Shabbat e missili: Jihad e Hamas giocano alla guerra

È stato uno Shabbat di guerra. Ieri le sirene d’allarme nelle cittadine israeliane circostanti la Striscia di Gaza hanno iniziato a suonare in mattinata e non hanno mai smesso. Più di 200 missili sono stati sparati dalla Striscia verso Israele. Gran parte sono stati intercettati dalle batterie antimissile Iron-Dome, altri sono caduti in campi agricoli, ma alcuni sono riusciti a colpire Ashkelon, Nir Oz, Nirim e altri centri agricoli sul confine. In serata il bilancio in Israele era di due feriti in modo serio, un uomo e una donna colpiti da schegge ad Ashkelon e Kiryat Gat. Oltre un milione di israeliani residenti nel sud hanno passato la giornata – e anche la notte di ieri – nei rifugi, l’Esercito ha chiuso le principali arterie stradali verso sud, chiedendo agli abitanti di evitare qualunque spostamento. In serata le sirene sono suonate anche verso nord, fino a Beit Shemesh che dista solo 20 chilometri da Gerusalemme.

In risposta ha questo sciame di missili Israele ha risposto con decine di raid aerei contro le postazioni di Hamas e del jihad islamico – che ha rivendicato per primo il lancio dei missili – che erano verosimilmente state già evacuate dai miliziani islamisti. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, il capo di Stato maggiore Aviv Kochavi e i generali dell’IDF, si sono ritrovati per una prima valutazione e per calibrare la risposta. Le bombe dei caccia hanno colpito, stando al comunicato ufficiale, oltre 120 obiettivi, a Gaza City dove sono crollati due palazzi, a Khan Younis, a Beit Hanoun nel nord della Striscia. Tre i morti sul lato palestinese per i bombardamenti, una bimba di 14 mesi e sua madre a Beit Lahia, un giovane di 22 anni a Beit Hanoun. Decine i feriti. L’IDF accusa direttamente il Jihad islamico di voler riaprire il fronte a sud, ma è evidente che vista anche la quantità di missili lanciati che Hamas – con cui sarebbe stata creata una “sala operativa” comune – non è rimasta a guardare.

Questa escalation non è solo in risposta alla morte di due terroristi di Hamas sul confine di Gaza venerdì pomeriggio. Piuttosto, riflette la decisione di cercare di ottenere da Israele concessioni significative, soprattutto per quanto riguarda il trasferimento di fondi del Qatar nella Striscia. Hamas è chiaramente disposto a correre il rischio di un conflitto più ampio, scommettendo sul fatto che Israele vuole un “cessate il fuoco” in questo momento. Tra tre giorni in Israele sarà il Memorial Day, il Giorno dell’Indipendenza, Netanyahu non vuole vedere la festività marcata da una escalation militare con Gaza. Tra 10 giorni i palestinesi celebreranno il Nakba Day, l’anniversario di quella che considerano la catastrofe che li ha colpiti con la nascita dello Stato ebraico. Israele poi ospiterà le semifinali dell’Eurovision Song Contest, con milioni di telespettatori che rivolgeranno la propria attenzione a Tel Aviv. Una “relativa tranquillità” con Gaza era andata avanti per tutta la durata della campagna elettorale in Israele – raggiunta grazie alla mediazione dell’Egitto e del Qatar – e si basava sulle promesse di un allentamento del blocco della Striscia, dell’ampliamento della zona di pesca, di minori restrizioni sul trasferimento dei prodotti agricoli. E al passaggio di 15 milioni di dollari al mese donati dal Qatar per pagare i “dipendenti” di Hamas.

Nei mesi scorsi Netanyahu – sollevando forti critiche – ha sempre autorizzato questo passaggio del denaro ed è probabile che anche stavolta i soldi saranno autorizzati a passare, forse poco prima del Giorno dell’Indipendenza.

I tentativi di Hamas derivano anche dal fatto che la popolazione di Gaza si aspetta risultati economici mentre la crisi continua a essere terribile: il tasso di disoccupazione ha superato il 50%.

Hamas vede il peggioramento della situazione economica ma certo non taglia la sua operatività. Continua a imporre una serie di tasse sui residenti della Striscia, che finanziano le sue attività, comprese quelle di Ezzedin Al Qassam, la sua ala militare.

Cuba e il ritorno dei “fidelisti”

L’allarme l’ha lanciato il ministro degli Esteri, Bruno Rodríguez: con le ultime sanzioni il presidente americano Trump “vuole asfissiare l’economia cubana”, allo scopo di far cedere il governo socialista dell’Avana.

Il capo della diplomazia si riferisce alle misure annunciate il 17 aprile dal responsabile della sicurezza, John Bolton e dal segretario di Stato, Mike Pompeo: una limitazione alle rimesse dei cubano-americani, ridotte a 1.000 dollari l’anno; un’ulteriore restrizione ai viaggi di cittadini Usa nell’isola e l’attivazione del Titolo III della legge Helms-Burton; si tratta di una norma che permette ai cittadini statunitensi di rivendicare le proprietà confiscate sessant’anni fa dal governo rivoluzionario di Fidel Castro e di denunciare chi – cubano o straniero – “ne fa uso”.

Quest’ultima sanzione rappresenta una spada di Damocle pronta a calare su tutti coloro che hanno investimenti o che vogliono investire nell’isola. Le rimesse dalla Florida, da parte loro, costituiscono la seconda voce degli introiti di Cuba, superiore ai ricavi del turismo e inferiore solo ai redditi provenienti dalle relazioni commerciali col Venezuela. Se si tiene conto che all’inizio di aprile l’Amministrazione Trump ha decretato sanzioni nei confronti delle compagnie che trasportano greggio venezuelano a Cuba, si capisce perché il vertice cubano parla di minaccia di strangolamento dell’economia. Il Titolo III della legge sull’embargo decretata nel 1996 era stato sospeso da tutti i precedenti presidenti per le sue implicazioni extraterritoriali, che avevano – e hanno – suscitato la dura reazione di paesi alleati, come il Canada e i membri dell’Ue, tanto che Unione Europea, Canada e Messico hanno criticato la scelta americana. Ma è evidente che il presidente Trump e la sua squadra di ‘falchi’ sono decisi ad abbattere il governo venezuelano di Nicolás Maduro come pure “il regime socialista” cubano che ne rappresenta il “pilastro ideologico”. Tanto che su questo tema – che sarà centrale nella campagna presidenziale di Trump l’anno prossimo – sono disposti anche a scontrarsi con i governi alleati.

La rinnovata politica di ingerenza e aggressione allarma e spaventa il vertice politico del partito-Stato cubano proprio perché si inserisce nello scontro politico già in corso negli Usa tra il partito democratico e un presidente che –anche da parte democratica – viene considerato “fuori controllo”. Il ministro degli Esteri, Rodríguez, ha assicurato che “l’economia di Cuba oggi è più attrezzata” ad affrontare le misure dell’Amministrazione Trump. Ma queste – sommate alla drammatica crisi che investe il Venezuela bolivariano, primo partner commerciale dell’isola – hanno già colpito. E duro. Da quasi un mese infatti scarseggiano prodotti alimentari di prima necessità, come olio, farina, uova, pollo, burro, latte sia nelle bodegas dove vengono venduti con la libreta a prezzi calmierati, sia nei mercati a vendita libera dove si acquistano soprattutto in pesos convertibili. E quando appaiono nei negozi, si formano lunghe file dove il cubano de a pie – il cittadino comune – manifesta apertamente l’ansia per un futuro che si presenta problematico. Chi può, dunque, cerca di fare scorte di beni (benzina compresa). Chi non ne ha la possibilità esterna apertamente un malcontento che si traduce in critica all’azione del governo. L’aumento dei prezzi è poi generalizzato e colpisce gli strati più deboli, soprattutto i pensionati.

Il governo reagisce con una politica di risparmi e austerità – tra l’altro i giornali, tutti statali, hanno dimezzato la foliazione – e una campagna di lotta contro gli sprechi, la corruzione e il mercato nero. E soprattutto cercando di stimolare la produzione di beni sostitutivi delle importazioni, ridotte quest’ultime a causa di una grave crisi di liquidità. Si tratta però di misure che necessitano di tempo per dare risultati. Intanto vengono riesumati gli appelli alla difesa della sovranità e indipendenza nazionale, come pure i proclami che la politica di “ingerenza degli Usa” verrà sconfitta. Secondo vari analisti però, la linea dura di Trump sta rafforzando l’ala ortodossa-fidelista del partito comunista nei confronti dei riformatori come il presidente Diáz-Canel, promosso e sostenuto dall’ex presidente e attuale segretario generale del Pcc, Raúl Castro. È come un serpente che si morde la coda: gli attacchi dei falchi dell’Amministrazione nordamericana suscitano una reazione di arroccamento e difesa di un socialismo che necessita urgentemente riforme, a Cuba come in Venezuela. E, a sua volta, questo irrigidimento alimenta la retorica dei falchi di Trump.

Servizio su Predappio, si è dimesso Farnè il caporedattore Tgr

Il caporedattore della Tgr Emilia Romagna Antonio Farnè ha rimesso il mandato di Responsabile della Tgr Emilia Romagna, dopo le polemiche scoppiate a seguito del servizio sulla manifestazione di nostalgici a Predappio, andato in onda il 28 aprile neIl’edizione delle 19.30. Il Direttore Alessandro Casarin ha accolto questa decisione e ha affidato l’interim della Redazione Emilia Romagna a Ines Maggiolini, già capo redattore Tgr Lombardia, e che attualmente è vice direttrice Tgr con delega sulle redazioni Emilia Romagna e Sardegna oltre che responsabile delle Rubriche Tgr. Nei prossimi giorni l’Azienda avvierà le procedure per l’attivazione del Job Posting per individuare il nuovo responsabile della Redazione Tgr Emilia Romagna. Antonio Farnè resta a disposizione del Direttore Alessandro Casarin per un nuovo incarico nell’ambito della Tgr. Il servizio, realizzato dal giornalista Paolo Pini, era stato contestato da più parti per la mancata presa di distanza, “due minuti di interviste e immagini, con tanto di saluti romani, sulla manifestazione fascista” per dirla con le parole del deputato Pd Michele Anzaldi, segretario della commissione di Vigilanza Rai che per primo aveva sollevato il caso.

“E se invece della disciplina nutrisse la responsabilità?”

Una premessa: hanno ragione i presidi quando sostengono che le priorità della scuola, al momento, sono altre. Solai che crollano, docenti scontenti, sovraccarico di lavoro, mai abbastanza fondi: il vicepremier Matteo Salvini, leader del partito che ha espresso il ministro dell’Istruzione, avrebbe potuto affrontare almeno mediaticamente (perché nella pratica ci sono ancora molti problemi da affrontare) prima di tutto questi aspetti e poi, marginalmente, occuparsi pure della questione grembiule. Se invece, armati di microscopio, si vuole ragionare su questo argomento specifico – magari spogliandolo dell’inevitabile rievocazione, con termini come “ordine e disciplina”, delle divise dei balilla e delle gioventù fascista – ci si può trovare anche un richiamo all’uguaglianza e alla responsabilità. Termini che forse suonano pure meglio.

Tralasciamo infatti per un momento il grembiule e pensiamo a una semplice divisa scolastica. Primo: non ci sarebbero differenze sociali percepibili dalle scelte dell’abbigliamento. Certo, parliamo di percezione. Ma è naif credere che bambini e ragazzi non facciano dei vestiti un carattere distintivo . Secondo: potrebbe aumentare il senso e la consapevolezza di appartenenza a una istituzione (la propria scuola, come comunità peculiare di un territorio e di una comunità), a una squadra (i propri compagni), a una componente del tessuto sociale (la scuola come istituzione) che quindi non sia più solo un luogo dove dover stare rinchiusi per tutta la mattina bensì una realtà di cui andare fieri e di cui si è rappresentanti, anche attraverso la propria divisa.

Bello, ma difficilmente applicabile in Italia: chi fornisce le divise? Chi le paga? Chi le sceglie? Chi decide? Ci si adatta così a un modello ibrido. Il grembiule diventa il surrogato di una divisa scolastica. Ma anche così ci sono molti pro e contro quasi inesistenti: aiuta a far capire che, con il grembiule, il bambino è in una realtà diversa da quella familiare o del tempo libero, che ha il dovere di indossarlo e che quel dovere è in comune con gli altri. Inoltre, lancia un messaggio a tutti: io sono uno studente, uguale agli altri e ho dei diritti. Rispettateli.

“Più uguali col grembiule? È soltanto un’idea ipocrita”

“Nel nome del rispetto e della parità di tutti i bimbi chiederò che venga rimesso il grembiulino per evitare che vi sia quello con la felpa da 700 euro e il figlio dell’operaio che non se lo può permettere. Rispetto delle regole, ordine e disciplina vanno insegnati fin da piccoli”.

Sono le parole del vice premier Matteo Salvini nel comizio a San Giuliano Terme. Siamo di fronte ad un concetto ipocrita. Davvero possiamo pensare che basti un grembiulino per rendere tutti uguali, per ridurre le disuguaglianze? Se dovessimo seguire il discorso del ministro oltre al grembiulino dovremmo avere bambini con scarpe tutte identiche per evitare che vi sia chi indossa un modello da cento euro e chi quelle comprate al mercato. E poi dovremmo chiedere a tutti i genitori di venire a scuola a prendere i figli con piccole utilitarie abolendo i suv. La disuguaglianza esiste, è inevitabile. Il problema semmai è ridurla. L’ambiente di provenienza, come la ricerca nel campo dell’educazione ha più volte dimostrato, influisce sulla motivazione a imparare, sulle aspettative future, sui risultati delle prove di apprendimento e in generale sul profitto e sulla carriera scolastica e professionale.

Per diminuire la diversità abbiamo bisogno di una scuola più uguale dove la scuola dell’infanzia e il nido siano usufruibili da tutti e non solo dai “ricchi” che possono permettersi di pagarla. Il figlio dell’operaio avrà le stesse opportunità del figlio del dottore se avrà un’istruzione alla pari, se a casa troverà libri e film, se nel suo quartiere potrà contare su un doposcuola al termine delle lezioni che lo aiuti a fare i compiti così come Gregorio ha la baby sitter.

Al grembiulino va data la dignità che merita: un indumento da usare al bisogno per non sporcarsi. Ai bambini andrebbe insegnato che l’abito non fa il monaco e che i compagni vanno giudicati per quello che sono e non per quello che indossano.

La scuola non è l’esercito. Non può e non deve imporre delle divise. Divise che, oltretutto, non eliminano neppure le distanze sociali, dal momento che il figlio dei ricchi indosserà sempre un grembiule costoso e quello dei poveri sempre uno economico.

Il Salone del Libro vieta le passerelle dei politici

Il Comitato d’indirizzo del Salone del Libro di Torino ha deciso in senso antifascista e democratico: alla kermesse che comincia il 9 maggio non saranno ammesse le presenze di esponenti politici in veste di protagonisti di eventi, o per passerelle elettorali. Un messaggio chiaro indirizzato anche a Matteo Salvini, che avrebbe dovuto presentare al Lingotto il suo volume-intervista pubblicato da Altaforte, una casa editrice di estrema destra, vicina a Casapound, il cui titolare si professa apertamente fascista.

Raccogliendo l’invito lanciato dal direttore culturale Nicola Lagioia, il Comitato, in cui sono rappresentati anche la Regione Piemonte, il Comune di Torino, l’Associazione degli Editori Indipendenti, l’Associazione Italiana Editori e l’Associazione Librai Italiani, sottolinea “che il Salone ha scelto in piena consapevolezza di non diventare palcoscenico elettorale, al fine di non trasformarsi in una cassa di risonanza troppo facile da strumentalizzare; e ancora di essere plurale e aperto alla discussione, perché il dialogo è fondamento della democrazia”.

Rispetto ad Altaforte, che comunque avrà un suo stand, si ricorda che “il Salone è ambasciatore che al suo articolo 21 afferma che ‘tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione’”. Se non c’è volontà di censura, tuttavia, si rimarca che la “legge Scelba del 1952, coordinata con la legge Mancino del 1993, sanziona chiunque propagandi idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, rendendo reato in Italia l’apologia di fascismo”.

La presa di posizione del Salone non è piaciuta a Christian Raimo, uno dei consulenti di Lagioia, che avrebbe voluto l’allontanamento di Altaforte, e che pertanto si è dimesso dalla fiera: “L’antifascismo è militante o non è”, ha dichiarato, forse un po’ sopra le righe.

E alla decisione del Salone torinese sui politici si aggiunge un altro appello antifascista di oltre 350 milanesi, in gran parte del mondo del design. Chiedono lo spostamento delle date di svolgimento del Salone del Mobile del 2020, affinché non coincidano, come è stato stabilito, con il 25 Aprile. È una ricorrenza, si legge nel loro testo, “particolarmente necessaria in un momento storico che vede la nascita di gruppi e movimenti fascisti e neonazisti in tutta Europa. Riteniamo pertanto che non si possa toglierle attenzione e valore con la sovrapposizione di un altro evento”. Aggiungono: “Registriamo con preoccupazione il crescente interesse da parte di una certa politica nei confronti di operazioni culturali ed economiche, teso unicamente a raccogliere consensi e approfittare della visibilità senza portare alcun beneficio o contributo costruttivo”.

Taranto di nuovo in piazza: “Ora basta, chiudere l’ex Ilva”

L’Ilva va chiusa. Basta barattare la vita con il lavoro”. Lo hanno gridato i 3mila partecipanti che, ieri, nonostante la pioggia torrenziale sono partiti dal quartiere Tamburi di Taranto per raggiungere i cancelli dell’acciaieria. Il corteo è stato organizzato dalle associazioni “Quattromaggiotaranto” e “Ancora Vivi” e ha coinvolto numerosi movimenti provenienti da tutta Italia, tra cui i No Tav, No Tap, No Triv e No Muos. Presenti anche varie associazioni locali e le mamme dei TamburiCombattenti. Unanime il dissenso verso la politica e questo governo che avrebbe dovuto rappresentare il cambiamento. “Devono chiudere l’Ilva e bonificare” – hanno ribadito in tanti – “Vogliamo vivere. Basta menzogne!”. Fortemente simbolico il percorso del corteo che, per la prima volta, si è diretto verso i cancelli dell’area a caldo dell’acciaieria, costeggiando il muro diventato rosa per le polveri di minerali che infestano la città. La zona era presidiata dalle forze dell’ordine. La tensione è salita quando alcuni manifestanti hanno provato ad accedere all’impianto, senza riuscirvi. Ma non ci sono stati scontri.

Vannini: “Mi disse che era stato il figlio”

Colpo di scena a Le Iene sul caso Vannini: chi avrebbe sparato non sarebbe Antonio Ciontoli, l’agente dei servizi segreti che si è preso la colpa ed è stato condannato perché ritenuto l’uomo che ha premuto il grilletto e poi ha ritardato i soccorsi, bensì suo figlio, condannato anche lui per omicidio colposo ma solo per il comportamento successivo allo sparo del padre. La trasmissione mette nel mirino uno dei due carabinieri che ha svolto le prime indagini: il maresciallo Roberto Izzo. Il Carabiniere non avrebbe riferito quel che sapeva su Ciontoli. Inoltre, sempre secondo una testimonianza, avrebbe avuto l’ambizione di entrare nei Servizi proprio tramite Ciontoli. Marco Vannini, 20 anni, fu ucciso nel 2015 a casa della fidanzata da un proiettile sparato dal “suocero”, Antonio Ciontoli, secondo le sentenze di primo e secondo grado.

Il racconto di Vannicola, amico dell’ex comandante dei carabinieri di Ladispoli Izzo, è stato raccolto da Giulio Golia e Francesca Di Stefano de Le Iene. Stasera alle 21:10 su Italia1 l’intervista andrà in onda: “Izzo sapeva – spiega Vannicola – che a sparare era stato il figlio di Antonio, Federico Ciontoli. E fu Izzo a suggerire al padre di prendersi la colpa (…) perché dato che faceva parte dei Servizi non gli avrebbe precluso più di tanto, mentre il figlio è giovane…”.

Come fa Vannicola a esserne al corrente? “Un giorno Izzo è venuto nel mio negozio (di borse, ndr) e mi ha detto: ‘Sai amico mio, forse ho fatto una cazzata’. Dico: ‘Una cazzata che si può riparare?’ ‘Non lo so, forse si può recuperare, ma a livello di coscienza… sai è morto un ragazzo. È una cosa che mi porterò dentro tutta la vita’. Sono rimasto un po’ basito. Mi dice: ‘Hai sentito parlare del caso Vannini?’. Dico: sì. E mi fece ’sta confidenza che il Ciontoli l’aveva chiamato per risolvere un problema. Il Ciontoli alza il telefono e dice: ‘Robè è successo un guaio. Qui la mia famiglia ha fatto un casino, c’è il ragazzo di mia figlia ferito, nella vasca, me devi aiutà’. E Roberto gli dice: ‘Fammi capì, ma che è successo?’ E lui: ‘Robè, hanno fatto un guaio grosso, me devi fà capì come risolverlo’”. Golia chiede conferma: “Hanno fatto un guaio grosso?”. E Vannicola risponde annuendo: “Hanno fatto un guaio grosso”. In casa, oltre ad Antonio Ciontoli (condannato a 14 anni per omicidio volontario in primo grado e solo a 5 per omicidio colposo in appello) c’erano anche (condannati tutti a tre anni) la moglie Maria Pezzillo, la figlia Martina, fidanzata di Vannini, e Federico con la compagna Viola Giorgini (sempre assolta).

Questa la ricostruzione de Le Iene: “La chiamata di Ciontoli a Izzo sarebbe partita prima ancora di quella all’ambulanza. In quell’arco di tempo sono stati persi minuti preziosi che avrebbero potuto salvare la vita del giovane Vannini”. La presunta telefonata non risulta agli atti. Risulta solo quella di Ciontoli all’ex comandante partita all’1:18, quando erano già in ospedale. Vannicola racconta che in precedenza Izzo gli spiegò: “Ho conosciuto una persona che quando andrò in pensione mi cambierà la vita. Entrerò nei Servizi”. Poi, circa sei mesi prima dell’omicidio, secondo Vannicola, il carabiniere Izzo portò Ciontoli nel suo negozio di borse per ordinarne una con una fondina, un porta pistola, all’interno. Golia è andato anche da Izzo che ha negato tutto con irritazione e fastidio.

Due giorni fa la ministra della Difesa Trenta ad Accordi e disaccordi di Loft ha chiesto a chi sa qualcosa di parlare con i pm. La ministra ha raccontato anche di aver chiamato più volte sul cellulare (su richiesta de Le Iene e senza risposta) il brigadiere Manlio Amadori, il secondo carabiniere di Ladispoli che seguì all’inizio il caso e che aveva fatto capire a Le Iene, di poter raccontare qualcosa, se autorizzato. Ora tocca al Comando Generale e alla magistratura battere un colpo.

Napoli, una faida dietro i proiettili contro i bambini

È in condizioni critiche, molto gravi ma stabili, la piccola Noemi di quasi quattro anni, ferita l’altroieri pomeriggio da un proiettile vagante del far west di piazza Nazionale a Napoli, teatro di un agguato di camorra al 32enne Salvatore Nurcaro, anche lui ferito gravemente. La bambina è in prognosi riservata, ha un polmone perforato e ora è in coma farmacologico presso l’ospedale pediatrico Santobono. È stata operata nella notte tra venerdì e sabato, il proiettile è stato rimosso, è apparso integro. Oggi è previsto un nuovo bollettino medico.

Nurcaro sarebbe collegato al clan Rinaldi. Il 9 aprile il cognato del boss Ciro Rinaldi “Mauè”, Luigi Mignano, fu ammazzato in mattinata davanti a una scuola del rione Villa nel quartiere San Giovanni di Napoli est, fu ferito il figlio. Anche in quel caso i sicari spararono incuranti della presenza dei bambini, tra cui il nipotino della vittima che nella fuga abbandonò lo zainetto. E proprio ieri, per questo omicidio, i carabinieri e la polizia hanno eseguito sette decreti di fermo disposti dai pm anticamorra di Napoli Antonella Fratello e Simona Rossi e dal procuratore capo Giovanni Melillo. Sono così finiti in carcere Umberto D’Amico, Umberto Luongo, Gennaro Improta e altri tre esponenti del clan D’Amico (il settimo era già detenuto). Non sono coincidenze: fonti investigative ritengono forse collegati gli episodi di aprile e dell’altroieri. Due sparatorie maturate nello stesso contesto. La faida ventennale tra il clan Mazzarella-D’Amico e il clan Rinaldi. La sete di vendetta che alimenta la furia di due cosche rivali. E che ricompare in un passaggio da brividi del decreto di fermo. Dove si legge che la figlia della vittima, a cadavere ancora caldo e mentre la scientifica sta effettuando i rilievi, urla in dialetto: “Ci dobbiamo mettere le bombe addosso e dobbiamo andare nel vicariello”. Il ‘vicariello’, scrivono i pm, è un riferimento ai fortini dei D’Amico e all’abitazione di Umberto.

A Napoli si spara ad altezza d’uomo senza risparmiare sui proiettili e fregandosene dei bambini che vanno a scuola o alle giostrine di piazza Nazionale, anche perché circolano libere persone che dovrebbero stare in galera, a espiare condanne o per misure cautelari fondate su accuse gravi. Improta e Luongo, due dei fermati per l’omicidio del rione Villa, nel settembre 2016 sono stati condannati in primo grado a 13 e 12 anni per reati di camorra al termine di un processo durante il quale Luongo e Umberto D’Amico – poi assolto – erano stati scarcerati per decorrenza dei termini. In attesa del secondo grado e senza derogare una virgola al principio di innocenza senza condanne definitive, questa vicenda è un mattoncino di una enorme casa fatta di processi lenti e di tempi abnormi per appelli ed arresti. Un esempio: a metà febbraio la Dda ha eseguito una trentina di arresti e in carcere sono finiti gli esponenti del clan Sequino presunti autori delle ‘stese’ che terrorizzarono il rione Sanità. Tra la richiesta dei pm e l’ordinanza del Gip era trascorso un anno.

Ma i ritardi della giustizia non appassionano il dibattito politico-mediatico intorno alla bambina vittima innocente di un raid dalla ferocia assurda. I tweet dei politici e degli esponenti di governo e di opposizione ruotano quasi tutti intorno alla necessità di schierare più uomini sul territorio per affrontare l’emergenza sicurezza. Forse basterebbe eseguire le sentenze.

“Non daremo tregua ai criminali per colpa dei quali una bimba è in ospedale, comprendiamo la grande sensazione di insicurezza che pervade la comunità. Ma con questi arresti abbiamo dato una prima risposta concreta”, hanno detto come fossero una sola voce il questore di Napoli Antonio De Iesu e il comandante provinciale dei carabinieri Ubaldo Del Monaco, parlando dalla scuola dell’Infanzia Vittorino da Feltre. La scuola dove si è recato Mattarella. I luoghi dell’assassinio di aprile. Stavolta una reazione al delitto è arrivata subito.

Mail Box

 

Attenzione ad augurarsi la fine del governo

Mi dispiace per i 5Stelle puristi, che aborrono il governo attuale e vorrebbero la passione travolgente di un Di Battista ma, se questo governo cade, Mattarella non ci manderà affatto a nuove elezioni ma farà un nuovo governo tecnico, come fece Napolitano con Monti con l’aiuto subdolo del Pd, che vuole vincere anche quando perde e che spera solo in una alleanza con Berlusconi. Salvini ci dovrebbe pensare, con tutti i suoi sporchi giochetti: nuove elezioni potrebbero significare per lui non una vittoria del centrodestra ma un esilio da qualunque luogo di potere, facendo evaporare rapidamente il suo successo indebito.

Viviana Vivarelli

 

Il termine “morti bianche” viene usato troppo spesso

Vorrei rivolgere un appello ai mezzi d’informazione: non chiamate più le morti “morti bianche”. Questo termine assurdo viene usato troppo spesso, ma mi offende, e offende soprattutto i familiari e la memoria delle vittime del lavoro. Queste morti non sono incidenti o tragiche fatalità, ma dipendono dall’avidità di chi si rifiuta di rispettare le norme per la sicurezza sul lavoro. Di bianco restano solo le pagine di una vita interrotta e di una quotidianità familiare distrutta per sempre. Non sono “morti bianche”, sono morti sporche, anzi sporchissime.

Marco Bazzoni

 

Ciriaco De Mita: imprudente ricandidarsi a 91 anni

La ricandidatura di Ciriaco De Mita a sindaco di Nusco (Av), alla veneranda età di 91 anni, ha suscitato non poca meraviglia in Irpinia. In caso di rielezione, quando scadrà il mandato, di anni ne avrà 96. Nessuno gli può negare il diritto di continuare a stare nell’agone politico, ma sarebbe più saggio, secondo me, se facesse un passo indietro.

Franco Petraglia

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile Direttore, in riferimento all’articolo dal titolo La Papessa sbarca in Rai grazie a Maglie e De Santis, a firma di Gianluca Roselli, pubblicato ieri, rilevo che nel titolo, nel sottotitolo e nel corpo dell’articolo si riportano informazioni che non corrispondono in alcun modo al vero e delle quali, pertanto, chiedo rettifica. Non è stata la Rai e tantomeno Raiuno ad aver organizzato e ripreso la serata tributo alla memoria di un grandissimo dello spettacolo e della televisione italiana quale è Renato Rascel; serata alla quale hanno pur partecipato grandi nomi dello spettacolo come Gigi Proietti, Renzo Arbore, Giancarlo Magalli, Lorella Cuccarini, Ezio Greggio, Nancy Brilli, Serena Autieri, secondo quanto da voi stessi riportato. Peraltro, non esiste alcun rapporto contrattuale con il responsabile della serata Cesare Rascel, figlio del grande Renato, sebbene possa essere nel pieno titolo e diritto della Rai – valutata l’importanza e l’interesse della serata stessa – deciderne una eventuale messa in onda. Non corrisponde al vero quanto sintetizzato nel titolo poiché la dottoressa Chaouqui, al di là di un rapporto di amicizia personale, non intrattiene alcun rapporto contrattuale con Raiuno né vi sono in essere ipotesi di contratti futuri. Quindi, nessuno “sbarco”. Le insinuazioni riferite ai rapporti amicali, concretizzati o da concretizzare in contratti sono, dunque, false e destituite di qualsiasi fondamento, avendo quale unico fine quello di gettare discredito sul mio operato come direttore di Raiuno, oltre che essere fuorvianti per i lettori del quotidiano da Lei diretto. Infine, non corrisponde al vero che io mi sia personalmente rivolta ad Alessio Zucchini chiedendogli di condurre la serata, né che sia in alcun modo intervenuta nell’organizzazione della stessa.

Teresa De Santis, Direttore RaiUno

 

Che noia leggere e rileggere – ogni volta che si parla di me – un cappello che racconta Vatileaks: un fatto vecchio e superato di un Vaticano che oltre ad essersi pentito, mi ha ampiamente riabilitata. Se per citarmi è necessario ribadire ogni volta un caso che è morto e sepolto da anni, è evidente che non sono una notizia. Infatti di notizie, nell’articolo a firma di Roselli e comparso sul giornale di ieri, ne ho viste poche. È vero, la mia Viewpointstrategy ha fatto l’ufficio stampa del premio dedicato al grande Renato Rascel, ma nulla so, né mi riguarda l’eventuale messa in onda della serata, oltretutto non prodotta da me. È vero, sono amica di Teresa De Santis, ma la nostra amicizia non ha mai generato rapporti di natura economica. Né vi sono ipotesi al riguardo. È vero il mio sodalizio personale e professionale con la Maglie: niente mi rende più orgogliosa, ultimamente. A volte è più facile trovare nel complottismo le non notizie che essere in grado di raccontare compiutamente quelle che lo sono.

Francesca Chaouqui

Nell’articolo non si fa alcun riferimento a contratti esistenti tra la Rai e Chaouqui. Apprendo che l’organizzazione della serata da parte di VPS (che come abbiamo avuto modo di verificare non si è limitata al ruolo di ufficio stampa) e la sua futura messa in onda a luglio su Raiuno (fatto confermato dalla comunicazione della rete) non siano frutto del rapporto di amicizia tra Chaouqui e De Santis. Amicizia confermata da entrambe.

Gi. Ros.