Salvini è solo chiacchiere e distintivo. E la sicurezza?

 

“Da Napoli a Viterbo, l’Italia è un far west: ecco il vero fallimento di Matteo Salvini (che fa comizi e basta)”.

LINKIESTA

 

Nell’ultima puntata di “Gomorra” (quarta stagione) il magistrato Ruggeri incastra il boss Gennaro Savastano che si condanna a un’esistenza tombale per sfuggire alla giustizia. Dunque, c’è ancora qualcuno che rappresenta la legge a Secondigliano dove, in un paesaggio allucinato, impazzano le bande criminali che smerciano droga e ingaggiano ferocissime guerre. Senza che mai si veda l’ombra di un poliziotto e dove la politica esiste soltanto se si tratta di partecipare al banchetto del malaffare. Una finzione non troppo lontana dalla realtà di Napoli dove, in quello stesso venerdì, un killer può uccidere un rivale, in pieno centro e in pieno giorno, ferendo gravemente una bambina di tre anni e colpendo anche la nonna. In questo caso, le forze dell’ordine fanno quello che possono, mentre chi rappresenta le istituzioni brilla per la sua assenza.

Qualcosa dovrà spiegare il sindaco della città, Luigi de Magistris, oltre che esprimere il proprio cordoglio (“siamo sconvolti, preghiamo per lei”). Molto dovrebbe spiegare il ministro degli Interni a cui la par condicio delle responsabilità sta molto stretta. Visto e considerato che la figura pubblica di Matteo Salvini resta immortalata nell’immagine di lui, giustiziere del popolo, che imbraccia un mitra. Scriviamo “dovrebbe” perché sappiamo bene che il cosiddetto capitano dedicherà alla piccola con il polmone perforato qualche parola anche sincera. Mentre condirà la permanente campagna elettorale con qualche battutina sull’inefficienza del sindaco di sinistra (già fatto).

Eppure, come titola “Linkiesta”, il bilancio del cosiddetto ministro della sicurezza, in tema di sicurezza è disastroso. “Bambini feriti in sparatorie in pieno centro, commercianti ammazzati a colpi di spranga, carabinieri uccisi in pieno giorno, scontri con armi da fuoco davanti alle scuole. L’Italia è fuori controllo”, scrive Francesco Cancellato. “Eppure Salvini continua a fare comizi come niente fosse”. Non è un caso se l’ultima foto postata dal vicepremier tutto chiacchiere e distintivo, ce lo mostra pensoso (sui destini dell’Europa, ovviamente) accanto al premier ungherese Viktor Orbán, degno alleato, mentre alle loro spalle incombe un minaccioso reticolato sovranista. Ciò malgrado il leader leghista continua e continuerà a macinare consensi, fino a quando la percezione di una sicurezza modello Facebook inizierà a frantumarsi sotto i colpi della realtà.

In ogni caso, suggeriamo ai creatori di “Gomorra” un possibile seguito per la quinta stagione. Il giudice Ruggeri viene trasferito e la sua indagine finisce nel nulla. Gennaro Savastano può tornare tranquillamente ai suoi traffici e ai suoi affetti. Lo vediamo mentre sul palco di una convention dedicata al Rinascimento di Secondigliano stringe la mano al nuovo premier e gli porge, tra gli applausi, un vasetto di Nutella.

E il duce abbracciò la ’ndrangheta

Scritto a matita su un foglietto smozzicato color carta da zucchero, un pizzino viene intercettato nel settembre 1905 da una guardia carceraria del penitenziario di Reggio Calabria. Era diretto nella camerata di Giovanni Costa che, reduce dall’America, è in attesa di giudizio per il reato di associazione per delinquere.

Nel breve messaggio, lo ’ndranghetista Antonio Caridi, pure lui detenuto nelle carceri di Reggio, chiede se la promozione a camorrista di Vincenzo Laface – picciotto di Sambatello, affiliato al clan di Costa – debba essere riconosciuta. I Palmisani, ovvero gli ’ndranghetisti della zona di Palmi, secondo Caridi, ritengono che non lo sia, perché Laface è stato fatto picciotto in America e, dunque, il suo battesimo non è da considerarsi valido. Quella posta sul tappeto, al di là della disputa contingente, è una questione centrale sulla quale all’interno della ’ndrangheta non c’è unanimità di vedute. Oggetto del contendere sono le “doti” acquisite oltreoceano. I Palmisani sono convinti che le uniche “doti” valide per uno ’ndranghetista siano quelle acquisite in Calabria. […] Per i Riggitani, ovvero per gli ’ndranghetisti della zona di Reggio, invece, America e Calabria sono la stessa cosa e i “meriti” acquisiti oltreoceano hanno lo stesso valore di quelli acquisiti in Calabria. […] Fondata su una malintesa fedeltà alla tradizione, quella dei Palmisani è una posizione anacronistica, fuori dal tempo. La ’ndrangheta lo comprende e, nella sua stragrande maggioranza, sposerà la tesi dei Riggitani, condivisa dagli “americani” di ritorno, come Francesco “Frank” Filastò.

All’inizio degli anni Venti, a dettare la linea è Filastò, che punta a infiltrarsi nelle amministrazioni locali. […] Dentro l’orbita di questo sistema di potere comincia a gravitare una zona grigia – destinata a diventare sempre più estesa – fatta di uomini delle forze dell’ordine, imprenditori e liberi professionisti che, con la loro acquiescenza, contribuiscono a rafforzare la ’ndrangheta rendendola sempre più pervasiva.

Non è un caso che molti di questi uomini siano iscritti alla massoneria. Perseguitata dal fascismo al potere, la Libera Muratoria non si è dissolta, a Reggio Calabria come nel resto del Regno d’Italia. I “fratelli” in sonno hanno continuato a riconoscersi. È a loro che Filastò guarda con crescente interesse, con l’intento di replicare in Calabria quella rete di relazioni che negli Stati Uniti aveva avuto come fulcro Tammany Hall, la potente macchina politico-clientelare del Partito democratico. Per Filastò e i suoi uomini dialogare con gli ambienti massonici reggini non è un problema, perché suo padre, introdotto nei salotti buoni della Libera Muratoria reggina da don Aurelio Romeo, negli anni precedenti gli ha spianato la strada. […] Anche se l’affiliazione è ancora l’eccezione, non la regola, già in questi anni la ’ndrangheta comincia, sia pure in sordina, a infiltrare propri uomini, quelli dal volto più presentabile, nella massoneria reggina. È questo il caso di Giuseppe Surfaro, “notoriamente affiliato … alla malavita”, “fratello” della Loggia “Stefano Romeo” che sarà sciolta nel 1923. Legato a Filastò, all’inizio degli anni Trenta Surfaro diventerà segretario amministrativo della federazione provinciale fascista e rettore della provincia.

Determinante per il rafforzamento della ’ndrangheta è anche l’atteggiamento assunto nei suoi confronti dal fascismo all’indomani dell’ascesa al potere di Benito Mussolini. È certo che gli uomini di Frank Filastò, già dopo la Marcia su Roma, hanno iniziato a insinuarsi nelle sezioni del Partito nazionale fascista con l’intento di condizionare le rappresentanze locali. La svolta autoritaria inaugurata dal discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 e, ancor di più, le “leggi fascistissime” dell’anno successivo e la riforma podestarile imprimono una forte accelerazione a questo processo di penetrazione, che diventa per la ’ndrangheta una necessità inderogabile per preservare le posizioni di potere acquisite.

In questi stessi anni – quelli compresi fra la crisi aperta dal delitto Matteotti e il 1927 –, gli anni più difficili per il regime, Mussolini e le alte gerarchie del PNF scelgono di tollerare questa infiltrazione della ’ndrangheta, certamente non sfuggita alla loro attenzione, con l’intento di utilizzarla come collettore di consenso in Calabria, una terra in cui il fascismo si è scarsamente radicato e dalla quale continuano a giungere segnali poco incoraggianti. […] L’atteggiamento di interessata acquiescenza assunto dal fascismo nei confronti della ’ndrangheta si traduce in una sorta di tregua o, quantomeno, di allentamento dell’azione repressiva, che in concreto, per Francesco Filastò e i suoi uomini, significa ampia libertà d’azione.

Come nel dicembre 1901, in occasione dell’ordinanza “libera tutti” emessa dalla Camera di Consiglio del Tribunale penale di Reggio Calabria che aveva prosciolto Gaetano Filastò e i suoi picciotti, alla base di questa tregua tacitamente concessa dal regime fascista alla ’ndrangheta c’è ancora una volta un errore di sottovalutazione della sua effettiva pericolosità. Considerandola un male minore rispetto alla mafia siciliana, Mussolini è convinto di poterla sfruttare a proprio vantaggio per poi sbarazzarsene quando non le fosse più stata utile. Così, se in Sicilia contro la mafia invia il “prefetto di ferro” Cesare Mori, in Calabria contro la ’ndrangheta allenta la morsa.

Gli “americani” di Filastò approfittano di questa relativa tranquillità per cambiare il volto alla ’ndrangheta, facendole assumere quelle caratteristiche che nel volgere di qualche decennio la trasformeranno in un modello facilmente esportabile, un cancro capace di diffondere le proprie metastasi dalla centrale calabrese nel resto d’Italia e in Europa, e di tornare a varcare l’oceano seguendo le rotte internazionali del narcotraffico. Per questa ’ndrangheta, in una Reggio Calabria che all’inizio degli anni Venti è ancora la “città delle corti”, come racconta Natalino Lanucara, i proventi che derivano dalle tradizionali attività estorsive o dallo sfruttamento della prostituzione sono briciole. Il vero business è il fiume di soldi pubblici che da Roma affluisce nella città dello Stretto per finanziare la sua difficile e travagliata ricostruzione dopo il terribile terremoto del 28 dicembre 1908.

La tregua concessa dal fascismo alla ’ndrangheta rende il lavoro più facile agli “americani” di Filastò. La totale mancanza di controlli consente infatti agli ’ndranghetisti di insinuarsi nelle ditte appaltatrici e negli enti a vario titolo preposti alla ricostruzione. […] Lentamente, tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Quaranta, Reggio Calabria e i comuni circostanti cambiano volto. La “città di legno” – quella delle baracche e delle “corti” – sorta sulle macerie cede il passo alla “città di marmo” di Marcello Piacentini e Gino Zani.

Negli stessi anni, un altro mutamento, non percepito e neppure percepibile, comincia a compiersi in riva allo Stretto. Grazie all’esperienza acquisita sul campo durante la lunga ricostruzione della città, la spavalda e appariscente ’ndrangheta stracciona di fine Ottocento inizia a cedere il passo alla rapace e subdola ’ndrangheta imprenditrice. È l’alba di una nuova era, tenuta a battesimo nei primi anni Venti dagli “americani” di Filastò.

Gesù risorto ci invita a riprendere la barca della nostra vita

Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade… Si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: “Io vado a pescare”… Uscirono, ma quella notte non presero nulla. Quando era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: “Figlioli, non avete nulla da mangiare?”. Gli risposero: “No”. Allora egli disse loro: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”. La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “È il Signore!”. Simon Pietro si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero… trascinando la rete piena di pesci. Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: “Portate un po’ del pesce che avete preso ora”. Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: “Venite a mangiare”. E nessuno dei discepoli osava domandargli: “Chi sei?”, perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti. Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pasci i miei agnelli”. Gli disse per la seconda volta: “Simone, mi ami?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”… Gli disse per la terza volta: “Simone, mi vuoi bene?”. (Giovanni 21,1-19).

E nessuno osava domandargli: Chi sei?, perché sapevano bene che era il Signore. E “Pietro, mi ami?”. Ecco una sintesi dei due racconti evangelici narrati di seguito. Il primo descrive la pesca straordinaria realizzata dai discepoli, sulla parola di Gesù apparso tra loro, dopo una notte in cui non presero nulla. L’evento imprevedibile avviene nel “nuovo manifestarsi” di Gesù Risorto: l’evangelista ci fa conoscere la vicenda storica e post-pasquale di Gesù nella ferialità della vita. Con la terza manifestazione, impreziosita dall’abbondanza stupefacente della pesca, come i discepoli, siamo invitati dal Signore Risorto a riprendere la barca della nostra vita quotidiana. La nostra fede, come quella degli Apostoli, è piccola, “poca” dice Matteo, inadatta ad affrontare il mare, cioè la storia e gli eventi degli uomini! La barca che s’impegna nel nome del Risorto e guidata da Pietro è la Chiesa che è rete adatta ad accogliere tutti gli uomini senza rompersi. Giovanni per descrivere la pesca abbondante e la salvezza operata da Cristo usa il medesimo verbo: attrarre-trarre (elko). Infatti Pietro trasse a terra la rete, mentre Gesù proclama: quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me. Nel secondo momento del racconto, è bello vedere Pietro, reso ora obbediente, coraggioso, confidente, affrontare la pesca contro la propria esperienza. Sulla parola del Signore, ributta le reti! Dopo il preannunciato rinnegamento, sperimenta ora il compimento della promessa del Maestro nell’ultima cena: ho pregato perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli (Lc 22,32). Ma Gesù interroga Pietro. “Pietro, tu mi ami?”. Tutte e tre le domande sono incalzanti, esigono risposta, vogliono una dichiarazione, sondano il cuore! Non basta il generoso amore umano, Pietro è già stato ingannato dal suo! Nemmeno quello profondo, nobile e bello dell’amicizia. Ma Gesù usa le medesime parole uscite dal cuore di Pietro e le fa sue: Simone, mi vuoi bene? Il Risorto Signore ha conosciuto le lacrime di Pietro e ora ne cerca l’autenticità, per confermargliela. Perché non conterà il numero dei tradimenti suo, nostro, ma se sapremo rispondere con fiduciosa franchezza “Tu sai che ti voglio bene”! Cioè, solo Tu Signore conosci la misura della mia fragilità e la sai trasformare in gioiosa fedeltà per sempre. Questa è la Pasqua cristiana!

*Arcivescovo emerito di Camerino – San Severino Marche

Ubi, gli imputati restano i padroni. Per la Bce è tutto ok

Ci sono due Italie, due sistemi di pensiero che si sfiorano senza scalfirsi, restando ostinatamente diversi. Nel caso di Armando Siri, il sottosegretario leghista indagato per corruzione, prevale il principio che deve mollare la poltrona perché, ferma restando la presunzione di innocenza, non si sta al governo con accuse simili sul groppone. E poi c’è l’Italia miracolosa di Victor Massiah, indagato da cinque anni e sotto processo a Bergamo, che il 12 aprile scorso è stato rieletto ad dell’Ubi, la terza banca italiana. Non è il solito derby tra giustizialisti e garantisti, c’è piuttosto una classe dirigente incapace di rispettare un canone etico condiviso.

C’è da stropicciarsi gli occhi leggendo il verbale dell’assemblea degli azionisti Ubi. A Bergamo sono a processo una trentina di amministratori e manager, o ex, dell’Ubi, compreso l’ex presidente di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli. Sono accusati di ostacolo alla vigilanza (per aver comandato sulla banca attraverso patti occulti) e altresì di aver manipolato l’assemblea del 2013 per assicurare il controllo della banca alle consorterie rivali di Brescia e Bergamo. La Consob si è costituita parte civile e la Banca d’Italia no, a proposito di canone etico condiviso.

E dunque tocca all’imputato Franco Polotti, presidente del Patto Sindacato Azionisti Ubi, cioè azionista di riferimento della banca, presentare la lista dei candidati per il nuovo cda. Le sue parole meritano di essere mandate a mente: “La scelta non è stata facile perché è passata dal non ricandidare sei dei sette consiglieri per cui è in corso un procedimento penale (che riguarda anche lui, ndr). A questa scelta si è pervenuti dopo un’attenta considerazione e ponderazione, dato che per nessuno di questi consiglieri vi erano motivi oggettivi di incandidabilità ma si è preferito non dare spazio ad alcun tipo di strumentalizzazione o creare il benché minimo rischio reputazionale per la banca”. Stiamo parlando della terza banca italiana, sottoposta come tutte a severe regole europee sulla onorabilità e adeguatezza degli amministratori, e l’imputato Polotti si preoccupa delle strumentalizzazioni, non si sa di chi, forse di qualche giornalaccio scandalistico. Matteo Zanetti, presidente del Patto dei Mille e figlio dell’imputato Emilio Zanetti, prende la parola per rivolgere un “sentito ringraziamento” agli imputati Andrea Moltrasio (presidente uscente) e Armando Santus (vicepresidente uscente). Giandomenico Genta, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, primo azionista singolo, ringrazia gli imputati Moltrasio e Santus ma anche gli imputati Mario Cera e Flavio Pizzini (vicepresidenti uscenti).

L’azionista Alberto Barcella rileva che la rinuncia dell’imputato Moltrasio è stata decisa “anteponendo il bene della banca all’orgoglio personale”. L’imputato Moltrasio si dichiara commosso. L’imputato Mario Cera rivolge un saluto caloroso all’imputato Emilio Zanetti e rivendica: “Non ho voluto lasciare questo incarico, sono stato indotto a lasciarlo da circostanze esogene”. Paolo Citterio, coordinatore del sindacato dei bancari Fabi, ringrazia l’imputato Moltrasio e rivolge all’imputato Massiah “una richiesta di stabilità ed equilibrio nelle scelte future”. L’imputato Massiah ringrazia “di cuore” il sindacalista Citterio per la “civiltà e sensibilità”. E adesso si prepara a incassare dal capo italiano della vigilanza Bce Andrea Enria, da imputato, la benedizione per il quinto mandato al vertice di Ubi: l’imputato Polotti e gli altri azionisti hanno deciso che Massiah è imputato ma insostituibile, e tanto basti ai burocrati di Francoforte. Enria non sente e non vede. Speriamo che li assolvano tutti.

I due del filo spinato: già visti nella storia

L’uomo che sta camminando, sicuro della sua autorità, con passo da leader, lungo il muro di filo spinato io lo conosco. Lui e le altre persone (tutti uomini) – che, dalle mascelle, dai gesti, dallo scambio di poche parole, dalle falcate lunghe e decise, emanano senso e uso abituale del potere – stanno ispezionando lunghe barriere di filo spinato, intrecciato con lame a rasoio adatte per ferite non facili da guarire, sul corpo di ogni fuorilegge troppo coraggioso o troppo disperato per passare la frontiera.

C’è uno scambio di sguardi compiaciuti, fra comandanti, l’orgoglio di avere tagliato in due l’Europa senza alcun rapporto con conferenze internazionali e dibattiti politici. Guardate i due comandanti impegnati a celebrare insieme: uno dei due ha sbarrato ogni passaggio umano in Europa, via terra; l’altro ogni tentativo di salvezza via mare. È una immagine di attualità. Il gerarca Orbán che, con il suo entourage di sub-comandanti, sta guidando un vice primo ministro italiano alla compiaciuta ispezione.

Ma il senso di confusione e di disagio di questa sequenza visiva diventa più grave, anzi da capogiro, quando il leader alleato italiano si arrampica sulla torretta da cui si spara, per vedere lo spettacolo, strano per loro, del mondo normale. Qui c’è un pauroso tuffo nella memoria, come nel libro-testimonianza Sindrome 33 di Sigmund Ginzberg. Noi la conosciamo tutta questa gente che comanda ciò che non si può comandare: la perdita, completa e celebrata, dei diritti umani, prima di tutto quello di spostarsi nel mondo. Noi, quelli di noi che sono sopravvissuti, l’hanno già vista, la riconoscono, l’hanno combattuta lasciando, ciascuno, persone care nella lotta, hanno vinto e li hanno condannati per ciò che il mondo, allora, chiamava crimini di guerra.

Ecco da dove viene il senso di angoscia di quel filmato che i protagonisti avrebbero fatto meglio a tenere nel proprio archivio. È nella constatazione dell’orgoglio di avere inferto al mondo contemporaneo, che si credeva “moderno”, l’antica e inguaribile ferita che obbliga gli uomini a restare, con le loro famiglie stremate, nelle città distrutte, nelle terre senza acqua, nei campi senza raccolto, dove tutto è stato distrutto o rubato con concitata bravura da chi è immensamente più forte, privando molti popoli di tutto, per poi accusarli di essere poveri, dunque indesiderabili.

Il Goebbels d’Ungheria e il federale italiano hanno ispezionato i confini di lame taglienti, orgogliosi di constatare che ogni tentativo per quanto disperato o audace, si paga in giusta proporzione col sangue, che è comunque il sangue sbagliato, perché di altre “razze”. Intanto, poiché in Libia gli uni e gli altri sono partecipi di una guerra che ormai dilaga, piena di corpi morti, corpi feriti, corpi prigionieri, ma vuota di senso, poiché preannunciano tanta gente in fuga, lo sguardo fiero del federale italiano già promette al pari grado ungherese grandi battaglie navali, dove nessuno arriverà nel porto sicuro, ora che le Ong sono sotto inchiesta o sequestrate, e se il ministro Toninelli, che è il responsabile dei porti chiusi, e la Marina militare, che, come si sa, risponde al presidente della Repubblica, non vorranno prestarsi al gioco della morte.

L’Italia di cui stiamo parlando – scossa dalle immagini, così uguali al peggio del passato, e dagli annunci confusi e litigiosi – ha due sole voci che orientano i non sottomessi di un regime che non vuole neppure sembrare benevolo o dare una impressione di gentilezza. Ricordiamoci che il sindaco di Riace è sempre in esilio e aspetta il processo, e che è stato prontamente rimosso dal suo ufficio di sindaco eletto mentre un sottosegretario sospettato di reati gravissimi continua, mentre scriviamo, a restare al suo posto.

Una voce che non tace è il Papa, che continua, tra insulti e calunnie e persino il ritorno non benevolo dell’altro Papa, a invocare il diritto di immigrazione e il dovere di accoglienza. L’altra voce è Rossana Rossanda, che chiede al presidente della Repubblica di dire agli italiani chi siamo e dove siamo. Rossanda sa che Mattarella è stato il solo finora ad avere – in questa sequenza di decisioni pericolose e sgangherate – toccato il freno. Chiede, esige, in nome della Costituzione, che la frenata sia netta e non cifrata dal linguaggio di palazzo.

Ha ragione, dobbiamo darci forza a vicenda. Ma tacere no. Come al tempo della prima ispezione del filo spinato, tacere è troppo pericoloso. E immorale.

La Commissione Ue appalta alle aziende la “censura privata”

Dopo la vittoria di Donald Trump e il voto sulla Brexit nel 2016, influenzati-falsati dai social media, ma soprattutto dopo lo scandalo di Cambridge Analitica (la società che ha ammesso di aver venduto i dati di 87 milioni di utenti Facebook per scopi anche politici), la Commissione europea ha cercato di correre ai ripari.

“In seguito agli attentati di Parigi e di Bruxelles il clima era favorevole per una stretta sulle piattaforme – racconta la commissaria alla Giustizia Vera Jourova – Avremmo potuto proporre una regolamentazione delle piattaforme, come in Francia e Germania, ma una direttiva non sarebbe mai entrata in vigore prima delle elezioni europee di maggio e molti governi non ci avrebbero seguito”. Così, a dicembre 2018, a cinque mesi dalle elezioni europee, la Commissione europea ha firmato un codice di condotta con Facebook, Twitter e Google. I tre colossi si sono impegnati, su base volontaria, a rendere trasparenti l’origine delle pubblicità politiche, a cancellare le pagine incitanti all’odio (secondo un codice del 2016) e ad assumere un esercito di debunker (i cacciatori delle bufale) per segnalare i casi di disinformazione.

“Oggi siamo arrivati a 30mila persone, tra staff e partner indipendenti, che cercano notizie e account conti falsi”, assicura al Fatto Tessa Lyons-Laing, product manager di Facebook, in video conferenza da Menlo Park, il quartier generale in California. Ma la Commissione si lamenta che le piattaforme non stanno facendo granché sul fronte della trasparenza. “Abbiamo cancellato 754 milioni di account falsi solo negli ultimi tre mesi – risponde Tessa Lyons-Laing – su una piattaforma da 2,3 miliardi di persone, è difficile controllare tutto, anche se i nostri algoritmi stanno migliorando”.

In parallelo, una task force del servizio esterno della Commissione, la East-Strat Comm, continua a cercare casi di disinformazione provenienti da attori esterni, a cominciare dalla Russia. È un servizio nato nel 2015, ma con risorse limitate: quattro persone si occupano di monitorare i media russi e dell’Europa dell’Est ma nessuno di loro è un data analyst, raccolgono solo i casi di disinformazione. Nella banca dati ci sono già più di 5mila casi. “Ma non riusciamo a ricostruire legami tra gli account, a capire se c’è una mente dietro un attacco a Emmanuel Macron, ad Angela Merkel o una bufala sui gilet gialli”, spiega una fonte interna alla task force. Da pochi giorni il database è a disposizione degli stati membri con un network creato per le elezioni: il Sistema di Allerta Rapida, un software gestito dalla stessa East-Strat Comm, con due funzionari da Bruxelles e uno di riferimento in ogni Paese, che dovrà far suonare il campanello d’allarme a ogni notizia falsa o incitamento all’odio.

E i media? I governi non vogliono creare dei “ministeri della verità”, ma non vogliono neanche dare poteri su questo alla Commissione europea.

L’esperto di social dell’European Policy Center, Paul Butcher avverte: “Si sta creando una censura privata, più pericolosa di quella statale, per non incorrere in sanzioni le piattaforme chiuderanno una pagina al minimo sospetto di non rispetto delle regole”. Sta già succedendo: a una settimana dal voto in Spagna Facebook ha chiuso 17 pagine vicine al partito estremista Vox. E pochi giorni fa ha impedito le pubblicazioni di tre attivisti che volevano promuovere tesi anti-musulmane in rete. In Venezuela Twitter ha bloccato gli account di due giornali vicini al presidente Maduro, osteggiato dagli Stati Uniti, lasciando aperto l’account del contendente Joan Guaidò, presentato come presidente dell’Assemblea nazionale e del Venezuela. Ma Mark Zuckerberg, fondatore e capo azienda di Facebook, continua a ripetere: “Siamo solo una piattaforma tecnologica”.

Così crescono le bufale web

Il giorno dopo il massacro di Christchurch in Nuova Zelanda, cinquanta persone ammazzate in diretta Facebook in due moschee, la polizia ha trovato su una delle mitragliatrici usate dall’assassino Brenton Tarrant la scritta: “Ecco il vostro Migration Compact”. Il ventottenne

autore dell’attentato aveva anche inviato 1.500 euro in Austria al politico di estrema-destra Martin Sellner, leader del movimento “Identità”, forse per incoraggiarlo nella sua campagna on-line contro la firma dell’accordo delle Nazioni Unite. A settembre 2018, infatti, quando ancora nessuno parlava di Migration Compact, Sellner – dopo una mail da un “collega” del partito di estrema destra tedesco Alternative fur Deutschland – aveva postato un monologo su Youtube in cui lanciava l’allarme: “Il Patto Onu sulla migrazione è il più anti-democratico, il più pericoloso e il più insidioso che io abbia mai visto”. Aumentava poi la tensione aggiungendo un po’ di narrativa estremista: “L’invasione dei musulmani sta arrivando, si sta preparando la sostituzione della popolazione bianca europea con i musulmani”. Il suo video è stato visto 165mila volte.

Il Migration o Global Compact o Patto di Marrakech (dal nome della città dove, lo scorso 11 dicembre, 164 Paesi hanno firmato primo documento mondiale sui flussi migratori) non è vincolante ma impegna i firmatari “al rispetto dei diritti umani salvaguardando la sovranità nazionale”. Come ha sintetizzato l’Economist: “Il Migration compact incoraggia gli stati a cooperare su difficili questioni transfrontaliere senza costringerli a fare qualcosa”. Eppure, è diventato il bersaglio di movimenti populisti e di estrema destra, in una comunità on line che ha condiviso contenuti xenofobi e bufale.

 

Lo studio spagnolo e il miracolo dei tweet poliglotti

La società spagnola di Intelligenza artificiale Alto Analytics ha realizzato per Investigate-Europe uno studio sul Patto di Marrakech su Twitter (l’unico social network che permette di analizzare i dati degli utenti). I risultati sono stupefacenti: 533 account si sono scambiati contenuti, video e tweet in quattro Paesi, l’Italia, la Francia, la Spagna e la Germania. Di questi 508 non sono geolocalizzati, non hanno cioè registrato un luogo d’origine, ma se ne può presumere il Paese d’origine dalla lingua utilizzata. Inoltre, il 37,9 per cento di questi account è stato aperto solo un mese prima della firma a Marrakech. Secondo gli esperti di Alto, soltanto una volta su sei milioni un account twitta simultaneamente in 3-4 lingue. Intorno al Migration Compact di questi account poliglotti, invece, ne hanno osservati ben 26.

Tra le star dei tweet sul Patto di Marrakech spiccano la francese Marine Le Pen ma anche la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni e lo psichiatra, vicino al partito della Meloni, Alessandro Meluzzi. I due hanno twittato e retwittato da dicembre 2018 a fine febbraio 2019. Da quando cioè la prima mozione di Fratelli d’Italia contro il Patto è stata bocciata alla Camera, fino al 27 febbraio quando, grazie all’astensione di Lega e Movimento Cinque Stelle, una seconda mozione è passata impegnando il governo Conte a “non sottoscrivere il Global Compact per una migrazione sicura, ordinata e regolare e a non contribuire in alcun modo al finanziamento del relativo trust fund”. La Meloni batte la leader francese del Front National per numero di risposte a tweet, 152 (contro 137 del sito ufficiale del Movimento di Le Pen). Un suo video dalla Camera postato il 19 dicembre sarà visto da 8.466 persone. Un video postato dal professor Meluzzi lo stesso giorno, nel quale il medico-politico italiano avverte che “se approvato (Il patto, ndr), sarà la fine del popolo italiano”, è stato condiviso in Francia, Spagna e Germania 41 volte. Bastano per creare nuove bolle digitali.

 

La strategia digitale della Meloni e di FdI

Il successo della Meloni sui social è il frutto di una strategia consolidata: “Abbiamo una piccola redazione che si occupa solo di social, ogni persona è specializzata in una piattaforma: Facebook, Twitter e Instagram – spiega Mauro Rotelli, capo della Comunicazione e deputato di Fratelli d’Italia -. Poi abbiamo un contratto con una società italiana di social listening, vengono analizzati i contenuti social dei maggiori leader europei e italiani, così seguiamo cosa dicono gli altri e i nostri futuri partner al Parlamento europeo”.

L’invasione di migranti temuta dalla Meloni non è arrivata, ma Raymond Serrato, un data analyst americano a Berlino, cerca di ricostruire per l’Alto Commissariato per i diritti umani (Onu) come sia stato possibile che qualche centinaio di estremisti sparsi in Europa abbia contribuito a far cambiare opinione a nove governi europei (dall’Austria all’Italia, che prima avevano sottoscritto l’accordo Onu) e addirittura a far cadere il governo belga, la cui maggioranza si è frantumata proprio su Marrakech. Serrato mostra la lista dei 483 video sul Global compact. “Mandano tutti lo stesso messaggio falso: i governi europei vogliono aprire le loro frontiere ai migranti. Youtube è servito da amplificatore con i suoi algoritmi che cercano video allarmisti e poi il dubbio di massa ha fatto il resto”. Sul Patto Onu, da novembre 2018, il traffico su Twitter è aumentato del 700 per cento. I giornali hanno iniziato a definirlo “controverso”. E anche i politici che in una prima fase erano favorevoli, hanno iniziato a farsi qualche domanda sulla opportunità di approvare un provvedimento che risulta così divisivo.

Le piattaforme on-line, hanno una grande responsabilità nel moltiplicare le notizie false e allarmiste. “In un ambiente multimediale i cui ricavi dipendono in gran parte dal numero di clic che un articolo può generare, c’è sempre più richiesta di titoli drammatici o clamorosi”, spiega Paul Butcher, ricercatore allo European Policy Center a Bruxelles e autore, lo scorso gennaio, di uno studio sulla disinformazione on-line. Poi le “echo-chambers”, la camere dell’eco, fanno il resto.

“Continui a ricevere i contenuti che ti piacciono e diventa sempre più estremo. All’inizio ricevi tre video, poi dieci, l’algoritmo aumenta l’offerta. Questo è ciò che vedi sulla tua pagina, ma il tuo vicino vede una realtà completamente diversa”, spiega Butcher. È quello che succede su Facebook, gli algoritmi sono stati programmati per mandare all’utente solo il contenuto che gli interessa. Si naviga in bolle chiuse senza accorgersene. “Con la pubblicità politica è ancora più semplice – dice Butcher – devi solo fermarti per pochi secondi su un annuncio che arriva sulla tua pagina e chi lo ha finanziato e la piattaforma che lo ha ospitato hanno raggiunto il loro scopo”.

 

Il fact-checking non basta contro la fabbrica del consenso

Le tecniche per conquistare “seguaci”, si moltiplicano. “C’è per esempio quella nota come “cascata del consenso”: si crea una discussione fittizia on-line tra due posizioni e gli utenti cominciano a prendere posizione. Così si gonfia una bolla. Poi “c’è lo scraping, un algoritmo mette insieme qualunque informazione utile su un profilo, i dettagli di una foto, quello che è scritto su una maglietta, le parole chiave e in pochi minuti raccoglie informazioni su 500 milioni di utenti”, racconta Paolo Attivissimo, uno storico cacciatore di bufale (o debunker). Ma a che serve smascherare una bufala, se la smentita non arriverà mai a chi ha messo un like un contenuto falso e allarmista? “Conteniamo il danno, il mio lavoro serve per le persone esitanti” dice Attivissimo. “Il fact-checking” non serve – conclude Paul Butcher – ma questo modello di Internet è insostenibile. Le piattaforme come Facebook hanno completamente cambiato la nostra società dal 2007, quando hanno iniziato, si basano su una tecnologia che probabilmente non avremmo mai ammesso se avessimo saputo come funzionavano. Dobbiamo arrivare a un sistema in cui il modello dell’algoritmo deve essere reso pubblico”.

*Investigate Europe

Alitalia, la proroga delle offerte mette in allarme i sindacati

La scadenza viene rinviata, la soluzione non sembra proprio a portata di mano e la preoccupazione per il futuro di Alitalia aumenta. La reazione del sindacati, dopo la decisione del ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio di indicare nel 15 giugno il nuovo termine per la presentazione dell’offerta da parte di Fs, non si fa attendere e punta sulla richiesta di una convocazione da parte dello stesso Di Maio, perché fornisca spiegazioni su quanto sta accadendo. A ribadire un allarme per la difficoltà di trovare una soluzione sono la Fit Cgil e la Uilt, mentre il ministro delle Politiche agricole, Gian Marco Centinaio, torna sull’ipotesi Lufthansa, ma solo se in cordata con operatori italiani. Alla compagine azionaria che dovrebbe rilevare Alitalia gestita da tre commissari, manca un socio al quale, secondo Di Maio, dovrebbe andare una quota del 15%. Al momento tutto si gioca sulla possibilità che, malgrado le ultime smentite della holding dei Benetton, sia Atlantia a entrare in partita: il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli ha fatto mezze ammissioni su contatti avviati, ma ha escluso qualunque ‘scambio’ con il ritiro della concessione autostradale per il crollo del ponte Morandi a Genova.

E a Genova entra nell’affare della ricostruzione

In attesa che la conversione in legge dello Sblocca cantieri riapra una stagione di grandi infrastrutture e appalti allegri in stile legge Obiettivo, si sono già svolte le prove generali a Genova, coi risultati sperati. Senza aver vinto una gara, una società informatica semi-privata, partecipata fra gli altri da Autostrade per l’Italia (Aspi), si è aggiudicata 30 milioni di fondi pubblici per la realizzazione di alcuni parcheggi per camion. Così, anche se il governo gialloverde ha escluso che Aspi possa partecipare alla ricostruzione del ponte (deve pagare però l’intera somma della demolizione), la controllata da Atlantia ci sarà comunque. Un “miracolo” reso possibile dal decreto Genova che ha autorizzato il commissario per la ricostruzione e sindaco di Genova, Marco Bucci, a infischiarsene delle regole sulle gare pubbliche. Al punto di portare l’Anac, l’autorità anticorruzione, a stracciare la convenzione che avrebbe dovuto limitarne l’arbitrio, come rivelato dal Fatto il 6 aprile scorso. Pochi giorni fa il commissario Bucci, senza selezione alcuna, ha decretato che sarà Uirnet ad occuparsi delle attività previste dall’articolo 6, che ha stanziato 30 milioni di euro per realizzare “infrastrutture ad alta automazione, sistemi informatici e relative opere accessorie per garantire l’ottimizzazione dei flussi veicolari logistici in ingresso e in uscita dal porto”.

Resta il dubbio sulla scelta di una società informatica per realizzare un varco portuale, tre parcheggi per tir (uno annesso al varco, due oltre Appennino) e per progettare uno scalo ferroviario ad Alessandria. Uirnet è, infatti, una Spa ad azionariato diffuso (39 soci, fra cui soggetti pubblici e privati come appunto Autostrade per l’Italia e associazioni dell’autotrasporto), creata 15 anni fa per implementare la Piattaforma logistica nazionale digitale, un sistema che dovrebbe collegare ogni soggetto attivo nei trasporti in Italia.

Il progetto è ancora a uno stadio parziale, mentre gli archivi parlamentari traboccano di interrogazioni (soprattutto M5s) sui fondi pubblici drenati negli anni dalla Uirnet, il cui presidente e ad è Rodolfo De Dominicis. Accreditato da sempre di simpatie dem, è apprezzato anche a destra. È stata, infatti, Forza Italia a impegnare a fine ottobre il governo per affidargli i 30 milioni dell’articolo 6, avvalorando quanto scritto dal Fatto che ha annunciato questo esito già il 10 ottobre scorso. Sul fronte del decreto di Bucci, l’ipotesi delle “aree buffer ad alta automazione” (dicitura del decreto per nobilitare i parcheggi) si è diffusa a macerie ancora fumanti, malgrado la contrarietà degli operatori portuali.

A caldeggiarla tre soggetti che ne trarranno vantaggio. L’Autorità portuale – col parcheggio annesso al varco (22mila metri quadrati) – ha affermato di considerare risolto il problema autoparco, struttura rinviata per anni malgrado i fondi e le aree ben più ampie a disposizione. Poi c’è Vte, il principale terminal concessionario dello scalo, che – afflitto da problemi di congestione da prima del Morandi – vedrà realizzarsi con soldi pubblici il progetto di realizzare un’area prossima alla A26 da cui scaglionare l’accesso dei camion ai suoi gate. Infine, c’è Uirnet che disporrà del plafond finanziario chiesto dalla Bei (la banca europea per gli investimenti) per soddisfare una precedente richiesta di finanziamento. Senza dimenticare i poteri espropriativi che gli sono stati attribuiti da esercitarsi, presumibilmente, senza sottilizzare sulle perizie. Perché – forse il punto più critico – Bucci ha esteso i propri superpoteri a Uirnet che non dispone di competenze ingegneristiche e dovrà quindi, da decreto, “avvalersi di società di comprovata esperienza e profonda conoscenza delle tematiche logistiche”. Vale a dire che un soggetto semi-privato, partecipato da Aspi, disporrà di 30 milioni stanziati per l’emergenza Morandi da utilizzarsi “in deroga a ogni disposizione di legge diversa da quella penale”.

Avellino, Autostrade ha fatto la manutenzione al risparmio

Raccontano una storia le 22 pagine del decreto di sequestro preventivo delle barriere bordo ponte di 12 viadotti tra Baiano e Benevento, il tratto autostradale della A14 dove nel luglio 2013 morirono 40 persone, intrappolate in un bus precipitato dal viadotto di Acqualonga perché il new jersey cedette all’impatto. Avrebbe retto se i sistemi di ancoraggio non fossero marciti per incuria e intemperie. È la storia del perché quel disastro sarebbe accaduto ancora.

È la storia di come Autostrade per l’Italia dopo la strage fece interventi di manutenzione raffazzonati e al risparmio, sostituendo i tirafondi Liebig plus con barre filettate inghisate nell’economica malta cementizia e non nella costosa ma più affidabile resina, peggiorando la sicurezza delle barriere. Poi tra maggio e luglio 2015 effettuò quattro crash test dagli esiti contraddittori o negativi. Dei primi due ne inviò solo i report e ne nascose per più di tre anni i video al ministero delle Infrastrutture, trasmettendoli solo con l’incombere delle prime indagini del procuratore capo di Avellino Rosario Cantelmo. Mentre degli altri due report di giugno e luglio 2015, se ne è scoperta l’esistenza solo in seguito. E, infine, “al chiaro fine di non alimentare sospetti circa la non affidabilità delle barre filettate oggetto di recente sostituzione”, scrive il gip Fabrizio Ciccone, Aspi fece un nuovo crash test l’8 febbraio 2019, “l’unico con esito realmente positivo” – quando la notizia dell’inchiesta bis su tutti i viadotti di competenza Aspi è nota da novembre – stavolta non impiegando personale proprio, ma rivolgendosi ai tecnici della Basf Cc Italia spa per la preparazione del campo-prova, “i quali, con la loro specifica competenza nella preparazione della malta per il riempimento dei fori di inghisaggio, hanno avuto evidentemente un ruolo determinante nell’esito positivo della prova di collaudo”, si legge a pagina 21 del decreto.

Peccato che i tecnici del crash test non coincidano con gli operai che materialmente effettuarono tra il 2014 e la metà del 2015 le sostituzioni dei tirafondi Liebig lungo i ponti della Napoli-Canosa. Provvidero ditte incaricate da Aspi, ma i tecnici della Basf Cc non vi parteciparono, come certificato da una mail del loro dirigente. Ci sono quindi forti dubbi sulla qualità di interventi che dipendono fortemente dalle modalità di installazione: la pulizia del foro, l’umidità, la temperatura, il dosaggio della malta. Ma era meglio utilizzare resina. Lo verbalizza l’11 aprile Luigi Serafin, titolare di una ditta specializzata nell’installazione di barriere laterali metalliche, la Mds: la sistemazione degli ancoraggi con la malta è sconsigliata perché non ha efficienza nella tenuta dell’ancoraggio dei tirafondi, mentre la resina ha sortito ottimi risultati nei crash test, spiega. La resina, ricorda, ha la caratteristica di essere pronta all’uso, senza particolari preparazioni, al contrario della malta, che deve essere miscelata con le dovute cautele. “Questo spiega perché la resina sia molto più costosa”.

E sarebbe proprio la politica del risparmio alla base degli interventi decisi da Aspi sui 12 viadotti. Il giudice lo afferma incorniciando la testimonianza dell’ingegnere Alfredo Principio Mortellaro, già componente del Consiglio Superiore dei lavori pubblici che diede parere sfavorevole alla sostituzione dei Liebig con le barre filettate. Sentito il 18 maggio dal pm, Mortellaro ha spiegato che la soluzione tecnica più corretta sarebbe stata quella di “sostituire vecchi “Liebig Plus” ammalorati con nuovi dispositivi della medesima tipologia, avendo cura, però, di ripristinare la geometria delle camere prevista nella progettazione originaria”. “Tuttavia – ha precisato Mortellaro – tale procedura avrebbe comportato un costo superiore a quello previsto dalla tecnica della ‘barriera inghisata’ adottata da Aspi”. E questo spiega perché si optò per questa soluzione.