Maduro o Guaidó? Chi ha ragione? Di chi è la colpa, qui? Dell’imperialismo o del socialismo? Degli americani, che hanno bloccato i conti correnti del Venezuela, o del welfare, di un governo che spende, e spende e spende, ed è finito sul lastrico? Cos’è stato Chávez? Cos’è davvero questa sua rivoluzione? Una sfida al pensiero unico, o alla matematica?
Dopo tre giorni, penso una cosa sola: ho fame. Ho fame e basta. Il Venezuela ha 32 milioni di abitanti. E secondo le stime Onu, 4,3 milioni hanno bisogno di acqua, 3,7 milioni di cibo. 2,8 milioni di farmaci. E 3,4 milioni sono già andati via.
In media, in Venezuela perdi 11 chili l’anno. L’hanno ribattezzata “la dieta Maduro”: e segna lo sguardo logoro dei miei coinquilini della Mision Vivienda della avenida Libertador, una delle principali di Caracas. Vivo qui, in uno dei complessi di edilizia popolare voluti da Chávez per i senza casa. Che all’epoca erano 2,9 milioni. Sono 12 piani. Con 8 appartamenti a piano. E si conoscono tutti. Sto da Mariela Herrera, 48 anni, infermiera, e suo figlio. E in casa abbiamo un chilo di riso, mezzo chilo di farina, tre carote e un pezzo di formaggio. Ma quando tiro fuori la mia scorta di biscotti, Baleska Samivamis, che ha 44 anni e nessun lavoro e sta al piano di sopra insieme alla madre, due figli e un nipote, e in dispensa ha mezzo chilo di riso e 6 pomodori, e per capire quello che dico mi legge il labiale, perché non sente, e non può più permettersi la pila dell’apparecchio acustico, propone subito di andare al 6 piano a dividerli con Eliana Benitez, 49 anni, di mestiere portinaia: che ha la sclerosi. Mi offrono un bicchiere d’acqua di pioggia. Ma berrei qualsiasi cosa, a questo punto. Ho sete. Sete e basta. Ho bevuto l’ultima volta 11 ore fa.
Vivo qui, e come tutti gli altri, vivo con 600 bolívar al giorno. Il salario minimo. Non so bene quanto sia, in realtà. Un dollaro sono 3mila bolívar, ma l’inflazione è a sette cifre: e il bolívar non è che carta colorata. Letteralmente. Ci fai gli origami. E comunque, nessuno sa più il prezzo di niente. Perché dipende se paghi in bolívar o in dollari. E in un negozio normale o del governo. O al mercato nero. E se paghi in contanti, o via telefono, o con una carta di credito. E i contanti, tra l’altro, non si trovano più, perché non ci sono più i soldi per stamparne abbastanza.
Un dollaro sono 3mila bolivar: ci fanno gli origami
(…) In realtà, sono anni che qui nessuno sa più il prezzo di niente. Il Venezuela produce solo petrolio. E con il petrolio, compra tutto: 7 prodotti su 10 sono importati. E quindi, dipende dal dollaro. Nel 2003 Chávez ha introdotto un tasso di cambio fisso. O meglio: tassi di cambio fissi. Tre. Uno per le imprese statali. Uno per le imprese private e i cittadini, fino a 3mila dollari a testa. E uno per tutto il resto. (…) In base al tasso di cambio a cui avevi accesso, legalmente o tramite mazzette, il Venezuela era il paese in cui pagavi solo 1,50 dollari per un Big Mac: o 17.333 per un iPhone 6.
E allora, come era davvero il Venezuela di Chávez? Era un paese ricco o un paese povero? Quanto era il suo Pil? 650 miliardi di dollari, più di quello della Svezia? O 23 miliardi di dollari, quanto il patrimonio di Jack Ma, il fondatore di Ali Baba? E in realtà, il Venezuela non dipende solo dal petrolio. Dipende anche dagli Stati Uniti, che tanto detesta: e che però sono i suoi maggiori clienti. Gli unici con raffinerie adatte al suo petrolio pieno di zolfo. E nel 2015, mentre i prezzi al barile precipitavano del 70%, Obama ha dichiarato il Venezuela una minaccia per la sicurezza. Le sanzioni sono iniziate con Trump. Che ha vietato tutte le transazioni finanziarie con il Venezuela, mentre in Europa, società come la Euroclear congelavano 1,2 miliardi di dollari destinati all’acquisto di farmaci. Misure criticate dall’Onu, poiché coercitive e unilaterali. E il diritto internazionale proibisce di provare a cambiare un governo con la forza. Militare o di altra natura. Tra l’altro, invece di cambiarlo, le sanzioni hanno finito per rinsaldarlo. Perché qui non evocano l’Iraq, o l’Iran: ma il Cile di Allende. Questa non è una crisi, dice Maduro: è una guerra economica.
Alle manifestazioni contro il regime non senti che tre parole: luz, aqua, comida. Luce, acqua, cibo. A quelle per Maduro una sola. Sabotaje. Sabotaggio.
I venezuelani hanno un’unica parola in comune. Usurpación. Il 23 gennaio Juan Guaidó, 35 anni, portavoce dell’Assemblea nazionale, si è proclamato presidente. Maduro, dice, non ha il consenso del paese: perché è stato rieletto con un’affluenza del 46%. E ha invocato l’articolo 233 della Costituzione. In base a cui il portavoce dell’Assemblea subentra al presidente in caso di morte, rinuncia, destituzione da parte della Corte suprema, incapacità fisica o mentale, e revoca popolare tramite referendum: non anche per autoproclamazione, però. Motivo per cui Maduro sostiene che l’usurpación è piuttosto quella di Guaidó. Il cui primo alleato è Trump. Eletto con 2,9 milioni di voti in meno di Hillary Clinton.
Fosse solo per l’articolo 233, sarebbe tutto facile, forse. Tutto più chiaro. Solo che poi, per strada, all’improvviso, sparano. Siamo sull’avenida Fuerzas Armadas. E due uomini in maglietta rossa, e nessun distintivo, disperdono così una protesta contro Maduro. Sono i colectivos. Il loro logo è ovunque, sui muri di Caracas, ed è proprio questo: un uomo che spara. E sotto: En defensa de la revolución. Sono dei gruppi locali. Gruppi di quartiere. Dediti ad attività sociali, in teoria. Ma non si sa con precisione chi siano, e soprattutto, agli ordini di chi siano. O meglio: ognuno ha un suo riferimento tra gli uomini del governo. All’ombra di Maduro.
Il logo dei “colectivos” è un uomo che spara
La vera usurpación, qui, è quella di cui non parla nessuno. Caracas ha 6mila omicidi l’anno. E sono i numeri di un paese in guerra: 30mila l’anno, in tutto. Quanto lo Yemen.
(…) “Il problema, qui, prima ancora che politico, è culturale”, mi dice Katy Camargo, 42 anni, l’attivista più nota di Petare, lo slum più povero di Caracas. “Come in tutti i paesi con il petrolio, siamo abituati ad avere tutto dallo stato. Quando gli ospedali hanno iniziato a non funzionare, siamo andati in quelli privati. Quando le scuole hanno iniziato a non funzionare, siamo andati in quelle private. Ci siamo adattati. Perché tanto, c’era il petrolio. Non siamo abituati a impegnarci. A partecipare”, dice. Se non con un colpo di clacson. “Qui ti aspetti che l’opposizione cambi le cose per te”, dice. “E l’opposizione si aspetta che Guaidó cambi le cose per tutti”. “Ma così come il problema non è solo Maduro, la soluzione non è solo Guaidó”.
(…) In fondo al fondo del fondo della strada, all’improvviso, compaiono migliaia e migliaia di magliette rosse: sono i sostenitori di Maduro. Organizzatissimi. C’è la musica, gli striscioni, le bandiere, le milizie in divisa da ranger, che fanno un po’ Corea del Nord: ma soprattutto, c’è mezza Caracas. E quando chiedo a dei soldati: Come va?, mi rispondono: “Bene. Anzi, benissimo”. Perché l’esercito qui è come in Egitto: in base all’articolo 328 della Costituzione, “partecipa allo sviluppo nazionale”. E da quando è presidente Maduro, che ha molto meno carisma di Chávez, e molti più nemici, i generali hanno un ruolo crescente. Sono a capo del 40% delle imprese statali. I soldati distribuiscono riso e pollo. E patate. E anche spezzatino di carne.
Katy Camargo mi tira via.
Negli anni in cui Chávez è stato presidente, dal 1999 al 2013, il prezzo del petrolio è aumentato da 16 a 101 dollari al barile. Il Venezuela ha guadagnato oltre 100 miliardi di dollari l’anno. Quanto 13 piani Marshall. E la povertà, che colpiva il 44% delle famiglie, si è dimezzata. Più che con Maduro, chi sta con il governo sta con Chávez. José Cordero è qui con delle foglie di banano su cui sostiene appaia Bolívar.
“È una manovra Usa: niente elemosina, tolgano le sanzioni”
“Guaidó non è che una manovra degli Stati Uniti”, dice. “Se vogliono aiutarci, perché non eliminano le sanzioni? Non abbiamo bisogno di solidarietà. Di elemosina. Abbiamo solo bisogno di riavere quello che è nostro”, dice. E Ruben Marquez, che gira invece con un libro di Marx, gli fa eco. “Certo che è una guerra economica”, dice. “Ma non è questione di socialismo o capitalismo: è questione di essere sovrani, padroni delle nostre scelte e del nostro paese”.
Eppure, quando Chávez è morto il 48,5% delle famiglie era di nuovo in povertà. E il petrolio era ancora a 98 dollari al barile. (…) Negli ultimi 5 anni, il reddito pro capite è diminuito del 40%. E secondo gli analisti di Guaidó, è semplice: la colpa è del socialismo. Chávez è stato un’illusione, dicono. Quello che si è avuto non è stato sviluppo, ma un aumento dei consumi. Pagato con il petrolio. E anzi, dicono, in realtà Chávez ha demolito l’economia. Con i sussidi, il welfare, le nazionalizzazioni con cui ha sfasciato l’industria. Inclusa quella del petrolio, dicono. Contestati dagli analisti di Maduro. Che dicono l’opposto. E cioè che la colpa è dell’imperialismo. Perché con Chávez si è avuto un aumento del Pil, dicono. E non solo dei consumi. La disoccupazione era ai suoi minimi storici, e anche la produzione di petrolio, dicono è diminuita solo per effetto delle sanzioni. E via così. Perché il problema è che come per i numeri delle manifestazioni, qui è inutile guardare ai numeri dell’economia: dal 2014 non si hanno più statistiche ufficiali.
(…) Negli anni di Chávez, sono stati costruiti 7.873 nuovi ambulatori. E i venezuelani con accesso alle cure mediche sono aumentati da 3 a 17 milioni. Quelli con una pensione, da 387mila a 2 milioni. Numeri veri? Falsi? Sono solo un’illusione? Alla fine, non conta. Perché poi quando chiedi ai chavisti cosa è stato Chávez, nessuno ti cita case, scuole, ambulatori. Cose materiali. “Quando siamo arrivati, quelli dei palazzi intorno si sono opposti”, dice Jolanda Noriega, 41 anni, del terzo piano, con cui divido la mia cena: una mela. “Dicevano che il valore degli appartamenti sarebbe crollato. Erano ostili, e al fondo, sono ancora ostili. Dicono che è tutta colpa nostra. Che siamo dei parassiti, che con i sussidi abbiamo affossato il paese”, dice. “Ma Chávez è stato questo: non una casa, ma una casa nel centro di Caracas. Perché anche se sei povero, conti. Conti quanto tutti gli altri”. “Ero invisibile”, dice. “E ora esisto”.
Mentre va via la luce, ancora. E tutto, di nuovo, si fa nero.
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