Coitus interruptus

Ora che il “nonno delle istituzioni” vuole traslocare da Palazzo Chigi al Quirinale e finalmente ce lo fa sapere, il pensiero corre commosso e deferente alle cheerleader e groupies – volgarmente dette “giornalisti” e “politici” – che da febbraio ci rompono timpani e scatole con “SuperMario fino al 2023”, “Lista Draghi alle elezioni”, “Agenda Draghi fino al 2028”, “Ma che dico 2028: a vita!”, e poi i mercati, lo spread, il Pil, l’Economist, l’Europa, l’America, l’Oceania lo vogliono tutti lì a salvarci in saecula saeculorum. Ora l’oggetto dei loro ardori, “cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare”, interrompe bruscamente i loro orgasmi: lui o un altro fa lo stesso, uno vale uno, contano i partiti (ma non erano falliti?) e il Parlamento (costretto a votare il Bilancio fra Natale e S. Stefano). Da oggi cominceranno a dire che Draghi deve lasciare il governo con la stessa perentorietà con cui fino a ieri dicevano che non doveva muoversi sennò morivamo tutti e niente più soldi Ue. Stiamo parlando di “giornalisti” che fanno la standing ovation come nemmeno i nordcoreani con Ciccio Kim e si felicitano per la trovata del “nonno” (un anno fa per molto meno strillavano alla “casalinata”); e di “politici” che gli votano le leggi senza leggerle, figurarsi se non lo eleggono al Colle. O se si accorgono che racconta frottole sulla nuova Irpef (penalizza i più poveri), sui vaccini dei Migliori (si stava meglio coi Peggiori), sul Superbonus (le truffe non le fanno le leggi, ma i truffatori), sull’evasione (vedi condono), sulla sua indifferenza alle ambizioni personali (e allora perché molla con 150 morti al giorno?), sulla maggioranza che deve restare unita per votare il capo dello Stato, cioè lui, sennò addio governo (ma il governo cade proprio perché lui vuol fare il capo dello Stato).

Sapevamo – e scrivevamo – fin dall’inizio che questa ammucchiata avrebbe fatto poco e sarebbe durata pochissimo, quindi non saremo noi a piangerne la dipartita. Ma vorremmo sapere come va a finire. Il nonno dice che o va al Quirinale o torna a casa. Quindi, nel suo nome, si apre la seconda crisi in dieci mesi in piena pandemia e si fa un altro governo con un premier a scelta fra tre ectoplasmi di cui a stento si riconosce la voce: Franco, Cartabia e Colao. Sicuro che siano in grado di tenere a bada l’Armata Brancaleone nell’ultimo anno di legislatura, cioè di campagna elettorale? O qualcuno non si sfilerà, tipo la Lega, lasciando i sadomasochisti M5S e Pd a donare altro sangue? O si vota in anticipo, in barba al dogma dell’Italia che non può votare causa Covid&Pnrr? O i partiti, in un sussulto di dignità, impallinano il nonno e lo mandano ai giardinetti?

Ps. B. intanto si porta avanti: ieri è diventato bisnonno.

Strenne per ripararci dal lungo “inverno del nostro scontento”

Libri da ardere il cuore: romanzi come schegge impazzite in un Medio Oriente altrettanto impazzito; aforismi filosofici di irresistibile humour nero; Pasolini come bussola; inchieste puntute della ex direttrice del New York Times; storie di incolpevole felicità; scrittori sull’orlo di una crisi di nervi… Ecco i nostri consigli di lettura – ma anche di regalo – per le feste di fine anno, che non si annunciano di certo allegre. Un antidoto alla tristezza? Le battute di Cioran, il grand tour di Simenon o lo Yoga di Carrère, mica sul serio. Un libro-mondo? Quello di McCann o di Labatut o di Piperno, tornato in grande spolvero. Una storia d’amore con le ali? Citofonare agli antifascisti. Teoria e tecnica della rivoluzione? Telefonare a Marx. Come diventare ricchi? Chiedere a Martin Eden – alias Jack London – che riuscì nella memorabile impresa di fare soldi, scalare la società e sposare una ereditiera col “semplice” mestiere di scrittore. Incredibile. Che scherzi gioca la letteratura.

 

I Consigli delle nostre firme

 

Maddalena Oliva Perché il buon giornalismo (slow) non morirà

“Il tatuaggio resta con me, dirigere il NYTimes è stato l’onore della mia vita” ha detto Jill Abramson in una delle sue lezioni per giovani reporter. Era il 2014: la prima donna a capo del più influente quotidiano del pianeta era stata da poco licenziata, non senza polemiche di genere. Il sistema dell’informazione è in guerra con se stesso da 20 anni. E nell’inchiesta di Abramson – 800 pagine scritte come solo una grande giornalista può fare – i fattori di crisi ci sono tutti (dal calo di diffusione allo strapotere dei social come fonti di notizie). C’è la cronaca pungente dello star system delle firme, il dramma dei tagli, le incertezze degli editori, l’ossessione per i risparmi, la difficile transizione digitale. Per i media sarà comunque la fine di un’epoca. Per scoprire quali sopravviveranno, leggete. C’è, nonostante tutto, dell’ottimismo.

 

Salvatore Cannavò Le immagini nascoste della rivoluzione

Non è la storia lineare delle tanti rivoluzioni che hanno trafitto la Storia, ma uno sguardo orizzontale, trasversale agli stessi accadimenti per coglierne i punti di forza e di debolezza. Senza pregiudiziali ideologiche. Certo, a guidare il viaggio c’è Marx, ma c’è soprattutto Walter Benjamin, la sua cura per la storia dei vinti, la rivoluzione come un “freno di emergenza” contro il dirupo cui conduce il mito di progresso. Un libro da gustare in saporiti bocconi, senza fretta, in cui il passato rivoluzionario è composto di “locomotive, corpi, statue, colonne, barricate, bandiere, luoghi, dipinti, poster, date, vite individuali”. Una collezione di “immagini dialettiche” che restituiscono un quadro degno del Louvre. Enzo Traverso è uno degli storici più apprezzati nel mondo, insegna a New York, peccato non averlo a portata di mano. E di parola.

 

Antonello Caporale Il perfetto compagno di strada è cioran

Nel tempo dell’incertezza e della solitudine vagheggiata oppure ingiunta per motivi sanitari, Emile Cioran è il perfetto compagno di strada, il maestro che potrà spiegarvi la nostra misteriosa e fragile vita. È l’unico infatti che parla della morte come fosse sua sorella. La invidia, l’aspetta, la cerca, la spiega come segno di vitalità, per poi allontanarla, felice di aver però trovato il suo filo. Cioran è un filosofo del corpo, della nostra carne, della nostra mente. Perciò vi consiglio, ora che non c’è più, di scovare nella vostra libreria uno dei suoi libri (mi auguro che l’abbiate, perdinci!), e di leggerne qualche pagina.
Cioran è fatto apposta per questo tempo di facili e stupide certezze. Insegna al dubbio. In una sua bellissima poesia ripete che il dubbio è la sua droga, “tutto ciò che mi tiene in vita. Datemi dubbi e ancora dubbi”.

 

Gad Lerner Le schegge impazzite che raccontano il Medio Oriente

Geniale è la tecnica di montaggio con cui Colum McCann ha frantumato la nostra idea di romanzo per rimontarla in 1001 pezzetti, 500 schegge in salita e altrettante in discesa, inchiodando la nostra attenzione alla trama scomposta del mosaico, come succede nelle serie tv. Poesia pura è lasciarsi prendere per mano dalle sue apparenti divagazioni, fiduciosi che ci torneranno buone, non solo per commuoverci, ma per capire. È dovuto venire uno scrittore da fuori per narrarci le verità profonde del conflitto mediorientale, le storie intrecciate di Rami Elhanan che ha perso la figlia Smadar e di Bassam Aramin che ha perso la figlia Abir. Nulla ci risparmia, surclassando in precisione il giornalismo e traendone una sinfonia. Deve averlo aiutato il suo essere irlandese. Fatto sta che per me Apeirogon resterà una pietra miliare della letteratura.

 

Massimo Fini Nel cielo di London, che fatica diventare scrittori

Martin Eden è un romanzo di Jack London del 1908. Non è quindi attuale. Non è nemmeno originale perché è una storia d’amore fra un uomo dalle basse origini sociali e una ragazza dell’high class. Non è originale neppure per il razzismo sociale che si respirava nell’800; è invece interessante per chi oggi la pretenda a scrittore. Martin vuole conquistare la fama letteraria per poter sposare Ruth. E scrive, scrive, scrive, racconti, poesie, saggi che manda alle riviste che regolarmente glieli respingono. Finché arriverà il libro che gli darà fama internazionale: La vergogna del sole nel romanzo, Il richiamo della foresta nella realtà. Perché Martin Eden è una sorta di biografia di London che patì le stesse disillusioni. È una pedagogia dello scrivere, della sua fatica: dovrebbe essere ficcato in testa a martellate a chi oggi si illude di essere uno scrittore.

 

Ettore Boffano Il viaggio intorno al mondo di Simenon vale Maigret

Per gli eterni duellanti tra il Simenon di Maigret e quello “degli altri gialli” (senza il commissario del Quai des Orfèvres), può segnare a tratti una piacevole tregua; qualche volta offrire addirittura l’occasione per un reciproco “tradimento”. Favorito da Adelphi che, dopo Mediterraneo in barca ed Europa 33, manda in libreria la terza raccolta dei reportage dello scrittore belga, accompagnati dalle fotografie che lui stesso scattava: A margine dei Meridiani. Il suo giro del mondo avviene nel 1935 e scorre dalla Lapponia sino a Tahiti. Con un filo conduttore amaro e pessimista, tratteggiato dalle parole che precedono lo sbarco a Bombay: “…Produciamo scarpe, camicie e bibbie per i selvaggi, quando sono selvaggi che possono servire a qualcosa. Altrimenti, come in Australia, li lasciamo crepare, e anzi li aiutiamo un pochino…”.

 

Silvia Truzzi Le lettere di PPP: 300 missive di vita, cultura, tenerezza

Si chiama semplicemente Le lettere ed è l’imponente opera uscita a novembre per Garzanti che raccoglie l’intero epistolario di Pier Paolo Pasolini dal 1940 al 1975, curato da Antonella Giordano e Nico Naldini. Il volume raccoglie oltre 300 missive inedite, ritrovate dai curatori negli archivi di fondazioni, biblioteche, oltre che dei destinatari e dei loro eredi. Ne ha scritto sul Fatto una bella recensione Furio Colombo, ma lo segnaliamo di nuovo perché se esiste un ideale di strenna è proprio l’epistolario pasoliniano. Ci troverete molto della vita culturale del 900 nei dialoghi di PPP con Gianfranco Contini, Paolo Volponi, Elsa Morante, Giuseppe Ungaretti, Aldo Palazzeschi (a cui nel ’68 chiede un voto per lo Strega!). E alcune tenerissime pagine personali (“Carissima mammetta, ho ricevuto le tue cartoline e le ho baciate mille volte”).

 

Gianni Barbacetto La memoria del 900, il presente di Stajano

La narrazione parte dalla visione di una donna alta, secca, con indosso una lunga tunica nera. E termina con un verso su una bottiglia “finora non arrivata dal mare”. Tra il presente della pandemia e il passato della poesia, il filo corre continuo, s’ingarbuglia e s’addipana, in gomitolo (o forse gnommero). Anche quest’ultimo libro di Corrado Stajano, Sconfitti, racconta l’Italia di oggi, dunque di ieri. La pandemia è marcata da un ottuso semaforo, nel buio deserto di via Boccaccio a Milano. Poi Stajano ci trascina nella Palermo dove muore Carlo Alberto dalla Chiesa, nella Cuneo delle brigate partigiane, nel Varesotto di Giovanni Borghi, quello delle lavatrici. Nella Roma dei preti, e nel salone della banca di piazza Fontana, poco dopo l’esplosione… Il romanzo di un “Bel Paese che a 160 anni dall’unità non sembra possedere ancora un’idea di nazione”.

 

Fabrizio d’Esposito Un amore antifascista in volo su roma

Una storia d’amore e di antifascismo, in cui lui, Lauro de Bosis, dice: “Io credo che la questione del fascismo sia essenzialmente una questione morale, che riguarda la coscienza degli italiani”. L’epopea di de Bosis raggiunse l’apice il 3 ottobre 1931: un volo “dannunziano” su Roma per lanciare 400mila volantini contro la dittatura di Mussolini. Era sabato sera e il suo minuscolo monoplano si perse poi nel Tirreno. Il corpo non venne mai trovato. Ed era il 1928, sempre a Roma, quando de Bosis, poeta e dandy e antifascista liberale in seguito “allievo” di Salvemini e don Sturzo, s’innamorò di Ruth Draper, attrice americana. Lauro aveva 27 anni, Ruth 44. Il loro amore, cresciuto nel culto per la libertà e drammaticamente breve, è raccontato da Giovanni Grasso, consigliere per la stampa e la comunicazione di Sergio Mattarella, nel suo ultimo romanzo.

 

Daniela Ranieri Tra genio e furia, Dio e nazisti, si dibatte l’umanità

Se come dice la Bibbia la Sapienza è riflesso della luce perenne, Quando abbiamo smesso di capire il mondo è un libro illuminato. È un arazzo sapiente di casi e biografie le cui trame sembrano obbedire a una legge superiore, beffarda o sublime.Ad esempio, il cianuro che i nazisti useranno per suicidarsi nel ’45 è alla base del blu di Prussia delle Crocifissioni di Cristo dei fiamminghi. E Fritz Haber, creatore del gas usato dai tedeschi nel 1915 nel primo attacco chimico della Storia, inventò un fertilizzante che salvò milioni di vite dalla carestia, ma anche, nel 1920, lo Zyklon B, un pesticida a base di cianuro che Hitler userà per sterminare gli ebrei, tra cui i parenti di Haber. In questo libro ipnotico Benjamín Labatut dimostra che furia di morte, poesia, genio convivono dentro lo stesso spazio psichico, quello dell’umanità.

 

Alessandro Ferrucci Piperno ha creato una magia senza colpa

È bello oltre i suoi (presunti) difetti. Di chi è la colpa di Alessandro Piperno può risultare verboso, è vero, e lo stesso Gad Lerner, proprio sul Fatto, lo ha messo in evidenza, ma dopo averlo lui stesso apprezzato. Ha delle piccole incongruenze temporali, quelle che in un giallo distruggerebbero l’architettura della storia; è più profonda, “tonda” ed equilibrata la prima metà, ma si nota solo perché si passa dalla magia alla grandezza: è come bere un super rosso (Barolo? Brunello? Amarone?), talmente grande e pieno da non avere più il palato adatto per assaporare nessun gradino sotto. Bene, nonostante questo, il romanzo di Piperno è uno dei migliori dell’anno, così denso e ricco da creare, per chi legge, quell’universo parallelo che ti avvolge e permette di vivere altrove per tutte le pagine.

 

Camilla Tagliabue C’è più verità in Carrère che nel Dalai Lama

Emmanuel Carrère è un fingitore: possibile che la sua storia si intrecci sempre con la Storia, che la sua vita spicciola sia sempre imbrigliata agli eventi epocali, come l’attentato a Charlie Hebdo che guasta il suo seminario di meditazione Vipassana nella foresta? La vita come un romanzo. Russo o no: bisogna farci i conti col sornione scrittore, che anche con Yoga rasenta il capolavoro. In soldoni, tra una pratica e l’altra, Carrère scopre – o meglio, si convince – che c’è più verità in Dostoevskij che nel Dalai Lama, più efficacia nell’elettroshock che nella psicoanalisi, più bellezza negli amplessi rubati in albergo che nelle stanze nuziali. Ma questa era facile: il difficile è tenere insieme – come fa lui – la sofferenza di giovani afghani profughi e la sofferenza di un adulto francese bipolare. Profugo sì, ma di se stesso, la cui unica fuga resta quella musicale.

Salernitana, Figc: “Lotito venda entro il 31 o riparte dalla serie C”

Claudio Lotitoha tempo fino al 31.12 per riuscire a vendere la Salernitana, perché “non ci sono sconti”. Lo ha messo in chiaro il presidente della Figc, Gabriele Gravina, al termine del Consiglio federale che ha confermato la deadline di fine anno per trovare acquirenti che possano scongiurare il rischio di un’esclusione del club campano dal calcio professionistico: “Spero di no, ma senza elementi oggettivi al 31 dicembre la Salernitana è fuori”. E se non dovesse farcela? “Valutiamo la possibilità di una partenza dal campionato professionistico di base”. Cioè dalla Serie C.

Ita decolla, ma le donne restano a terra: class action contro i tagli alle dipendenti

“Sono mamma di tre bambini, il primo con handicap grave, e lavoro in Alitalia dal 2000; dopo 21 anni ho perso il posto perché Ita non ha accettato la mia candidatura. Mi sento discriminata come madre e donna”. Chi parla è un’ex assistente di volo dell’ex compagnia di bandiera. Con il passaggio alla “nuova” azienda, che ha assunto solo una piccola parte dei dipendenti Alitalia, è stata esclusa senza una motivazione. “Non c’è stata trasparenza”, ha aggiunto, ricordando di aver chiesto il part time dal 2011 per dedicarsi alla famiglia. L’impressione, parlando con le colleghe, è che lo stesso sia successo a molte altre donne nella stessa situazione, cioè che nelle nuove assunzioni siano state penalizzate le dipendenti con carichi familiari e in età fertile. Ora l’Associazione nazionale per la lotta alle discriminazioni (Anlod) sta pensando a una class action contro Ita, affinché un tribunale accerti questa discriminazione. Per questo ha analizzato i dati sull’occupazione femminile in Ita e i cosiddetti “tassi di femminilità” risultano nettamente diminuiti. Per esempio, tra gli assistenti di volo, mansioni con alta prevalenza femminile, nella fascia tra 36 e 40 anni siamo passati da circa 2,8 donne per ogni uomo in Alitalia a circa 1,5 donne per ogni uomo in Ita. Nella fascia tra 41 e 45, il rapporto era di 2,1 a 1 ed è diventato di circa 1,4 a 1.

Contattata dal Fatto, Ita ritiene che i dati non siano corretti e spiega che “nella composizione del personale opera nel massimo rispetto dei criteri di diversità e inclusione”. Tuttavia, nonostante la richiesta, non fornisce alcun dato sui tassi di femminilità dell’attuale forza lavoro.

Ita sostiene che il paragone con Alitalia sia “fuorviante” poiché “Ita Airways è una start up, operativa da poco più di due mesi, in momento di transizione e consolidamento, non paragonabile ad Alitalia, azienda a pieno regime con una storia di oltre 70 anni. Si tratta di un paragone non corretto anche perché le due aziende differiscono per la struttura, profondamente diversa”. Alcune settimane fa, erano scoppiate forti polemiche quando Il Fatto aveva rivelato la volontà del presidente di Ita, Alfredo Altavilla, di ridurre la sindacalizzazione licenziando gli ex Alitalia al termine del periodo di prova del nuovo contratto. Dopo l’accordo con i sindacati confederali, ora Ita sembra invece in procinto di assumere molti piloti e comandanti iscritti alle sigle.

La Russia di hockey con la maglia CCCP fa arrabbiare Helsinki

Per i Paesi del Nord Europa è stata una “provocazione”. Per Mosca, solo un “omaggio” al primo oro olimpico vinto 75 anni fa dalla nazionale di hockey su ghiaccio. Domenica scorsa, la squadra russa in trasferta per affrontare i finnici ha indossato la divisa dell’Unione Sovietica con la scritta in cirillico CCCP: la partita era valida per l’Euro Hockey Tour. Non l’ha presa bene l’ex primo ministro finlandese, Alexander Stubb, che su Twitter ha scritto: “Sono sorpreso e deluso dal fatto che alla Russia sia stato permesso di indossare magliette CCCP in una partita EHT contro la Finlandia. Quella combinazione di lettere e il regime che c’era dietro simboleggia l’imperialismo autoritario che ha ucciso milioni di persone”. Le magliette degli anni 60 non hanno aiutato la Nazionale russa a vincere, ma in compenso hanno rilanciato le polemiche tra il Cremlino e l’Occidente.

Addis Abeba, spese pazze al supermarket dei droni

Non c’è dubbio che la decisione del premier Abiy Ahmed di rivestire la divisa militare e recarsi sulla linea del fronte abbia tirato su il morale delle truppe federali etiopi. Ma la riconquista da parte dell’esercito nazionale dei territori chiave per la messa in sicurezza della Capitale, Addis Abeba, e il conseguente ritiro delle forze ribelli del Fronte di Liberazione del Tigray non è certamente da attribuirsi alla presenza sul campo di battaglia del premio Nobel per la Pace, accusato dall’Onu di aver impedito la consegna degli aiuti umanitari internazionali alla popolazione tigrina e di aver fatto costruire campi di detenzione in varie regioni per imprigionare i membri del gruppo etnico autonomista. Se dopo 13 mesi di guerra in cui sono morte centinaia di migliaia di persone – tra soldati, ribelli e civili – si può sperare in un cessate il fuoco, anche solo temporaneo, il “merito” va soprattutto ai droni armati venduti da numerosi Paesi. L’arrivo nella Capitale in questi ultimi mesi di centinaia di aerei cargo provenienti specialmente da Turchia, Iran, Israele, Emirati Arabi, Cina zeppi di questi potenti e assieme maneggevoli strumenti di morte, è un dato di fatto. Nonostante l’esercito etiope abbia una forza aerea, al contrario dei tigrini, non è più questa a fare la differenza.

Constatando il ribaltamento della situazione in Libia grazie ai droni inviati da Ankara all’esercito di Tripoli, Abiy ha deciso di investire un’enorme somma di denaro per acquistarli ma avrebbe potuto pagarli ancora di più se la Turchia, così come gli altri paesi costruttori, non gli avessero fatto uno sconto. Questi paesi, la maggior parte monarchie assolute, autocrazie e regimi, infatti usano queste nuove armi non solo per fare affari ma anche per instaurare un rapporto o espandere la propria influenza geopolitica all’Etiopia, la seconda nazione più popolosa dell’Africa (100 milioni di abitanti) nonché baricentro della stabilità di tutto il Corno d’Africa. Vale la pena di ricordare che l’Etiopia rimane un paese nel complesso povero e arretrato. Mentre gli Stati Uniti di Biden hanno denunciato il cambiamento in senso dispotico di Abiy, questi regimi lo hanno apprezzato. Risultato: la super potenza democratica recede e gli illiberali avanzano aggiogando sempre di più il premier etiope alle proprie mire in ambito economico e politico. Quando lo scorso agosto Samantha Power, l’inviata di Washington per gli aiuti umanitari, ha visitato l’Etiopia, Abiy non l’aveva voluta incontrare e in quello stesso giorno si era fatto vedere in televisione ispezionando i droni realizzati dall’arcinemico americano, l’Iran. Si è trattato di un affronto straordinario. L’America fino a poco tempo fa intratteneva relazioni amichevoli con l’Etiopia. È stato un grande donatore per un governo che dipende fortemente dagli aiuti e ha sostenuto energicamente le riforme democratiche che Abiy aveva promesso quando è salito al potere nel 2018. Gli Emirati Arabi Uniti oltre a essere accusati dalle Ong umanitarie di aver mandato i migliori esperti di droni a insegnarne l’uso ai soldati, avrebbe addestrato anche la guardia del corpo personale di Abiy.

Un aiuto che potrebbe avergli dato la fiducia necessaria per condurre una guerra totale contro i ribelli, piuttosto che negoziare con loro. La Cina è il regime più forte e pesante, in termini di investimenti, ma sono sempre di più quelli che le fanno concorrenza proprio aprendosi un varco a colpi di bombe, lanciate dai droni. Nessuno è sorpreso che Cina e Russia proiettino una forte influenza all’estero. La novità è che anche dittature minori come quella bielorussa, egiziana, pachistana, saudita lo stiano facendo in modo più sfacciato che in qualsiasi momento della storia recente. Non solo in Etiopia, ovviamente. I poteri di media grandezza, grazie al fatto di riuscire a costruire droni di ultima generazione ora hanno un’enorme capacità di entrare nei conflitti altrui per sostenere una parte e avvantaggiarsene in ambito domestico.

Ketamina, arma letale della Polizia

Ad Aurora, Colorado, il 24 agosto un giovane afroamericano entra in un negozio con una maschera nera. “Non è pericoloso, né armato” dice la voce anonima che chiama il 911 per segnalarlo comunque alla polizia. Nonostante stesse solo camminando per strada, il giovane viene immediatamente immobilizzato fino allo svenimento e ammanettato dagli agenti che lo raggiungono. Gli infermieri contattati dalla polizia gli iniettano una potente dose di ketamina, analgesico dissociativo che alcuni Stati Usa permettono di usare alle forze dell’ordine. “Non ho una pistola, non ammazzo nemmeno le mosche”: sono alcune delle ultime parole che dice il giovane prima di morire in ospedale qualche giorno dopo. Quel ragazzo di 23 anni, un fisioterapista che amava suonare il violino e fare volontariato, si chiamava Elijah McClain e il suo nome qualche mese dopo lo avrebbero conosciuto milioni di americani.

“Quando alle marce di Black lives matter abbiamo sentito risuonare il suo nome, abbiamo cominciato la nostra inchiesta” dicono i due reporter investigativi della Kunc radio, Michael de Yoanna e Rae Salomon. Mentre l’opinione pubblica protestava contro la brutalità delle divise, loro hanno cominciato a porsi domande invece su quell’ago letale: “Perché si può sedare un innocente? Quante volte è già successo e quanto spesso accade? Chi lo permette? Sui giornali non trovavamo qualcuno che ponesse queste domande”, dicono i due giornalisti. La prima risposta che hanno trovato loro è stata “excited delirium”, ovvero “delirio eccitato”, una sindrome controversa non riconosciuta nemmeno nel manuale diagnostico psichiatrico: “Se un poliziotto segnala che qualcuno è fuori controllo, un paramedico gli inietta una dose di ketamina, un farmaco che ti tranquillizza istantaneamente, talmente forte da essere usato, per esempio, per i soldati vittima di un’esplosione. Un singolo sovradosaggio può danneggiarti per sempre. Dai video è evidente che Elijah non era in stato di delirio”. Non c’era una banca dati su quanti, come McClain, erano stati sedati: “Bisognava analizzare i casi singolarmente, connettere i punti”, dice De Yoanna. Dipartimento dopo dipartimento di polizia, bussando alle porte di un’istituzione dopo l’altra, i due hanno cerchiato in rosso un numero: 902. Erano i casi in cui, in maniera immotivata, negli ultimi due anni, le forze dell’ordine avevano usato il farmaco, soprattutto contro gli afroamericani. Mentre i due giornalisti allargavano il cerchio delle vittime della ketamina, aumentava anche il furore dell’opinione pubblica dopo il leak delle foto di alcuni agenti che avevano mimato la morte di Elijah sorridendo all’obiettivo per prendere in giro i colleghi che rischiavano l’accusa di omicidio. Il volto innocente di Elijah stava però diventando quello di un fenomeno rimasto per troppo tempo fuori dai radar della stampa: quello delle vittime del fattore k. “Abbiamo parlato con altri che hanno subito l’iniezione nonostante fossero lucidi, lo dimostrano i video che abbiamo poi mostrato alle autorità, vedevamo che uno schema stava emergendo”. Nel luglio 2020, tre settimane dopo la prima pubblicazione del primo articolo dei reporter della Kunc, il dipartimento della Salute del Colorado apre un’indagine sull’uso della ketamina nei dipartimenti di polizia. Un’altra indagine interna la apre la polizia di Aurora. “È stato identificato un modello di comportamento illegale della polizia: hanno usato forza contro le persone di colore quasi 3 volte in più rispetto ai bianchi, ma costituiscono solo il 15% della popolazione”. Il caso finisce sul tavolo del governatore e diventa legge: viene vietato l’uso della ketamina in Colorado. Il lavoro avviato dai due giornalisti traghetta fino a Washington: Joe Neguse, rappresentante dello Stato, porta adesso avanti una battaglia per il Ketamine restriction act , affinché il divieto venga applicato in tutto il Paese.

Il risarcimento ottenuto dalla famiglia McCain “è stato uno dei più grandi della storia d’America: 15 milioni di dollari”, che la madre dice che ridarebbe indietro per un solo secondo con Elijah. I poliziotti e i paramedici che gli hanno tolto prima il respiro, poi la lucidità, e infine la vita, sono sotto indagine ma non sono stati licenziati. Una banca dati sull’uso della ketamina nei dipartimenti di polizia in ogni Stato americano non esiste: “Non sappiamo quanti Elijah ci sono ancora lì fuori” dicono i due. In Colorado la storia è cambiata, nel resto degli Stati Uniti ancora no.

60 anni di Rai2 e diversi rimpianti

Le feste del sessantesimo si dividono in due grandi categorie, quelle che annoiano e quelle che mettono tristezza (parliamo per esperienza). A volte una cosa non esclude l’altra, come è appunto accaduto in 60 sul 2, la maratona di schegge con cui “la rete giovane” del servizio pubblico ha celebrato il suo battesimo. Era il 4 novembre 1961 e subito Achille Campanile ne salutò il maggior vantaggio, “la possibilità di sottrarre il primo canale all’attenzione del pubblico. Finché guardano il secondo, non possono guardare il primo”. Sappiamo quanto i materiali delle Teche Rai siano preziosi, ma anche delicati, e quanta grazia ci voglia per trasformare la tv in macchina del tempo (forse nell’era del Web il futuro della tv sta proprio nel saper raccontare il passato). Questo per dire che l’idea c’era, ma la maledizione del sessantesimo si è abbattuta su una meringata di superlativi, entusiasmi, osti che spiegavano quanto era buono il vino (con alcune presenze surreali, tipo l’onnipresente professor Broccoli, e alcune assenze così clamorose che nemmeno stiamo a dirle). Forse la fortuna di nascere giovani si trasforma col tempo nella condanna di doverlo rimanere per sempre, ma se c’è una rete di cui andrebbe raccontata la storia avventurosa, distinguendo gli inventori dagli epigoni e gli epigoni dai restauratori, quella è proprio Rai2. Solo sul secondo canale, all’indomani della riforma della Rai, poteva nascere una programmazione irriverente, libera, inventiva, davvero “altra”, come la televisione di Renzo Arbore. Si crede che le idee alternative seguano sempre quelle istituzionali, ma non sempre è così. L’altra domenica precede Domenica in, che nasce qualche mese dopo e ne è di fatto una variante nazional-popolare. Insomma, i veri capolavori del servizio pubblico sono nati tutti su Rai2; anche se, sempre nel lontano 1961, Campanile auspicava l’arrivo di un terzo canale, in modo che si potesse evitare di vedere sia il primo che il secondo. E la profezia si avverò.

Il paradosso delle non madri

In Italia nascono sempre meno figli e non è una novità. La Grande Recessione prima, la pandemia poi, hanno dato il colpo di grazia a una fecondità che già arrancava. Ma se in passato il passaggio cruciale era tra il primo e il secondo figlio, che faticava ad arrivare, ora sono molte le donne che concludono la loro storia riproduttiva senza essere diventate madri.

È quanto emerge dal recente report Istat sulla fecondità nel 2020. Se tra le nate degli anni 60 e 70 circa il 20% delle donne non ha avuto figli, si stima che tra le nate negli anni 80 ben un quarto non ne avrà. Eppure, l’Italia rimane il Paese del mito della maternità. È qui, infatti, che sono forti le pressioni per raggiungere un ideale materno di perfezione che fa coincidere nel pensiero comune di molte persone la realizzazione personale femminile con la maternità, o che le donne vengono ancora spesso considerate le regine del ruolo di cura, o che i modelli familiari paritari sono ancora poco diffusi.

Il 51% del campione italiano dell’Eurobarometro 2014-2017 pensa che il ruolo più importante per una donna sia quello di prendersi cura della casa e della famiglia. Secondo i dati del rapporto WeWorld 2018, un terzo del campione italiano ritiene che l’autorealizzazione di una donna passi per l’avere dei figli: “La maternità è l’unica esperienza che consente a una donna di realizzarsi completamente”. È difficoltoso in un contesto così sbilanciato, in cui quando nasce un figlio la cura ricade in maniera quasi esclusiva sulla madre, o comunque sulla linea femminile della famiglia, e in cui l’essere madre compone ancora una parte identitaria così forte del proprio sé, non aderire a questo modello. È difficoltoso per quante decidono che la maternità non debba far parte del proprio percorso di vita, le childfree. Si tratta di donne che non vedono la maternità come obiettivo, non è una tappa del loro progetto di realizzazione di sé. Non necessariamente sono donne esclusivamente orientate al lavoro, ma, anzi, attribuiscono ai figli una necessità di un grande investimento in termini di tempo ed energie. Si tratta di una posizione, quella delle childfree, che in alcuni casi è rinegoziata nella vita, sulla base delle esperienze e dei percorsi.

L’accusa che queste donne devono subire è di egoismo, in quanto la maternità è ancora talvolta concepita come una missione collettiva, in una visione che tra l’altro collide con il carico poi individuale della cura del figlio, in un Paese che non offre, a oggi, sufficienti servizi di cura all’infanzia, ma in generale un welfare della famiglia che sostenga la genitorialità. Di queste donne si parla sempre più spesso, almeno nei media: cercano un dovuto riconoscimento e una comprensione della loro libertà di posizionarsi in un tema così delicato. Nonostante questa urgenza di riconoscimento in una società che nelle sue dimensioni sociali, spinge e urge, con pressioni più o meno velate verso il mito della maternità, la quota di donne childfree in Italia è ancora limitata. Secondo i più recenti dati Istat, Famiglie e Soggetti Sociali 2016, la percentuale di donne di età compresa tra i 18 e i 49 anni che dichiarano di non voler avere un figlio nei successivi tre anni perché non rientra nel loro progetti di vita, è sotto il 2% del campione totale.

Diverso è il percorso di chi, pur desiderandolo, non diventa madre. L’Istat nel suo report sulla fecondità attribuisce il calo dei primi figli alla prolungata permanenza nella famiglia di origine, dovuta a tre dimensioni: la prima è legata al protrarsi dei tempi della formazione scolastica. Di fatto, pur avendo tra le percentuali più basse di laureati in Europa, la quota di giovani con formazione terziaria, e che quindi rimanda le tappe successive del percorso di crescita, è aumentata nel tempo. La seconda dimensione riguarda il lavoro: le difficoltà giovanili nell’ingresso nel mondo del lavoro si protraggono, e la diffusa instabilità delle carriere, insieme a stipendi non adeguati, non creano le condizioni per la nascita di figli. Anche l’incertezza abitativa, infine, ha un peso, legato alle difficoltà di accesso al mercato delle abitazioni. Ad acuire queste complessità ci sono state la bassa crescita economica, e poi la pandemia.

L’Istat fa riferimento, poi, genericamente ad altri motivi di ordine culturale. Laddove la cura non è equidistribuita tra uomini e donne, questo condiziona il percorso femminile verso la fecondità, per il sovraccarico di energie che ci si attende di dover dedicare ai figli, a discapito degli altri ambiti di vita. Così come la percezione dell’incertezza e dell’instabilità, e non solo le concrete condizioni lavorative, hanno un peso. La lotta continua nel mondo del lavoro ancora discriminante, poi, potrebbe giocare un ruolo e spostare il focus degli obiettivi. La fluidità delle relazioni, la precarietà della vita in molti ambiti spesso non creano le condizioni perché si arrivi presto nella vita a scegliere di avere un figlio. Quando si giunge a questa decisione le rinunce rispetto alla vita “di prima” sono molte.

Più ampia, dunque, e forse ancor più dolorosa, è la strada di quante vorrebbero avere figli, ma non diventano madri. Iniziare a cercare un figlio oltre i trent’anni (l’età media alla nascita del primo figlio è di 31,4 anni, quella alla nascita in generale è di 32,2 anni, cresciuta di un anno nell’ultimo decennio), significa incorrere in difficoltà di fertilità, significa essere più a rischio di aborto spontaneo, impiegare più tempo a concepire, dover talvolta intraprendere il percorso della fecondazione assistita o quello dell’adozione. Tutte vie tortuose e non necessariamente a buon fine. Quando questi tentativi hanno successo le donne arrivano alla meta sfinite, quando non vanno a buon fine, arrivano sfinite e deluse, mentre il resto della vita va avanti, a colpi di lotta tra tutte le altre precarietà.

È una generazione, quella delle non madri, di donne stanche. Quelle che non hanno avuto figli per scelta devono ancora lottare per essere accolte. Quelle che ne volevano devono elaborare l’accettazione del mancato raggiungimento di un obiettivo di vita, che la società persiste a considerare come fondamentale. È un paradosso, però, che questo mito della maternità coesista con un crescente numero di donne che madri non sono, ma forse un paradosso che contribuisce ad alimentare il mito.

 

Le scorie lost in transition di Cingolani

Abbiamo subito invidiato il ministro Roberto Cingolani perché la definizione di transizione ecologica, di cui egli si occupa, trasmette una pacata sensazione di quiete attiva (o, se si preferisce, di dinamica staticità). Lo immaginiamo infatti assolutamente impegnato nel passaggio da un modello economico di sfruttamento delle risorse ambientali al modello che le valorizza (tratto da Wikipedia). Però, senza scapicollarsi e prendendosi tutto il tempo che serve al macchinoso trapasso. Mentre, per dire, il ministro della Salute, Speranza, andrà a letto vestito per fronteggiare, senza frapporre indugio, varianti e no-vax, e il collega della Difesa, Guerini, vigilerà nervosamente i patri confini in tutta mimetica e binocolo a tracolla, siamo convinti che nella sua laboriosa transizione con la pipa in bocca il ministro Cingolani debba essere lasciato tranquillo, perché prima o poi si farà vivo lui. Purtroppo, lunedì sera, questo pacioso mare della tranquillità si è improvvisamente increspato quando nel suo Dataroom sul tg di Enrico Mentana, Milena Gabanelli (non esattamente lo spot della camomilla) ha illustrato la gestione altamente pericolosa, per non dire criminale, delle scorie radioattive. Il cui smaltimento è di competenza della Sogin, società di Stato che in vent’anni ha speso 4 miliardi (versati dal contribuente in bolletta), 2,2 dei quali serviti a pagare gli stipendi del personale e i generosi bonus dei dirigenti. E tutto per concludere appena il 30% dei lavori. Una vicenda molto italiana con in sovrappiù la bomba chiamata Saluggia. Si tratta, ha spiegato Gabanelli, del sito in provincia di Vercelli che contiene 270mila litri di rifiuti radioattivi liquidi e acidi, stoccati in serbatoi di acciaio, costruiti negli anni 60. Stato di conservazione ignoto, perché inaccessibili a causa dell’alta radioattività. Rifiuti che andavano solidificati entro 5 anni: ne sono trascorsi 40 e sono ancora lì. Mentre ai telespettatori andava il boccone di traverso, abbiamo immaginato il ministro Cingolani subito impegnato a rassicurare i cittadini sulla minaccia nucleare stagnante nel sottosuolo. Infatti, egli ha dichiarato che “l’unica soluzione per Sogin è un commissariamento sul modello Ponte Morandi”. Be’, allora siamo a cavallo. Con calma e senza fretta, è la transizione bellezza.