Il giorno dopo il massacro di Christchurch in Nuova Zelanda, cinquanta persone ammazzate in diretta Facebook in due moschee, la polizia ha trovato su una delle mitragliatrici usate dall’assassino Brenton Tarrant la scritta: “Ecco il vostro Migration Compact”. Il ventottenne
autore dell’attentato aveva anche inviato 1.500 euro in Austria al politico di estrema-destra Martin Sellner, leader del movimento “Identità”, forse per incoraggiarlo nella sua campagna on-line contro la firma dell’accordo delle Nazioni Unite. A settembre 2018, infatti, quando ancora nessuno parlava di Migration Compact, Sellner – dopo una mail da un “collega” del partito di estrema destra tedesco Alternative fur Deutschland – aveva postato un monologo su Youtube in cui lanciava l’allarme: “Il Patto Onu sulla migrazione è il più anti-democratico, il più pericoloso e il più insidioso che io abbia mai visto”. Aumentava poi la tensione aggiungendo un po’ di narrativa estremista: “L’invasione dei musulmani sta arrivando, si sta preparando la sostituzione della popolazione bianca europea con i musulmani”. Il suo video è stato visto 165mila volte.
Il Migration o Global Compact o Patto di Marrakech (dal nome della città dove, lo scorso 11 dicembre, 164 Paesi hanno firmato primo documento mondiale sui flussi migratori) non è vincolante ma impegna i firmatari “al rispetto dei diritti umani salvaguardando la sovranità nazionale”. Come ha sintetizzato l’Economist: “Il Migration compact incoraggia gli stati a cooperare su difficili questioni transfrontaliere senza costringerli a fare qualcosa”. Eppure, è diventato il bersaglio di movimenti populisti e di estrema destra, in una comunità on line che ha condiviso contenuti xenofobi e bufale.
Lo studio spagnolo e il miracolo dei tweet poliglotti
La società spagnola di Intelligenza artificiale Alto Analytics ha realizzato per Investigate-Europe uno studio sul Patto di Marrakech su Twitter (l’unico social network che permette di analizzare i dati degli utenti). I risultati sono stupefacenti: 533 account si sono scambiati contenuti, video e tweet in quattro Paesi, l’Italia, la Francia, la Spagna e la Germania. Di questi 508 non sono geolocalizzati, non hanno cioè registrato un luogo d’origine, ma se ne può presumere il Paese d’origine dalla lingua utilizzata. Inoltre, il 37,9 per cento di questi account è stato aperto solo un mese prima della firma a Marrakech. Secondo gli esperti di Alto, soltanto una volta su sei milioni un account twitta simultaneamente in 3-4 lingue. Intorno al Migration Compact di questi account poliglotti, invece, ne hanno osservati ben 26.
Tra le star dei tweet sul Patto di Marrakech spiccano la francese Marine Le Pen ma anche la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni e lo psichiatra, vicino al partito della Meloni, Alessandro Meluzzi. I due hanno twittato e retwittato da dicembre 2018 a fine febbraio 2019. Da quando cioè la prima mozione di Fratelli d’Italia contro il Patto è stata bocciata alla Camera, fino al 27 febbraio quando, grazie all’astensione di Lega e Movimento Cinque Stelle, una seconda mozione è passata impegnando il governo Conte a “non sottoscrivere il Global Compact per una migrazione sicura, ordinata e regolare e a non contribuire in alcun modo al finanziamento del relativo trust fund”. La Meloni batte la leader francese del Front National per numero di risposte a tweet, 152 (contro 137 del sito ufficiale del Movimento di Le Pen). Un suo video dalla Camera postato il 19 dicembre sarà visto da 8.466 persone. Un video postato dal professor Meluzzi lo stesso giorno, nel quale il medico-politico italiano avverte che “se approvato (Il patto, ndr), sarà la fine del popolo italiano”, è stato condiviso in Francia, Spagna e Germania 41 volte. Bastano per creare nuove bolle digitali.
La strategia digitale della Meloni e di FdI
Il successo della Meloni sui social è il frutto di una strategia consolidata: “Abbiamo una piccola redazione che si occupa solo di social, ogni persona è specializzata in una piattaforma: Facebook, Twitter e Instagram – spiega Mauro Rotelli, capo della Comunicazione e deputato di Fratelli d’Italia -. Poi abbiamo un contratto con una società italiana di social listening, vengono analizzati i contenuti social dei maggiori leader europei e italiani, così seguiamo cosa dicono gli altri e i nostri futuri partner al Parlamento europeo”.
L’invasione di migranti temuta dalla Meloni non è arrivata, ma Raymond Serrato, un data analyst americano a Berlino, cerca di ricostruire per l’Alto Commissariato per i diritti umani (Onu) come sia stato possibile che qualche centinaio di estremisti sparsi in Europa abbia contribuito a far cambiare opinione a nove governi europei (dall’Austria all’Italia, che prima avevano sottoscritto l’accordo Onu) e addirittura a far cadere il governo belga, la cui maggioranza si è frantumata proprio su Marrakech. Serrato mostra la lista dei 483 video sul Global compact. “Mandano tutti lo stesso messaggio falso: i governi europei vogliono aprire le loro frontiere ai migranti. Youtube è servito da amplificatore con i suoi algoritmi che cercano video allarmisti e poi il dubbio di massa ha fatto il resto”. Sul Patto Onu, da novembre 2018, il traffico su Twitter è aumentato del 700 per cento. I giornali hanno iniziato a definirlo “controverso”. E anche i politici che in una prima fase erano favorevoli, hanno iniziato a farsi qualche domanda sulla opportunità di approvare un provvedimento che risulta così divisivo.
Le piattaforme on-line, hanno una grande responsabilità nel moltiplicare le notizie false e allarmiste. “In un ambiente multimediale i cui ricavi dipendono in gran parte dal numero di clic che un articolo può generare, c’è sempre più richiesta di titoli drammatici o clamorosi”, spiega Paul Butcher, ricercatore allo European Policy Center a Bruxelles e autore, lo scorso gennaio, di uno studio sulla disinformazione on-line. Poi le “echo-chambers”, la camere dell’eco, fanno il resto.
“Continui a ricevere i contenuti che ti piacciono e diventa sempre più estremo. All’inizio ricevi tre video, poi dieci, l’algoritmo aumenta l’offerta. Questo è ciò che vedi sulla tua pagina, ma il tuo vicino vede una realtà completamente diversa”, spiega Butcher. È quello che succede su Facebook, gli algoritmi sono stati programmati per mandare all’utente solo il contenuto che gli interessa. Si naviga in bolle chiuse senza accorgersene. “Con la pubblicità politica è ancora più semplice – dice Butcher – devi solo fermarti per pochi secondi su un annuncio che arriva sulla tua pagina e chi lo ha finanziato e la piattaforma che lo ha ospitato hanno raggiunto il loro scopo”.
Il fact-checking non basta contro la fabbrica del consenso
Le tecniche per conquistare “seguaci”, si moltiplicano. “C’è per esempio quella nota come “cascata del consenso”: si crea una discussione fittizia on-line tra due posizioni e gli utenti cominciano a prendere posizione. Così si gonfia una bolla. Poi “c’è lo scraping, un algoritmo mette insieme qualunque informazione utile su un profilo, i dettagli di una foto, quello che è scritto su una maglietta, le parole chiave e in pochi minuti raccoglie informazioni su 500 milioni di utenti”, racconta Paolo Attivissimo, uno storico cacciatore di bufale (o debunker). Ma a che serve smascherare una bufala, se la smentita non arriverà mai a chi ha messo un like un contenuto falso e allarmista? “Conteniamo il danno, il mio lavoro serve per le persone esitanti” dice Attivissimo. “Il fact-checking” non serve – conclude Paul Butcher – ma questo modello di Internet è insostenibile. Le piattaforme come Facebook hanno completamente cambiato la nostra società dal 2007, quando hanno iniziato, si basano su una tecnologia che probabilmente non avremmo mai ammesso se avessimo saputo come funzionavano. Dobbiamo arrivare a un sistema in cui il modello dell’algoritmo deve essere reso pubblico”.
*Investigate Europe