Prove di “bavaglio”: l’indagato sarà A. B. e presunto innocente

Il nome e il cognome saranno omissati o al massimo basteranno le sole iniziali. E poi per tutti gli indagati bisognerà assicurarsi che nei comunicati – unico mezzo consentito per l’informazione giudiziaria, insieme alle conferenze stampa – ci siano frasi che ne ribadiscano l’innocenza “fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”. Eccola in concreto la legge sulla presunzione di innocenza, entrata in vigore il 14 dicembre. Norma che tra le altre cose impone ai procuratori di parlare con la stampa tramite comunicati ufficiali, consentiti solo quando la diffusione di informazioni è necessaria per proseguire le indagini o per altre ragioni di interesse pubblico, da valutare però di volta in volta.

Molte procure hanno già emanato le circolari: da Bologna a Tivoli, passando per Perugia, le indicazioni sull’applicazione del decreto legislativo sono già state scritte. Non a Roma e Milano, alle prese con il cambio dei vertici: si attende quindi l’arrivo di nuovi procuratori capo.

Ma mentre gli uffici giudiziari riorganizzano i modelli di comunicazione con la stampa, in casa M5S si sta riaccendendo una discussione sulla norma appena approvata e si valuta anche la possibilità di depositare un nuovo ddl che possa introdurre delle modifiche. Peraltro il deputato Vittorio Ferraresi, ex sottosegretario, due giorni fa in aula ha chiesto alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, di valutare “un’azione di intervento per modificare queste norme che ledono il diritto di un’informazione libera”. Una richiesta che si scontra invece con l’iniziativa (che non ha trovato terreno fertile) di Andrea Costa (Azione), promotore della legge, il quale invece al ministero della Giustizia ha chiesto di avviare, “attraverso l’ispettorato generale”, un monitoraggio costante dei comunicati e delle conferenza stampa delle Procure. “Sta emergendo la prassi di comunicati delle forze di polizia non rispettosi della presunzione di innocenza”, ha scritto in un ordine del giorno che è stato respinto nonostante il voto di Fratelli d’Italia e Italia Viva. Vedremo se i 5Stelle presenteranno un ddl e se le preoccupazioni sulla norma verranno recepite in via Arenula. Ma la legge è legge ed è già in vigore. E con essa le Procure hanno già emanato circolari. Come quella a firma di Francesco Menditto, procuratore capo di Tivoli. Nella direttiva si sottolinea che i comunicati stampa – autorizzati sempre dal procuratore capo – dovranno contenere “le informazioni ritenute ostensibili, rappresentando che i provvedimenti adottati in fase di indagine (…) non implicano alcuna responsabilità dei soggetti sottoposti ad indagini”. I nomi degli indagati “saranno indicati, se opportuno, con le sole iniziali salve esigenze di prosecuzione dell’indagine o di effettiva completezza dell’informazione”. La circolare contiene anche un esempio di come scrivere i comunicati. Eccolo: “Si comunica, nel rispetto dei diritti dell’indagato (da ritenersi presunto innocente in considerazione dell’attuale fase del procedimento – indagini preliminari – fino a un definitivo accertamento di colpevolezza con sentenza irrevocabile) e al fine di garantire il diritto di cronaca costituzionalmente garantito: che in data X il Comando di polizia giudiziaria X ha eseguito un’ordinanza di misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di A.B….”.

Nomi omissati è anche l’indicazione che viene data dalla Procura di Bologna alla polizia giudiziaria, con “attenzione massima – è scritto nella circolare dell’ufficio giudiziario – alla proprietà delle espressioni e del linguaggio utilizzati nei comunicati”. Assicurare sempre il (giusto) diritto alla presunzione di innocenza. Con buona pace però per il diritto dei cittadini a essere informati.

Il virus è tornato a correre in corsia

Sono 5.183 gli operatori sanitari contagiati negli ultimi 30 giorni, stando ai dati dell’Istituto superiore di sanità. A lanciare l’allarme è Antonio De Palma, presidente del Nursing Up, sindacato infermieri italiani, “l’82% dei casi del comparto sanitario. Ciò significa “che si stanno infettando 156 operatori sanitari ogni 24 ore, e di questi ben 128 sono infermieri”. I focolai negli ospedali sono cronaca quotidiana, dagli oltre 50 contagi dell’ospedale di Salerno fino ai maxi-cluster nelle Rsa, come quello di Beggiato con circa 70 positivi. Pochi giorni fa è stata chiusa temporaneamente l’unità di cardiologia del Ceccarini di Riccione – per fare tamponi a tappeto e contenere il focolaio –, stessa cosa al San Giovanni Bosco a Napoli, dove è divampato un focolaio tra medici, infermieri e pazienti. I contagi corrono e il tampone sta tornando centrale in una strategia di contenimento del virus, anche per i triplo vaccinati. In Veneto, ogni 4 giorni i sanitari dovranno sottoporsi al test, nel Lazio ogni 10 giorni. Non solo nelle strutture sanitarie, anche in altre realtà, come ad esempio nelle stanze del Consiglio regionale della Puglia, dove per entrare si deve mostrare un tampone negativo. Finora bistrattati, i test rapidi tornano fondamentali anche per chi viaggia. Il vaccino non blocca i contagi, quindi saltano concetti come immunità di gregge o vaccinazione solidale, perché si può contrarre la malattia e contagiare involontariamente una persona immunodepressa, anziana o con altre fragilità, con tutti i rischi connessi. Il British Medical Journal ha sottolineato come due dosi del vaccino Pfizer abbiano fornito il 33% di protezione contro l’infezione da Omicron, mentre la protezione contro i sintomi gravi è calata al 70% rispetto al 93% dell’ultima ondata. D’altronde in Europa, anche in nazioni con alti tassi di vaccinazioni, si sta iniziando a cambiare strategia. L’Olanda ha scelto la via del lockdown totale fino al 14 gennaio. Per tutti. Vaccinati e non-vaccinati.

In Scozia il messaggio è ancora più chiaro: “Hai 3 dosi? Ti senti bene? Potresti avere il Covid: vieni a fare un tampone”. Questa la nuova campagna di Edimburgo per contenere i contagi. Nell’escalation pro-tampone, mette piede anche la Finlandia. Il paese nordico sotto assedio da nuovi contagi Omicron tra vaccinati, boccia i passaporti sanitari attraverso le parole del Direttore dell’Istituto Salute e Benessere Markku Tervahauta: “Torneremo ad applicare restrizioni nelle regioni a rischio. Non possiamo eludere il problema con un pass”. Che i contagi siano in aumento tra i vaccinati lo ha confermato anche l’Oms “generalmente i casi sono in gruppi giovani, sani e in gruppi altamente vaccinati”, ha riferito al Telegraph Catherine Smallwood, alto funzionario per l’emergenza dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

I contagi sembrano avanzare anche dopo il booster, diversi membri dello staff (con tripla vaccinazione) sono risultati positivi dopo la festa di BuzzFeed a New York, nonostante le regole sulle mascherine e l’ingresso limitato ai vaccinati. Va ricordato che per questi test (antigenici), gli enti regolatori europei e nazionali hanno imposto requisiti stringenti (“sensibilità” minima al 90%, e “specificità” al 98%).

Pass più breve e terza dose a 4 mesi. Omicron al 20%

Oggi il governo dovrebbe ridurre il Green pass da 9 a 6 mesi dopo la seconda dose e consentire la terza dose dopo 3 o 4 mesi (oggi sono 5), ma solo per la popolazione maggiorenne. Vedremo poi se il commissario straordinario e le Regioni saranno in grado di somministrare milioni di dosi booster nelle poche settimane disponibili. Dopo la terza ci sarà anche la quarta: Israele ha dato il via, il neoministro della Sanità tedesco Karl Lauterbach l’ha data per probabile, ma intanto l’Organizzazione mondiale della sanità avverte che “nessun Paese ne uscirà a colpi di booster”.

Si discute ancora, alla vigilia della cabina di regia e del Consiglio dei ministri di oggi, dell’introduzione del tampone anche per i vaccinati (ma con l’esclusione di chi ha fatto tre dosi) almeno per l’accesso alle discoteche e alle feste al chiuso. E forse agli stadi. Sarebbero invece esclusi cinema e teatri: qui però potrebbe diventare obbligatoria la mascherina Ffp2. La Lega, ma anche Forza Italia e il ministro Dario Franceschini del Pd, sono contrari ai tamponi per i vaccinati, proposti dai tecnici del ministero della Salute. Anche il M5S pone la questione della gratuità.

Il confronto nel governo è aperto anche sull’estensione dell’obbligo vaccinale propriamente detto. Agli operatori sanitari, scolastici e delle forze armate e di polizia per i quali è già in vigore potrebbero essere aggiunti altri lavoratori a contatto con il pubblico. Il presidente Mario Draghi l’ha detto: “Non è escluso”, ma è un nodo che non dovrebbe essere sciolto oggi. È invece scontata la reintroduzione dell’obbligo di mascherina all’aperto, misura di discutibile efficacia in assenza di assembramenti e tuttavia già in vigore in molte città oltre che nelle Regioni in zona gialla. Dal tavolo delle possibili misure Draghi ha però escluso nettamente, ieri, il prolungamento delle vacanze scolastiche. Si parla del possibile ritorno allo smart working nel pubblico impiego, ma il ministro Renato Brunetta dice no.

Il virus corre sempre di più, ieri 36.293 nuovi contagi rilevati con un aumento del 46,6% in sette giorni. È il dato più alto dell’anno, ci riporta alla terribile seconda ondata di 13 mesi fa (il record fu 40.902 casi il 13 novembre 2020) mentre i malati ricoverati sono 8.544 nelle aree mediche (+162 in 24 ore) 1.010 nelle terapie intensive (-2 rispetto a martedì ma con 92 nuovi ingressi): circa un terzo rispetto al novembre 2020. Ieri sono stati registrati anche 146 morti, 13 mesi fa superavano i 500 al giorno.

Sul tavolo del governo oggi non ci saranno ancora i risultati completi della flash survey del ministero della Salute e dell’Istituto superiore di sanità sulla variante Omicron. È già largamente diffusa in Gran Bretagna dove ieri (con più tamponi) hanno rilevato oltre 100 mila contagi in 24 ore, e destinata a diventare dominante a breve secondo le autorità di Francia e Germania. Poiché però Draghi vuole i dati, li stanno raccogliendo come possono e si stima una prevalenza superiore al 20 per cento: solo ai primi di dicembre era allo 0,2 per cento. “È molto più contagiosa, ma probabilmente meno letale in sé e sicuramente grazie anche alle vaccinazioni”, dice il sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri. Dai primi studi emerge che Omicron attacca le alte vie respiratorie e meno facilmente i polmoni. Insomma, secondo i primi dati sudafricani e britannici, il rapporto casi gravi/contagi potrebbe diminuire, ma naturalmente i ricoveri aumenteranno comunque in valore assoluto con un’impennata delle infezioni. Purtroppo in Italia vediamo le varianti in ritardo nonostante gli impegni sul sequenziamento. E ieri il professor Antonello Maruotti della Lumsa ha sottolineato che la nota dell’Iss sulla flash survey parla di “campionamento” che “potrebbe non essere casuale” e quindi non del tutto affidabile sul piano statistico.

La situazione negli ospedali purtroppo è già difficile, con diverse Regioni – Veneto e Liguria in testa – avviate a superare i limiti per la zona arancione forse già ai primi di gennaio, come previsto dall’Iss all’inizio del mese quando la prevalenza della variante Delta non era in discussione.

 

Draghi si celebra: ecc o cosa torna e cosa no

Nella tradizionale conferenza stampa di fine anno, Mario Draghi ha risposto a 44 domande, toccando moltissimi temi, dai vaccini alla manovra all’economia. Il senso, in sintesi, è che il grosso del lavoro è stato fatto, e bene, e può continuare anche senza di lui (il famoso “pilota automatico” sulle riforme di cui parlò dopo le Politiche del 2013). Verificarle tutte è impossibile, ecco però una breve e inesaustiva analisi di quelle più rilevanti.

Taglio delle tasse

Draghi: “I principali beneficiari della riforma fiscale sono i lavoratori e pensionati a reddito medio-basso. In termini percentuali i maggiori benefici uniti al taglio contributi per il 2022 si concentrano sui lavoratori con 15 mila euro di reddito e se si considerano gli effetti dell’assegno unico dei figli, a beneficiare della riduzione fiscale saranno soprattutto le famiglie a basso reddito

Usare il valore “percentuale” è fuorviante, come pure mischiare tutte le varie misure. Il taglio Irpef premia in valore assoluto i redditi tra i 42 mila e 54 mila euro (765 euro), il 3,3% del totale (a cui va il 14,1% delle risorse). Addirittura 270 euro in media vanno ai redditi sopra i 75 mila euro (l’1,1% più ricco). Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, se si considerano i nuclei familiari: il 20% più povero è escluso per motivi di incapienza fiscale, il 50% di quelli in condizione economica meno favorevole prende un quarto delle risorse mentre il 10% più ricco più di un quinto delle risorse. La decontribuzione poi vale solo per il 2022, mentre il taglio Irpef è permanente. Sull’assegno unico, inoltre, stimarne l’entità è difficile perché dipende dall’Isee.

 

Spread e crescita

Draghi: “Se lo spread è più alto di quando sono arrivato vuol dire che io non sono uno scudo. Se si continua a crescere la preoccupazione diventa minore, i mercati guardano alla crescita prima di tutto, che non era così dagli Anni 60”.

Il premier giustamente ricorda che lo spread dipende da fattori che non si possono ridurre al capo del governo. Ad ogni modo, negli Anni 60 la crescita seguiva ad anni di crescita, mentre il +6,3% del Pil previsto per il 2021 segue il -8,9% del 2020: è soprattutto un rimbalzo e, peraltro, sia nel 73 che nel 76 è stata più alta (6,7% e 6,6%).

 

Superbonus

Draghi: “Il governo non voleva estendere il Superbonus perché ha creato distorsioni. La prima è un aumento straordinario dei prezzi delle componenti che servono a fare le ristrutturazioni. (…) Chiaro che le emissioni vanno giù, ma non così tanto per assorbire questo aumento di prezzo. È la logica del 110% che in un certo senso non rende più la contrattazione di un prezzo rilevante. Secondo: ha incentivato le frodi. Questa mattina l’Agenzia delle Entrate ha bloccato 4 miliardi di crediti come cedibili”.

È vero che uno sconto fiscale così alto disincentiva l’interesse a ridurre i costi perché paga lo Stato, non è chiaro però se Draghi depuri dall’effetto del fortissimo rialzo dei prezzi che da un anno riguarda le materie prime. Sull’effetto di riduzione delle emissione: è vero che a fronte di una spesa oltre 10 miliardi finora i lavori riguardano assai meno dell’1% di abitazioni e condomini. Sui 4 miliardi di frodi: la cifra è corretta, ma riguarda tutti i bonus edilizi.

 

Camere esautorate

Draghi: “È indubbio che ci sia un affanno finale sulla discussione e approvazione della manovra, ma questo non è senza precedenti. È successo tantissime volte. La manovra è stata accompagnata da un lunghissimo confronto politico.

Come noto, comprimere la discussione parlamentare sulla legge più importante dell’anno non è una novità ma ormai prassi (illegale) da anni. Il Parlamento però ha espresso il suo primo voto sulla manovra 2022 in commissione Bilancio al Senato nella notte tra lunedì e martedì. Questo è un record, e racconta di una procedura largamente extraparlamentare. Il ddl Bilancio sarà approvato al Senato il 24 e dalla Camera tra il 28 e il 31 senza discussione (un monocameralismo di fatto). È il terzo anno di fila che si arriva al via libera tra Natale e Capodanno, ma non era mai successo che si iniziasse a votare così tardi.

 

Pnrr

Draghi: “ Abbiamo consegnato in tempo il Pnrr e abbiamo raggiunto i 51 obiettivi del 2021.

È senz’altro vero, ma avremmo preferito avere a disposizione la relazione semestrale sul Pnrr che permette di verificare questo dato. È prevista ogni 6 mesi, ma sarà approvata solo oggi.

 

Chi vaccina e chi no

Draghi: “Il 13 febbraio l’Italia era l’ultimo tra i grandi Paesi Ue per la somministrazione di prime dosi. Oggi circa l’80% della popolazione ha ricevuto almeno una dose, una proporzione più alta di Gran Bretagna Francia e Germania.

È tutto vero, però così sembra che fino al 13 febbraio, giorno del giuramento di Draghi, nessuno o quasi si fosse vaccinato. La campagna vaccinale comincia il 27 dicembre 2020 sotto il Conte 2, compatibilmente con qualche ritardo nelle consegne da parte dei produttori che penalizza il nostro Paese più di altri: tra il 6 e il 19 gennaio l’Italia fa anche meglio di Francia, Germania e Spagna quanto alle prime dosi in percentuale sulla popolazione, poi viene superata ma il 13 febbraio siamo tutti fra il 3,6 (Francia) e il 2,9% (Italia) almeno secondo ourworldindata.org/covid-vaccinations. La Gran Bretagna, fuori dall’Ue è già molto più avanti (21%). Solo il 1° marzo Draghi nomina Figliuolo che si insedia dopo una decina di giorni: il 13 marzo Figliuolo presenta un nuovo piano e quel giorno gli italiani che hanno avuto la prima dose sono l’8%, un dato sotto quello della Spagna (8,4%) ma sopra quelli di Francia (7,9%) e Germania (7,8%). Un mese dopo, il 13 aprile, con il generale al comando è al 16%, gli altri tre grandi Paesi al 17% e così per diverse settimane. Nei mesi seguenti l’Italia vaccina più di Francia e Germania e anche Gran Bretagna, probabilmente pure per l’effetto del Green pass (ma le 500 mila dosi al giorno annunciate per la seconda metà di aprile sono arrivate solo per due giorni, il 29 e il 30, ai primi di maggio eravamo di nuovo a 400 mila, soprattutto per la carenza di dosi). Se poi Figliuolo non avesse promesso l’immunità di gregge a settembre, sarebbe andata pure meglio per la credibilità delle istituzioni.

 

Comunicazioni sbagliate

La comunicazione sul Green pass e sul Super Green pass si è sviluppata in base alle conoscenze ottenute fino a quel momento (…) Si è scoperto che la seconda dose declina più rapidamente di quanto si pensasse all’inizio.

Qualche volta invece le conoscenze sono state piegate alla propaganda. È il caso della conferenza stampa del 22 luglio in cui Draghi annuncia il Green pass dal 6 agosto per i ristoranti e i bar al chiuso: “L’estate è già serena e vogliamo che rimanga tale. Il Gp è una misura con i quali i cittadini possono continuare a svolgere attività con la garanzia di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose”. E questo non è vero, il vaccino riduce in misura variabile la possibilità di contagiarsi e contagiare ma la garanzia è un’altra cosa, i vaccini non sono sterilizzanti: si sa da prima ancora che fossero approvati. A luglio Israele già lavorava per la terza dose, ma per non allarmare chi doveva fare la prima il governo ne ha parlato solo a settembre.

 

Stato di emergenza

Draghi: “Lo stato di emergenza come stato di rassegnazione? No, come atto di necessità. Con i dati di inizio ottobre si poteva cominciare a ragionare di non prorogare tutto il contesto legato allo stato di emergenza ma di valutare misura per misura. L’evoluzione dei dati ha dimostrato che non valeva la pena farlo e che tutto il blocco sanitario e normativo andava prorogato.

I dati di inizio ottobre facevano ben sperare, tanto che il ministro Renato Brunetta ha disposto la fine dello smartworking per il pubblico impiego dal 1° novembre. Però a fine novembre gli anestesisti hanno lanciato i primi allarmi su quello che sarebbe accaduto nelle terapie intensive di lì a un mese e i dati dell’Istituto superiore di sanità, con l’indice di riproduzione del virus Rt ben oltre l’1,2, consentivano di prevedere quello che oggi tutti i giornali scrivono: alcune Regioni, Veneto e Liguria ma non solo, rischiano la zona arancione ai primi di gennaio. Il Fatto l’ha scritto il 4 dicembre in base alle tabelle previsionali dell’Iss. Da allora c’era tutto il tempo per costruire una cornice legale per conservare il commissariato straordinario e quanto necessario per gestire questa fase senza l’ennesima proroga dello stato di emergenza oltre il limite di due anni stabilito dalla legge quadro sulla Protezione civile.

 

Terapie intensive

Draghi: “Per ora non parliamo di lockdown per i non vaccinati ma ogni risposta è sul tavolo, faccio però presente che i due terzi delle terapie intensive sono occupate da non vaccinati”.

È vero. Nell’ultimo rapporto dell’Iss (17 dicembre) si legge che tra il 29 ottobre e il 28 novembre sono stati ricoverati in terapia intensiva 747 non vaccinati, 21 vaccinati con una dose, 174 con due dosi fatte meno di 150 giorni prima, 220 con due ma fatte da oltre 150 giorni e 12 con tre dosi, per un totale di 427 che è poco più di un terzo dei 1.174 totali. Calcolati in proporzione, tenendo conto che i vaccinati sono molto di più, l’Iss stima che il rischio relativo di andare in terapia intensiva è 10,6 superiore per un non vaccinato rispetto a un vaccinato da più di 150 giorni, di oltre 17 volte rispetto a un vaccinato da meno di 150 giorni o a chi ha fatto tre dosi.

 

Generosità e brevetti

Draghi: “La Ue ha fatto più di tutti in termini di donazione di vaccini, gli Usa hanno fatto promesse gigantesche ma consegne molto più limitate di quelle europee. Sui brevetti per i vaccini la Commissione europea ha presentato una proposta al Wto per permettere una deroga temporanea, gli Usa si oppongono”.

In realtà il 28 ottobre, alla vigilia del G20 ospitato da Roma, le Ong Oxfam, Emergency e Amnesty hanno criticato i Paesi ricchi per aver donato solo 261 milioni di dosi a quelli poveri, a fronte di promesse per 1,8 miliardi. Secondo gli ultimi dati, l’Italia ha inviato 8,2 milioni di dosi su 35,7 donate e ne ha 1,1 milioni annunciate ma non ancora donate. Gli Usa ne hanno promesse 857,5 milioni, 664,1 non ancora donate e 140,3 milioni già inviate, mentre la Ue, a fronte di promesse per 451,5 milioni di dosi, ne ha spedite appena 57,8 e 153,2 milioni non ancora donate. Quanto ai brevetti, sono stati gli Usa ad aprire per primi alle sospensioni. Il 30 novembre la Ue, che è contraria alla sospensione generale dei brevetti su scala globale, si è detta pronta a superare la sua posizione “per ottenere il consenso su una rinuncia che abbia senso e che aumenterà la produzione”. “La sospensione dei brevetti fa parte del contributo che possiamo fornire, ma in modo molto mirato per non minare il valore del sistema di proprietà intellettuale. Se dovessimo avere un tipo di deroga molto ampio, tutti questi elementi verrebbero interrotti e questo non sarebbe affatto utile per il nostro obiettivo che è aumentare la produzione di vaccini. E aumentare gli investimenti per produrre vaccini nei Paesi in via di sviluppo”, ha detto un funzionario della Ue. All’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) sono in corso negoziati su una deroga mirata. Se si raggiunge un accordo, un Paese che voglia autorizzare un’azienda a produrre vaccini dovrà essere immediatamente in grado di farlo “senza temere un contenzioso da parte dei titolari del brevetto” a condizione che i vaccini siano prodotti al costo industriale e non a scopo di lucro. Oxfam contesta un sistema di licenze obbligatorie paese per paese, complesso, lento e legalmente difficile, ma aziende e Paesi produttori sono preoccupati di avvantaggiare Cina o India nell’usare la tecnologia a proprio vantaggio. Fonti Ue si dicono “molto deluse” dalla mancanza di input da parte degli Usa alla Wto, visto l’impegno preso da Biden.

“Ricalcolare al rialzo i vitalizi a ex senatori” Un’altra decisione per favorire la “casta”

Già così è un regalone per Lorsignori, che ora sperano addirittura di fare tombola e di riavere tutto – fino all’ultimo centesimo – come ai bei tempi andati. Palazzo Madama dovrà ricalcolare al rialzo tutti i vitalizi degli ex senatori, secondo quanto ha deciso ieri il Consiglio di Garanzia, organo di appello della giustizia interna del Senato. Che – come aveva fatto la scorsa settimana anche la Camera – ha da subito annullato i tagli imposti nel 2018, ritenendoli troppo drastici ancorché riferiti a chi ha beneficiato più a lungo nel passato del sistema retributivo, ben più favorevole del regime contributivo attuale ma ha anche rimesso il caso alla Consulta. La sentenza parziale ha infatti bocciato l’applicazione dell’algoritmo elaborato dall’Inps e dall’Istat, applicato “ai fini del coefficiente di trasformazione, alla data di decorrenza dell’assegno, anziché alla età anagrafica posseduta dal percettore alla data di entrata in vigore della delibera”. Ma non è tutto. Ora la palla passa alla Corte costituzionale, chiamata a decidere se il Senato dovrà pure sganciare gli arretrati, ossia le differenze non corrisposte dall’entrata in vigore della delibera, ossia dal 1º gennaio 2019 a oggi. Ma soprattutto a decidere se il ricalcolo contributivo, con annessi risparmi da 22 milioni di euro all’anno per le casse dei contribuenti, sia stato fin dal principio legittimo nei suoi presupposti. Il Consiglio di Giurisdizione presieduto dal forzista Luigi Vitali e di cui sono anche componenti Valeria Valente del Pd, Alberto Balboni di Fratelli d’Italia e i due leghisti Pasquale Pepe e Ugo Grassi, ha infatti dichiarata “rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale la legge del 1994 nella parte in cui, nel sopprimere qualsiasi regime fiscale particolare per i vitalizi degli ex parlamentari, non prevede altresì che queste prestazioni vanno disciplinate nel rispetto dei principi generali in materia previdenziale”. Tra cui i limiti posti al legislatore “nell’individuazione dei parametri per determinare i vitalizi e con essi i limiti per un eventuale adeguamento retroattivo”. E ancora. “Egualmente ritiene non manifestamente infondata (con rinvio dunque alla Corte costituzionale, ndr) la questione di legittimità della delibera del Senato del 2018 nella parte in cui viola i principi di proporzionalità e ragionevolezza nella (ri)determinazione retroattiva” degli assegni. Cin.

Senato, espulsioni nulle per gli ex 5S contrari a Draghi

Il Consiglio di Garanzia di Palazzo Madama ha dichiarato nulla l’espulsione dal M5S dei senatori Barbara Lezzi, Elio Lannutti, Rosa Silvana Abbate, Luisa Angrisani, Margherita Corrado e Fabio di Micco e ne ha ordinato il reintegro nel gruppo pentastellato. Per il collegio di appello di Palazzo Madama l’espulsione (decisa a seguito del loro rifiuto di votare la fiducia al governo Draghi) viola non solo il regolamento del Senato ma anche gli articoli 49 e 67 della Costituzione. Nel mirino del tribunale interno le regole stesse del Movimento che si caratterizzerebbero per “l’assenza di adeguate forme di tutela del parlamentare soggetto a un procedimento sanzionatorio” a differenza degli altri gruppi che prevedono che le sanzioni siano irrogate dall’assemblea degli iscritti o da un organo collegiale di cui è possibile impugnare le decisioni. Nel regolamento del M5S l’autonomia del gruppo invece “viene schiacciata dall’influenza del partito che esautora gli appartenenti al gruppo dalle decisioni dell’associazione della quale fanno parte”.

Mastella, Veltroni e re Giorgio fregano Prodi: il terzo ritorno

2007, giugno-settembre. La Procura di Napoli intercetta il direttore di Rai Fiction Agostino Saccà al telefono con Silvio Berlusconi, che gli chiede di sistemare varie “attrici” per compiacere alcuni senatori che sta tentando di portare via al centrosinistra. Ma ovviamente i due interessati ancora non lo sanno.

1° agosto. Dopo 13 anni di presenza in Parlamento, 14 mesi di permanenza abusiva alla Camera e un’infinità di cavilli, pretesti, furbate e rinvii, l’aula di Montecitorio dichiara finalmente decaduto il deputato Cesare Previti, condannato definitivamente a 7 anni e mezzo per due corruzioni giudiziarie (Imi-Sir e Mondadori) e interdetto in perpetuo dai pubblici uffici.

8 settembre. Grillo e Casaleggio organizzano a Torino (e in molte piazze collegate da tutta Italia) il secondo V-Day, questa volta per raccogliere le firme su tre referendum per la libertà di informazione: i quesiti chiedono di abrogare la legge Gasparri, l’Ordine dei giornalisti e i finanziamenti pubblici ai giornali (quesiti poi bocciati dalla Cassazione, che riterrà insufficienti le firme raccolte).

21 settembre. Il ministro della Giustizia Mastella chiede al Csm il trasferimento cautelare del pm Luigi De Magistris lontano da Catanzaro, che ha iscritto lui e il premier Prodi nel registro degli indagati (come “atto dovuto”) dell’inchiesta “Why Not”, per presunte “anomalie” riscontrate dagli ispettori ministeriali in un’altra indagine: quella sulle “Toghe lucane”.

14 ottobre. Dalla fusione a freddo di Ds e Margherita, nasce il Partito democratico, che elegge segretario Walter Veltroni. Questi si mette subito all’opera per avviare un “dialogo sulle riforme istituzionali” con Berlusconi. Pd e centrodestra lavorano a una legge elettorale maggioritaria e bipartitica, all’americana, che tagli le ali dei due schieramenti. Così i partiti piccoli e medi che sostengono il già traballante governo Prodi entrano in fibrillazione, a cominciare dall’Udeur di Mastella e dal gruppo Dini, mentre Berlusconi – di nuovo favorito nei sondaggi – prosegue la sua campagna acquisti fra i senatori scontenti dell’Unione. Il Professore ormai ha i mesi contati.

12 dicembre. Berlusconi è indagato dalla Procura di Napoli per corruzione e istigazione alla corruzione, a proposito di due vicende emerse da intercettazioni disposte in un’inchiesta su alcuni fornitori di Rai Fiction. L’accusa di istigazione alla corruzione, mossa al Cavaliere e a due presunti suoi emissari, riguarda il tentato (e fallito) acquisto del senatore Nino Randazzo, eletto per il centrosinistra in Australia, in cambio di una ricompensa politica (la ricandidatura blindata nel Pdl e un posto nel futuro governo Berlusconi: o viceministro degli Esteri o sottosegretario con delega all’Oceania) ed economica (promesse di soldi, subito rifiutate); e, di contorno, i tentativi di agganciare i senatori Willer Bordon e Pietro Fuda perché passino anch’essi dal centrosinistra al centrodestra, mettendo in crisi il governo Prodi. In particolare, tra settembre e novembre, un emissario berlusconiano, l’imprenditore italo-australiano Nick Scali avrebbe offerto a Randazzo, nella Galleria “Alberto Sordi” di Roma, un assegno in bianco fino a 2 milioni di euro. Il fascicolo, su richiesta dei difensori di Berlusconi, passerà a Roma e lì si inabisserà in una selva di archiviazioni.

2008, 14 gennaio. La Procura di Santa Maria Capua Vetere indaga per corruzione diversi dirigenti dell’Udeur in Campania, a cominciare dal segretario e ministro Mastella e dalla moglie Sandra Lonardo (presidente del Consiglio regionale), che finisce agli arresti domiciliari. L’inchiesta, poi trasferita a Napoli e finita nel nulla, riguarda la lottizzazione di cariche pubbliche tra Napoli e Benevento, soprattutto nelle Asl. Il Guardasigilli attacca a testa bassa la magistratura in Parlamento, ricevendo applausi a scena aperta da quasi tutti i partiti.

17 gennaio. Mastella si dimette da ministro e ritira l’appoggio dell’Udeur al governo Prodi.

18 gennaio. Attaccato per mesi da Mastella, ma soprattutto dal presidente Napolitano e da molti esponenti del centrodestra e del centrosinistra, spogliato dai suoi superiori di due delle sue tre maggiori inchieste (“Poseidone” e “Why Not”), il pm De Magistris viene trasferito d’urgenza dal Csm dalla Procura di Catanzaro al Riesame di Napoli, col divieto di svolgere mai più funzioni requirenti, proprio mentre sta scrivendo le richieste di rinvio a giudizio di “Toghe lucane”.

24 gennaio. Il governo Prodi – privo dell’appoggio dell’Udeur e dei seguaci di Lamberto Dini, passati armi e bagagli col centrodestra – cade in Senato per 6 voti. Un anno dopo Mastella verrà ricompensato da Berlusconi con un seggio sicuro al Parlamento europeo.

30 gennaio. Napolitano, che continua a lavorare segretamente per un governo di larghe intese con Berlusconi, affida un incarico esplorativo e “condizionato” al presidente del Senato Franco Marini (Pd), che dovrà partire da un’ampia maggioranza in grado di approvare una nuova legge elettorale. Una clamorosa forzatura costituzionale: non è un vero incarico, ma una mossa per un governo che, prima ancora di nascere, dovrebbe già avere i consensi per una riforma – quella del sistema di voto – che per opportunità deve coinvolgere anche le opposizioni. Un assist per un’ammucchiata centrosinistra-centrodestra, che però fallisce. Marini rinuncia e al presidente non resta che sciogliere le Camere e indire le elezioni anticipate.

Febbraio-marzo. L’idillio Veltroni-Berlusconi prosegue in campagna elettorale. Il leader Pd si fa un vanto di “non attaccare mai il Cavaliere”, infatti non lo nomina neppure: lo chiama “il principale esponente dello schieramento avversario”. Invece Berlusconi attacca a testa bassa i “comunisti”, dopo aver definito qualche mese prima “coglioni” gli elettori del centrosinistra.

13-14 aprile. Silvio Berlusconi stravince le elezioni per la terza volta in 15 anni alla guida del “Popolo delle libertà” (FI più An), alleato con la Lega Nord. Tra le opposizioni, le sole a superare il quorum sono Pd, Idv e Udc. Berlusconi torna a Palazzo Chigi con una maggioranza schiacciante: al Senato 172 seggi su 315, alla Camera 345 su 630. Nel suo terzo governo siedono due condannati definitivi (Bossi e Maroni) e sei inquisiti, oltre a lui (sei fra processi e indagini in corso): Altero Matteoli (favoreggiamento), Raffaele Fitto (corruzione, finanziamento illecito, turbativa d’asta, falso, poi metà assolto e metà prescritto), Roberto Calderoli (ricettazione, poi prosciolto), Gianni Letta (abuso e turbativa d’asta, poi prosciolto) e Cosentino (concorso esterno in associazione camorristica, poi condannato).

(19 – Continua)

Il bisnonno B. resiste e prepara nuovi “spot”

Nel giorno in cui tutti parlano del nuovo “nonno d’Italia”, cioè Mario Draghi, ironia della sorte, si scopre (grazie al settimanale Chi) che lui è già bisnonno da otto mesi della piccola Olivia, nata dalla relazione tra il figlio Pier Silvio e la ex Lucrezia Vittoria. Silvio Berlusconi vuole sempre primeggiare. Anche quando si tratta di una coincidenza familiare. D’altronde da ieri il suo vero avversario sulla strada del Quirinale è proprio il premier Draghi: il nonno contro il bisnonno delle istituzioni.

Berlusconi ieri ha guardato la conferenza stampa del premier ma, nonostante la candidatura esplicita, si è convinto che non è il caso di desistere. Almeno non adesso. Nel caso, dicono in Forza Italia, se capirà che c’è una larga maggioranza sul nome del presidente del Consiglio, a gennaio Berlusconi potrebbe fare il “bel gesto” di fare un passo indietro e intestarsi l’elezione di Draghi. Ma è troppo presto. E da qui a metà gennaio il leader di Forza Italia continuerà a lavorare per capire se ci sono le condizioni della sua elezione. Prima lo hanno fatto sapere fonti di FI auspicando che questo governo “vada avanti nei prossimi mesi” e poi Berlusconi lo ha ripetuto anche in una telefonata di auguri con gli eurodeputati: “Grazie alla nostra iniziativa politica, in Italia, abbiamo fatto partire l’esperienza dell’unità nazionale guidata da Mario Draghi. È nata da una mia intuizione – ha detto il leader di FI – Questo governo è una esperienza di grande successo e deve continuare, senza scossoni, fino alla fine della legislatura”. Una posizione che l’ex premier ripeterà a Matteo Salvini e Giorgia Meloni nel vertice di oggi a villa Grande. Che Berlusconi voglia restare della partita lo dimostra anche la campagna che è pronto a lanciare a inizio anno che ha anticipato martedì sera incontrando i capigruppo e Antonio Tajani: un libro con i suoi discorsi più celebri da premier – da quello di Onna sull’antifascismo a quello di Pratica di Mare sulla pace tra Usa e Russia – per presentarsi come l’uomo della “pacificazione nazionale”, farà distribuire la sua brochure “Io sono Forza Italia” a tutti i parlamentari e pensa a un videomessaggio come quello del 1994. Anche le sue televisioni sono tornate in pieno clima da campagna elettorale con un dominio assoluto di Forza Italia: secondo i dati Agcom di novembre, i tg Mediaset hanno concesso ai berlusconiani il 41% del tempo di parola. Un’enormità se paragonata al 15 della Lega, al 6 del Pd e al 5 di FdI. A dispetto di sondaggi impietosi, Fi vince anche nelle principali edizioni di Tg4 e Tg5, dove svetta con il 21 e con il 18 per cento mettendosi dietro tutti gli altri.

Per la coalizione però Berlusconi adesso è un candidato ingombrante. Oggi a pranzo i leader chiederanno al capo di Fi cosa intende fare. Ma sia Meloni che Salvini sanno che il centrodestra non avrà la forza per opporsi a Draghi. “La candidatura del premier è un fatto positivo perché c’è materia di discutere” dice Ignazio La Russa, fedelissimo di Meloni. Da FdI fanno sapere che sul premier aspetteranno di capire se la sua maggioranza lo sosterrà e poi decideranno se appoggiarlo. La posizione più delicata invece è quella della Lega: Salvini ripete che Draghi deve rimanere dov’è. Un modo, spiegano fonti del Carroccio, per stanare il premier e capire se ci siano le condizioni per blindare la legislatura.

Cartabia o Franco o Colao: il toto-nomi per il “successore”

E ora molti, se non tutti, pensano già al dopo: forse non probabile, a sentire ieri l’umore dei partiti, ma di certo possibile. Cioè a chi potrebbe essere il sostituto di Mario Draghi a Palazzo Chigi. La pedina che lo stesso premier dovrebbe muovere, o almeno proporre, per garantirsi il trasloco al Quirinale. Perché se vuole farcela dovrà trattare, Draghi, che ieri lo ha scandito per rassicurare innanzitutto i parlamentari che temono il precipizio del voto anticipato: “La legislatura deve arrivare al 2023”. Una promessa che è anche la linea da blindare, con un fatto concreto. Magari anche con la nomina di un vicepremier, figura a oggi assente, come si sussurrava ieri in certi corridoi di governo. Potrebbe essere quello il successore, un vice da pescare tra i ministri dell’attuale governo, preferibilmente tecnici. E anche se la nomina non dovesse arrivare, le figure comunque in corsa sono tre, almeno per ora: Marta Cartabia, Daniele Franco e Vittorio Colao.

Nel giorno della conferenza stampa in cui Draghi ha calato di fatto le sue carte, Colao, ministro per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale, sembra l’ipotesi più fresca, l’outsider che apparentemente non troverebbe oppositori tra i partiti, anche se da premier Giuseppe Conte lo soffrì parecchio quando il manager era il presidente della task force per la ripartenza. Ma è passato un anno, e sembra un secolo. Poi c’è Franco, ministro all’Economia gradito ai 5Stelle, in buoni rapporti con tutti i partiti.

Tramite lui si avrebbe una transizione morbida e in un certo senso logica, essendo il ministro che più segue il dossier del Pnrr per ovvi motivi. Però fonti di governo raccontano che il rapporto tra lui e Draghi non sia più così idilliaco, con il premier che gli rimprovererebbe innanzitutto la gestione del rapporto con i sindacati. Un ostacolo, anche se non certo insormontabile. Poi c’è Cartabia, attivissima. Nei giorni scorsi, dietro le quinte, ha alzato la voce per blindare le sue misure in manovra, a cominciare dal discutibile emendamento sui giudici onorari. E i partiti non hanno affatto gradito. “Vuole intestarsi provvedimenti a tutti i costi” sibila un grillino di governo. Commenti che non facilitano un suo eventuale passaggio a Palazzo Chigi della ministra, che pure si sentiva e si sente in corsa anche per il Colle. Ma dal M5S continuano a fare muro rispetto alla “mente” della controriforma della Giustizia: “Per noi è impossibile”. E anche la Lega, assicurano, non ne vuole sapere. “Come potremmo accettare come premier la Cartabia, proprio noi che stiamo portando avanti i referendum sulla giustizia?” spiegano da ambienti del Carroccio, consapevoli che di fatto andrebbero a delegittimare il presidente del Consiglio. Fatta la dovuta tara a ipotesi e calcoli, la facile sintesi è che il quadro è aggrovigliato. Al punto da far dire a un big del M5S che “qui si sta scivolando sempre più verso il voto anticipato”.

Anche perché le possibili alternative politiche sembrano miraggi, per una maggioranza tanto larga quanto slabbrata. Il nome del leghista Giancarlo Giorgetti, per dire, ieri è stato rumorosamente bocciato da Matteo Salvini: “Giorgetti premier? L’ha smentito anche lui”. Più che scettico, il Salvini che ha annunciato un incontro “a brevissimo” con Draghi (“Ma non per parlare del Colle”). Altre ipotesi che riemergono (il dem Dario Franceschini, che viene visto come il premier di una maggioranza senza Lega) sembrano solo suggestioni di Palazzo.

Così si torna al Draghi che ieri ha forzato, per vedere l’effetto che fa. A cui fonti varie dai partiti recapitano una domanda che è quasi un avviso: “Chi tratterà per suo conto? Lui un partito non ce l’ha…”. Ed è quasi un auspicio, portare il presidente del Consiglio che pare – e magari si sente – fortissimo su un terreno che non è propriamente il suo. Dalle parti di Palazzo Chigi qualcuno osserva e commenta: “È ancora presto”. E magari è vero, anche se alla riffa per il Colle manca appena un mese: e sarà lunghissimo.

Draghi si autocandida presidente. Ma l’aut aut fa arrabbiare i partiti

Tra un applauso della stampa ancora prima che inizi a parlare e una quasi ovazione alla fine, Mario Draghi mette sul tavolo la propria candidatura al Quirinale nella conferenza stampa di fine anno. Con un linguaggio chiaro, ma sufficientemente elusivo da non essere diretto. “Abbiamo reso l’Italia uno dei Paesi più vaccinati del mondo, abbiamo consegnato in tempo il Pnrr e raggiunto i 51 obiettivi”. Dunque, l’operato del governo può continuare “indipendentemente da chi ci sarà”. La risposta chiave arriva alla prima domanda, il premier si mette in campo. Il segnale arriva più diritto rispetto alle previsioni. Non ha aspettato di farsi ulteriormente logorare dai partiti, Draghi, e neanche ha atteso il ritiro di Silvio Berlusconi. Ha lasciato dire a Sergio Mattarella il suo ennesimo “no” al bis. E poi ha voluto chiarire di persona quello che da Palazzo Chigi raccontavano ormai da settimane: “È immaginabile una maggioranza che si spacchi sulla elezione del presidente della Repubblica e si ricomponga nel sostegno al governo? È la domanda che dobbiamo farci”.

Di fatto, di rimanere a Palazzo Chigi con un altro presidente non ha alcuna intenzione. Forza fino a dove può Draghi, sapendo che i partiti a questo punto lo soffrono. Per questo ha giocato di anticipo, per questo non ha esitato a dettare le sue condizioni: se lo vogliono, il suo ruolo sarà un altro. Sa bene che non sarà facile dire di no a quello che suona come un aut aut. Delinea pure un percorso e una road map il premier. L’elezione dovrà avvenire con una maggioranza se possibile ancora più ampia di quella attuale. Il messaggio è per Giorgia Meloni, che però lo accusa a caldo di “autocelebrarsi”. Nelle intenzioni del premier, la legislatura deve andare avanti. Esattamente quello che la Meloni non vuole. Però ci tiene a restituire al Parlamento il suo ruolo, il premier: la responsabilità è “nelle mani delle forze politiche”. Si tratti di vita del governo o di voto per il Colle. Ma poi si definisce “un nonno al servizio delle istituzioni”. Anche questo, un messaggio chiarissimo, che evoca presidenti come Sandro Pertini e Sergio Mattarella. Si dà anche un profilo da presidente: non “notaio”, ma “garante”, come il suo precedessore. Di certo è l’attuale presidente della Repubblica “il modello” a cui guardare per come ha affrontato “momenti difficilissimi nel settennato con dolcezza e fermezza, lucidità e saggezza”. Senza travalicare il “governo parlamentare” previsto in Costituzione. Da una parte vuole assicurare che non ci sarà un presidenzialismo di fatto, dall’altra è già pronto a supplire alle carenze della politica. Verso la quale riesce a essere pure quasi sprezzante. “Il mio successore? Lo chieda ai partiti”. I partiti sono tutt’altro che entusiasti. “Non ha i voti, non ce la fa”, è il commento che si sente di più. E se Silvio Berlusconi non si ritira e chiede che il premier resti a Palazzo Chigi, Matteo Salvini, mentre si esprime perché il premier resti dov’è e annuncia nomi per i prossimi giorni, gli chiede un incontro.

La partita è aperta. Con Forza Italia e la Lega divise, così come sono divisi Pd e M5S. Renzi è indeciso: con il premier in campo non può lavorare per un’altra candidatura, ma appoggiarlo potrebbe far naufragare il suo desiderio di fare da ago della bilancia. Potrebbe, visto che in realtà i margini per guidare il processo esistono. Fonti M5S, a caldo, fanno trapelare la “necessità” della “continuità dell’azione di governo”. Una locuzione che ha usato lo stesso premier, ma che fa capire anche il disappunto. In corso di giornata, infatti, il M5S rafforza la tesi che Draghi debba rimanere dov’è. Dal Nazareno sono più aperti. Si schierano per la tutela di Draghi e mettono l’accento sul fatto che l’importante è che la soluzione Colle e la soluzione governo vengano prese insieme. Un punto dolente. Draghi, per ora, lo ha detto chiaro e tondo: sta ai partiti trovare la soluzione. Un modo anche per inchiodarli alle loro responsabilità. E per precostituirsi la via d’uscita di fronte al caos. Ma anche per trovarla lui la soluzione, ove evidentemente mancasse.