Strabioli gioca con gli “SpettAttori” di Frayn: una storia “a brandelli”

L’opera di Micheal Frayn fa ritorno nella Capitale: SpettAttori sarà in scena al Teatro Vittoria fino al 12 maggio. Una commedia costruita come una matrioska: in essa, infatti, gli attori impersonano gli spettatori, mettendo in luce atteggiamenti e dinamiche tipici di chi siede tra il pubblico, giocando sulle debolezze umane, i piccoli tic e la quotidianità con un risultato irresistibilmente comico.

L’opera è stata definita “semplice, ma difficilissima da raccontare”: a spiegare il significato di queste parole è il regista stesso, Pino Strabioli, che è anche uno dei principali interpreti. “È uno spettacolo di non drammaturgia: non c’è trama, non c’è storia, o se c’è è a brandelli. Durante l’ora e mezza ci sono sprazzi di psicologia, di personaggi, ma non è la classica commedia”. Non sorprende, quando abbiamo a che fare con la genialità artistica di Frayn: l’autore compie infatti un’operazione complessa che ribalta i rapporti tradizionali tra attori e pubblico. “Da lì nasce un gioco divertente e intelligente sul legame tra attori e spettatori: qui si indaga il fascino del guardare e dell’essere guardati; qual è veramente il palcoscenico, e quale no”, continua Strabioli, che spiega anche perché la scelta sia ricaduta proprio su un testo così difficile: “Innanzitutto voleva essere un omaggio al grande attore Attilio Corsini, che aveva affrontato Frayn in passato e la cui compagnia aveva sede stabile al teatro Vittoria. In secondo luogo, penso che ormai la commedia tradizionale abbia fatto il suo tempo: questo tipo di testo, invece, è stato un laboratorio interessante per gli attori, una palestra”. E Strabioli, che oltre a essere un interprete teatrale è un noto volto televisivo, preferisce essere spettatore o attore? “In teatro spettatore: mi piace guardare le storie e mi viene voglia di salire sul palcoscenico. Quando guardo la televisione, invece, raramente quello che vedo mi piace”.

 

È freddo l’inferno del vecchio Solness

L’anno del pensiero tragico: quello di Ibsen. Archiviato a Roma Un nemico del popolo, è arrivato a Milano Il costruttore Solness, opera del 1892, esattamente dieci anni dopo l’altra, ma altrettanto contemporanea, trattando di un insanabile conflitto generazionale.

Da una parte sono inchiodati i vecchi, che non vogliono lasciare la poltrona, il potere, il lavoro; dall’altra gracidano i giovani, che rivendicano, rivendicano, ma poco o nulla ottengono. Tra i primi c’è Halvard, il Solness del titolo, che ha costruito una fortuna “sulle ferite degli altri”, la moglie Aline in primis, la cui casa di proprietà è bruciata, lasciando campo libero alla speculazione edilizia del marito.

Diretta da Alessandro Serra e in scena al Piccolo, la pièce vanta uno straordinario primattore, Umberto Orsini, circondato da straordinarie attrici, dalla melanconica moglie Renata Palminiello alla sottomessa segretaria Chiara Degani (Kaja), alla vulcanica sua ex ninfetta Lucia Lavia (Hilde). Solness è innanzitutto un corruttore di giovinette, un manipolatore che vampirizza le donne, prima ancora di schiavizzarne i fidanzati (e impiegati dell’azienda), un pedofilo, forse, un anziano che trae linfa da corpi freschi. Ma la pruderie è solo spirituale, anche quando nella vita di Solness torna Hilde, la streghetta concupita tempo prima, istintiva, ferina, carica di aspettative e vertigine: è il disegno registico a rarefare e dilatare tutto, congelando passioni e ardori in una scena grigia, elegante e algida. Sarà che l’inferno è freddo, da Oslo in su, figlio di un determinismo cupo e di protestanti sensi di colpa: “Non si può chiedere alla gente di cambiare. Io faccio quello che devo”, sostiene il costruttore, inchiodato a se stesso e al proprio destino come un Prometeo dei ghiacci, o come un malato psichiatrico affetto da delirio di onnipotenza e pensiero magico, per cui ogni cosa che desidera si avvera. Lo guidano i demoni, le voci, l’angoscia, quasi che la storia avvenga soltanto nelle sua testa: una favola dark con castelli in aria pericolanti e principesse crudeli.

L’allestimento è degno di Lars von Trier, impeccabile e chirurgico, dall’effettistica alle luci, all’implacabile e geometrico spazio: “Se il protagonista è un costruttore – scrive Serra nelle note –, Ibsen è un perfetto architetto”. Gli fa eco Orsini, che produce lo spettacolo con la sua compagnia e lo Stabile dell’Umbria: “Cercavo un regista di grandi capacità visionarie… Questa è la storia di tanti assassinii. Giovani che uccidono i vecchi spingendoli a essere giovani e vecchi che uccidono se stessi nel tentativo di raggiungere l’impossibile ardore giovanile”.

Pure la direzione dell’ensemble (oltre alle succitate: Pietro Micci, SalvoDrago e Flavio Bonacci) è certosina, a parte qualche comprensibile licenza del primattore, che sfugge un poco alla rigide maglie registiche. L’intera costruzione è raffinatissima, insomma, ma questo è anche il suo maggior limite perché rischia di cadere nel manierismo e nell’autocompiacimento narcisistico: il palazzo era così bello che è venuto giù.

Milano, Piccolo Teatro Grassi, fino al 12 maggio – Il costruttore Solness Regia di Alessandro Serra

Anche i cowboy si lavano i denti e amano mammà

Concionare di politica, discettare di filosofia. Lavarsi i denti, tirare lo sciacquone. Ancora, abbracciarsi e tornare da mamma. No, non l’avevamo già visto, almeno in un western. Per approcciare da europeo – e in Europa – il genere archetipico del cinema americano, il francese Jacques Audiard si ricorda che è del genio la semplicità e mette in campo il tradizionale fuoricampo western: igiene personale, tenerezza, fraternità e, sì, mammà.

Leone d’Argento per la regia all’ultima Mostra di Venezia, quattro César (regia, fotografia, suono e scenografia) in patria, I fratelli Sisters adatta il romanzo del canadese Patrick De Witt rimodulando poetica e stile di Audiard: il richiamo al genere non è vincolo ma innesco autoriale e concessione creativa. Tallonando, dall’Oregon alla California del 1850, i fratelli sicari Eli (John C. Reilly, motore del progetto) e Charlie (Joaquin Phoenix) Sisters, incrocia l’investigatore privato John Morris (Jake Gyllenhaal) e un chimico capace di trasformare l’acqua in oro, Hermann Kermit Warm (Riz Ahmed), e ritrova sulla pista i leitmotiv della sua notevole filmografia, dal Profeta (2009) a Deephan (2015, Palma d’Oro): la violenza, qui invero mai estatica; il romanzo di formazione; la condizione migrante e la (ri)costruzione dell’identità. La virilità, meglio, il maschilismo tossico viene corretto sin dal titolo, la violenza dei padri fondatori si stempera nell’approdo al grembo materno, e un altro mondo si paleserà, forse, possibile: i fratelli Sisters, marchiati a fuoco da un padre orco, vedranno il mare e rivedranno la madre (Carol Kane); Morris e Warm scorgeranno il futuro, quello ingegnoso a stelle & strisce che arriva fino alla Silicon Valley ed Elon Musk.

È un film di grande eleganza, profonda intelligenza e forse sottovalutata importanza, giacché nella reinvenzione del western prossimo venturo non sarà possibile eluderlo, sia nell’aspetto formale – la fotografia demiurgica di Benoît Debie, la colonna sonora straniante di Alexandre Desplat – che nel precipitato ideologico: né epico né elegiaco, né mitologico né iperrealistico, sottrae gli spari sopra – i duelli sono al buio o nel fuoricampo – per colpire sotto l’immaginario codificato.

La Gold Rush non è mai stata così avida e, al contempo, canzonatoria, il correlato antropologico – l’immigrazione – ed ecologico – le ripercussioni sull’ecosistema – così puntuale eppure sorprendente, e in fondo non c’è da stupirsi, trattandosi di Audiard: lasciate perdere i Coen e i loro vani ed eventuali epigoni, il western del Terzo millennio ha due pietre miliari, e solo due, questo e il mesmerizzante Meek’s Cutoff, diretto da Kelly Reichardt nel 2010. Ancora non bastasse, Jacques si conferma pure nella direzione d’attori: Reilly è finalmente il protagonista che intuivamo, Phoenix si sottrae come richiesto, Gyllenhaal si scopre inedito. Da vedere, godere e meditare.

 

“Abbiamo perso tutti la terra sotto i piedi”

“Nei giorni in cui scrivevo ‘Complimenti ignoranti’ ho pubblicato un tweet su Mattarella, mentre si stava formando il governo. Sono stato subissato di commenti della serie: ‘Continua a cantà, nun fare altro’. Me ne sono pentito – la sintesi non è il mio forte – ma mi è servito per descrivere, in modo ironico, un mondo cui ci siamo abituati, in cui vale tutto e il contrario di tutto”. Eccolo qua, Daniele Silvestri, uno che sa mescolare l’autosputtanamento alla profondità del pensiero con cui pesa le parole. A pochi mesi dai suoi 51 anni (“Ho qualche difficoltà a non mettere su la pancetta e non gioco più a calcetto per la paura di farmi male”), esce oggi La terra sotto i piedi, 14 brani tra l’elettronica e le ballate romantiche.

Silvestri, nel suo precedente Acrobati era sospeso per aria. Ora torna giù, eppure – canta – le manca proprio la terra sotto i piedi.

Con Acrobati ho voluto guardare le cose da una prospettiva ampia, più poetica, ma il bisogno di stare con i piedi per terra lo sento, proprio perché non la trovo facilmente. È una condizione che ci accomuna: siamo tutti liberi e connessi, ovunque e in ogni momento. Siamo naviganti senza rete, in un mondo di comunicazioni rapide che rendono tutto possibile, vero e falso. Ci manca l’opposto, qualcosa di solido.

In “Concime” ricorda quando le dichiarazioni di amore e di guerra non ammettevano errori. È nostalgico?

Nel nostro universo sospeso, gli errori non contano, pur producendo disastri. Ogni cosa può essere smentita con lo stesso valore e la stessa violenza. Non è nostalgia, è mancanza di un senso profondo cui aggrapparsi. Non ho la ricetta, però so che l’essere umano ha bisogno di qualcosa di solido in cui riconoscersi, uno scheletro che ci faccia sentire sicuri.

In “Tempi modesti” canta: “Ti diverti insultando chi è meglio di te / ché se va bene a un ministro figurati a me”. Con chi ce l’ha?

L’ignoranza è figlia del ragionamento che facevo. Siamo istituzionalmente invasi da ignoranza e incompetenza. Per anni ci hanno insegnato che la furbizia valeva più dell’onestà, adesso ci dicono che bisogna preferire una democrazia allargata alla competenza. Quando sono le figure istituzionali a dare il cattivo esempio, non certo per bigottismo ma per amor proprio, il danno è maggiore perché legittimano comportamenti simili. Le espressioni più alte della società, invece, quelle in cui il cittadino si riconosce, dovrebbero darsi regole al di sopra di tutto.

Torniamo al disco. Perché ha invertito l’ordine del mercato, svelando in anticipo tre 45 giri tematici?

Lavorare a un album ormai è anacronistico e pubblicarlo significa non tanto celebrarne la nascita quanto la morte. Poiché si ha la sensazione che sia un contenitore obsoleto, tanto vale farlo annusare prima. La mia operazione è stata mettere insieme gli opposti: il vinile come supporto fisico e il digitale come presenza.

Un atto d’amore per la musica, sentimento di cui l’album è pieno. È ancora quello che muove il mondo?

È una parola che comprende tanto, dalla relazione tra due persone – il motore più potente e fuori controllo nelle vite di tutti – alla passione, agli ideali, al voler bene a se stessi, alla voglia di sentirsi degni di avere una terra sotto i piedi.

Concetti romantici e apparentemente retrò. Che rapporto ha con la tecnologia?

La uso e la benedico, per certi aspetti. Non mi scaglio contro la modernità, ma negli ultimi 50 anni l’Occidente è progredito senza avere dietro un’idea di uomo o di società. Ci è stato consegnato un mondo affascinante, privo di istruzioni per l’uso. Questo produce danni notevoli; nel disco li affronto, senza demonizzare gli oggetti ma sostenendo che servono paletti fatti di rispetto, di dignità da difendere, di argine alla sopraffazione.

È preoccupato per l’Italia?

Per il mondo che ha perso la memoria. Ci siamo già passati, è pericoloso.

Per la prima volta farà un tour da solo nei palazzetti. Ci vuole coraggio?

Nessuno ci garantisce che ce la faremo da un punto di vista numerico, però lo spero, visto che sono datore di lavoro di tante persone… (ride) Credo sia il disco stesso a richiedere altre forme di linguaggio.

A Sanremo “Argento vivo” ha vinto il premio della Critica Mia Martini, quello della sala stampa e quello Sergio Bardotti per il miglior testo. Cos’altro le ha lasciato il Festival?

Un sacco di parole e di storie che sono arrivate dopo, come se avessi aperto un vaso di Pandora: mail, messaggi, discorsi sul ruolo dei genitori, sulla scuola, sulle patologie. Sto cercando di mettere tutto in relazione e di coinvolgere gli stessi adolescenti, perché è inutile che ce le raccontiamo tra noi adulti.

Dica la verità, Silvestri: si sente un po’ anziano?

A parte la pancetta e il calcetto, sono fin troppo simile a quando ho cominciato. È ancora un gioco, pur nella consapevolezza che ho tre figli e molte persone che dipendono da me. Mi diverto ancora a scrivere, però non le nascondo che negli ultimi 10 anni ho dato per scontato che sarebbe arrivato il momento di smettere. Il momento in cui la forma canzone sarà esaurita.

Ci sta dando una notizia?

Per adesso no, il flusso creativo è ancora prepotente. Ma prima o poi finirà, e lo dico con dolore: continuerò a scrivere e a comporre, ma le canzoni… boh. Troverò altre forme di scrittura. Però non oggi.

Il doppio bluff di Juan Guaidó nella partita tra Usa e Maduro

Siamo tutti Guaidó. Ma per quale ragione? Devo confessare che, visti gli ultimi sviluppi, sono dilaniato da un dilemma: siamo proprio sicuri che Guaidó abbia lavorato per gli Stati Uniti? E se lo abbia fatto invece per Maduro? O per tutti e due? Il cruccio non è retorico. Se si risale con calma lungo la catena degli eventi degli ultimi tre mesi, il giudizio sul personaggio si biforca: le azioni compiute da Guaidó contro il governo di Caracas sono quelle del solito “combattente della libertà” stile Berlusconi della prima ora allevato dall’intelligence Usa e gettato nella scena politica del Venezuela non appena in grado di camminare. Ma se riflettiamo sui risultati effettivi delle sue azioni, il dubbio che si tratti di un diabolico manufatto chavista rifilato alla Cia con lo scopo ultimo di giocare per Maduro diventa davvero molto intenso.

Esaminiamo allora le tre tappe della breve vita di Juan Guaidó, dalla sua nascita con l’autoproclamazione a presidente nel gennaio passato, al suo mesto trapasso del 30 aprile su un cavalcavia di Caracas. Il ruspante ingegnere si presenta davanti alla congrega Bolton-Rubio-Pompeo come una specie di Fidel Castro della destra in grado di infiammare le piazze e di condurle alla conquista del palazzo presidenziale con la complicità di gran parte delle forze armate, ormai stanche della tirannia chavista e decise a battersi… per la democrazia. A nessuno degli strateghi di Washington viene il sospetto che si tratti di un mitomane in preda a delirio di onnipotenza, e invece di sottoporlo alla macchina della verità o invitarlo a fornire prove dei suoi poteri carismatici, credono alle sue balle, lo incoraggiano ad autoproclamarsi presidente e lo riconoscono senza indugio come tale alla fine di gennaio.

Gli strateghi sono certi che il resto del mondo non farà molte storie sulle credenziali di Guaidó e accetterà in massa il loro invito a riconoscerlo come nuovo presidente del Venezuela. Il trio trumpiano si siede allora in prima fila, popcorn in mano, e attende le folle osannanti, la caduta della dittatura e la pioggia di approvazione universale verso l’autoproclamato. Ma le folle non si presentano, l’esercito resta leale a Maduro e solo 50 su 192 Paesi membri dell’Onu – gli stretti alleati e clienti degli Usa – accolgono l’invito a incoronare il novello Castro-Bolivar. Il flop è clamoroso sotto un triplice profilo: come prova della reale consistenza di Guaidó, come test della residua influenza globale del potere americano, e come dimostrazione del consenso di Maduro presso esercito e popolazione. Ma il fiasco viene fatto passare come una sentenza di primo grado, e si stabilisce che il giudizio di appello avvenga il 23 febbraio, al confine con la Colombia. Con la scusa di far entrare in Venezuela, con le buone o con le cattive, alcuni camion di aiuti umanitari americani, Guaidó e i suoi avrebbero dovuto far confluire sul posto alcune centinaia di migliaia di persone con le quali avrebbero soverchiato le forze governative schierate per impedire la provocazione, per poi marciare su Caracas tra ali di folle benedicenti e uno scoppiettio di insurrezioni spontanee.

Ma quando si dice la sfortuna. Anche in questo caso, all’appuntamento non si presenta quasi nessuno e l’evento viene condannato dall’Onu, dalla Croce Rossa e dalle agenzie umanitarie come una violazione del canone fondamentale della non politicizzazione dell’aiuto umanitario. Alcune bande di seguaci di Guaidó vengono rovinosamente fotografate dal New York Times mentre lanciano molotov contro i convogli di aiuti allo scopo di far ricadere la colpa sul governo di Caracas.

Il doppio fiasco dimostra che il cambio di regime è una strada impraticabile e mette a nudo l’impostura del “cocco” della Cia, ma ormai è troppo tardi per buttarlo a mare e per impedirgli di continuare nella sua opera di consolidamento di fatto dell’odiato regime comunista.

Gli “Strateghi Supremi” passano allora a una più dimessa linea di riduzione del danno Guaidó. Lo invitano a stare calmo e aspettare un po’. Trump ha introdotto sanzioni letali che faranno cadere Maduro in poche settimane. E si sarebbe spacciato Guaidó come causa principale della débâcle.

Ma “Il liberatore” non abbocca. Deve proseguire la sua missione a favore della democrazia venezuelana (a questo punto quale? Quella di Bolton/Taiani o quella di Maduro?), e chiede ai suoi ormai costernati sponsor un ricorso in Cassazione. Che consiste nel simil golpe tragicomico del 30 aprile. Azione comunque temeraria e resa incruenta dall’astensione del governo dall’uso della forza. Ma azione rivelatasi infine un assist decisivo a Maduro e un finale di partita per il suo promotore.

In conclusione, tutti noi, combattenti per la democrazia altrui, maduristi e trumpiani, dobbiamo molto al defunto liberatore del Venezuela. Siamo tutti Guaidó. Il sacrificio di questa stella cadente della libertà consente oggi a Maduro di aprire all’opposizione interna dotata di cervello e oscurata finora dagli eversori. Apertura che si estende alle proposte di mediazione e di soluzione democratica della crisi avanzate da vari soggetti internazionali, tra cui l’Italia e il Vaticano.

Gilet gialli: a che punto è la notte

È stato il primo corteo della festa dei lavoratori con i Gilet gialli. Dopo più di cinque mesi di protesta, mercoledì i Gilet si sono uniti ai sindacati ai piedi della Tour Montparnasse, a Parigi, per portare avanti le loro rivendicazioni fino alla place d’Italie. Neanche l’ultima serie di misure annunciate dal presidente Macron il 25 aprile è bastata. L’insoddisfazione si legge sugli slogan, gli stessi da mesi: “Macron dimissioni”. A Parigi la mobilitazione ha riunito circa 40.000 persone, ma anche tra mille e duemila black bloc. Il governo lo aveva previsto e ha schierato 7.500 poliziotti. Il fiume di controlli preventivi, circa 20.000, ha permesso di evitare il peggio, ma la tensione è stata alta lo stesso, con cassonetti bruciati, lanci di pavé e fumi di lacrimogeni.

Un gruppo di manifestanti ha “invaso” l’ospedale della Pitié-Salpêtrière (un’inchiesta è stata aperta per fare luce sull’accaduto) ed è stato saccheggiato il ristorante La Coupole, dove Macron aveva festeggiato il risultato al primo turno delle Presidenziali. Da novembre a oggi i Gilet gialli hanno strappato al governo 17 miliardi di euro di misure per lavoratori e pensionati, ma domani si torna in strada per l’atto 25 della protesta. Tutto è iniziato il 17 novembre 2018. Per l’atto primo, 288.000 persone (secondo i dati del ministero dell’Interno) sono scese nelle strade di tutta la Francia con un segno di riconoscimento: il gilet fluorescente.

A Parigi l’appuntamento è sugli Champs-Elysées. Nel resto del Paese ci si riunisce ai caselli autostradali e sui raccordi delle città. Si installano barricate sulle rotonde. La scintilla della protesta era nata online da una raccolta di firme contro il caro carburante che doveva entrare in vigore il primo gennaio 2019. La petizione, con più di un milione di firme in pochi giorni, era stata lanciata da Priscilla Ludosky, uno dei volti della protesta ancora oggi. I Gilet gialli si organizzano su Facebook, sono senza leader né etichette. Tra di loro ci sono agricoltori, operai, pensionati, lavoratori con piccoli stipendi e donne sole con figli a carico, quella Francia periferica che vive in deserti rurali, dove scuole e ospedali chiudono e l’auto è indispensabile. Ci sono la bretone Jacline Mouraud, autrice di un video di invettive contro Macron diventato virale; l’autostrasportatore Eric Drouet, di Melun, che si filma dalla cabina del suo camion, e ancora Jêrôme Rodrigues, ex commerciante, che perderà un occhio a causa di una pallottola di flashball, la contestata arma anti-casseurs della polizia. Ai suoi inizi il movimento è molto popolare, più del 70% dei francesi lo approva. Ma poi entrano in scena i casseurs.

Il primo dicembre gli Champs-Elysées vengono devastati e l’Arco di Trionfo imbrattato. Il 4, il premier Philippe annuncia il congelamento delle accise sul carburante e delle tariffe del gas e dell’elettricità. Ma ormai le rivendicazioni sono ben altre. I Gilet chiedono più giustizia fiscale, meno tasse per le classi medie e i pensionati e il ritorno della patrimoniale per i più ricchi, soppressa da Macron. Vogliono più democrazia, con l’introduzione del RIC, il referendum di iniziativa civica, e più giustizia sociale, con servizi pubblici migliori. Il 10 dicembre, in diretta tv, Macron annuncia una prima batteria di misure da 10 miliardi di euro, con la detassazione degli straordinari, l’aumento del “premio di attività” per integrare lo stipendio, e la riduzione delle tasse sulle pensioni sotto i 2.000 euro. Annuncia anche l’avvio di un “grande dibattito nazionale”, tre mesi in cui chiunque può avanzare recriminazioni e fare proposte.

Ma la protesta continua. Il movimento si spacca. Alcune figure moderate, come Jacline Mouraud, vittime di minacce dai più radicali, cominciano a farsi da parte. Altre, come Ingrid Levavasseur, rinunciano a presentare una lista per le Europee. Drouet lascia: “Troppa violenza”. La conferenza stampa di Macron del 25 aprile, con una nuova lista di misure, doveva servire a tirare le somme dei tre mesi di dibattiti e mettere fine alla crisi. I Gilet gialli ottengono la riduzione delle tasse per le classi medie per un totale di 5 miliardi di euro. Ma il “presidente dei ricchi” non è tornato indietro sull’abolizione della tassa sul patrimonio e non ha neanche concesso il RIC. Ha invece annunciato un “patto territoriale” per riconciliare città e campagne, con la sospensione della chiusura di scuole e ospedali fino al 2022 e una riforma dell’amministrazione locale per una migliore distribuzione dei funzionari sul territorio.

Tutte quelle imperfezioni ci rendono uniche (e belle)

“Il punto non è fare di tutto per essere accettati, ma accettare ciò che rende diverso ciascuno di noi. Perché cercare di essere ordinari quando possiamo essere straordinari”. È tutto condensato in questa frase il senso di Imperfetta, la graphic novel, tratta dal film Flawed. Il libro di Andrea Dorfman, arrivato in Italia per Einaudi Ragazzi con la traduzione di Michele Piumini, è una storia d’amore vera tra l’autrice, regista, e Dave, chirurgo plastico. Un viaggio alla scoperta dell’altro e di sé che conduce tutti a riflettere sui propri limiti e sulle proprie fragilità. Un libro che calza a pennello per un adolescente in preda all’angoscia per il proprio aspetto ma non solo. Il testo di Andrea Dorfman parla a ciascuno di noi, alle nostre paure, ai nostri timori di fronte agli handicap che può avere il nostro corpo o che possono accadere a causa di un incidente. In Imperfetta l’autrice ci svela i segreti della sua storia d’amore cresciuta grazie alle cartoline che i due si inviano per mesi e confida ai lettori i suoi pensieri per il proprio naso: “Il mio naso così vistoso al centro della faccia diventò un argomento di cui non riuscivo a parlare. Ma se avessi cambiato quella parte di me, chi sarei diventata? Quel dubbio mi spaventava. Rifarmi il naso mi spaventava. Decisi allora che per quanto fosse grosso, non potevo cambiarlo, perché quel naso ero io. Io ero il mio naso. Decisi che ero imperfetta”.

 

Altro che supereroi, meglio le storie di guerra firmate da Garth Ennis

Garth Ennis è uno dei più grandi scrittori di fumetti viventi: è entrato come un trattore nel mondo dei comics di supereroi e li ha ribaltati a colpi di cinismo inglese (irlandese, per essere precisi), parolacce, situazioni oltraggiose con un mix di umorismo e senso dell’epica. Da Preacher a Hit Man a Punisher a The Boys, dove Ennis è passato ha lasciato il segno. Ma c’è una cosa che ha sempre voluto fare: raccontare storie di guerra. In fondo tutti i suoi fumetti, anche quelli all’apparenza più mainstream, sono una derivazione di quell’antico e ormai perduto genere fumettistico: cameratismo, grandi amicizie maschili, molto alcol, propensione al sacrificio. Ennis è riuscito a realizzare il suo sogno: ha usato la sua fama indiscutibile per convincere un editore, la Avatar Press, a pubblicargli le storie che avrebbe sempre voluto raccontare. Una collana che si intitola semplicemente War Story e che ora Saldapress pubblica in Italia in una elegante edizione cartonata. Nel primo volume c’è una notte di trincea nella guerra di Spagna, poi le spericolate imprese dello squadrone dei Vampiri, piloti inglesi che volano di notte e cercano di abbattere aerei tedeschi senza avere neppure il radar, tra 1939-1940. Ci sono dialoghi che chiaramente Ennis ha aspettato una vita di poter scrivere, tipo: “Di solito le pompe idrauliche sono le prime a partire e questo rende impossibile ruotare la torretta nell’unica posizione che consente di uscire…”. I disegni di Carlos Ezquerra e Tomas Aira non sono vintage come qualcuno potrebbe auspicare, visto il genere fumettistico, ma meglio così: perché Ennis non fa un’operazione nostalgia (molti lettori italiani ricorderanno la rivista Supereroica). I suoi sono fumetti di guerra contemporanei, senza citazionismi, senza fronzoli tarantiniani.

 

Bimbe sventrate da pedofili assassini e uno strano caso di omicidio-suicidio

Cristian è il solito ragazzino problematico. Di più: i videogiochi sono la sua compulsione diventata dipendenza. Sta sempre chiuso in camera. Brufoli, adipe e incapacità a relazionarsi nel mondo vero. Il papà fa il commissario di polizia, a Firenze. Una sera a cena, Cristian, anzi Cri, si alza da tavola, esasperato dai rimbrotti paterni, ed esce, per sbollire la rabbia con un giro in motorino. Al ritorno, la tragedia. Rincasa e c’è uno strano silenzio. Cristian trova i genitori morti in cucina. La mamma per terra, in un lago di sangue. Il padre ancora seduto, con una pistola in mano. Omicidio-suicidio?

Mesi dopo Cristian è in una casa famiglia, in un paesino del Salernitano. È dimagrito e tenta di rielaborare l’enorme lutto patito. A sostenere il suo percorso c’è uno strano medico, Flavio. E c’è anche Damiano alias lo Sciacallo. Flavio e Damiano, a loro volta, hanno vissuto un altro inferno. Quello dell’Uomo del Salice, serial-killer pedofilo che sventrava le bambine come bambole. Un mistero che ha ancora qualche risvolto oscuro. Ovviamente i due enigmi sono destinati a incrociarsi. Anche perché lo Sciacallo ha forti dubbi sull’omicidio-suicidio dei genitori del ragazzo, a Firenze. Forse una messinscena allestita da Servizi deviati e mafia.

Le colpe della notte è un thriller dalle atmosfere tetre dove il Male che abita in ciascuno di noi si dilata in forme estreme e indicibili, come quelle che riguardano la scomparsa di Elena, altra bimba circuita dall’Uomo del Salice e mai ritrovata. Cosa si nasconde nelle case e nelle montagne cavernose di Castellaccio, questo il paesino del Salernitano? Alla fine arriverà la resa dei conti e Cristian avrà compiuto il suo romanzo di formazione.

 

 

Morandi, un filologo come Nietzsche

Nel 1881, Nietzsche pubblica la raccolta di aforismi Aurora (che con Umano, troppo umano del 1879 e La Gaia scienza del 1882 costituisce il nucleo delle sue opere più personali e che egli stesso definisce “più simpatiche”), in cui attacca il buio intellettuale creato dall’illusione dei valori morali, dai pregiudizi e dalle ipocrisie del conformismo borghese cristiano. Nella prefazione all’opera pubblicata nel 1886, il filosofo tedesco suggerisce come per poter uscire dalle tenebre e riscoprire appunto “l’aurora”, occorra “perforare, scavare” e ancora “avanzare lentamente, cautamente, delicatamente” verso la verità.

Il testo di Nietzsche dovrebbe essere distribuito all’ingresso della mostra Exit Morandi al Museo del Novecento a Firenze (a cura di Maria Cristina Bandera e Sergio Risaliti, fino al 27 giugno) che raccoglie le opere di Giorgio Morandi (1890-1964) appartenute ai critici coevi e suoi estimatori, da Roberto Longhi a Francesco Arcangeli. “L’elogio della lentezza” del filosofo tedesco sembra, infatti, essere un’autorevole guida ante-litteram all’opera del pittore bolognese e spiega perché potremmo definire la sua pittura “filologica” (la filologia è per Nietzsche: “quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento”).

Già a partire da uno studio sulla figura umana – l’acquerello La bagnante che richiama le omonime figure di Cézanne e che vara la mostra – riverbera lo scavo filologico di Morandi. Immersi in un tempo che non conosce fretta, i paesaggi, i fiori, le meno note incisioni e le invece celeberrime nature morte, le opere tutte qui esposte raccontano la lenta meditazione dell’artista, la ricerca verso l’essenza delle cose, che a partire dagli anni 20 si fa sempre più insistente.

Nelle sue imperdibili bottiglie, riempite di gesso o ridipinte affinché perdessero la loro connotazione naturalistica, messe in scena sulla tela ora accentrate e ora defilate, il pittore offre non la rappresentazione della realtà, ma la sua evocazione. I medesimi oggetti quotidiani, da lui spogliati e ridotti all’esattezza, li ritroviamo a partire dagli anni 30 tormentati, grandi, con i contorni indefiniti e in movimento che sembrano evadere dal telaio per poi rimpicciolirsi nel formato in una pittura più magra, più rada fino alla totale rarefazione degli ultimi acquerelli dove non c’è più consistenza ma solo l’astrazione dell’oggetto, e dunque la sua affabulante immagine mentale.