Qualcuno fermi Giorgia Meloni: lo diciamo per lei. La deriva tardo-imperiale era iniziata con un comizio divenuto virale grazie alle sue grida beduine, impressionanti: “LA CAPITALE D’ITALIA È ROMA… ROMAAAA!”. Giorgia venerdì ha regalato il bis, una nuova perla che sta facendo emozionare il web: un video su Twitter di un minuto e mezzo per rivendicare un altro inalienabile patrimonio della Nazione: “Leonardo da Vinci, il più grande genio della storia dell’umanità, era italiano. Era nato a Vinci”. La scoperta è già di per sé straordinaria, ma Meloni non si ferma: è qui per denunciare. “Pensate un po’: France 2, la principale televisione francese, sostiene che Da Vinci fosse francese, tipo Leonardo da Tolosa, perché aveva vissuto tre anni in Francia”. Un fatto scabroso, una vera vergogna, quasi un incidente diplomatico. Meloni però non ce l’ha con quei caciottari transalpini, ma con i patrioti rinnegati: “Se possiamo ormai essere abituati a questa furia colonialista francese – aggiunge – perché ormai è tutto francese… le aziende sono loro, i marchi sono loro, i geni sono loro… quello che non possiamo tollerare è l’atteggiamento di certi italiani: la televisione di Stato, Rai Uno, dice che ‘Leonardo da Vinci era un genio italo-francese”. Giorgia non ci vede più. “È scandaloso tutto questo”. E vogliamo parlare della Gioconda?
B. è malato e i “vedovi” azzurri si spaccano
Siamo al paradosso: lo scorso anno alle Politiche del 4 marzo Silvio Berlusconi non era candidato (non poteva esserlo per la condanna per frode fiscale) eppure fu protagonista di una massiccia campagna elettorale; alle Europee del 26 maggio l’ex Cavaliere è candidato, ma non si vedrà. O si vedrà pochissimo.
Forza Italia si prepara al rush finale della prima campagna elettorale senza il Capo. Non era mai successo in 25 anni. E “il corpo del capo”, come ha ben raccontato Marco Belpoliti in un godibile saggio, da quelle parti è importante. Perché Berlusconi il suo corpo, e il suo volto, l’ha sempre offerto, esposto, esibito.
Sia nella buona sorte, e la passeggiata in Costa Smeralda abbronzato, sorridente e con la bandana in testa insieme a Tony Blair e consorte rimane emblematica. O quando salì sul predellino dell’auto di scorta per annunciare, in piazza San Babila, la nascita del Pdl.
Sia in quella cattiva. Con il suo volto insanguinato dopo essere stato colpito da una statuetta del Duomo, a Milano: salì su un altro predellino per farsi vedere ferito e sofferente. O la maschera di dolore indossata nel comizio sotto Palazzo Grazioli nell’agosto 2013, dopo la condanna definitiva in Cassazione, con la Pascale al suo fianco vestita a lutto. In questi ultimi 20 giorni, invece, i forzisti dovranno fare a meno di lui e accontentarsi del suo faccione nei manifesti 6×3.
Berlusconi domani verrà dimesso dal San Raffaele dopo l’operazione per occlusione intestinale, ma poi dovrà restare a riposo. La maggior parte delle ospitate televisive già fissate saranno cancellate. E difficilmente riuscirà a fare comizi: ne erano previsti quattro, in ogni collegio dov’è candidato, potrebbero ridursi a due. O forse uno solo, a Torino, visto che lì si vota anche per le Regionali.
Questa settimana è andata in scena un’assemblea dei gruppi azzurri in cui i parlamentari sono apparsi frastornati come quando l’ex Cav si operò al cuore, nel giugno 2016. “Come facciamo senza di lui?”. Più che una riunione politica è sembrata una convention motivazionale. “Tocca a noi questa volta, dobbiamo dare un’immagine di unità. Dimostrare di essere un partito vero!”, si è sentito dire dal palchetto degli interventi. Ma poi è stato lui, Silvio, dal suo letto di dolore al San Raffaele venerdì pomeriggio a chiamare al telefono Giorgio Silli, primo deputato a lasciare il partito in questa legislatura. Non è riuscito a trattenerlo, ma almeno l’ha convinto (per ora) a non passare con la Lega: starà nel misto.
Ora tutti, big e seconde file, saranno pancia a terra, a battere l’Italia per portare a casa quel benedetto 10% che segna la linea tra il paradiso e la soglia di non ritorno verso il baratro. “Siamo deboli al centro e nel nord est, sul resto teniamo, anche bene”, rassicura un deputato. Il problema, però, è sempre il dopo. E qui i forzisti immaginano tre scenari: l’ipotesi di un partito nell’orbita del centrodestra, con una Lega meno forte (“il loro spostamento a destra ci fa recuperare voti al centro”, dicono) guidata da un triumvirato Gelmini-Tajani-Carfagna. Una FI rinnovata col timone in mano a Mara Carfagna, sempre più distinta dalla Lega e in cerca di nuovi alleati al centro.
Eppoi lo scenario più suggestivo, di cui si è avuto già qualche vagito nella Sicilia di Miccichè: una nuova forza insieme ai renziani in uscita da un Pd più spostato a sinistra. “Se Zingaretti alle Europee sta sopra il 20, escono di sicuro”, si ragiona in FI. A quel punto servirà però una guida terza, il famoso papa straniero. Urbano Cairo continua a negarsi, così pure Diego Della Valle, ma dopo il 26 maggio, con uno scenario diverso, chissà…
Zingaretti dice sì a Mattarella: governissimo tecnico post-voto
Un governo tecnico o di unità nazionale, con tutti dentro, compreso il Pd? Mentre l’unica cosa sulla quale concordano esponenti sia della maggioranza (magari dicendolo sottovoce) sia dell’opposizione è che il governo gialloverde non può durare, questo scenario appare se non probabile, possibile. Nelle sue conversazioni con Sergio Mattarella, Nicola Zingaretti ha chiarito che il Pd non appoggerà un governo, a meno che, però, non ci siano dentro tutti. Dando dunque una disponibilità, per quanto non proprio entusiasta, all’appoggio di un esecutivo, su richiesta del presidente. Il quale non vuole mandare il Paese alle elezioni, prima della manovra. Dunque, Zingaretti sarebbe disposto a fare quello che fece Pier Luigi Bersani, su richiesta di Giorgio Napolitano, ovvero appoggiare un esecutivo “lacrime e sangue” (allora guidato da Mario Monti)? Per Bersani fu l’inizio della fine, per l’attuale segretario potrebbe essere lo stesso.
Ufficialmente, i vertici del Nazareno negano di voler riparare i guai creati da altri. Ma una volta data una disponibilità (per quanto condizionata) a un governo di tutti, il voto alla legge di Bilancio viene di conseguenza. Sarà per questo che la speranza del Pd zingarettiano è che Mattarella non agisca come Napolitano. Ma nessuno si sente di negare che alla fine proprio questo avverrà. L’ipotesi di un governo votato da tutti (Lega, Cinque Stelle, Pd, FI e magari Fratelli d’Italia) circola con insistenza. Una serie di indizi vanno in questa direzione. Il ministro degli Esteri, Enzo Moavero a Frans Timmermans ha ammesso l’ipotesi. E per il grillino Alessandro Di Battista il governo può cadere dopo le Europee.
Al Colle si studiano le opzioni: uno dei dossier più gettonati è quello che vedrebbe un governo guidato non da un economista alla Mario Monti, ma da una donna (Elisabetta Belloni o Paola Severino) che si faccia carico dell’aumento dell’Iva e riesca a salvaguardare reddito di cittadinanza e Quota 100. Dovrebbero farne parte seconde file di 5Stelle e Lega, con innesti del Pd. Soluzione alquanto complicata: come convincere tutti a votare un compromesso che oggi nessuno può immaginare, con il rischio che qualcuno si sfili? Nonostante questo, potrebbe rivelarsi come l’unica possibile: l’altra vedrebbe Matteo Salvini mettersi a capo di una maggioranza di centrodestra, con l’aiuto di nuovi Responsabili. Ma davvero sarebbe disposto a fare il premier senza passare per le elezioni, inglobando quel che resta dei berlusconiani e magari accettando la stampella dei renziani? Difficile crederci. E dunque, il governo tecnico sarebbe l’ennesimo “sacrificio” del Pd, con risultati dubbi. Nonostante Zingaretti evochi le elezioni un giorno sì e l’altro pure, il Pd non è pronto per il voto: quel che resta del renzismo pronostica un pessimo risultato alle Europee, con conseguente dissoluzione del partito. E poi chi sarà il candidato premier? Che sia lo stesso Zingaretti è escluso, fin da prima delle primarie.
L’ipotesi più accreditata fino a qualche settimana fa, vedeva come frontman Paolo Gentiloni. Se il voto fosse stato immediato, però. Altrimenti, l’esigenza è quella di un profilo più nuovo e meno consumato. Come il sindaco di Milano, Beppe Sala. “È una risorsa, non escludo nulla”, ha risposto Zingaretti a domanda diretta sul tema. Il giorno dopo tutti minimizzano, a partire dallo stesso Sala: “Una risposta scontata, un apprezzamento di cui sono contento. Ma resto a Milano per due anni”. Però, le candidature si costruiscono proprio così: tra ammissioni che appaiono sfuggite e smentite più o meno obbligate.
Viterbo, fermato il presunto assassino del commerciante
È stato inchiodato dai video delle telecamere di sorveglianza il 22enne statunitense, fermato ieri a Capodimonte, in provincia di Viterbo, accusato di aver ucciso Norveo Fedeli, il commerciante di 74 anni massacrato venerdì con un colpo di spranga o con uno sgabello alla testa, nel suo negozio probabilmente nel corso di una tentata rapina. Nel B&B dove lo statunitense alloggiava sono stati ritrovati il portafoglio della vittima e la carta di credito con cui il 22enne aveva cercato di fare le transazioni nel negozio di Fedeli. Le immagini delle telecamere riprendono il 22enne a poca distanza dalla jeanseria mentre si allontana con una busta intorno a una scarpa, la stessa scarpa che secondo una prima ricostruzione, ha lasciato un’impronta sul cranio insanguinato del commerciante ucciso: “È un soggetto pericolosissimo e il provvedimento di fermo è stato emesso per scongiurare il rischio di fuga”, hanno detto gli inquirenti. Secondo quanto accertato finora, il ventiduenne non risulta avere precedenti in Italia mentre sono in corso verifiche per accertare che non abbia commesso reati all’estero. Il fermo dovrà essere ora convalidato dal gip.
Tesoro leghista, le due operazioni sospette
I pm non lasciano, anzi raddoppiano. I magistrati genovesi che danno la caccia ai 49 milioni del tesoretto della Lega, adesso puntano (un fascicolo ancora senza indagati) su due distinte operazioni finanziarie con direzione Lussemburgo da 10 milioni l’una. Per questo nei giorni scorsi si sono recati a Lugano per sentire come testimone Dario Bogni che in passato è stato a capo del servizio treasury and treading di Sparkasse e oggi presta servizio presso una società con sede a Lugano, la Ipartners (non toccata dall’inchiesta).
Della prima operazione il Fatto aveva dato notizia a settembre. Si tratta di tre milioni (ma gli accertamenti complessivi arrivavano a 10) che dalla bolzanina Sparkasse erano andati in Lussemburgo per essere gestiti dalla Pharus (società nota e apprezzata per gli investimenti finanziari nel Granducato). Da qui, all’inizio del 2018, erano rientrati in Italia. Proprio dal Lussemburgo, dopo le notizie sulle inchieste giudiziarie genovesi, era partita la segnalazione a Bankitalia del movimento sospetto.
L’informazione era finita sulla scrivania dei pm genovesi che a giugno erano andati a Bolzano per acquisire materiale presso la sede Sparkasse dove la Lega aveva aperto, e dopo pochi mesi chiuso, conti correnti. Dalla filiale vicentina di Unicredit e dalla sede milanese di Banca Aletti i denari nel 2013 erano appunto andati su due conti aperti presso la filiale milanese dell’istituto altoatesino. Sparkasse, appena ricevuta la visita delle Fiamme Gialle genovesi, aveva smentito un legame tra il denaro del Carroccio e i milioni andati e tornati dal Lussemburgo: “Quei tre milioni sono soldi nostri. Li abbiamo impiegati in operazioni finanziarie perfettamente lecite”.
Ma i pm ora vogliono chiarire un’altra operazione finanziaria. Parliamo di ulteriori 10 milioni che sempre da Sparkasse sarebbero usciti per andare alla Julius Baer di Zurigo, la più importante banca svizzera impegnata nella pura gestione patrimoniale. Anche questo denaro, secondo gli investigatori, sarebbe confluito in Lussemburgo. Ipotesi in sé del tutto lecita, ma qui il discorso è un altro: bisogna capire se quel denaro sia un rivolo uscito dai 49 milioni della Lega.
Bogni durante il colloquio con i magistrati (vedi l’articolo sopra) ha sempre sostenuto che il denaro non è riferibile alla Lega. E ha ricordato che le registrazioni ambientali in cui fa riferimento agli spostamenti dei soldi nascono dalla lettura dei giornali. Ai magistrati risulta, però, che dalla Pharus, appena avuta notizia della rogatoria avviata dalla Procura di Genova, qualcuno decise di capirci di più e si recò a Lugano, forse proprio per parlarne anche con Bogni.
Intanto oggi l’Espresso riporta un’altra notizia: l’Uif – Unità di informazione finanziaria di Bankitalia che si occupa anche di anti-riciclaggio – nei mesi scorsi ha compilato un rapporto. Vi si parla, riferisce il settimanale, di una transazione finanziaria che collega Giulio Centemero (non indagato in questa inchiesta), parlamentare e tesoriere della Lega, a una piccola società italiana controllata dalla Ivad, una fiduciaria lussemburghese. Si tratta della Alchimia srl, domiciliata in via Angelo Maj 24, a Bergamo. Qui dove hanno sede anche uno studio da commercialista e l’associazione “Più Voci”, fondata da tre commercialisti vicini al vice-premier Matteo Salvini: Centemero, Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba. Questi ultimi sono stati nominati rispettivamente direttore amministrativo e revisore dei gruppi parlamentari.
Il 10 agosto del 2016, scrive l’Espresso, Centemero ha versato denaro sui conti della Alchimia. E lo avrebbe fatto, almeno secondo il rapporto Bankitalia, “utilizzando anche provviste derivanti dall’accredito lo stesso giorno di un bonifico della Lega Nord”.
“Per la banca investivo denaro. Non sapevo fosse della Lega”
“Lei ha un conto in banca?”. Esordisce così, con una domanda, Dario Bogni. I suoi colleghi lo definiscono “uno che i soldi li sa investire”. Nel passato di questo cinquantottenne lombardo ci sono esperienze di lavoro all’estero, poi un passaggio alla Sparkasse di Bolzano. Oggi lo ritroviamo in una società nel centro di Lugano, a due passi dal lago, che si occupa, tra l’altro, di investimenti finanziari. Secondo i pm genovesi la sua testimonianza (non è indagato) potrebbe essere decisiva per ricostruire i movimenti dei 49 milioni della Lega. Per la prima volta Bogni accetta di parlare. Tono cortese, premuroso. Com’è il suo personaggio: un uomo apprezzato negli ambienti finanziari, ma quasi sconosciuto. In Internet le foto di Bogni si contano sulle dita di una mano. Il suo nome quasi non compare.
Dottor Bogni, le domande dovrei farle io. Comunque, sì, ho un conto in banca…
Allora è probabile che una parte del suo denaro sia stata investita in Lussemburgo. Capita spesso ed è legale.
I pm sostengono che lei avrebbe gestito due operazioni finanziarie con destinazione Lussemburgo forse compiute con i soldi della Lega…
Premetto: non sono indagato, i pm a Lugano mi hanno ascoltato come testimone.
Partiamo dai 10 milioni che da Sparkasse sono andati in Lussemburgo e poi sono tornati in Alto Adige. Sono della Lega?
Chi, come me, gestisce il denaro, magari per conto di una banca, può non sapere di chi sia.
Davvero non ha idea di chi fossero quei milioni?
Quei soldi erano della Sparkasse. Lo dice anche la banca.
E i 10 milioni che secondo i pm sarebbero passati attraverso la Julius Baer?
Dopo aver lasciato la banca ho continuato a lavorare come consulente. Ho fatto altri investimenti. Ma ripeto: erano soldi della banca.
Abbiamo parlato con alcuni suoi ex colleghi di Sparkasse. Sostengono che lei avesse simpatie leghiste.
Non è vero. Io mi occupo solo del mio lavoro.
Lei non è leghista?
Non ho mai avuto una tessera di partito.
Dicono che lei fosse apprezzato nei giri leghisti, soprattutto ai tempi di Umberto Bossi.
Mai conosciuto Bossi. E nemmeno Roberto Maroni, Matteo Salvini o Giulio Centemero. Mai.
E le società bergamasche, dove compare anche Centemero, che hanno lavorato con il Lussemburgo?
Non è un reato. Ma prima che i giornali ne parlassero non le conoscevo nemmeno.
In un’inchiesta bolzanina che non la riguarda c’è una registrazione in cui figura anche lei. Con il suo ex collega Sergio Lovecchio, ex direttore finanziario Sparkasse, il 13 settembre scorso discutevate degli spostamenti di denaro tra Bolzano e Lussemburgo.
Era il giorno in cui i giornali hanno dato la notizia. Ovvio che ne parlassimo, avevamo lavorato lì.
È vero che già prima dal Lussemburgo è arrivato qualcuno per chiedervi notizie di due operazioni finanziarie?
Questa storia mi sta procurando grossi guai professionali. E anche un profondo disagio personale… per tre righe di articolo rischio di buttare via quarant’anni di lavoro e di impegno.
La Difesa twitta e poi si smentisce. Il Viminale randella la Trenta
Un tweet dell’account della Difesa è stato l’ultimo motivo di scontro nel governo. Riportava la notizia, con tanto di complimenti di Elisabetta Trenta, che la Marina aveva salvato nove pescherecci italiani attaccati in mare da motovedette libiche. Il tweet viene rimosso dopo poco con smentita : quanto riportato da alcuni organi di stampa “circa un salvataggio della Marina di alcuni pescherecci nei pressi delle acque libiche è falso”. Insomma, il ministero sostiene di essersi affidato a fonti di stampa invece che fare una telefonata alla Marina e ammette di aver diffuso una fake news. Situazione imbarazzante visto che le motovedette ai libici le abbiamo date noi per il pattugliamento delle coste. Il Viminale attacca alzo zero sulla collega: “Il ministro Trenta non è informata e non approfondisce: preferisce polemizzare con Salvini. Faccia il ministro della Difesa. Le Forze Armate meritano molto di più”. Sdegnata la reazione: “Non si era mai vista un’istituzione usata per fare campagna elettorale e attacchi politici”.
A sera, raggiunto dall’Adn, Toni Scilla, presidente di Agripesca Sicilia, conferma: “I nostri nove pescherecci sono stati salvati solo grazie al tempestivo intervento della Marina”.
E adesso l’avvocato ha più “gradimento” di Capitano e governo
Ora bisognerà vedere l’effetto dell’inatteso decisionismo del premier sul caso del sottosegretario indagato Armando Siri: “La notizia è che abbiamo un presidente del Consiglio”, l’ha benedetto il comico Maurizio Crozza nel suo show televisivo. Intanto, una rilevazione condotta dall’Ipsos di Nando Pagnoncelli dal 30 aprile al 2 maggio e pubblicata ieri sul Corriere della Sera segnala una cosa non da poco per Giuseppe Conte: i giudizi positivi sul suo operato superano il 50% nell’elettorato (sono al 53 per la precisione col 37% di opinioni negative), frutto soprattutto del gradimento degli elettorati di 5 Stelle e Lega, che lo approvano entrambi con percentuali superiori all’80%, e di buoni risultati anche nell’elettorato di Pd/+Europa (25% di giudizi positivi). Conte, peraltro, in questa classifica supera anche Matteo Salvini, il cui gradimento è al 48% (col 40% di pollici versi). Lontanissimo Luigi Di Maio, che “piace” al 32% degli elettori, secondo Ipsos, e “dispiace” invece al 54%. Depurato da indecisi e chi non risponde, quest’indice è in calo per tutti i gialloverdi, ma meno per Conte (59, -1) rispetto a Salvini (55, -4) e Di Maio (37, -7). Il premier è pure più popolare del governo (56, -2).
La guerra di carta di Salvini al premier: la finta crisi nei retroscena sui giornaloni
È la politica dei retroscena. L’ultimo atto della battaglia campale tra gialli e verdi sul caso Siri si combatte a suon di virgolettati sui quotidiani nazionali. Parole spifferate, ufficiose, concesse in pasto ai narratori del retropalco del potere. Servono a dare lo spin, la linea politica, senza sporcarsi le mani. I giornali ricevono e volentieri pubblicano.
Così ieri, a colonne unificate, Matteo Salvini ha fatto sapere di essersi stufato di Giuseppe Conte. Ma senza metterci la faccia. Non c’è una sua intervista, ma solo frasi raccolte, interpretazioni, “avrebbe detto”, “chi è vicino a lui fa sapere che” e via dicendo.
L’effetto è comunque notevole, basta leggere i titoli dei giornali. Repubblica: “Salvini dà lo sfratto al premier/ ‘Conte non ha più la mia fiducia’”. L’articolo spiega che ormai è “Game over, Salvini abbandona la modalità zen dei giorni scorsi” e vuole “chiuderla qui”. Ma l’ha detto il Capitano in persona? No, lo “lascia emergere dai suoi”. Traduzione: è una velina leghista.
Il Corriere della Sera è appena più morbido: “Salvini: ‘Siri non molla’/ L’ira del leader con Conte: il governo va avanti se si dicono anche dei sì”. Matteo – leggiamo – “continua ad essere descritto come esterrefatto dal comportamento di Conte”. Notare anche qui la formulazione: Salvini non è esterrefatto, ma “continua a essere descritto” come tale. Malgrado nei comizi pubblici continui a dichiarare che il governo va avanti, Il Corriere non si fida: “Secondo alcune ricostruzioni, il leader leghista l’altro giorno, di ritorno dalla Tunisia avrebbe detto che con i 5 Stelle ‘è finita’”. Nella pagina a fianco peraltro c’è uno speculare contro-retroscena di Luigi Di Maio su Salvini (lo sfogo del 5Stelle “con i suoi”, l’irritazione, “il guanto di sfida”).
Poi c’è La Stampa che apre così: “Il gelo di Salvini: ‘Conte non ha più la mia fiducia/ È un carnefice’”. Qui l’interpretazione dei sentimenti del Capitano aggiunge un nuovo cruento particolare al suo sdegno: avrebbe definito il premier come una specie di sicario. Conte – secondo La Stampa – “si è tolto la maschera”. Matteo fa sapere che: “Non ha più la mia fiducia. Si sta comportando come un carnefice”. Pensieri e parole raccolti direttamente dalle sue labbra? No. La fonte è un altro retroscena di un’agenzia di stampa: “Secondo la ricostruzione dell’Agi questa conclusione l’avrebbe confidata martedì scorso ad alcuni fedelissimi al suo rientro dalla Tunisia” (è la stessa “ricostruzione” citata dal Corsera).
L’ultimo bollettino dalla guerra delle veline – sia chiaro: la combattono tutti, gialli e verdi – è quello del Messaggero: “‘Crisi dopo il voto e via Conte’/ Salvini vuole staccare la spina”. Ancora un’altra sfumatura nell’interpretazione delle volontà del Capitano. E pure in questo caso il retroscena non è basato su parole pronunciate da lui. Anche perché “Matteo Salvini non parla e applica la ‘dissimulazione cortese’ al caso Siri”. Lui tace, “ma i suoi colonnelli, a partire dai ministri, disegnano uno scenario nitido: il gabinetto Conte il 27 maggio potrebbe non esserci più. Puff”. Insomma, Salvini “dissimula cortesemente”, ma “i colonnelli” chiacchierano assai, e in modo crudele: “Con quella dichiarazione Conte ha firmato il suo suicidio politico”.
Ecco. Cosa rimane il giorno dopo di questa lunga sequela di retroscena, ipotesi, ricostruzioni e dichiarazioni più o meno anonime regalate alla grande stampa? Nulla. Ieri mattina Salvini si sveglia e decide di cancellare con un unico tratto di penna tutti i virgolettati che gli sono stati attribuiti il giorno prima. “Il governo va avanti, durerà altri 4 anni e agli italiani non frega niente di quello che titolano i giornali che rincorrono polemiche inutili. I giornalisti sono liberi di scrivere quello che vogliono, ma poi non si devono lamentare se i giornali vendono sempre meno. Io la sera preferisco guardare Peppa Pig con mia figlia”. Fine. La guerra di carta si combatte così.
Come si caccia l’Armando? Il voto del Cdm non è decisivo
Stabilito che lo si vuol fare, come si caccia Armando Siri dal governo? La cosa, tecnicamente parlando, è di semplicità disarmante, ma in una scelta esclusivamente politica difficilmente il problema sarà la procedura. Tradotto: se la Lega fosse concorde col presidente del Consiglio, Siri sarebbe già fuori. Giuseppe Conte si trova dunque a dover andare avanti su una strada che non ha veri precedenti.
La legge di riferimento è la 400 del 1988, che regola l’attività di governo. Dei sottosegretari si parla all’articolo 10: la procedura di revoca non è dettagliata, ma – essendo impossibile che una nomina non possa essere annullata – funziona a contrario rispetto a quella di nomina, cioè “con un decreto del presidente della Repubblica, su proposta del presidente del Consiglio dei ministri, di concerto col ministro che il sottosegretario è chiamato a coadiuvare, sentito il Consiglio dei ministri”.
In sostanza, Conte concorda il decreto di revoca con Danilo Toninelli (di cui Siri è sottosegretario) e lo manda al Quirinale per la firma “sentito” il Consiglio: insomma, non serve alcun voto, i dissenzienti possono al massimo mettere a verbale le loro perplessità com’è successo martedì con due delle 4 nomine ai vertici di Banca d’Italia approvate in Cdm. Sergio Mattarella ha già fatto sapere che ritiene la nomina e la revoca dei sottosegretari un “atto di indirizzo politico”, che sta insomma in capo al governo e ai partiti che lo sostengono. Tradotto: se gli arriva il decreto, lo firma.
La situazione è, però, politicamente una novità assoluta. Il precedente che spesso si cita, cioè la cacciata di Vittorio Sgarbi dal ministero della Cultura con una presa di posizione formale del Consiglio dei ministri, fu in realtà una scelta unanime del governo e della maggioranza contro le resistenze di un singolo: non è questo il caso e, se lo diventasse, non sarebbe più un problema.