L’opportunità di Cassese

Serviva l’intervento di un esimio giurista come Sabino Cassese per stabilire che a rigor di diritto Armando Siri non avrebbe alcun obbligo di dimettersi dalla carica di sottosegretario. L’ha enunciato solennemente in televisione a Piazzapulita, su La7: “In un campo come questo – scandisce Cassese – bisogna rispettare le regole del diritto. Il premier è un professore di diritto e Siri in questo caso è solo indagato. Può prendere la decisione di dimettersi, ma finché non è condannato non vedo perché allontanarlo. Può prendere lui la decisione di dimettersi, ma non vedo perché dovrebbe farlo per il solo fatto di avere avuto un’informazione su un’indagine che lo riguarda”. Inappuntabile. Peccato che il premier l’abbia spiegato in tutte le lingue del mondo: la sua decisione su Siri non è di natura giudiziaria, ma politica. È vero che il sottosegretario leghista è solo indagato, com’è vero che l’indagine che lo riguarda ipotizza un reato molto grave – la corruzione – e mette in luce un legame piuttosto imbarazzante tra il politico e l’imprenditore Paolo Arata: lo stesso Siri ha riconosciuto che è stato proprio Arata l’autore materiale del suo emendamento sull’energia eolica. C’è il diritto, insomma, e poi c’è l’opportunità.

Ogni governo ha il suo sottosegretario nei guai

“Assolutamente certo che la mia condotta sia stata in ogni occasione improntata alla massima correttezza e alla più scrupolosa linearità. Ribadisco e confermo la mia totale estraneità a qualunque addebito nella vicenda. Ho dato incarico al mio legale di richiedere l’immediata audizione da parte del magistrato. Allo scopo di dissipare ogni possibile ombra sul mio comportamento e ogni sospetto di ritardo e ostacolo al rapido e completo cammino della giustizia, sono venuto nella determinazione di presentare le dimissioni nella mia autonoma e responsabile decisione”. Spiace per il premier Giuseppe Conte, ma le succitate parole di congedo non appartengono al sottosegretario leghista Armando Siri, indagato per corruzione e saldamente oscillante al suo posto, ma al sottosegretario democristiano Manfredo Manfredi e risalgono al 1984.

Il sottosegretario è il sottogoverno oppure è il sottopotere, più prossimo agli interessi, alle leggine e, spesso, ai guai. Il sottosegretario giura più sobriamente tra le mani del presidente del Consiglio e non è il ministro che china il capo dinanzi al presidente della Repubblica per un’eterna rievocazione di Carlo Magno e papa Leone III. Il sottosegretario ha un potere variabile, a volte è sostanza, a volte è arredo. C’è il sottosegretario che marca le leggi più di un ministro e il sottosegretario spoglio, senza deleghe e senza mansioni, che langue in ufficio con l’auto di servizio e però dispone di un pregiato biglietto da visita che porge nei contesti in cui si porgono i biglietti da visita a Roma e dintorni, cene, feste, brindisi e can-can.

Agli storici della Repubblica spetta un compito ingrato, illustrare ai posteri i 102 membri del governo Prodi II che ha battuto per incontinenza di poltrone l’Andreotti VII: un premier, due vice, 24 ministri, 9 viceministri e 68 sottosegretari per accogliere nel gabinetto pure i pulviscoli dell’Unione. Il sottosegretario vive di luce riflessa, se di scarso peso è una propaggine o un’escrescenza e perciò sopporta l’irriguardosa etichetta di “mercato delle vacche”. Finocchiaro contro Berlusconi e l’ingaggio di tre sottosegretari: “Catone non avrebbe dubbi: lo spettacolo è penoso. È un mercato delle vacche”. Renzi su Prodi: “Il centrosinistra ci ha abituato a un governo di 102 persone. Questo mercato di compro, baratto e vendo è il mercato delle vacche”. Il sottosegretario rappresenta una corrente, un partito alleato o una regione, una provincia. Giuseppe Tonutti, nel 1983, rinunciò all’incarico di segretario nazionale amministrativo della Dc con una velenosa postilla: “La mia scelta non va collegata alla presenza nel governo Craxi di un solo sottosegretario del Friuli”.

In segno di risarcimento per la mancata candidatura a governatore in Sardegna, il renziano Lotti garantì la casacca di sottosegretario all’indagata Francesca Barracciu che, per quote sarde nei palazzi, scalzò il furente Paolo Fadda e finì per caso ai Beni Culturali: “Le mie deleghe? Non lo so, sono arrivata ieri e non ho verificato”. Poi Barracciu s’è dimessa per il processo per peculato. Berlusconi ha collezionato sottosegretari con variopinti problemi giudiziari, svetta nel gruppo Nicola Cosentino, che fu addirittura dislocato al ministero dell’Economia.

Biografia di Nick ’o mericano di Franco Roberti, già procuratore nazionale antimafia: “Condannato in primo grado per concorso esterno (in associazione camorristica, ndr), è stato a lungo uomo di fiducia in Campania del leader del centrodestra ed è risultato, in quello stesso momento, espressione del clan camorristico dei Casalesi”. Non c’è governo libero, anche il “tecnico” di Monti, da sottosegretari costretti a lasciare per inchieste giudiziarie o giornalistiche. “Le dimissioni del sottosegretario non mi soddisfano. Non basta chiedere scusa e dimettersi”, così la pensava Salvini nel giorno dell’addio al governo di Simona Vicari, sottosegretaria ai Trasporti come Siri e indagata per concorso in corruzione, pure lei per una norma che avrebbe favorito un imprenditore. Allora Salvini era all’opposizione.

Siri, continua la battaglia La Lega: “Non si dimette”

La crisi per i gialloverdi è come l’esistenza del Diavolo, ufficialmente non ci crede quasi nessuno ma la temono quasi tutti. “Matteo Salvini non può far cadere il governo per Siri, un sottosegretario indagato, ci rimetterebbe voti e faccia” dicono per tutto il giorno i Cinque Stelle, ed è un mantra che pare uno scongiuro. E quello da esorcizzare è sempre Salvini, che avverte tramite “fonti Lega”, per picchiare fingendo di non farlo: “Armando Siri non si dimette e noi non lo molliamo”.

E probabilmente è solo tattica, o magari no. “Di certo Salvini per Siri ci presenterà il conto da qui alle Europee” sussurra una fonte di governo. Tradotto, magari non sarà il baratro: ma la Lega da qui al 26 maggio darà battaglia su tutto, in Parlamento e fuori. E nell’attesa Salvini lancia segnali di guerra, innanzitutto al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che due giorni fa ha dato l’avviso di sfratto a Siri, annunciando il decreto di revoca nel prossimo Consiglio dei ministri, con ogni probabilità mercoledì prossimo. E se Siri resterà davvero dov’è, sarà una conta, non vincolante sul piano tecnico (norma alla mano, Conte devo solo “sentire” il Cdm) ma drammatica sul piano politico. Con il governo che si spaccherebbe come una mela, e che rischierebbe davvero la crisi. E nel giorno dei dubbi come amuleti il capo del M5S, Luigi Di Maio, parla così a Sky Tg24: “Spero che non si arrivi a un voto, ma non credo sarebbe la fine del governo, non credo che la Lega lo farebbe cadere”. Ergo, Di Maio non considera così irreale l’ipotesi della conta. Evitabile anche attraverso colpi di teatro, per esempio con un’assenza di massa dei ministri del Carroccio nel prossimo Cdm. Nell’incertezza, il vicepremier a 5Stelle mostra i denti: “La maggioranza in Consiglio ce l’abbiamo noi”. E se si va al voto, “un attimo dopo continueremo a lavorare”. E il resto è un continuo ripetere che “non si esulta per Siri”, come ha predicato giovedì Conte, il premier che da qualche ora detta la linea al M5S. Ed è a lui, a Conte, che si rivolge Salvini: “Mi sfidi sulle tasse, su qualcosa che interessa gli italiani, non sulla fantasia. Io lavoro, qualcuno ha tempo da perdere per polemizzare su altro, non io”.

E pare l’annuncio della bufera che arriverà. “Dalle autonomie al fisco, la Lega alzerà il tiro” dicono dai 5Stelle. E l’occasione per il frontale fuori del Cdm c’è già, e si chiama sblocca-cantieri, il decreto su cui i gialloverdi hanno litigato per settimane, e che dalla prossima settimana sarà in Senato per la conversione in legge. “I leghisti punteranno a ritoccare verso l’alto i tetti per gli appalti” rifletta una fonte di governo. Ma da Palazzo Chigi non vogliono parlarne nè tanto meno rispondere a Salvini: “Conte ha detto con trasparenza quello che doveva dire, pensa già ad altro”. Anche se il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, è ombroso: “Rompere la coalizione? Si tratta di decidere se si vuole perdere tempo con le dichiarazioni e con i giornalisti o se si vuole lavorare”. E su Siri? Il numero due della Lega è ruvido: “Io sono un sottoposto, non un capo, quindi parlasse il capo”. E non sembra una carezza per Salvini. Invece di gentilezze a Siri ne riserva Paolo Arata, indagato come lui per corruzione nella stessa inchiesta, l’imprenditore di cui proprio Giorgetti ha assunto il figlio a Chigi. Il Fatto lo cerca in serata, e Arata qualcosa lo dice: “Siri è una persona straordinaria, non ha alcuna responsabilità e mi dispiace molto per quanto sta passando”.

Bankitalia: “Lo spread costa 4 miliardi in più nel biennio 2019-2020”

Il costo del debito per le casse dello Stato è destinato a salire, ma assai meno di quanto si prevedeva. È quanto si desume dal “Rapporto sulla stabilità finanziaria” pubblicato ieri dalla Banca d’Italia, in cui si legge: “Da novembre i premi per il rischio sui titoli pubblici italiani sono scesi, ma rimangono più alti rispetto ad aprile del 2018. Le tensioni sui titoli di Stato si stanno trasmettendo sul costo dei finanziamenti al settore privato, seppure gradualmente. Se i rendimenti all’emissione dei titoli di Stato italiani dovessero restare coerenti con le attuali aspettative dei mercati, nel biennio 2019-2020 si avrebbe una spesa complessiva per interessi sul debito pubblico di circa 4 miliardi superiore a quella che si sarebbe avuta coi tassi attesi dai mercati ad aprile dello scorso anno”. Insomma, il costo del governo gialloverde – riassumiamo – è circa 2 miliardi l’anno. Assai meglio, a voler guardare il bicchiere mezzo pieno, di quanto sosteneva a novembre la stessa Bankitalia in audizione parlamentare citando le allora “attuali aspettative dei mercati”: lo spread, all’epoca, sarebbe costato 1,5 miliardi per il 2018 e ”oltre 5 miliardi nel 2019 e circa 9 nel 2020”.

Flop la raccolta fondi 5 Stelle per le Europee: finora 50 mila euro

C’è malumore tra i deputati e i senatori grillini. La campagna elettorale per le Europee stenta a partire per mancanza di fondi. Il comitato elettorale nei giorni scorsi ha chiesto per email agli eletti in carica alla Camera e al Senato di versare 1.500 euro a testa entro il 3 maggio. Se tutti i 326 parlamentari versassero la quota, si raggiungerebbero il mezzo milione. Ma non tutti sono d’accordo, anzi sembrerebbe che a non esserlo sia la maggioranza. Su 489mila euro che il comitato sperava di ottenere, ne sarebbero stati raccolti solo 50mila. “Donerò, ma non più di 500 euro al massimo, non ci sto a diktat calati dall’alto”, ha dichiarato uno dei parlamentari ad Adnkronos. “Le restituzioni le facciamo, 300 euro a Rousseau le versiamo – ha riferito un’altra deputata – finanziamo gli eventi ‘citylab’ per l’Italia, abbiamo da poco sovvenzionato Italia 5 Stelle e ogni volta che ci sono elezioni – regionali prima, comunali nel mezzo ed europee poi – ci viene chiesto di metter mano al portafogli: ora basta”. C’è pure chi propone di creare una fondazione come il Pd e chi, invece, dice “basta braccini corti” e accetta di buon grado la richiesta.

E Moavero evoca il governo tecnico

Allo stato un governo tecnico è negato da tutti epperò il fantasma di questa ipotesi comincia ad aleggiare. Se non altro perché la manovra d’autunno, voto anticipato o meno, qualcuno dovrà farla. E così l’altro giorno, a Firenze, a evocare un esecutivo di questo genere è stato un esperto del ramo. Ossia Enzo Moavero Milanesi, ministro degli Esteri in quota Mattarella del governo gialloverde nonché reduce e combattente della formazione tecnica di Mario Monti nel 2011. Un esperto qualificato, appunto. A Firenze, giovedì, Moavero ha aperto la tradizionale conferenza europea “The State of Union” e a Villa Salviati, sede dell’appuntamento, c’erano anche vari candidati alla presidenza della prossima Commissione. Tra questi anche il socialista olandese Frans Timmermans. E i due, Moavero e Timmermans, sono stati intercettati mentre parlavano della possibilità di un governo tecnico dopo le Europee del 27 maggio. Queste le parole del ministro italiano, rispondendo alle domande dell’olandese: “Un governo tecnico è possibile per fare la Finanziaria. E il presidente (Mattarella, ndr), segue la situazione molto attentamente”.

“Dibba” riappare e vuole incidere. L’incognita Di Maio

Ad Alessandro Di Battista è tornata la voglia e ha anche una certa premura. Quindi “se cade il governo a settembre-ottobre mi ricandido” dice ad Accordi&Disaccordi. Per questo qualche ora dopo il capo del M5S Luigi Di Maio parla a Zapping e fa notare un altro passaggio dell’ex deputato: “Alessandro ha detto anche che non crede alla caduta di questo governo, c’è tanto da fare”. Tradotto: la sua fretta non coincide con la nostra. Sottotesto: se avesse avuto voglia un po’ prima avrebbe potuto candidarsi alle Europee, come il Movimento gli aveva chiesto, più volte. Invece Di Battista ha scelto la panchina, innanzitutto perché il suo ritorno dal Sudamerica non era andato come sperava.

Aveva percepito il gelo di tanti eletti, e i primi passi della campagna per le Europee non lo avevano convinto. E poi aveva chiesto garanzie sul no al Tav, la Torino-Lione, e sulla revoca della concessione ad Autostrade dopo la tragedia del ponte Morandi. Il sintomo di un marcarsi, tra il trascinatore a cui chiedevano di ricompattare il M5S da qui a maggio e il capo, Di Maio, che al vertice vuole stare da solo. E così ecco il Di Battista di lato, pronto a ripartire, questa volta per l’India. E salutoni alla candidatura in Europa, dove si sarebbe sentito fuori dei giochi, lontano dal cuore della macchina. Invece in Italia sì, lui correrebbe anche oggi. E un maggiorente del M5S giura: “Il suo annuncio era nell’aria, da qualche giorno”. E la domanda ovvia è quella, vuole prendere il posto del Di Maio che è al secondo mandato? Di Battista giura di no: “Come capo politico c’è Luigi”. E non si presenterebbe neppure come sindaco di Roma: “Non sarei all’altezza”. Sillabe di ostentata umiltà, che un dimaiano di governo legge come un segnale: “Dire che non può fare il sindaco è come dire che non può fare il capo”. Ed è la lettura diffusa, nel Movimento: Di Battista non ha mire da numero uno, non è nella sua natura di uomo che ama i banchetti e le piazze e teme i tavoli, le trattative. Però vuole contare e incidere, sulla linea. E ha provato a farlo anche ieri, spostando in alto l’asticella sul caso Siri: “Se pure i magistrati dovessero assolverlo, non dovrebbe comunque tornare al governo perché ha usato il suo potere per favorire un soggetto privato”. Ed è un discostarsi rispetto a Di Maio, che nei giorni scorsi aveva sempre garantito al sottosegretario il ritorno nell’esecutivo, “una volta dimostrata la sua innocenza”. E oltre le differenze resta una verità, tanti militanti e eletti lo rimpiangono, Di Battista.

In questi giorni diversi candidati alle europee lo hanno chiamato: alcuni per lamentarsi, principalmente delle cinque capolista calate dall’alto, una ferita che non si sutura. E l’ex deputato ha smussato. Ma in tanti lo vorrebbero a bordo già con il rimpasto post-europee che Di Maio anche ieri ha negato ma che arriverà. “Però Di Battista non accetterebbe, e un posto da ministro difficilmente si libererà” riassume una fonte di governo. E lui stesso con alcuni parlamentari si è definito “troppo scomodo per certi poteri” per subentrare ora. Però il tema si porrà, molto prima di settembre. Ammesso che da qui a breve ci sia ancora un governo.

“Se dopo le Europee cade il governo, mi ricandido”

La prima risposta di Alessandro Di Battista – ospite ieri sera di Andrea Scanzi e Luca Sommi ad Accordi e disaccordi (sulla Nove), trasmissione prodotta da Loft, uno dei marchi della società editrice del Fatto – è un’ammissione: “Quando io partii con la mia famiglia per San Francisco, era il giorno in cui nacque il governo: presi quell’aereo e quando atterrai era nato. Ricordo che in quella notte mi sono svegliato e ho visto i miei colleghi giurare al Quirinale: in quel momento, lo ammetto, ho rosicato. Davanti a me c’erano persone con cui ho fatto tante battaglie che diventavano ministri della Repubblica, giuravano al Quirinale, firmavano, avevano incarichi così importanti… inevitabilmente una parte di me si è chiesta se non avessi fatto una stupidaggine. Il ‘rosicamento’ è durato circa un mese e mezzo”. Nessun rimpianto per il passato (“ho fatto la scelta giusta a non ricandidarmi”), mentre sull’impegno futuro col Movimento l’ex deputato grillino è più che possibilista: “Standone fuori, mi è tornata la voglia di fare politica che avevo prima”. Ecco un breve riassunto dell’intervista andata in onda ieri sera.

E come si concretizza? Ormai non alle Europee…

Vediamo. Lo so che è vago, ma è la verità: mi auguro che non si torni al voto prima di quattro anni.

Lei a quel punto ci sarebbe?

Oggi come oggi direi di sì, però di qui a quattro anni possono succedere molte cose…

E se dopo le Europee salta il banco?

Non credo che avverrà e non me lo auguro: questo governo sta portando avanti un sacco di cose interessanti, soprattutto per merito dei 5 Stelle. Se dovesse cadere, però, a settembre od ottobre penso che mi ricandiderei. Ma non come capo politico del Movimento, quello resta Luigi Di Maio: il suo incarico durerà ancora anni.

Forse allora come sindaco di Roma?

Onestamente non penso di esserne all’altezza. Virginia Raggi invece lo è e me ne convinco sempre di più. Per me è una persona eccezionale: non credo ci sia mai stato un politico attaccato come lei, vittima di fake news e campagne diffamatorie come lei. Poi, certo, ha un incarico difficilissimo: e vorrei vedere in una città con 12 miliardi di debito…

Il caso Siri. Lei all’epoca, dopo il niet del Colle su Paolo Savona, disse che Di Maio e Salvini proponevano come ministro dell’Economia proprio Siri, che però aveva già patteggiato una condanna per bancarotta fraudolenta. Una svista?

Probabilmente sì: in quel momento Di Maio e Salvini, anche per far capire che il problema non era esclusivamente Savona, presentarono al capo dello Stato degli altri nomi. Sembra una battuta, ma non è sempre facile andare dietro alle fedine penali di tutti i politici, ma è la prima volta che nel contratto di governo si è stipulato che nessun ministro potesse esercitare il ruolo con la fedina penale per così dire sporca.

E sulle dimissioni?

Il mio pensiero è che non è importante la conclusione dell’indagine, bensì il fatto che Siri – ed è un punto che ha colto molto bene Conte – abbia usato il suo ruolo istituzionale per piazzare emendamenti che erano marchette a favore di Paolo Arata (l’imprenditore accusato di averlo corrotto, ndr), ha utilizzato il suo incarico pubblico per un interesse personale: quindi, se pure i magistrati dovessero assolverlo, Siri non dovrebbe comunque tornare al governo perché la cosa gravissima e dimostrata è che ha usato il suo potere per favorire un soggetto privato, peraltro legato alla Lega.

Il piglio decisionale di Conte non sarà stato molto gradito a Matteo Salvini.

Immagino che si sarà molto arrabbiato. Per me era un sogno, anni fa, vedere un presidente del Consiglio parlare come ha parlato Conte, con quella durezza. Sulla questione morale sono morte le forze politiche, a cominciare dal Partito democratico.

Ormai i rapporti tra Salvini e Di Maio sono incrinati?

Ci sono delle discussioni in vista delle Europee e alcuni nodi vengono al pettine a prescindere, ma secondo me no. E comunque non conviene a nessuno, soprattutto al Paese, la caduta del governo. La prossima settimana, se tutto andrà bene, si voterà alla Camera il taglio di oltre 300 parlamentari, che comporta un risparmio di 500 milioni di euro a legislatura. Fateci caso: di questa riforma costituzionale si parla poco, sembra che parte della stampa non voglia neanche tenerla in considerazione.

Parlando dell’Ilva di Taranto. Se tutti sapevano che la questione non poteva essere risolta, perché fare certe promesse in campagna elettorale?

Non sempre si conosce l’entità delle cose che succedono: lo stesso Luigi mi ha raccontato che la situazione che si sono trovati ad affrontare è diversa da quella che pensavano di trovare. Però non mi ricordo in passato una schiera di ministri che ci ha messo la faccia in quel modo, beccandosi anche i rimproveri.

Sul Tav ci sono stati scontri il 1° maggio a Torino. Secondo lei, si fa o non si fa?

Mi auguro di no, ma non per questioni ideologiche, quanto per il fatto che potremmo risparmiare miliardi. Lo ribadisco: oggi il modo migliore di usare il denaro pubblico è la manutenzione, non fare buchi inutili.

Lei era più favorevole all’alleanza con la Lega che col Pd: non pensa che in futuro i democratici e i 5 Stelle possano avvicinarsi?

E quali sarebbero le battaglie che condividono? Hanno votato contro pure al Reddito di cittadinanza…

I finti tonti

“Ma l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale”. Nulla di meglio di questo verso di Lucio Dalla per descrivere le reazioni al discorso – normalissimo e dunque eccezionalissimo – di Giuseppe Conte sul sottosegretario Armando Siri. Sia quelle, positive, di tanti commentatori del web che si congratulano con il premier sinceramente stupiti per averlo sentito pronunciare parole mai dette prima da un premier, almeno negli ultimi trent’anni. Sia quelle, negative, dello stesso Siri, di Salvini, dei suoi gemelli berlusconiani e dell’ampia corte che circonda il Cazzaro Verde: una corte che va ben oltre i confini della Lega e del centrodestra, e abbraccia anche i rosiconi di centrosinistra che non vogliono dare atto a Conte di non essere il burattino che descrivevano e di aver fatto una cosa giusta. L’altra sera, per dire, auscultato solennemente a Piazza Pulita come l’Oracolo della Pizia di Delfi, quel simpatico furbacchione di Sabino Cassese spiegava che non si vede perché Siri debba lasciare il governo visto che è “soltanto indagato”: cioè fingeva di non capire che il premier ha cacciato Siri non in quanto inquisito, ma in quanto marchettaro, cioè postino di una norma ad aziendam per favorire Arata e il suo socio occulto Nicastri (pregiudicato per corruzione e imputato per mafia). E le stesse cose scriveva ieri sul Messaggero quell’altra lenza di Carlo Nordio, pm per fortuna in pensione, facendo anche lui il finto tonto, concentrandosi sull’indagine penale anziché sul conflitto d’interessi e sproloquiando di “presunzione di innocenza” e “giacobinismo”.

Un cumulo di corbellerie che riescono addirittura a superare quelle uscite dalla bocca di Siri, altro finto tonto di cui il Corriere ha raccolto lo sfogo post-licenziamento: “Non mi possono usare come carne da macello per la campagna elettorale delle Europee”, “resto al mio posto perché sono convinto di poter dimostrare la mia totale innocenza”, “la flat tax l’ho inventata io e non è ammissibile che adesso venga scaricato così”, “tutto questo giustizialismo alla fine si ritorcerà contro Conte” e via delirando. Non male anche Claudio Tito che, su Repubblica, ne deduce che il governo “si poggia su una contraddittoria intesa tra nemici” che “litigano costantemente perché non sono d’accordo su niente”: non male per chi ha passato 11 mesi a raccontarci che 5Stelle e Lega sono la stessa cosa, “le due destre” unite in un solo “esplosivo laboratorio populista”, dunque guai se il Pd si lascia infettare dal contagio nero-grillino. Uno legge e ascolta tutti questi sproloqui e una domanda gli sorge spontanea.

Ma che c’è di strano se il premier non si fida più di un sottosegretario (per giunta ai Trasporti, non all’Ambiente) che per otto mesi è andato in giro per ministeri e commissioni parlamentari a vendere un emendamento-marchetta commissionatogli da un suo compare, per giunta spacciandolo per un nobile aiuto alla green economy? Se l’ha fatto gratis, è in conflitto d’interessi. Se s’è fatto pagare o promettere tangenti, è pure un corrotto. Ma, anche se fosse archiviato o prosciolto dai giudici, il conflitto d’interessi resterebbe grande come una casa. Dunque Siri non potrebbe rientrare al governo neppure allora. Mentre questi onanisti del nulla menano scandalo per un fatto assolutamente normale in qualunque democrazia, la premier britannica Theresa May caccia su due piedi non un sottosegretario qualunque, ma il potentissimo ministro della Difesa a cui deve la sua carriera politica: Gavin Williamson. E non perché sia certa che abbia fatto qualcosa di male, ma perché lo sospetta di avere spifferato al Daily Telegraph le decisioni assunte a porte chiuse dal Consiglio per la Sicurezza Nazionale sul ruolo del colosso cinese Huawei nel progetto 5G in Gran Bretagna. Contro Williamson non ci sono indagini penali né prove: solo una telefonata, dopo la riunione, fra il ministro e un giornalista, di cui si ignora il contenuto. E se Williamson avesse risposto al cronista di non potergli rivelare ciò che si era deciso? È quel che sostiene lui, affermando di essere stato incastrato da un rivale interno ai Tory e che il vero spifferatore è ancora da scoprire. Ma la premier è stata irremovibile: perché non si fida più di lui e perché, con un sospetto così grave, rischiano di non fidarsi più di lei e del suo governo i cittadini di Sua Maestà.

Intanto l’ex vicepresidente Usa Joe Biden, ora ricandidato alla Casa Bianca, chiedeva le dimissioni del ministro della Giustizia William Barr per le sue reticenze, omissioni o bugie sul Russiagate e il rapporto Mueller: neppure Barr è indagato per alcunché, eppure rischia il posto, anche per aver rifiutato di riferire per la seconda volta alla commissione parlamentare. Dunque, secondo Biden e tutti i democratici, “ha perso la fiducia del popolo americano”. Sono le stesse ragioni enunciate da Conte per spiegare, a prescindere dall’indagine penale, la rimozione forzata di Siri: “I cittadini devono continuare a fidarsi della politica e delle istituzioni” e di chi tenta di piazzare marchette per gli interessi privati di un amico non può fidarsi né il premier, né gli altri ministri, né l’opinione pubblica. Ma esiste, in Italia, l’opinione pubblica? A giudicare da chi dovrebbe informarla e formarla, si direbbe di no: è tutta una guerra per bande. Il trionfo del Partito Preso descritto l’altro giorno da Antonio Padellaro. Il Partito Preso che se ne infischia dei fatti e giudica tutto secondo le convenienze di amici o nemici. Chi ripeteva a pappagallo che Salvini è il padrone del governo e Conte è una marionetta priva di vita e personalità propria, ora che arriva l’ennesima smentita preferisce sorvolare, per non ammettere di aver mentito. Sennò poi, magari, gli tocca pure cambiare idea.

Dalla Gamba alla Torre, le donne sono protagoniste

Claudia Gerini, Caterina Guzzanti, Angela Finocchiaro e Paola Minaccioni girano tra Roma, Anzio e Marrakech Burraco fatale – Cuori Quadri Fiori Picche, una commedia brillante diretta da Giuliana Gamba in cui recitano anche Antonello Fassari, Pino Quartullo e Loretta Goggi. Sceneggiato dalla regista con Francesco Martinotti il film è co-prodotto da Fenix Entertainment, Rai Cinema e Moroco Movie Group Karl Au e racconta l’intrecciarsi di due storie. La prima è quella dell’amicizia tra quattro donne borghesi di mezza età molto diverse per carattere ma legate dal comune amore per il gioco del burraco, la seconda quella di una storia d’amore improvvisa e inaspettata di una di loro che avrà bisogno dell’aiuto e della solidarietà delle altre per cogliere la nuova occasione di rinascita e riscatto.

Si intitola Extravergine la serie comedy al femminile diretta fra Torino e Milano da Roberta Torre per Fox Networks Group Italy e Publispei e in onda in autunno su FoxLife. La protagonista è la 29enne Lodovica Comello, nota per il ruolo di Francesca nella telenovela Disney Violetta, cantante e conduttrice (Italia’s Got Talent, Singing in the Car) qui nella parte di Dafne Amoroso, una giovane donna timida, impacciata e all’eterna ricerca dell’amore ma ancora vergine che vive prigioniera della sua goffaggine a Milano dove scrive da “invisibile” una rubrica di libri per una rivista digital trendy. Tre giovani e disinvolte colleghe (Pilar Fogliati, Anna Bartolini e Stella Pacollo) tra malintesi, colpi di scena e situazioni paradossali si industrieranno nella difficile impresa di farle cambiare abitudini e vita e perdere finalmente la verginità e Dafne si ritroverà trasformata al punto di diventare la sex columnist della rivista. Completano il cast Irene Ferri, Massimo Poggio, Stefano Rossi Giordani e Valentina Banci.