Nuovo capitolo nel caso Medionalum-Berlusconi. In seguito alla decisione della Corte di Giustizia Ue che ha dichiarato a dicembre scorso la propria giurisdizione in materia, il Consiglio di Stato ha dichiarato inammissibili, per difetto assoluto di giurisdizione del giudice nazionale, i ricorsi di Berlusconi e di Fininvest. I giudici di Palazzo Spada hanno contestualmente respinto la richiesta dei difensori di ulteriore rimessione della questione alla Corte Costituzionale. Sulla legittimità della partecipazione, venuta in rilievo all’indomani dell’incorporazione di Mediolanum (di cui Fininvest era già azionista) in Banca Mediolanum, Bankitalia aveva aperto d’ufficio un procedimento di verifica, conclusosi con un parere sfavorevole all’acquisizione della partecipazione, poi trasmesso alla Bce per competenza. Che aveva successivamente adottato una decisione finale contraria all’acquisizione. Sia il provvedimento di Bankitalia sia quello della Bce erano stati impugnati da Berlusconi e da Fininvest. Con la sentenza del 19 dicembre 2018, la Corte di Giustizia ha affermato la propria esclusiva competenza.
Abolito il tema, la Storia resta nelle altre tracce
Racconti distopici di un’Italia del 2039 in cui si studia una nuova materia, chiamata “Versione dei Fatti”, che ha rimpiazzato la storia. Lettere, manifesti, firme, appelli persino al capo dello Stato, Sergio Mattarella: da qualche giorno è ricominciata la martellante campagna di Repubblica a favore della storia. “Un bene comune che è in pericolo, sminuito, umiliato, rimosso”, si legge in uno degli articoli dedicati al tema. E si sarebbe tentati di pensare che sia stata cancellata di punto in bianco da tutti i programmi di studio della scuola italiana.
In realtà è stato solo eliminato il tema storico alla prima prova dell’esame di Stato, in cui però la storia continuerà comunque a essere presente all’interno di altre tracce trasversali.
La Buona Scuola. La maturità, infatti, è cambiata: non è successo ora, e neppure a febbraio quando era iniziata la campagna, tantomeno a ottobre quando ci furono le prime polemiche. La riforma si deve alla “Buona Scuola” di Matteo Renzi e Stefania Giannini nel 2015, che prevedeva svariate deleghe, tra cui una sull’esame di Stato. L’ha attuata il decreto legislativo 62/2017, firmato dalla ministra Valeria Fedeli (sempre governo Pd), prevedendo ad esempio l’abolizione della terza prova e altre modifiche alle prime due. Nel testo non c’era scritto esplicitamente che il tema storico dovesse scomparire, ma si cambiava l’impostazione dell’esame puntando più sulla “verifica delle competenze” in maniera interdisciplinare.
È a questo punto che si inserisce l’attuale ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, che lo scorso autunno con una circolare ha ufficializzato il passaggio al nuovo esame, cancellando il tema storico.
La nuova maturità. L’iter normativo è abbastanza chiaro ma non basta per placare le polemiche, rilanciate dall’ultimo manifesto che chiede di ripristinare la “prova di storia” (che comunque rappresentava un unicum, scelto nel 2018 appena dall’1,9% degli studenti) e “incrementare le ore a scuola invece di ridurle” (cosa che però non è successa di recente: soltanto negli istituti professionali c’è stato un abbassamento da due a un’ora, ma si tratta di un segmento molto specifico della secondaria).
L’esame. Il dibattito è aperto, intanto comunque la storia continuerà a essere nell’esame, seppur in forma meno diretta. A giugno, infatti, i maturandi potranno scegliere fra 7 tracce e 3 tipologie di prove (analisi del testo, testo argomentativo, riflessione critica) su diversi ambiti, tra cui appunto anche quello “storico”. Nell’ultima simulazione, ad esempio, c’era una traccia sull’eredità della prima guerra mondiale a Trieste (a partire da un testo di Paolo Rumiz), dal chiaro carattere storico.
Il timore che, con l’abolizione del tema, i nostri studenti smettano da un giorno all’altro di imparare la storia, pare abbastanza lontano. Sarebbe come dire che anche la storia dell’arte, la filosofia, la geografia o le scienze non fanno parte dell’esame di maturità e del bagaglio dei nostri ragazzi, perché non esiste una traccia dedicata (il tema storico era un unicum, sempre più residuale nelle scelte dei maturandi: nel 2018 era stato fatto appena dall’1,9% del totale). Non è così, per fortuna.
Unità sindacale, stavolta si fa sul serio: ecco perché
La scissione della Cisl dalla Cgil è successiva all’attentato a Palmiro Togliatti, nel 1948. La Cgil decide a maggioranza di proclamare lo sciopero generale e la minoranza cattolica non ci sta. Pesava la “cacciata” delle sinistre dal governo De Gasperi, il ruolo del Vaticano, degli Stati Uniti e una visione sindacale estremamente diversa: la lotta di classe da un lato, il sindacalismo cristiano dall’altro. Bastano questi particolari per cogliere come certe differenze siano lontane nel tempo. Ed è su questo che ha iniziato a martellare Maurizio Landini, neo segretario della Cgil che proprio all’unità sindacale ha deciso di legare il suo mandato. La sua proposta di andare oltre le sigle è stata fatta in occasione del 1º maggio, ma era già presente nelle conclusioni fatte al congresso Cgil di gennaio che lo ha eletto.
Negli orientamenti di Landini si è aperta una “finestra temporale” che è bene cogliere in tempo. A differenza dei decenni scorsi, oggi non ci sono più i partiti che hanno fatto da riferimento ai sindacati (Pci e Psi per la Cgil, la Dc per la Cisl, i partiti laici e repubblicani per la Uil). Non c’è più nemmeno la divisione tra Ds e Margherita che ha caratterizzato la fase politica di venti anni fa. Anche allora l’unità sindacale fu tentata con Sergio D’Antoni alla testa della Cisl e Sergio Cofferati in quella della Cgil. Non se ne fece nulla, per diffidenze e orientamenti diversi, ma oggi tutto appare cambiato. Non è un caso se il presidente del Pd, Paolo Gentiloni, appoggi convintamente la proposta.
A unire i sindacati c’è anche la comune avversione per le forze populiste e “sovraniste” come dimostra la campagna pro-Europa che Cgil, Cisl e Uil hanno deciso di abbracciare. “Che senso ha restare divisi?”, chiede Landini ai suoi interlocutori. C’è poi un altro motivo, non esplicito, che sottende questa discussione: da solo, nessun sindacato ce la può fare. La dispersione del lavoro, il rischio del proliferare di “sindacati corporativi” fanno pensare che sarebbe meglio un’unica grande forza da 12 milioni di iscritti che, a quel punto, sarebbe inaggirabile. E che invertirebbe il classico rapporto tra partiti e sindacati con i secondi non più variabile dipendente, ma soggetto centrale.
Le diffidenze non mancano. La Cisl ha cercato di raffreddare gli animi con dichiarazioni prudenti di Annamaria Furlan, mentre la Uil, con Carmelo Barbagallo, si è detta pronta anche domani a iniziare il percorso di fusione. Ma l’interesse è serio. Perché in casa Cisl non possono non notare che Landini rimuove quello che, a loro giudizio, è stato finora l’ostacolo principale: la contrarietà della sinistra sindacale legata a una concezione di classe e conflittuale. Negli anni 90-2000 l’unificazione non sarebbe mai stata accettata dalla Fiom o dai settori della sinistra interna e questo sarebbe avvenuto ancora fino a qualche anno fa. Ma Landini è il rappresentante di quella componente e la proposta fatta da lui, eletto con il 98%, acquista un altro spessore.
Non è un caso che nell’intervista a Repubblica con cui ha rilanciato il tema, il 1º maggio, Landini abbia proposto “l’umanesimo sociale” come base culturale del sindacato unitario. Musica per le orecchie del sindacalismo cristiano che vede la possibilità di uscire dai “miti” della lotta di classe.
Le differenze di fondo su concezione della contrattazione, rapporto tra sindacati e lavoratori (la Cgil chiede il referendum tra tutti i lavoratori per approvare i contratti), concezione dello sciopero generale “politico” e rapporto con eventuali governi “amici” restano intatte. Come rimane la diffidenza degli apparati e della burocrazia, che non vede di buon occhio la fine di postazioni consolidate. Ma quella finestra temporale si è aperta. E, come in passato, Cgil, Cisl e Uil si apprestano a una serie di manifestazioni unitarie che rafforzeranno questa volontà. Potrebbe non succedere nulla, ma in tal caso i tre sindacati, per come sono oggi, sarebbero più deboli.
Carige, ministro Tria: “Interesse Blackrock è garanzia di rilancio”
“Ribadisco l’auspicio di una soluzione privata per Banca Carige”. Così il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, risponde a una domanda sui timori dei sindacati relativi al futuro dell’istituto genovese. Per Tria “l’interesse manifestato da un investitore istituzionale di standing internazionale come Blackrock, tra l’altro già presente nel capitale di altre banche italiane e supportato da un adeguato piano industriale è un buon segnale in questa direzione e una garanzia per il rilancio della banca”. Dicharazioni che sono arrivare dopo una giornata di mobilitazione a Genova, dove si è svolto un presidio organizzato dai sindacati. “Il nostro obiettivo è rilanciare Carige e riconsegnarla risanata al territorio e ai lavoratori”, ha detto il segretario generale di First Cisl, Riccardo Colombani. Che ha aggiunto: “I 1.250 esuberi dichiarati dai commissari rendono poco realistica la volontarietà delle uscite, considerato che quella soglia copre tutta la platea di chi può essere prepensionato perfino utilizzando quota 100. Ogni ipotesi di eccedenze più elevate sarebbe a maggior ragione inaccettabile perché prefigurerebbe licenziamenti mascherati o tagli retributivi insostenibili”.
Avellino, i pm sequestrano barriere insicure
Le barriere di 12 viadotti sequestrate, 3 dirigenti di Autostrade per l’Italia indagati, e nuovi dubbi sulla sicurezza di un tratto autostradale che ha già pagato un tributo di sangue, sul quale continuano a transitare auto, bus e camion. Arriva a uno snodo cruciale l’inchiesta sulla sicurezza dell’autostrada A16 Napoli-Canosa, anticipata il 15 novembre sul Fatto. La procura di Avellino guidata da Rosario Cantelmo ha ottenuto dal Gip Fabrizio Ciccone il sequestro preventivo delle barriere bordo ponte di 12 viadotti nel tratto compreso tra Baiano e Benevento. Tra queste ci sono quelle del viadotto Acqualonga dal quale il 28 luglio 2013 precipitò il bus turistico nel quale persero la vita 40 persone. Il sequestro non incide sulla circolazione autostradale, che prosegue, anche se potrebbero essere predisposte a breve limitazioni della velocità.
L’ultima pagina del provvedimento del Gip ipotizza che in seguito al disastro di sei anni fa “alcun efficace dispositivo di controllo è stato predisposto da Autostrade per tutelare l’incolumità degli utenti della strada”. Di qui il sequestro preventivo delle barriere del viadotto tristemente famoso e di altre barriere disseminate lungo i ponti Pietra Gemma, Carafone, Vallonato I e II, F.Lenza Pezze, Scofeta Vergine, Sabato, Boscogrande, Francia, Vallone del Duca e Del Varco. I tre dirigenti indagati di Autostrade per l’Italia, accusati di una serie di omissioni, sono Michele Renzi, ex direttore di tronco di Cassino, Massimo Giulio Fornaci e Costantino Ivoi. Renzi è stato già condannato in primo grado a cinque anni di reclusione nel processo per l’incidente di Acqualonga. Fornaci è stato assolto. Il terzo dirigente ha invece testimoniato nel processo conclusosi a gennaio con la condanna dei titolari dell’azienda che noleggiò il bus malconcio (i freni si spaccarono all’improvviso, la revisione del mezzo risultò fasulla), l’assoluzione dei vertici di Aspi, tra cui l’ex ad Giovanni Castellucci, e la condanna di alcuni ex direttori del tronco di Cassino.
Il sequestro è stato deciso nell’ambito di una inchiesta bis avviata dopo l’ascolto di alcune testimonianze e l’acquisizione di documentazione allegata al processo sulla strage di Acqualonga. Ed in particolare di alcune pagine della perizia dell’ingegnere Felice Giuliani, sentito in aula a settembre, che sollevavano subbi sulla qualità e la tenuta delle barriere simili a quella posizionata sul viadotto dal quale precipitò il pullman, che risultarono coi tirafondi marciti per le intemperie ed il gelo. L’iniziativa giudiziaria si è arricchita di un’altra indagine tecnica, effettuata dall’ufficio territoriale dell’Ivca, l’istituto di vigilanza sulle concessionarie autostradali del ministero dei Trasporti guidato da Danilo Toninelli. Gli ispettori, come ha ricordato ieri Toninelli in un tweet, accertarono inadempimenti e segnalarono “la vetustà dei dispositivi di sicurezza e l’anomalia degli ancoraggi al suolo avvenuti mediante barre filettate e non con Liebig”.
La Procura ha conferito un incarico al consulente Andrea Demozzi, che ha analizzato gli interventi di manutenzione ordinaria delle barriere effettuati nel biennio 2016-2017, giungendo alla conclusione che i lavori compiuti da Aspi, ed in particolare proprio la sostituzione dei tirafondi Liebig Plus con “barre filettate inghisate nel cordolo”, potrebbero aver compromesso “notevolmente” la capacità di contenimento dei new jersey. In sostanza, una toppa peggiore del buco, secondo l’ipotesi dell’accusa che va verificata nelle successive fasi del procedimento. Fonti di Aspi fanno sapere che le strutture competenti forniranno agli inquirenti tutti i chiarimenti utili.
La Gronda di Genova e i piani per dare Alitalia ai Benetton
“Noi non abbiamo mai parlato di Atlantia collegata con Alitalia, ma si stanno cercando investitori”, dice il ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli, M5S. Ma le cose non stanno così: i due dossier, il salvataggio di Alitalia, e lo scontro sulla revoca della concessione ad Autostrade (controllata da Atlantia) dopo la tragedia del ponte Morandi procedono secondo convergenze parallele.
I tre commissari di Alitalia hanno comunicato la proroga per cercare un partner che affianchi le Ferrovie dello Stato, il ministero del Tesoro e la compagnia americana Delta nel dare un nuovo azionariato ad Alitalia: c’è tempo fino al 15 giugno, cioè dopo le elezioni europee. Intanto Autostrade ha risposto alle contestazioni del governo sul rispetto degli obblighi previsti dalla concessione: è la mossa della famiglia Benetton nel delicato iter sulla possibile revoca che metterebbe in crisi il business del gruppo. Autostrade ha mandato un documento di 400 pagine e migliaia di allegati, per spiegare di aver investito 12 miliardi dal 2000 a oggi sulla rete autostradale, più 2,5 miliardi di manutenzioni dal 2008 al 2016 (oltre quanto previsto dalla concessione, dice Autostrade).
Il premier Giuseppe Conte, che segue direttamente la questione della revoca, ci metterà settimane ad analizzare i documenti. Ma se il suo governo volesse dare un segnale di dialogo ai Benetton potrebbe farlo anche domani mattina: basta sbloccare i lavori per realizzare i 5 miliardi di investimenti per la Gronda di Genova, la nuova autostrada ligure mai amata dai Cinque Stelle. Toninelli ha imposto uno stop proprio perché Palazzo Chigi aveva messo in dubbio la revoca. Ma Autostrade sostiene di essere pronta a far partire i cantieri che poi potrebbero essere rilevati da un ipotetico nuovo concessionario subentrante. Il viceministro leghista ai Trasporti, Edoardo Rixi, scalpita, interprete delle istanze della Confindustria genovese che chiede subito i lavori, da fare insieme a quelli della ricostruzione del ponte Morandi (affidati a Salini-Impregilo per sottrarli ad Autostrade, che ha fatto ricorso e aspetta la decisione del Tar il 27 maggio).
Nei corridoi del ministero dei Trasporti si parla poi di un piano segreto per arrivare a una pace vera con Autostrade, attraverso una revisione dei termini della concessione che permetta ai Benetton di non rimetterci troppo e al governo di rivendicare una riscrittura delle regole punitiva. Bisogna negoziare la tregua, che passa per Alitalia.
Atlantia dovrebbe mettere 300 milioni. Per ora l’ad Giovanni Castellucci esclude l’intervento diretto. Ma il dossier l’ha già studiato. Un mese fa Mediobanca, advisor del governo, è andata a sondare la holding dei Benetton: nessun impegno diretto, ma Castellucci ha chiesto alla controllata Aeroporti di Roma di aiutare Mediobanca e le Ferrovie dello Stato a perfezionare il piano industriale di rilancio. Una mossa distensiva, visto che il governo per cui lavora Mediobanca è quello che attribuisce a Castellucci la responsabilità dei 43 morti di Genova sotto le macerie.
Alle Ferrovie guidate da Gianfranco Battisti Atlantia andrebbe benissimo, meglio di un partner solo finanziario come l’agenzia pubblica Invitalia, di cui si è parlato nei giorni scorsi. Così, forti delle competenze di Atlantia tramite Aeroporti di Roma, le Fs avrebbero qualche margine di condizionare la strategia industriale senza lasciare tutto in mano a Delta. Il piano prevede risparmi per almeno 50 milioni, tagliando rotte già coperte dai treni, senza modificare troppo il perimetro aziendale di Alitalia. L’unica alternativa rimasta è Lufthansa che però vuole comprare solo alcune parti della compagnia, salvando non più di 4.500 dipendenti su 12.000. Il marchio sopravviverebbe, ma sarebbe un problema per tutti, anche per Aeroporti di Roma e per il governo.
“Dalla galera coi Colonnelli alla candidatura in Grecia”
C’era una volta una giovane giornalista di Paese sera in trasferta in Grecia per raccontare il colpo di Stato dei colonnelli. Correva l’anno 1967 e ad Atene il “golpe non si vedeva”, come ha spiegato tante volte la protagonista. “Avevano messo duemila persone arrestate nello stadio. Furio Colombo, che era stato mandato dalla Rai, era disperato: i giornalisti potevano scrivere, lui doveva mandare delle immagini che non esistevano. Io avevo contatti riservati con le famiglie di alcuni arrestati. Mi dissero che non sapevano dove si trovavano i loro familiari, ma che era stata data indicazione di un commissariato dove si potevano portare dei pacchi”. Chissà se allora Luciana Castellina, novanta primavere straordinariamente ben portate, si sarebbe immaginata che mezzo secolo dopo avrebbe fatto una campagna elettorale proprio in Grecia.
Luciana, restiamo ancora un momento nel 1967: poi lei finì in manette. La prima giornalista arrestata dai colonnelli.
Sì. Con Furio eravamo riusciti a filmare qualcosa al commissariato, la pellicola uscì dal Paese nella valigia di una turista americana diretta a Roma. La mattina dopo andai a colazione con i colleghi, dissi che mi aveva cercata al telefono Pino Rauti, che si trovava lì per il Tempo. Naturalmente non lo avevo richiamato.
Non richiamò Rauti perché era fascista?
Ma certo! Era amico dei colonnelli. E per questo sapeva che fine avrei fatto. Igor Man mi rimproverò: “Hai fatto molto male, i colleghi si richiamano sempre”. Rauti voleva avvisarmi. Poco dopo uscendo dalla doccia nella mia camera trovai decine di poliziotti ad aspettarmi. Senza farmi vedere mangiai tutti gli indirizzi dei miei referenti prima che mi portassero in prigione. Il ministro degli Esteri era Fanfani e riferì in Senato dei fatti in Grecia, tuonando contro il mio arresto: tutti in quel momento si volevano rifare una verginità antifascista… E ordinò di farmi liberare immediatamente. Così, grazie alle trattative dell’ambasciatore, tornai in Italia.
Poi è rimasta in contatto con i greci?
Il Partito comunista greco si spaccò in due e nacque il Kke, il Partito comunista dell’interno, che prese le distanze dall’Unione Sovietica. In quella fase il Pci si trovava in imbarazzo, non poteva rompere con l’Urss e simpatizzava per gli scissionisti anche perché molti esuli erano venuti in Italia: io ho tenuto i rapporti con loro, anche quando sono andata al manifesto. Per vent’anni ho partecipato ai congressi dei vari partiti, quando sono diventati Synaspismos e poi Syriza.
La ragione politica della candidatura è stata una riconferma della vicinanza tra la sinistra italiana e quella greca?
Sì, e poi l’hanno proposta a me perché ero la più conosciuta in Grecia. Qui in Italia è candidato Argiris Panagopoulos, giornalista di Avgi e dirigente di Syriza.
Uno scambio di prigionieri!
Torno a dire: i rapporti tra i comunisti italiani e greci sono stati strettissimi. Lo ha ricordato anche Tsipras, quando ha presentato la mia candidatura. “Noi dobbiamo molto ai comunisti italiani e al manifesto: ci hanno insegnato a essere comunisti diversamente”. Cioè a non essere settari.
Si sarebbe candidata in Italia? Lei è stata più volte eurodeputata.
No! Non voglio andare a Strasburgo, anche se fossi eletta rinuncerei. È un atto simbolico.
Parliamo di Tsipras. È stato molto criticato…
…è stato molto criticato da Varoufakis, che vorrei far notare molto prudentemente si presenta in Germania e non in Grecia.
Volevo sapere cosa pensa della scelta di Tsipras di cedere ai diktat della Troika nonostante l’esito di un referendum popolare che andava in senso opposto.
Quello che hanno chiesto alla Grecia è terrificante. Ma non poteva uscire dall’euro, sarebbe stato un suicidio: è il più fragile di tutti i 28 Paesi, non produce quasi nulla. Dopo una settimana non avrebbero avuto nemmeno i soldi per comprare il combustibile delle navi che servono le loro isole.
Il mandato elettorale di Tsipras era diverso.
Ha provato a tener testa all’Europa. C’è stato un periodo di tensione fortissima, causata anche dalla totale sordità dei governi europei di sinistra. Compreso il nostro, sempre che il governo Renzi si possa definire di sinistra. In quel momento la battaglia da fare era sul debito, che avevano contratto precedenti governi corrotti e alleati del Partito popolare della Merkel e dei socialisti. Io credo che Tsipras abbia fatto quello che poteva fare: si ricorda quando rimase in camicia chiedendo “Volete anche la mia giacca?”. Ha provato a ripartire l’onere di questo bagno di sangue, in modo da proteggere – nonostante i margini limitatissimi – i più poveri. Tanto è vero che oggi il salario minimo è stato un po’ aumentato e anche l’occupazione è risalita, insieme al Pil.
Tutti vogliono un’altra Europa. Cosa vuol dire concretamente?
L’Europa è stata governata dall’alleanza socialdemocratici-popolari, fondata su un’idea turboliberista di competizione. Contro ogni forma di solidarietà: il Trattato di Lisbona vieta gli aiuti tra Paesi. La Bce ha cercato di immettere liquidità acquistando buoni del tesoro svalutati. Liquidità che non ha potuto dare al governo greco per fare investimenti, ma solo al mercato o alle banche. In sostanza agli speculatori. Si è deciso di liberalizzare la circolazione dei capitali senza contemporaneamente rendere omogenea la politica fiscale e così, tanto per fare un esempio, la Fiat ha lasciato Torino, spostando la sede della società ad Amsterdam e a Londra dove paga meno tasse. Tutte le misure adottate negli ultimi anni anziché tendere a rafforzare l’identità storica europea, caratterizzata da un forte welfare, hanno portato a un crescente subalterno allineamento alla globalizzazione, così rischiando di far perdere la ragione stessa dell’essere Europa. Il primo obiettivo è dunque la modifica dei Trattati e di queste decisioni. La questione fondamentale è costruire un soggetto politico e sociale unitario che sia in grado di fare una battaglia comune nel senso che ho appena indicato, di creare reciproca comprensione e solidarietà, impedendo che gli uni vengano messi contro gli altri. Purtroppo oggi a ritenere che i greci vadano puniti perché non lavorano non è solo il ministro Schäuble, ma anche l’operaio tedesco.
Prossimi appuntamenti della campagna elettorale?
Sono stata per l’apertura e torno il 15: Atene, Salonicco e le tre città di Creta.
Dove è ambientato il suo ultimo libro, Amori comunisti, giusto?
Sì, una delle tre storie racconte dei guerriglieri cretesi che sono rimasti nascosti nelle grotte per vent’anni.
I libici “riprendono” 180 migranti in mare Mare Jonio accusa
“Tra il pomeriggio e la serata di ieri si sono visti all’opera i micidiali effetti prodotti nel Mediterraneo Centrale dall’ultima trasformazione della missione EunavforMed Sophia: aerei militari europei (sicuramente di Malta, ma sulla zona volavano anche aeroplani italiani) hanno collaborato dall’alto, fornendo indicazioni alla motovedetta libica di una delle milizie di Misurata (cosiddetta “Guardia Costiera”), ad una operazione di cattura e deportazione verso porti libici di due imbarcazioni rispettivamente con circa ottanta e cento persone a bordo, che stavano proprio cercando di fuggire da quel contesto di violenza e guerra per cercare rifugio in Europa”. E’ la ricostruzione pubblicata dai social network da Mediterranea saving humans, l’organizzazione che ha messo in mare la nave Mare Jonio, sull’operazione della guardia libica costiera su due imbarcazioni di migranti. I volontari parlano di “respingimento collettivo di oltre 180 profughi verso un Paese non sicuro” e promettono di “fare chiarezza sulle responsabilità italiane ed europee. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha ringraziato la Guardia Costiera libica per l’intervento.
Documenti negati a chi non ha una casa Rifugiati compresi
A Roma la Questura non rinnova più il permesso di soggiorno agli stranieri, rifugiati compresi, che risiedono in via Modesta Valenti, la strada che non esiste, l’indirizzo “convenzionale” dei senza fissa dimora intitolato a una donna che morì abbandonata alla Stazione Termini nel 1983. Gli interessati sono migliaia, alcuni in Italia da anni. Finiscono in un limbo senza diritti. Hanno negato il rinnovo perfino a una donna latinoamericana sulla sessantina che ha l’asilo politico dal 1995, invalida all’80 per cento, che così ha perso anche l’esenzione dal ticket, le cure mediche e la magra pensione di invalidità con cui tira avanti. È ospite di una parrocchia, l’ha documentato, però ufficialmente risiede in via Modesta Valenti e quindi è “irreperibile”.
La signora A. ha impugnato l’atto e il Tribunale il 18 aprile ha ordinato alla Questura di darle il permesso in via cautelare, a giugno arriverà la decisione nel merito. È assistita dall’avvocato Eugenia Barone Adesi del Cir, il Consiglio italiano dei rifugiati guidato da Roberto Zaccaria e diretto dal prefetto Mario Morcone, già capo di gabinetto del Viminale con Marco Minniti, nonché dall’associazione “A Buon diritto” di Luigi Manconi. Valentina Calderone di “A Buon diritto” parla di “prassi illegittima”, Morcone sottolinea il “palese contrasto con la Costituzione, la legge anagrafica, il Testo unico immigrazione e le circolari del ministero dell’Interno”, sottolinea Morcone.
C’è poi il ricorso di un signore del Mali, 40 anni: ha la protezione umanitaria fino al 2022, però ha perso il documento e non gli danno il duplicato che gli serve per andare dal medico. Anche lui è residente in via Modesta Valenti. Cir e “A Buon diritto” stanno seguendo una cinquantina di casi, ma se va avanti così saranno migliaia. Poiché “l’iscrizione anagrafica è determinante per l’accesso a diritti costituzionalmente garantiti – osserva Morcone –, l’iscrizione alla ‘residenza convenzionale’ deve essere considerata come una normale iscrizione” altrimenti vi sarebbe “un trattamento difforme esclusivamente in ragione del censo”. Naturalmente, se hanno l’asilo politico, nessuno potrà espellerli. Altri però hanno posizioni meno forti e gonfieranno la platea degli irregolari, esposti ai ricatti del lavoro nero e della criminalità, che poi è il principale effetto della stretta salviniana sull’immigrazione, visto che i rimpatri, a tacere d’ogni considerazione umanitaria, è più facile dichiararli che farli. “Senza il permesso non possono avere lavoro regolare, né un contratto d’affitto, né un conto corrente – sottolinea Claudia Sforza del Cir –. L’accesso alle cure mediche dovrebbe essere garantito ma non sempre è così”.
Sembra un cortocircuito leghista-grillino. Dal 2017 il Campidoglio a Cinque Stelle ha ripulito l’anagrafe, cancellato 7.500 persone e trasferito ai municipi le residenze fittizie. Sono finiti in via Modesta Valenti migliaia di stranieri, anche rifugiati prima residenti presso la Caritas, il Centro Astalli, Sant’Egidio e altre associazioni.
Cir e “A Buon diritto” hanno pubblicato, previo accesso agli atti, il verbale della riunione tenuta sul tema, il 25 ottobre scorso, dai responsabili di Prefettura, Questura e Comune. I residenti di via Modesta Valenti, ha spiegato il Comune, si sono moltiplicati per cinque, dai 2.570 del marzo 2017 ai 13.714 dell’ottobre 2018; 4-5.000 di loro provenivano dalle associazioni umanitarie, oltre 2.000 dall’estero. Il Comune ha riconosciuto che “la certificazione di effettiva presenza sul territorio e disagio sociale”, premessa logica dell’iscrizione anagrafica fittizia, non è stata fatta, perché “gli assistenti sociali non erano obbligati”, quindi si sono “limitati a rilasciare mere attestazioni”. E ora la Questura nega il permesso di soggiorno a tutti perché non è possibile accertare dove abitano.
“Prima però ottenevano il rinnovo – ricorda Calderone –. Sono persone senza fissa dimora o impossibilitate a dimostrare una residenza reale e legale, come in assenza di un regolare contratto di locazione”. In Questura ritengono che molti di loro non vivano a Roma e vengano qui solo per i documenti, ci sarebbe “un effetto di richiamo”. “Alcuni stanno in città solo alcuni mesi all’anno e per il resto fanno lavori stagionali altrove, anche come braccianti”, osserva la responsabile di “A Buon diritto”. La riunione in Prefettura, secondo il verbale, si è conclusa richiamando in campo le associazioni escluse dal Campidoglio. Gli stranieri dovranno infatti dimostrare di avere un “centro di interessi” a Roma e indicarlo come “domicilio”, accanto alla residenza fittizia, “anche presso una delle associazioni di volontariato”.
Residenza, Salvini bocciato. E lui alza il tiro sui giudici
La sezione civile del Tribunale di Bologna ha imposto al Comune di iscrivere nella propria anagrafe due richiedenti asilo che avevano fatto ricorso – uno presentato da Avvocati di Strada, l’altro dall’Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) – spiegando che non c’è incompatibilità con il cosiddetto “decreto Salvini”. A darne notizia è stato il sindaco di Bologna Virginio Merola (Pd): “Saluto questa sentenza con soddisfazione, il Comune la applicherà senza opporsi”, ha scritto il primo cittadino. Immediata la replica del ministro dell’Interno che ne approfitta per attaccare la magistratura: “Sentenza vergognosa. Se qualche giudice vuole fare politica e cambiare le leggi per aiutare gli immigrati, lasci il Tribunale e si candidi con la sinistra. Ovviamente faremo ricorso, intanto invito tutti i sindaci a rispettare (come ovvio) la legge”, ha detto il vicepremier leghista.
Nel marzo scorso una decisione analoga era stata presa dal Tribunale di Firenze. Il giudice aveva deciso di non applicare il decreto, bloccando il rifiuto del Comune di Scandicci alla richiesta iscrizione all’anagrafe presentata da un rifugiato somalo. “Ogni richiedente asilo, una volta che abbia presentato la domanda di protezione internazionale, deve intendersi comunque regolarmente soggiornante – aveva scritto il magistrato – in quanto ha il diritto di soggiornare nel territorio dello Stato durante l’esame della domanda di asilo”: l’iscrizione all’anagrafe non può essere rifiutata dai comuni perché il diniego “sarebbe discriminatorio”. Antonio Mumolo, presidente della onlus Avvocati di strada, annuncia battaglia: “Se il ministro Matteo Salvini ci costringe a farlo, come avvocati di strada faremo ricorso in tutte e 54 sedi delle città italiane dove siamo presenti, perché venga data la residenza ai richiedenti asilo. I nostri responsabili sono già stati allertati: accompagneranno i richiedenti asilo all’anagrafe per chiedere la residenza, se i sindaci li iscriveranno, benissimo, non ci sarà bisogno di instaurare un contenzioso di massa, ma se non li iscriveranno, disapplicando la legge, saremmo costretti a ricorrere all’autorità giudiziaria, per ottenere sentenze analoghe a quella di Bologna”.
Intanto la Cassazione riapre la questione della retroattività o meno del decreto voluto dal ministro dell’Interno sulla sicurezza e i migranti, in contrasto con una precedente decisione della stessa Corte, che ne aveva fortemente ammortizzato l’impatto stabilendo che le nuove regole non si applicano alle domande già presentate. Secondo quest’ultima interpretazione il decreto Salvini, che prevede una stretta sui permessi di soggiorno per i migranti, ha “applicazione immediata” sui giudizi pendenti e non solo sulle nuove domande. Ma si apre un conflitto tra pronunce di diversi collegi, e dovranno essere le Sezioni Unite adesso a dettare la linea definitiva.