Spari contro un pregiudicato in piazza Nazionale, ferita gravemente bimba di 4 anni

Tre persone tra le quali una bambina di 4 anni e sua nonna, sono rimaste ferite a colpi di arma da fuoco in vico Polveriera, a due passi da piazza Nazionale, nel centro di Napoli a poca distanza dalla stazione Centrale. La bimba, che in un primo momento e sembrava essere stata colpita soltanto di striscio a una spalla, è invece in gravi condizioni ma non sarebbe in pericolo di vita. Probabile bersaglio dell’agguato un pregiudicato, Salvatore Nurcaro, ricoverato ora in gravi condizioni al Loreto Mare.

La piccola è ferita gravemente ma non è in pericolo di vita. “Un proiettile le ha attraversato i polmoni da destra a sinistra, senza però ledere il cuore – ha detto al direttore generale dell’Ospedale “Santobono” Anna Maria Minicucci – conficcandosi tra le costole”. La piccola – secondo i medici – non è in pericolo di vita e si sta procedendo a stabilizzarla, in attesa dell’intervento chirurgico. La nonna, 50 anni, è stata ferita a un gluteo e trasportata all’Ospedale del Mare.

Salvatore Nurcaro, 32enne con diversi precedenti penali di San Giovanni a Teduccio, è in gravi condizioni perché colpito da tre proiettili. Era lui l’obiettivo dell’agguato, mentre da un vicino bar uscivano quattro persone: la nonna e la mamma della bambina, la piccola e una sua amichetta. Si sono trovate sulla traiettoria dei proiettili. Illesa la madre e l’altra bambina presenti sul luogo dell’agguato.

L’uomo è crollato a terra davanti alla vetrina di un bar. Tutt’intorno, a terra, vi sono numerosi bossoli. La piazza e le strade limitrofe, via Polveriera, via Acquaviva, erano affollate di gente al momento dell’agguato. Un’auto Mitsubishi presenta i fori di due colpi di pistola in uno sportello e sul tettuccio. In piazza Nazionale sono giunti i parenti di Nurcaro, che poi si sono trasferiti al “Loreto Mare”.

La polizia sta dando la caccia a due persone che, a bordo di uno scooter, avrebbero aperto il fuoco.

La “madrina” autorizzata dal viceparroco è una mafiosa

Non solo la Ferrari e i fuochi d’artificio per la prima comunione, ma anche la regina del clan locale come “madrina”. Accettata dal prete con la firma sulla “dichiarazione di idoneità” al ruolo “di esempio e di guida” per il bambino. Uniche condizioni: “Appartenere alla Chiesa cattolica e accettare le verità di Fede in essa insegnate; non essere convivente, né divorziata risposata, né sposata solo civilmente”; appartenere a una famiglia di mafia e avere una condanna definitiva per associazione mafiosa, invece, non è un ostacolo per fare la “madrina” al Redentore di Bari.

La vittima di questa storia è soprattutto il figlio, nove anni, di un boss detenuto (a cui è stato negato il permesso di partecipare alla prima comunione del bambino). Il piccolo festeggiato è stato portato alla cerimonia con una Ferrari rossa fiammante. È successo domenica nel popolare quartiere Libertà a Bari. Indignazione e polemiche per la fuoriserie e per i fuochi d’artificio all’uscita, condanna mediatica per l’esibizione del potere mafioso, come a Roma, era il 21 agosto 2015, con i funerali di Vittorio Casamonica provvisti di carrozza, elicottero e musica del film Il Padrino. E l’immediata presa di distanza del parroco don Antonio D’Angelo: “Mai viste cose simili che detesto e non approvo affatto. Non hanno nulla a che vedere con i sacramenti”. Ma non è tutto qui. Se don D’Angelo si dissocia, infatti, il viceparroco, don Roberto Tifi, ha autorizzato la “madrina” di comunione del ragazzino. E la “madrina” è Monica Laera. Impossibile nel quartiere Libertà non sapere chi sia la moglie di Lorenzo Caldarola, capo del clan Strisciuglio nel rione, in carcere per associazione mafiosa. Monica Laera è già salita alla ribalta nazionale, era il febbraio 2018, per l’aggressione contro la giornalista del Tg1 Maria Grazia Mazzola, colpita con un pugno e minacciata di morte per le sue domande su uno dei due figli dei coniuigi Caldarola, il diciannovenne Ivan (l’altro, Francesco, è dentro con una condanna definitiva per omicidio). “Le chiesi se era a conoscenza dello stupro di una bambina di dodici anni per cui suo figlio è a processo”. Ivan Caldarola ha collezionato precedenti per rapina e a gennaio è stato arrestato per estorsione.

Ma alla domanda, posta per strada, nel silenzio del quartiere Libertà, Monica Laera si è esibita nel pugno sferrato sul volto della giornalista, dieci giorni di prognosi. “In realtà non sono riuscita a stare in piedi per almeno quaranta giorni”, ricorda Maria Grazia Mazzola, che aggiunge: “Papa Francesco nel 2014 disse che i mafiosi sono scomunicati. E proprio don Francesco Preite, direttore del centro giovanile di quella stessa parrocchia, da anni è impegnato in un lavoro importantissimo con i ragazzi del quartiere Libertà”. Una denuncia contro il sì della Chiesa alla mafiosa è già arrivata all’Arcidiocesi di Bari-Bitonto.

“Mi impegno a essere esempio e guida”, sottoscrive Monica Laera vicino alla firma del viceparroco. Esempio e guida, lei che è “portavoce e punto di riferimento” del clan Strisciuglio, già condannata per mafia e ritenuta soggetto socialmente pericoloso. Dal Padrino alla Madrina.

Hanno perso i figli per l’inquinamento. Nasce il comitato

Sono arrivati da tutta Italia per presentare, ieri, alla Camera il primo comitato dei genitori che hanno perso i figli a causa dell’inquinamento. Si chiama “Niobe”, come la regina che nella mitologia greca perse 14 figli. L’iniziativa nasce su impulso dei genitori tarantini che, con la morte di Giorgio Di Ponzio, il 15enne deceduto il 25 gennaio, hanno deciso di unirsi ai genitori che vivono nei 39 siti di interesse nazionale (Sin). All’iniziativa hanno partecipato Carla Luccarelli madre di Giorgio, Francesca Summa madre di Syria, Donatella Saraceno madre di Irene, Mauro Zaratta padre di Lorenzo e Cosimo Gori padre di Francesco. Hanno già raccolto più di 30 adesioni. Chiedono al Ministero della Salute l’istituzione urgente di ospedali pediatrici e sostegno per le famiglie meno abbienti costrette a spostarsi per le cure e al capo dello stato l’istituzione il 25 gennaio della giornata nazionale in memoria delle piccole vittime. “Scriveremo al ministero per chiedere un incontro”, ha dichiarato Angelo Di Ponzio. Oggi alle 14 i genitori tarantini manifesteranno assieme ai ragazzi dell’”Assemblea 4 maggio” e ai movimenti di tutta Italia per chiedere la chiusura dell’ex-Ilva.

Tre domande a Mario Turco (M5S)

Il senatoredel M5S, Mario Turco di Taranto, ci tiene ad avvisarci subito che sta registrando la telefonata: “Se non trascrive testualmente la querelo”.

Senatore, una famiglia è finita in mezzo alla strada…

Io non ho fatto finire nessuna famiglia sulla strada, non conosco questo Enzo Papa, all’asta ha partecipato una società con scopo di lucro che svolge attività commerciale e che aveva una procedura esecutiva dal 2012. Inoltre, ho partecipato a un’asta pubblica come Mario Turco, un comune cittadino. Acquistare una masseria era il mio sogno. Fin da bambino, quando andavo da mio nonno a Cisternino, ma i prezzi sono sempre stati troppo alti. Quando ho visto che c’era questa opportunità ho presentato una normale domanda. È un reato?

Non conosce la famiglia Papa? La sua villetta è proprio di fronte alla masseria Galeota dei Papa, tant’è che ci sarebbe andato anche diverse volte a cena. Il Movimento ha sempre fatto battaglie a favore degli esecutati, fino a ricomperare all’asta una casa pignorata alla figlia del proprietario che si era dato fuoco. Non prova imbarazzo?

È un caso diverso. Ripeto, all’asta ha partecipato una società e non una famiglia, che ha fatto debiti anche con altri soggetti oltre alla banca, ha creato diseconomia nel mondo reale. L’avvocato della controparte ha sbagliato a cambiare il file, lo ha detto il giudice, ed io sono risultato il solo partecipante. C’è una sentenza definitiva.

Non c’è ancora una sentenza definitiva, tant’è che pende un reclamo presso il Tribunale di Taranto con udienza fissata il 26 giugno. E il giudice non motiva il rigetto sulla modifica del nome del file con cui è stata registrata l’offerta. È vero che anche il suo avvocato le ha chiesto di concedere una proroga a Enzo Papa?

Sì, ma io che c’entro, decide il custode giudiziario che ha le chiavi.

Ma la chiave, come da verbale, è stata consegnata al suo delegato…

Ripeto, io sono solo Mario Turco, un comune cittadino.

La “strana” asta per la masseria svenduta al senatore 5Stelle

“Non ho più niente, mi hanno portato via la mia masseria, la mia vita. Mi incatenerò davanti al ministero della Giustizia, non ho più nulla da perdere”. Piange come un bambino, Enzo Papa, 52 anni, nel vedere i sigilli alla Masseria Galeota, che era anche la casa dove abitava con la compagna e la figlia di 16 anni, costruita con il sudore della fronte. Siamo a Leporano, sulla litoranea salentina, a 8 chilometri da Taranto, ai piedi del Parco archeologico di Saturo, tra costoni rocciosi, insediamenti in grotta, sorgenti d’acqua e natura rigogliosa.

Enzo Papa, nel 2002, acquista per 300 mila euro, grazie anche alla buonuscita del padre, quello che era un rudere. Chiede un mutuo di 200 mila euro, erogato da Banca della Nuova Terra, per trasformarlo in una masseria B&B, oleificio, ristorante: costo della ristrutturazione 850 mila euro. L’attività va molto bene, fino a che, per la crisi economica, sommata alla tragedia dell’Ilva con le foto dei camini che spruzzano veleno e fanno il giro del mondo, i turisti iniziano a scarseggiare ed Enzo non ce la fa più a pagare le rate del mutuo. La banca, nel 2012, pignora la masseria: viene messa all’asta. La masseria viene valutata circa un milione di euro. Le prime tre aste vanno deserte, altre annullate per ricorsi vari, fino a quando il prezzo del bene arriva a scendere a 375 mila euro. Nel frattempo, Enzo, per poter continuare a lavorare, chiede – e ottiene dal giudice dell’esecuzione – l’affitto della masseria, per sette mesi versa 12.500 euro.

Il 17 gennaio scorso decide di partecipare, con la società Kanapa srl, all’asta telematica per tentare di “ricomprare” la masseria: versa una “caparra” di 75mila euro (pari al 20% del prezzo minimo d’acquisto), come da procedura, depositando l’offerta al ministero della Giustizia che la invia, per prassi, al sito che gestisce le aste telematiche. Dal ministero, via Pec, arriva la ricevuta della registrazione dell’offerta. Ma quando Tonia Macripò, delegata alla vendita dal Giudice di Taranto, Andrea Paiano, apre l’asta, sul portale risulta una sola offerta: quella di Mario Turco, senatore del M5S, anche se i bonifici sono due (uno di Turco e uno di Kanapa). Dell’offerta di Kanapa non si ha traccia. Il sito “Aste telematiche” invia al delegato una comunicazione via email: l’offerta di Kanapa srl non era stata inviata dal ministero al portale delle aste, perché era stato rinominato il file generato all’atto della registrazione. Il delegato dal Giudice aggiudica quindi la masseria al prezzo d’asta di 375 mila euro a Mario Turco, senza mettere a verbale l’esistenza di un secondo bonifico, quello di Kanapa srl. Il legale di Kanapa srl, Stefania Maselli, deposita istanza di revoca al Tribunale di Taranto, chiedendo di invalidare l’aggiudicazione della masseria e di indire l’asta, in quanto non vi era stata alcuna competizione con i conseguenti rialzi, perché i partecipanti, visti i bonifici, dovevano essere necessariamente due, e dimostrando di non aver violato la legge nell’aver rinominato il file. Ma il senatore Turco si oppone all’istanza di revoca presentata da Kanapa. Il giudice Paiano rigetta l’istanza, motivandola con la presunzione che il bene non è detto sarebbe stato aggiudicato a un prezzo più alto, anche se si fosse svolta l’asta. Kanapa srl deposita, attraverso il suo legale, un reclamo formale al Tribunale di Taranto: l’udienza è fissata per il 26 giugno prossimo.

Nonostante le diverse opposizioni pendenti con istanza di sospensiva, il 3 aprile scorso, il giudice Paiano, firma il decreto di trasferimento in favore del senatore Turco, e il 29 aprile, senza alcuna notifica al signor Papa, immette il bene nel possesso di Mario Turco. Lo stesso giorno, alla masseria Galeota arrivano due carabinieri, il funzionario senza delega dell’Istituto vendite giudiziarie Paolo Annunziato, e Grazia Peluso, mamma del senatore Turco, con il legale del figlio. L’inventario dei beni presenti dura otto ore, con tanto di beneauguranti paste e cappuccino offerti dalla mamma del senatore.

“Lavoro da molti anni anche per il Sunia, il sindacato degli inquilini, faccio tanti sfratti, ma non ho mai visto tanta disumanità. Anche il suo legale avrebbe chiesto all’onorevole Turco di concedere po’ di tempo in più, ma inutilmente”, racconta Alexia Serio, l’avvocato della famiglia Papa presente in loco.

Cambiata la serratura, consegnate le chiavi a un incaricato del senatore Turco, al cancello della masseria Galeota sono stati affissi i sigilli: dentro, chiusi, sono rimasti tutti gli animali allevati dalla famiglia Papa. “Prego che il senatore si muova a pietà”, aggiunge Enzo Papa. “Non so dove andare a vivere. Fra un mese, entro il 28 maggio, verrà tutto distrutto… E nel vedere svanire i sacrifici di una vita, ho creduto di morire… La vigilanza privata che ha istituito il senatore mi ha anche vietato di entrare in casa per prendere un cambio di vestiti, e i libri di scuola di mia figlia. Ho scritto un mese fa ai membri della Commissione Giustizia del Senato, spiegando la mia storia, ma non ho ricevuto risposta”. Nemmeno dal senatore Arnaldo Lomuti (M5S), che il 17 novembre 2018 aveva presentato un’interrogazione in Parlamento proprio sulle aste definite “vili”, con riferimento al meccanismo “consolidato e finalizzato all’espropriare a soggetti falliti ed esecutati”: un meccanismo più volte denunciato, inutilmente.

Delitto Vannini, la ministra Trenta a fianco della madre

Marina Conte (la mamma di Marco Vannini, il ventenne ucciso nel 2015 a causa di un colpo di pistola sparato dal padre della fidanzata Antonio Ciontoli e poi dall’inerzia e dalle bugie dei Ciontoli, Antonio, moglie e figli, rispetto ai soccorritori) non se l’aspettava. Non capita tutti i giorni di ascoltare in uno studio televisivo un ministro della Difesa che risponde a una telefonata dei conduttori di Accordi e disaccordi Andrea Scanzi e Luca Sommi, programma prodotto da Loft e trasmesso ieri da La9. Soprattutto non accade spesso che un ministro come Elisabetta Trenta racconti alla madre di una vittima di omicidio, ospite in studio, che lei sta cercando da giorni sul cellulare un brigadiere per chiedergli di andare a riferire ai pm quel che sa sul caso giudiziario riguardante la morte del figlio. La ministra Trenta ha spiegato che “questa vicenda indigna tutti: Marco Vannini è figlio di tutti, fratello di tutti. Non è possibile che succeda una cosa del genere e che non ci sia una giustizia. Bisogna andare fino in fondo. Le istituzioni per poter agire hanno bisogno che qualcuno dica qualcosa di più e mi auguro che questo appello abbia dei risultati, che chiunque sappia qualcosa parli e ci aiuti a far emergere la verità”.

Antefatto: Le Iene nel corso di uno speciale dedicato al caso Vannini, il 24 aprile, hanno trasmesso la testimonianza al processo di un brigadiere dei Carabinieri di Ladispoli, Manlio Amadori, su una frase mai verbalizzata che sarebbe stata detta durante le indagini da Antonio Ciontoli, poi condannato a 14 anni in primo grado e a 5 anni in appello per la derubricazione in omicidio colposo. Secondo la ricostruzione ufficiale, Ciontoli avrebbe sparato al fidanzato della figlia per sbaglio mentre la vittima era nuda in bagno a fare la doccia e gli chiedeva di mostrargli il funzionamento della sua pistola. Il racconto di Ciontoli si conclude con Antonio Ciontoli che scarrella, spara e non capisce subito quel che ha fatto.

Questa ricostruzione non regge secondo molti osservatori ed è stata revocata in dubbio da Le Iene con una contro-inchiesta. Giulio Golia ha valorizzato la testimonianza del brigadiere Amadori che ha raccontato al processo: “Antonio Ciontoli mi disse ‘che fai mi vuoi arrestare?’. In quel momento passò nel corridioio il maresciallo Izzo e Ciontoli disse ‘adesso metto nei guai mio figlio’. Allora il maresciallo Izzo gli chiese: ‘Antonio tu mi devi dire se hai sparato tu o tuo figlio’ e Ciontoli disse: ‘sono stato io’”.

Il dubbio della madre di Marco Vannini è che non sia stato verificato uno scenario alternativo: se fosse stato non il padre ma il figlio a sparare? Le Iene sono andate a intervistare su quella frase il maresciallo Izzo e il brigadiere Amadori con la telecamera nascosta . Rispondendo alla Iena, il brigadiere Amadori ha lasciato intendere di poter dire altro, se fosse autorizzato. L’autorizzazione è stata negata. Ieri durante ‘Acccordi e Disaccordi’, il ministro della Difesa Elisabetta Trenta, competente come è noto sui Carabinieri, ha risposto a una chiamata dei conduttori.

“Innanzitutto voglio abbracciare la signora Marina. È una storia incredibile. Ho parlato – ha spiegato la ministra – del caso anche al Ministro della giustizia Bonafede. Non voglio entrare in una vicenda processuale. Sono stata chiamata in causa ultimamente da Le Iene che ha provato a mettermi in contatto con un brigadiere per invitarlo a parlare sul caso, perché dovrebbe sapere più cose. Io ho trovato due numeri di telefono che dovrebbero essere i suoi, ho provato a chiamarlo su entrambi ma non risponde. Ho capito che avrebbe voluto rilasciare un’intervista, ma non è stato autorizzato dall’autorità giudiziaria. Ma io credo che chiunque sappia qualcosa in più sulla vicenda debba parlare; non è importante che parli a me, quanto all’autorità giudiziaria, e non capisco perché non lo faccia”. Se parlasse troverà il ministero a tutelarlo? Trenta ha risposto: “Assolutamente sì. ”.

Né con Maduro né con Guaidó: la vita agra dei venezuelani

Maduro o Guaidó? Chi ha ragione? Di chi è la colpa, qui? Dell’imperialismo o del socialismo? Degli americani, che hanno bloccato i conti correnti del Venezuela, o del welfare, di un governo che spende, e spende e spende, ed è finito sul lastrico? Cos’è stato Chávez? Cos’è davvero questa sua rivoluzione? Una sfida al pensiero unico, o alla matematica?

Dopo tre giorni, penso una cosa sola: ho fame. Ho fame e basta. Il Venezuela ha 32 milioni di abitanti. E secondo le stime Onu, 4,3 milioni hanno bisogno di acqua, 3,7 milioni di cibo. 2,8 milioni di farmaci. E 3,4 milioni sono già andati via.

In media, in Venezuela perdi 11 chili l’anno. L’hanno ribattezzata “la dieta Maduro”: e segna lo sguardo logoro dei miei coinquilini della Mision Vivienda della avenida Libertador, una delle principali di Caracas. Vivo qui, in uno dei complessi di edilizia popolare voluti da Chávez per i senza casa. Che all’epoca erano 2,9 milioni. Sono 12 piani. Con 8 appartamenti a piano. E si conoscono tutti. Sto da Mariela Herrera, 48 anni, infermiera, e suo figlio. E in casa abbiamo un chilo di riso, mezzo chilo di farina, tre carote e un pezzo di formaggio. Ma quando tiro fuori la mia scorta di biscotti, Baleska Samivamis, che ha 44 anni e nessun lavoro e sta al piano di sopra insieme alla madre, due figli e un nipote, e in dispensa ha mezzo chilo di riso e 6 pomodori, e per capire quello che dico mi legge il labiale, perché non sente, e non può più permettersi la pila dell’apparecchio acustico, propone subito di andare al 6 piano a dividerli con Eliana Benitez, 49 anni, di mestiere portinaia: che ha la sclerosi. Mi offrono un bicchiere d’acqua di pioggia. Ma berrei qualsiasi cosa, a questo punto. Ho sete. Sete e basta. Ho bevuto l’ultima volta 11 ore fa.

Vivo qui, e come tutti gli altri, vivo con 600 bolívar al giorno. Il salario minimo. Non so bene quanto sia, in realtà. Un dollaro sono 3mila bolívar, ma l’inflazione è a sette cifre: e il bolívar non è che carta colorata. Letteralmente. Ci fai gli origami. E comunque, nessuno sa più il prezzo di niente. Perché dipende se paghi in bolívar o in dollari. E in un negozio normale o del governo. O al mercato nero. E se paghi in contanti, o via telefono, o con una carta di credito. E i contanti, tra l’altro, non si trovano più, perché non ci sono più i soldi per stamparne abbastanza.

Un dollaro sono 3mila bolivar: ci fanno gli origami

(…) In realtà, sono anni che qui nessuno sa più il prezzo di niente. Il Venezuela produce solo petrolio. E con il petrolio, compra tutto: 7 prodotti su 10 sono importati. E quindi, dipende dal dollaro. Nel 2003 Chávez ha introdotto un tasso di cambio fisso. O meglio: tassi di cambio fissi. Tre. Uno per le imprese statali. Uno per le imprese private e i cittadini, fino a 3mila dollari a testa. E uno per tutto il resto. (…) In base al tasso di cambio a cui avevi accesso, legalmente o tramite mazzette, il Venezuela era il paese in cui pagavi solo 1,50 dollari per un Big Mac: o 17.333 per un iPhone 6.

E allora, come era davvero il Venezuela di Chávez? Era un paese ricco o un paese povero? Quanto era il suo Pil? 650 miliardi di dollari, più di quello della Svezia? O 23 miliardi di dollari, quanto il patrimonio di Jack Ma, il fondatore di Ali Baba? E in realtà, il Venezuela non dipende solo dal petrolio. Dipende anche dagli Stati Uniti, che tanto detesta: e che però sono i suoi maggiori clienti. Gli unici con raffinerie adatte al suo petrolio pieno di zolfo. E nel 2015, mentre i prezzi al barile precipitavano del 70%, Obama ha dichiarato il Venezuela una minaccia per la sicurezza. Le sanzioni sono iniziate con Trump. Che ha vietato tutte le transazioni finanziarie con il Venezuela, mentre in Europa, società come la Euroclear congelavano 1,2 miliardi di dollari destinati all’acquisto di farmaci. Misure criticate dall’Onu, poiché coercitive e unilaterali. E il diritto internazionale proibisce di provare a cambiare un governo con la forza. Militare o di altra natura. Tra l’altro, invece di cambiarlo, le sanzioni hanno finito per rinsaldarlo. Perché qui non evocano l’Iraq, o l’Iran: ma il Cile di Allende. Questa non è una crisi, dice Maduro: è una guerra economica.

Alle manifestazioni contro il regime non senti che tre parole: luz, aqua, comida. Luce, acqua, cibo. A quelle per Maduro una sola. Sabotaje. Sabotaggio.

I venezuelani hanno un’unica parola in comune. Usurpación. Il 23 gennaio Juan Guaidó, 35 anni, portavoce dell’Assemblea nazionale, si è proclamato presidente. Maduro, dice, non ha il consenso del paese: perché è stato rieletto con un’affluenza del 46%. E ha invocato l’articolo 233 della Costituzione. In base a cui il portavoce dell’Assemblea subentra al presidente in caso di morte, rinuncia, destituzione da parte della Corte suprema, incapacità fisica o mentale, e revoca popolare tramite referendum: non anche per autoproclamazione, però. Motivo per cui Maduro sostiene che l’usurpación è piuttosto quella di Guaidó. Il cui primo alleato è Trump. Eletto con 2,9 milioni di voti in meno di Hillary Clinton.

Fosse solo per l’articolo 233, sarebbe tutto facile, forse. Tutto più chiaro. Solo che poi, per strada, all’improvviso, sparano. Siamo sull’avenida Fuerzas Armadas. E due uomini in maglietta rossa, e nessun distintivo, disperdono così una protesta contro Maduro. Sono i colectivos. Il loro logo è ovunque, sui muri di Caracas, ed è proprio questo: un uomo che spara. E sotto: En defensa de la revolución. Sono dei gruppi locali. Gruppi di quartiere. Dediti ad attività sociali, in teoria. Ma non si sa con precisione chi siano, e soprattutto, agli ordini di chi siano. O meglio: ognuno ha un suo riferimento tra gli uomini del governo. All’ombra di Maduro.

Il logo dei “colectivos” è un uomo che spara

La vera usurpación, qui, è quella di cui non parla nessuno. Caracas ha 6mila omicidi l’anno. E sono i numeri di un paese in guerra: 30mila l’anno, in tutto. Quanto lo Yemen.

(…) “Il problema, qui, prima ancora che politico, è culturale”, mi dice Katy Camargo, 42 anni, l’attivista più nota di Petare, lo slum più povero di Caracas. “Come in tutti i paesi con il petrolio, siamo abituati ad avere tutto dallo stato. Quando gli ospedali hanno iniziato a non funzionare, siamo andati in quelli privati. Quando le scuole hanno iniziato a non funzionare, siamo andati in quelle private. Ci siamo adattati. Perché tanto, c’era il petrolio. Non siamo abituati a impegnarci. A partecipare”, dice. Se non con un colpo di clacson. “Qui ti aspetti che l’opposizione cambi le cose per te”, dice. “E l’opposizione si aspetta che Guaidó cambi le cose per tutti”. “Ma così come il problema non è solo Maduro, la soluzione non è solo Guaidó”.

(…) In fondo al fondo del fondo della strada, all’improvviso, compaiono migliaia e migliaia di magliette rosse: sono i sostenitori di Maduro. Organizzatissimi. C’è la musica, gli striscioni, le bandiere, le milizie in divisa da ranger, che fanno un po’ Corea del Nord: ma soprattutto, c’è mezza Caracas. E quando chiedo a dei soldati: Come va?, mi rispondono: “Bene. Anzi, benissimo”. Perché l’esercito qui è come in Egitto: in base all’articolo 328 della Costituzione, “partecipa allo sviluppo nazionale”. E da quando è presidente Maduro, che ha molto meno carisma di Chávez, e molti più nemici, i generali hanno un ruolo crescente. Sono a capo del 40% delle imprese statali. I soldati distribuiscono riso e pollo. E patate. E anche spezzatino di carne.

Katy Camargo mi tira via.

Negli anni in cui Chávez è stato presidente, dal 1999 al 2013, il prezzo del petrolio è aumentato da 16 a 101 dollari al barile. Il Venezuela ha guadagnato oltre 100 miliardi di dollari l’anno. Quanto 13 piani Marshall. E la povertà, che colpiva il 44% delle famiglie, si è dimezzata. Più che con Maduro, chi sta con il governo sta con Chávez. José Cordero è qui con delle foglie di banano su cui sostiene appaia Bolívar.

“È una manovra Usa: niente elemosina, tolgano le sanzioni”

“Guaidó non è che una manovra degli Stati Uniti”, dice. “Se vogliono aiutarci, perché non eliminano le sanzioni? Non abbiamo bisogno di solidarietà. Di elemosina. Abbiamo solo bisogno di riavere quello che è nostro”, dice. E Ruben Marquez, che gira invece con un libro di Marx, gli fa eco. “Certo che è una guerra economica”, dice. “Ma non è questione di socialismo o capitalismo: è questione di essere sovrani, padroni delle nostre scelte e del nostro paese”.

Eppure, quando Chávez è morto il 48,5% delle famiglie era di nuovo in povertà. E il petrolio era ancora a 98 dollari al barile. (…) Negli ultimi 5 anni, il reddito pro capite è diminuito del 40%. E secondo gli analisti di Guaidó, è semplice: la colpa è del socialismo. Chávez è stato un’illusione, dicono. Quello che si è avuto non è stato sviluppo, ma un aumento dei consumi. Pagato con il petrolio. E anzi, dicono, in realtà Chávez ha demolito l’economia. Con i sussidi, il welfare, le nazionalizzazioni con cui ha sfasciato l’industria. Inclusa quella del petrolio, dicono. Contestati dagli analisti di Maduro. Che dicono l’opposto. E cioè che la colpa è dell’imperialismo. Perché con Chávez si è avuto un aumento del Pil, dicono. E non solo dei consumi. La disoccupazione era ai suoi minimi storici, e anche la produzione di petrolio, dicono è diminuita solo per effetto delle sanzioni. E via così. Perché il problema è che come per i numeri delle manifestazioni, qui è inutile guardare ai numeri dell’economia: dal 2014 non si hanno più statistiche ufficiali.

(…) Negli anni di Chávez, sono stati costruiti 7.873 nuovi ambulatori. E i venezuelani con accesso alle cure mediche sono aumentati da 3 a 17 milioni. Quelli con una pensione, da 387mila a 2 milioni. Numeri veri? Falsi? Sono solo un’illusione? Alla fine, non conta. Perché poi quando chiedi ai chavisti cosa è stato Chávez, nessuno ti cita case, scuole, ambulatori. Cose materiali. “Quando siamo arrivati, quelli dei palazzi intorno si sono opposti”, dice Jolanda Noriega, 41 anni, del terzo piano, con cui divido la mia cena: una mela. “Dicevano che il valore degli appartamenti sarebbe crollato. Erano ostili, e al fondo, sono ancora ostili. Dicono che è tutta colpa nostra. Che siamo dei parassiti, che con i sussidi abbiamo affossato il paese”, dice. “Ma Chávez è stato questo: non una casa, ma una casa nel centro di Caracas. Perché anche se sei povero, conti. Conti quanto tutti gli altri”. “Ero invisibile”, dice. “E ora esisto”.

Mentre va via la luce, ancora. E tutto, di nuovo, si fa nero.

 

Il testo completo del reportage oggi sul fattoquotidiano.it

 

Dalla parte del diesel. L’AfD a tutto gas contro Greta e i suoi fratelli

Mai prima d’ora i temi ambientali sono stati così presenti in un dibattito elettorale in Germania per le elezioni europee, stavolta però c’è una novità. A parlare di ambientalismo è un attore inaspettato: il partito populista di destra Alternative für Deutschland (Afd). Complice forse la perpetua minaccia di divieto di circolazione per i vecchi diesel in diverse città tedesche, il vento sollevato dalle proteste ambientali dei ragazzi di Friday for future guidati da Greta Thunberg, il dieselgate, il ritorno del dibattito di una tassa ambientale sulle emissioni di CO2 per limitare i gas inquinanti nell’aria, insomma per un motivo o l’altro l’ambiente è diventata la preoccupazione principale per il 55% dei tedeschi, secondo un sondaggio di YouGov pubblicato oggi (ieri per chi legge) per l’agenzia di stampa tedesca Dpa.

Anche i populisti di destra ammettono che non si può non parlare di ambiente in campagna elettorale. “Saremmo fessi se lasciassimo perdere questo tema” ha dichiarato il capolista dell’Afd alle Europee Joerg Meuthen. “Come politico bisogna assimilare i temi che coinvolgono le persone”, ha aggiunto l’ospite della riunione di Milano con Matteo Salvini, “Verso l’Europa del buonsenso”. Anche di ambiente si può parlare da populisti di destra. Come? Ribaltando la questione. “Salvare il diesel” si legge nei manifesti elettorali dell’Afd, oppure “Meglio il diesel che le follie dei verdi” si legge su un cartellone che riproduce il dipinto di un tipico uomo di Arcimboldo, composto di frutta e verdura. Il succo del messaggio è semplice: l’urgenza del tema ambientale non è altro che “un degenerato allarmismo” dei verdi, come lo ha definito il leader del partito di destra, Alexander Gauland. È “totalmente non chiaro” quale sia il ruolo dell’uomo nel cambiamento climatico, ha proseguito il leader dell’Afd in occasione dell’inaugurazione della campagna elettorale a Offenburg. Anzi di più: il tema non è altro che un complotto contro la Germania e contro l’Europa “per ridurre gli Stati Uniti d’Europa a una landa deindustrializzata ricoperta da pale eoliche”, ha continuato Gauland. Nella stessa ottica sono interpretati i regolamenti di Bruxelles circa i valori-limite per l’inquinamento dell’aria. Nient’altro che uno stratagemma per punire l’economia tedesca e mandare in pezzi i colossi dell’auto come Bmw, Volkswagen e Daimler. Nel programma elettorale di Alternative für Deutschland, sotto la voce “Protezione dell’ambiente” si legge: “Vogliamo finirla con questa politica che senza alcuna necessità riduce l’accesso delle persone alle energie poco costose, premessa di benessere”.

Su questo l’Afd coglie il nervo scoperto di tutte le politiche ambientali, a ogni latitudine: come renderle accessibili per tutte le tasche? E trova buon gioco, come prova il sondaggio uscito ieri nei Deutschland trend della tv pubblica Ard. Infatti se il tema ambientale è la questione più sentita dall’elettorato tedesco, quando si chiede di metter mano al portafoglio, la risposta cambia. Secondo la consultazione il 62% dei tedeschi sono contrari ad adottare una tassa ambientale su benzina e gasolio per il riscaldamento che l’Spd vorrebbe introdurre per ridurre le emissioni di CO2. Il partito di maggioranza relativa, l’unione conservatrice Cdu-Csu, ha già mandato definitivamente in cantina la proposta lanciata dalla ministra socialdemocratica dell’ambiente Svenya Schulze di una tassa ambientale dicendo che in questa legislatura non se ne parla proprio. Ma la questione del costo della politica ambientale resta reale. L’Afd però non ne fa una questione di costi. Il problema semplicemente non esiste, e chi ne parla è un mitomane. Sarà per questo che un tema caro all’ambientalismo nero dell’Afd è l’irrisione di Greta Thunberg. Il capolista alle europee Meuthen ha raccontato in una manifestazione pubblica “l’esperienza di rivelazione” avuta al Parlamento di Bruxelles.

“Tenetevi forte – ha esordito in una manifestazione elettorale in Brandeburgo – abbiamo ricevuto un’altissima visita di Stato, quella di santa Greta di Svezia” ha detto il candidato dell’Afd suscitando le risate del pubblico. “Al Parlamento europeo ha ricevuto una standing ovation! Per cosa ci si chiede? Per cosa?” ha continuato Meuthen. “La politica della protezione del clima è la strada sbagliata” dice a chiare lettere l’Afd nel suo programma. Una strategia comunicativa che ricorda quella dei surrealisti: “Ceci n’est pas une pipe” è scritto sul più noto dipinto di René Magritte. Il tema ambientale c’è ma non esiste.

La ciocca di Leonardo, venti capelli da collezione

Ma guarda che combinazione. Proprio nei 500 anni dalla morte di Leonardo, nel giorno dell’anniversario, saltano fuori i capelli del maggior genio toscano dopo Matteo Renzi. Uno potrebbe dire: per forza, di fronte a questa alluvione di omaggi che lo trasformano in un fenomeno da baraccone il Da Vinci si rivolta senza posa, e una ciocca è saltata fuori dall’avello. Macché: si tratta di una reliquia gelosamente conservata in segreto da un collezionista americano, ora in mostra per la prima volta al Museo dedicato da Vinci all’illustre concittadino. Non solo: grazie al prezioso reperto tricologico – nella ciocca si contano ben 20 capelli – sta per partire la caccia ai discendenti. Tutti si chiedono quando comincerà il V Factor e chi sarà il presidente della giuria. Dan Brown? Certo che questa storia della ciocca custodita in gran segreto è affascinante. Immaginiamo la cura, e anche i timori, del misterioso milionario. I ladri sono il meno. Molto più pericoloso, in certi casi, è il personale di servizio. “Teresa, che sta facendo?” “Non vede dottore? sto ripulendo la teca, ci sono finiti dei peli biondi” “È pazza? Quelli sono i capelli di Leonardo!” “Davvero? Era l’ora che se li tagliasse” “Ma no, non mio nipote. Leonardo da Vinci!”. Un altro giorno il maggiordomo porta in tavola. “Battista, c’è un capello nella minestra” “Mi scusi dottore, gliene porto subito un’altra” “Fermo lì! Butti il piatto e tenga il capello!”.

Insomma, una bella soddisfazione. Ma anche una vitaccia.

Vecchio o nuovo in Italia il fascismo è ancora fuori legge

“Che cos’è nella nostra storia una parentesi di venti anni? Ed è poi questa parentesi tutta storia italiana o anche europea e mondiale?”

(dal discorso di Benedetto Croce al I° Congresso dei Comitati di Liberazione nazionale, Bari 28/29 gennaio 1944 – Atti a cura di Ciro Buonanno e Oronzo Valentini, pag. 26)

 

C’è un “buco nero” mediatico, culturale e politico, nei rigurgiti ricorrenti di neo-fascismo e nelle polemiche che ne conseguono, come quella suscitata dal reportage del Tg regionale Rai dell’Emilia-Romagna sul raduno di Predappio davanti alla tomba di Mussolini. Ed è, innanzitutto, di un deficit d’informazione a cui contribuisce purtroppo anche il servizio pubblico radiotelevisivo. Da qui deriva, principalmente, quella lacuna storica che alimenta un impasto di ignoranza, insensibilità e nostalgia nei confronti di una stagione così tragica della vita nazionale. A ciò s’aggiunge poi la tendenza al negazionismo o al revisionismo avallata dall’ambiguità e dall’opportunismo di tanti comunicatori di professione.

Bisogna partire, innanzitutto, da un dato acquisito che può piacere o non piacere, ma tale è e non può essere messo in discussione perché è sancito solennemente dalla Costituzione. Vale a dire il fatto che in Italia il fascismo è fuori legge. E pertanto, la propaganda o l’apologia del fascismo sono illegali.

“È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”, recita testualmente la XII Disposizione finale della nostra Carta, promulgata il 27 dicembre 1947. Su questa base, attuando la norma di rango costituzionale, la legge Scelba del ’52 sanziona chiunque commetta il reato di apologia del fascismo (reclusione da 6 mesi a 2 anni) e la legge Mancino del ’93 condanna gesti, azioni e slogan legati all’ideologia nazifascista che hanno per scopo l’incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali. Di conseguenza, i mass media – e in particolare le reti del servizio pubblico, a cui compete una responsabilità istituzionale – non dovrebbero registrare e fare da megafono a manifestazioni di tale stampo, anche per non rischiare di diventarne complici.

Con buona pace di qualche teledirettore affetto da cerchiobottismo cronico, qui non si tratta dunque del normale esercizio del diritto di cronaca che consiste nel dare notizia lecitamente di un fatto o di un evento, bensì del suo abuso che diventa perciò propagandistico o apologetico. Né tantomeno del classico reato d’opinione, ormai abrogato, inteso come manifestazione del pensiero o come delitto contro la personalità dello Stato. Nel caso del servizio televisivo sul raduno di Predappio, ripreso e trasmesso con dovizie di saluti romani e cori inneggianti al duce e al fascismo, si tratta piuttosto di un’amplificazione mediatica che contrasta con lo spirito della norma costituzionale e rischia così di legittimare retrospettivamente ciò che la legge vieta.

Non varrebbe la pena occuparsene oltre, se non fosse che i rigurgiti di vecchio o nuovo fascismo si stanno progressivamente trasformando da fenomeno più o meno isolato a tendenza o movimento politico, contro la XII Disposizione finale della nostra Carta. E oggi trovano una corrispondenza addirittura a livello di governo negli atteggiamenti e nelle frequentazioni del vicepremier leghista, Matteo Salvini, il quale non si perita neppure di affidare le sue esternazioni letterarie a un editore considerato vicino a CasaPound.

Chi si mette contro la Costituzione, quindi, si mette contro la libertà e la democrazia. E cioè, contro il fondamento della nostra convivenza civile.