaglione (leader dei Tiromancino).

Fa la spesa, quindi.

Devo comprare le cose che dico io; forse non ci vanno i colleghi uomini.

Primo autografo.

Ai tempi di Non è la Rai, allora vivevamo una sorta di psicosi collettiva, uscivamo dagli studi televisivi e trovavamo la folla in stato di assedio.

Quel programma è stato un talent importante.

Sì, e per tante di noi, a partire da Sabrina (Impacciatore), che è rimasta uguale nonostante quello che mangia.

Ha appetito.

Al ristorante ordina dall’antipasto al dolce e al momento di decidere, pone sempre la stessa questione al cameriere: “Senta, se io dovessi morire domani, cosa dovrei assolutamente assaggiare?”. E lo scandisce seria. Poi quando è convinta della scelta, si raccomanda: “Ah, una porzione abbondante”.

Gli uomini entrano in competizione con lei?

Succede, con il rischio di viziare il rapporto.

Ognuno vuole il riflettore per sé.

Quello accade se una sta con un attore: gli uomini hanno paura di venir oscurati dalla donna, ci temono. (Inizia a sorridere con gli occhi, poi coinvolge la bocca). Noi donne abbiamo il tacco, il trucco, il capello, le tette e tutta una serie di accessori belli.

Il maschio.

Ha il narcisismo frustrato nonostante una carriera molto più lunga e aperta: devono esistere solo loro; tra donne c’è più solidarietà.

Secondo una ricerca, ognuno ha un incubo legato al periodo delle superiori.

Invece al liceo sognavo sempre Johnny Depp…

Sogno erotico?

Più che altro io e lui in discoteca, io e lui in vespa, poi da grande sono arrivata a immaginarlo mentre mi domandava: “Scusa, sei tu ad aver interpretato Iris Blond?”. O mi diceva: “Ti amo”.

Lo ha conosciuto?

Sì, a Venezia, ero lì con il mio compagno del tempo. La sera andiamo al ristorante, ci sediamo, e poco dopo riconosco Johnny Deep dalle spalle, a tavola con altri, tra i quali un mio ex.

Si è fiondata…

Macché! Poco dopo vedo il mio ex che mi rivolge gesti plateali per raggiungerlo e presentarmelo. Io immobile. Fino a quando mi decido, cammino tremante, e davanti a lui non riesco a pronunciare nient’altro che “hi”. Eppure parlo benissimo in inglese. Ah, il vero incubo ricorrente è legato al periodo delle elementari.

Quale?

Sempre lo stesso: per strada mi inseguiva un lupo, entravo in un palazzo, scappavo per le scale, fino a quando uscivo su un terrazzo dell’ultimo piano.

E…

Ogni volta dovevo decidere se buttarmi o meno. Non avevo altro scampo. Ovviamente mi buttavo e mi salvavo.

(Canta Jovanotti in “Mi fido di te”: “La vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare”).

The Voice, questa volta la giuria promette bene

The Voice, nella sua versione italiana, ha sempre avuto due grossi problemi: i coach e i concorrenti. Dunque, sintetizzando, The Voice, nella sua versione italiana, ha sempre avuto un unico grosso problema: The Voice. Cerchiamo di capire il perché. Doveva essere il programma musicale giovane di Rai2 e l’unico concorrente che ha racimolato un po’ di fama e venduto dischi nel mondo dopo la vittoria a The Voice a oggi è Suor Cristina. Che fu “scoperta” dal coach J-Ax, passato dalle canne d’erba a quelle d’organo grazie al noto effetto ringiovanente del programma.

Degli altri vincitori non si hanno più notizie. Non risultano nelle liste dei prossimi partecipanti a Sanremo ma, dicono, siano tutti in quelle del reddito di cittadinanza. Simona Ventura, arrivata quest’anno a condurre il programma dopo che Costantino della Gherardesca – quello che prima del governo gialloverde scriveva “Ingrasso un chilo per ogni parlamentare grillino morto” e in Rai conduceva più programmi l’anno della D’Urso in Mediaset – esibisce un certo ottimismo. Dice che quest’anno le piacerebbe trovare un talent che duri nel tempo, che il programma torna a essere talent scout. Per fortuna non ha citato la sua scoperta a X Factor Giusy Ferreri perché nessuno ha mai avuto il coraggio di dirle che l’ex cassiera del supermercato Giusy Ferreri canta come una a cui è rimasto un sacchetto dell’Esselunga incastrato in gola, ma probabilmente lo farà entro la quarta puntata. Riguardo i coach va detto che The Voice non ha mai avuto una grande fortuna. La Carrà viene ricordata più per i suoi mezzi guantini di pelle che per le sue scelte musicali, tant’è che venne battuta da Cocciante e da J-Ax e se ne andò scoglionata dopo la seconda edizione. Emis Killa, che pareva il colpaccio della quarta edizione, risultò più invisibile di Mark Caltagirone. Nella quarta edizione tornò la Carrà, convinta di avere dei coach così pippe contro, che finalmente si sarebbe portata a casa la vittoria. Venne battuta da Dolcenera. La Carrà a quel punto disse che non sarebbe mai più tornata a The Voice e prima di uscire dal campo bucò il pallone. Albano è stato la rivelazione della quinta edizione, nel senso che ci deve ancora rivelare perché ha accettato di fare il coach anziché andare a imbottigliare il suo vino in Puglia e Francesco Renga fu una conferma, la conferma del fatto che in ogni programma venga chiamato a vivacizzare il parterre, cala una patina di mestizia da cimitero del Verano a novembre. Insomma, l’idea di resuscitare The Voice, quest’anno, pareva più azzardata di quella di resuscitare il Pd. E invece, qualcosa è successo (non nel Pd, sia chiaro).

La prima notizia è che i coach, insieme, funzionano. Sono Morgan, Elettra Lamborghini, Gigi D’Alessio e Gué Pequeno. Morgan pare più sveglio e svelto del solito, e del resto, inseguito dalle ex compagne, dai produttori dei precedenti programmi che ha smerdato con una puntualità commovente e dal ministero della Finanza, non può che avere il passo di Bolt. Per la cronaca, ha già rilasciato un’intervista in cui anziché dire “Grazie alla Ventura e ai produttori di The Voice che mi hanno chiamato nonostante mi preceda la fama di quello che arriva tardi alle prove se arriva e che finiti i programmi che fa dice sempre che quei programmi erano sterco di ronzino”, afferma “Fare il coach per me è come per Maradona giocare in serie b, dovrei fare il direttore artistico”. Fatto sta che seduto sulla poltrona rossa, si gira qualsiasi voce senta dall’altra parte, tant’è che ha in squadra anche due microfonisti che avevano detto “Silenzio!” e il regista della trasmissione che aveva urlato “Camera 2!”.

Elettra Lamborghini è un po’ un’Iva Zanicchi versione cubista. Sgangherata, naïf, con una voce che fa venire voglia di legarle le corde vocali col nodo da marinaio, ha però l’innegabile funzione di vivacizzare le interazioni tra giudici, sebbene tutti la trattino con la pietas divertita che si riserva alla cartomante matta del paese. Lei, poverina, si candida puntualmente a essere la coach di qualsiasi essere vivente intoni due note, ma la schifano tutti, preferendole un altro giurato qualunque o, in alternativa, i corsi di canto in due dvd su Amazon.

Gué Pequeno è ancora timido e contenuto ma appena capirà il rischio di passare alla storia come il rapper battuto da Gigi D’Alessio, si sveglierà dal torpore. E a proposito di Gigi D’Alessio, è proprio Gigi quello che rischia seriamente di rivelarsi l’autentica novità di questo programma. Se a X Factor non fossero sempre stati dei fighetti irrecuperabili, se lo sarebbero accaparrati da tempo, e invece meglio Lodo Guenzi che presenta il Primo maggio o Levante gitana chic, mannaggia a loro. Comunque, che Gigi funzioni lo si capisce soprattutto dal fatto che si mette in gioco e che nella sigla iniziale canti i Gorillaz con l’occhiale da sole nero e la capa pelata, sembrando un pioniere della new wave che ha ancora qualcosa da dire. Ma funziona anche come coach, con la giusta educazione e la giusta cazzimma, vagamente infastidito dalle intemperanze di Elettra e dall’egocentrismo di Morgan (con cui lo sfanculamento è all’orizzonte, ci scommetto), ma sempre al suo posto e centrato. Divertenti i siparietti tra Morgan ed Elettra Lamborghini, sebbene la Lamborghini sia convinta che Morgan la stimi e non ha capito che Morgan la considera l’anello di congiunzione tra Francesca Cipriani e un buco nero, ma vabbè. Lei, ignara, lo seduce allegramente offrendogli del latte alla soia, senza realizzare che dopo decenni di notevolissimi esperimenti chimici nel suo organismo, se Morgan manda giù un liquido sano, si crepa come un controsoffitto dopo una scossa tellurica e diventa polvere sul pavimento.

Sui concorrenti al momento c’è poco da dire, a parte il fatto che la figlia del fondatore e pastore della chiesa evangelica di Cecina, dopo aver cantato scalza guardando il cielo, ha scelto Morgan come coach. Non è chiaro se per imparare a cantare da lui o se per praticargli un esorcismo, ma il rischio di un déjà vu J-Ax/Suor Cristina è nell’aria. Speriamo solo che D’Alessio controbilanci e scelga una bestia di Satana a cui far cantare Annarè. Contiamo su di te, Gigi, non ci deludere.

L’Isis approfitta della faida fra Tripoli e Tobruk e ammazza 9 soldati di Haftar

Nel conflitto scaturito dall’offensiva del generale Haftar su Tripoli per delegittimare il governo di al Sarraj, si inseriscono le incursioni delle cellule legate all’Isis. Almeno nove militari di Haftar sono stati uccisi ieri in un attacco rivendicato dallo Stato islamico a una caserma a Sebha, nel sud della Libia. “Il centro di formazione militare di Sebha è stato colpito da un attacco terroristico all’alba da parte di elementi dell’Isis, sostenuti da gruppi criminali e di mercenari”, ha dichiarato all’Afp il sindaco Hamed al-Khayali. Un portavoce del Centro medico di Sebha, Oussama al-Wafi, ha confermato il bilancio: “Abbiamo visto nove cadaveri”. L’Isis ha rivendicato l’azione sostenendo che i suoi miliziani hanno “attaccato la sede del comando della regione militare di Sebha, sotto controllo delle milizie eretiche di Haftar”, e “tutti i prigionieri sono stati liberati”.

A un mese dall’inizio degli scontri fra Tripoli e il generale di Tobruk, avviati proprio da Haftar il 4 aprile, il bilancio per l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms): 392 il numero dei morti, e 1.936 quello dei feriti, circa 50.000 gli sfollati. Di poco diverse quelle dell’Associazione Medici Stranieri: 500 le vittime, ad essere colpiti anche donne e bambini: 120 i piccoli morti finora e 130 le donne colpite nei conflitti a fuoco. I feriti superano invece i 2.500. gli sfollati, secondo quanto riferito dai medici libici, sono oltre 55.000, raccolti in 40 centri e 27 scuole.