Quanti psicogrammi ci costa un like?

In fondo siamo tutti Oni: cavernicolo rimasto congelato per cinquantamila anni e scongelato davanti a un supermercato. La nostra biologia non è cambiata in cinquecento secoli, potrebbe quindi aiutarci sapere di essere “solo dei cavernicoli in un mondo che è cambiato più in fretta di quanto la nostra mente e il nostro corpo si aspettassero”. Così la pensa Matt Haig nel suo Vita su un pianeta nervoso, un manuale spiccio di sopravvivenza a noi stessi.

Della serie conoscere per evitare o, almeno, tentare di arginare le nevrosi quotidiane che rendono le nostre vite sempre più ansiose. Usando un paragone, il prolifico 43enne scrittore inglese si serve della scrittura e delle sue riflessioni semplicemente “per far indietreggiare l’ansia come un criminale sotto i riflettori della polizia”. Le 408 pagine di questo moderno saggio non fanno paura. È ironico e profondo nel descrivere e raccontare attacchi di panico, ossessioni da controllo costante di social e mail: Matt Haig ha 260mila followers e contemporaneamente parla di “folla di noi stessi”.

Dopo il successo di Le ragioni per continuare a vivere, il giornalista inventa persino una tabella degli psicogrammi (pg), unità di misura per il peso psicologico avvertito da ognuno di noi: dover tenere un discorso equivale ad esempio a 1328pg, solo 50pg il nostro senso di colpa per non essere andati in palestra. Tutto ha un peso psicologico come la telefonata della banca 182pg così come accorgerci di aver postato un tweet con un errore di ortografia: ben 82 pag. Come sopravvivere? Qualche consiglio dal decalogo dei comandamenti che lo stesso autore confessa di seguire molto raramente: non rimandare un pasto o il sonno per rimanere su Internet, resistere agli algoritmi disattivando le notifiche pop-up, non cadere nel gioco dei rating: “Non giudicatevi sulla loro base perché per piacere a tutti dovreste essere la persona più insignificante sulla faccia della terra”. Un esempio pratico? William Shakespeare è probabilmente il più grande scrittore di tutti i tempi ma per Goodreads il suo punteggio medio è un misero 3,7. “Non perdere se stessi”. Come un mantra. Ricordando soprattutto che “la felicità non fa bene all’economia”; siamo continuamente spinti a essere insoddisfatti di noi stessi: corpi troppi grassi, troppo magri o troppo flaccidi.

Completezza, consapevolezza, “meno è meglio” sono alcune delle parole chiave della riflessione su se stesso fatta da Haig che nei suoi capitoli (a volte composti di poche righe) in fondo accompagna – senza nessuna pretesa – i lettori lungo una via poco tortuosa: non possiamo usare tutte le applicazioni, non possiamo essere al corrente di tutte le notizie, non possiamo piacere a tutti, possiamo comprare di più, guadagnare di più, twittare di più, ma quanta felicità avremo ottenuto in più?

L’autore racconta di aver pensato al suicidio a 24 anni, di aver vissuto gli anni a seguire in terapia per ansia e panico. A 43 anni ammette come “la malattia abbia molto da insegnare alla salute”, prova solo a mettere in ordine ciò che sente rispetto al mondo intorno. Un disperato tentativo di rimanere lucido, umano e felice sul pianeta nervoso.

 

Il Brescia promosso canta “terùn terùn”: il video è virale

Un brutto episodio di discriminazione territoriale rischia di macchiare la promozione del Brescia in Serie A. Ha fatto il giro del web, scatenando commenti di condanna, un video postato sul profilo Instagram delle Rondinelle in cui si sentono i calciatori cantare il coro “terùn terùn” durante i festeggiamenti per il ritorno nel massimo campionato dopo l’ultima giornata di Serie B. Il video è stato successivamente rimosso, ma ormai il danno era fatto. Nelle immagini si vede, infatti, un giocatore del Brescia incitare il pubblico a cantare il coro probabilmente rivolto a Lecce e Palermo che hanno conteso fino all’ultimo la promozione diretta alla formazione lombarda. Una scivolata che certamente non ci voleva e che va a offuscare una festa che ha coinvolto tutta la città. Dalla politica è intervenuta Veronica Giannone, deputata leccese del Movimento 5 Stelle: “Festeggiare l’ascesa in Serie A è doveroso da parte dei giocatori del Brescia, ma incitare i tifosi a cantare la canzoncina terùn terùn è semplicemente inaccettabile”.

Manduria, polemiche sul video della polizia

Il video, martedì, era già su tutti i canali tv e mostrava le violenze contro Antonio Stano, 66 anni, pensionato di Manduria (Taranto) morto il 23 aprile dopo tre interventi chirurgici. Calci, pugni, richieste di aiuto a polizia e carabinieri inascoltate.

Stano è stato vittima di una serie di aggressioni e violenze compiute nel tempo da più gruppi di ragazzi e oggi, dopo la sua morte, è vittima di una esposizione mediatica che non convince del tutto cittadini ed esperti. Il video delle aggressioni non è stato infatti mostrato da siti o giornali con occhio morboso bensì dalla polizia di Stato sul proprio canale Facebook, dove da ore piovono commenti che incitano vendette e punizioni per i ragazzi. Il sito Valigia Blu ha condannato la scelta (e chiesto spiegazioni): non è chiaro infatti il motivo che abbia spinto le forze dell’ordine a pubblicare materiale d’indagine online, perché non aggiunge alcuna informazione.

Certo, i volti sono pixellati ma il nome della vittima è già noto così come quello di almeno uno dei ragazzi maggiorenni coinvolti. Gli altri, invece, sono minorenni e questo potrebbe diventare un problema anche legato alla privacy se dovessero essere in qualche modo riconoscibili. Ma se queste tutele sono di solito prese molto seriamente per le vittime, non accade lo stesso quando si tratta di “carnefici”. Secondo le fonti della difesa, a ogni modo, ieri gli otto giovani interrogati – due maggiorenni e sei minorenni – si sono dichiarati “dispiaciuti” per le loro condotte dopo essersi riconosciuti proprio nei video che hanno gli inquirenti e che arrivano dai loro smartphone. Il più grande del gruppo, di 22 anni, ha ammesso di aver partecipato a una sola “incursione” nell’abitazione del pensionato, respingendo le accuse di aver avuto un ruolo attivo. Anche uno dei minori interrogati avrebbe negato di aver partecipato ad atti di violenza. Tutti hanno risposto alle domande e, secondo i difensori, erano “molto provati”. I due gip dovranno decidere ora se convalidare i fermi e stabilire se la misura cautelare va confermata, revocata o attenuata. Agli atti dell’inchiesta c’è anche la testimonianza della fidanzata sedicenne di uno degli indagati che il 12 aprile alla presenza della madre aveva detto di avere due filmati in cui si vedeva Stano picchiato e vessato da un giovane.

Il 17 aprile la ragazza era stata convocata dai poliziotti, che le hanno fatto vedere altri filmati. Ha così riconosciuto tra i giovani ripresi il suo fidanzato e altri tre conoscenti. La ragazza ha riferito anche che lo zio di uno degli aggressori stava cercando di contattare gli altri componenti della baby gang intimando loro di non fare il nome del nipote alla polizia. I giovani, secondo gli investigatori, si sarebbero ripresi con i telefonini per poi diffondere i video nelle chat. Intanto Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia cercano di prendere le distanze dalla violenza. Ieri la leader di Fdi ha lasciato dei fiori davanti casa di Stano e annunciato che sarà depositata una proposta di legge contro il bullismo.

Concorsi truccati, la Procura genovese indaga su Firenze

Tra il 19 e il 27 giugno 2018 nella procura di Firenze accade qualcosa di grave. Una vicenda che ha portato il procuratore aggiunto di Genova Ranieri Miniati e la pm Sabrina Monteverdi a indagare sull’operato della procura guidata da Giuseppe Creazzo nell’inchiesta condotta dal pm Tommaso Coletta sui concorsi universitari nell’università di Medicina del capoluogo toscano. I reati contestati sono omissione di atti d’ufficio, falso ideologico, concussione e omessa denuncia all’autorità giudiziaria. Reati, questi ultimi, commessi anche da un investigatore della Guardia di Finanza nel corso delle indagini sui baroni nelle corsie dell’ospedale Careggi di Firenze. Il 16 aprile la Procura genovese delega i finanzieri del Gico (gruppo investigativo criminalità organizzata) a presentarsi nell’ospedale Careggi di Firenze per acquisire gli atti del concorso da direttore di chirurgia maxillo facciale, vinto nel 2015 dal dottor Giuseppe Spinelli. E chiedono tutti gli atti che riguardano la sua nomina.

Il punto è che il nome di Spinelli compare nelle indagini fiorentine, guidate dal pm Coletta, che hanno visto l’iscrizione di 16 indagati per aver turbato i procedimenti amministrativi dei concorsi e, tra essi, l’interdizione di 8 docenti. Ma nella lista degli indagati, nell’inchiesta condotta dal pm Coletta, il nome di Spinelli non c’è.

Sarebbe stato normale – a giudicare dagli atti – che ad acquisire i documenti su Spinelli fosse stata la Procura fiorentina e i finanzieri che avevano condotto l’inchiesta. L’attività d’indagine su Spinelli è stata invece svolta dal Gico di Genova, su mandato del procuratore aggiunto Miniati e della pm Monteverdi, in base all’articolo 11, ovvero la norma che regola le indagini su altri magistrati.

È quindi la figura di Spinelli, e il suo inquadramento delle indagini, l’origine dei reati di omissione d’atti d’ufficio, falso ideologico, concussione e omessa denuncia all’autorità giudiziaria.

Ma vediamo cosa emerge su Spinelli negli atti dell’indagine condotta dagli investigatori fiorentini. Il suo nome viene menzionato in un paragrafo dell’informativa finale, redatta dai finanzieri nel luglio 2018, intitolato Il “concorso da direttore Sodc chirurgia maxillo facciale”.

“Il 26 aprile 2018”, si legge negli atti, “Marco Innocenti, professore associato a Med/18, Chirurgia plastica e direttore della Sod Chirurgia plastica ricostruttiva e microchirurgia dell’Ospedale (…) si era recato nell’ufficio del prorettore, Paolo Bechi. Il loro lungo colloquio si è soffermato su una certa questione, sollevata da Innocenti Marco, che per la sua specializzazione ha frequenti interazioni con i chirurghi maxillofacciali diretti da Giuseppe Spinelli. In questa conversazione, Innocenti dice di aver parlato di Giuseppe Spinelli con il direttore generale Rocco Damone, ma di non capire “il loro atteggiamento”, aggiungendo però che “alla Turco (Lucia Turco – sorella del procuratore aggiunto di Firenze, Luca Turco – è direttore sanitario Auoc ndr) le ho spiegato un po’ di cose, insomma.. “. E ancora: “Dice sempre Marco Innocenti a Bechi che Damone considera Spinelli ‘un problema che va affrontato’. Per tutta risposta, Bechi gli narra una questione che in qualche modo mette in dubbio la professionalità dello Spinelli…”

I due intercettati fanno riferimento a un esposto presentato in procura nel 2015. “La prima questione che narra Innocenti – scrive la Gdf – appare riconducibile ai fatti oggetto di un esposto, pervenuto alla direzione generale” dell’ospedale “che, dopo un’istruttoria interna, nel 2015 ha determinato l’apertura” di un “procedimento penale le cui indagini sono state delegate dall’autorità giudiziaria a questo Nucleo di polizia economico finanziaria”.

Indagini che si conclusero con un’archiviazione. Nelle intercettazioni, però, si fa riferimento a testimonianze che avrebbero coperto Spinelli dinanzi agli investigatori. Il direttore avrebbe dichiarato alla commissione di concorso, presentando il suo curriculum, di aver espletato circa 2000 interventi di chirurgia maxillo facciale. Un numero che, in realtà, potrebbe non corrispondere al vero.

Ed è proprio questo che il Gico di Genova sta verificando con le acquisizioni di pochi giorni fa. Non è un caso che, nell’oggetto del decreto di acquisizione, disposto dai magistrati genovesi, vi siano gli “atti relativi alla procedura concorsuale di Spinelli” nel 2015, “l’attività di controllo effettuato” dall’azienda ospedaliera dopo l’esposto dello stesso anno, nonché la “casistica chirurgica” di Spinelli dal 2014. Ora la procura di Genova valuterà se davvero vi siano state omissioni e addirittura concussioni nell’attività d’indagine svolta dai colleghi fiorentini. Reati commessi tra il 19 e il 27 giugno dello scorso anno.

Sentenze comprate al Consiglio di Stato: in quattro a processo

Processo per tre giudici e un deputato dell’Assemblea regionale siciliana, accusati di corruzione in atti giudiziari. La vicenda sulle presunte sentenze pilotate al Consiglio di Stato si avvia a una svolta il prossimo 18 giugno. Per quella data è stato fissato – dopo l’accoglimento della richiesta della Procura di Roma per il giudizio immediato – il processo per il giudice (sospeso) Nicola Russo, per l’ex presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Sicilia Raffaele Maria De Lipsis, per l’ex giudice della Corte dei Conti, Luigi Pietro Maria Caruso e per il deputato dell’assemblea regionale siciliana Giuseppe Gennuso. L’indagine si basa sulle dichiarazioni dagli avvocati Pietro Amara e Giuseppe Calafiore: in base a quanto raccontato da Amara, Russo avrebbe ottenuto da lui circa 80 mila euro (e altri 60 mila promessi), per aggiustare sentenze di tre procedimenti. Per quanto riguarda De Lipsis, avrebbe incassato tangenti per 80 mila euro per intervenire su alcune sentenze. Infine, l’ex presidente del Cga sarebbe intervenuto nella vicenda relativa al ricorso presentato da Gennuso dopo la sua mancata elezione alle amministrative del 2012.

B. incastrato: soldi a Ruby sul conto dell’ex fidanzato

Si sa che l’idillio, se c’è mai stato, è finito da tempo. I rapporti tra Karima El Mahroug, detta Ruby Rubacuori, e l’ex compagno Luca Risso, padre di sua figlia Sofia Aida, è pessimo. Lo dimostrano anche le chat tra i due, finite nelle mani dei pm della Procura di Milano: “Ha pagato per far tacere te, non me”, scrive Risso in risposta a Ruby che lo incalza con una raffica di richieste e accuse. È la prova che chiude il cerchio: “Ha pagato”. E “per fare tacere te”. I due parlano di Silvio Berlusconi, che è sotto processo per corruzione in atti giudiziari con l’accusa di aver pagato Ruby e ad altri 27 testimoni, per farli mentire davanti ai giudici, per addomesticare i loro racconti sulle “cene eleganti” del 2010 ad Arcore, nell’estate del bunga-bunga.

I soldi. Sono tanti quelli usciti dalle tasche di Berlusconi e finiti a Ruby, alle altre ragazze e agli ospiti che partecipavano alle feste di Villa San Martino. Almeno una decina di milioni, secondo i pm della Procura di Milano Tiziana Siciliano e Luca Gaglio, oltre ad auto, case, regali.

Ora una rogatoria arrivata dalla Svizzera fornisce la prova definitiva che è proprio di Risso il conto dove arrivavano i soldi partiti dalla Svizzera e approdati in Messico, dove Risso si è trasferito da Genova dopo lo scoppio dello scandalo, insieme a Karima, che però è poi tornata in Italia. La rogatoria riguarda tre versamenti per un totale di circa 400 mila euro. Sono inviati dalla Pkb Privatbank sa di Lugano, in Canton Ticino, dove il 2 marzo 2011 viene aperto un conto denominato 1.0.26007-Fashion di cui è “titolare e avente diritto economico” “Risso Luca, nato il 20 aprile 1969 e abitante a Genova”.

Nelle carte mandate a Milano dal procuratore pubblico di Lugano, Fiorenza Bergomi, c’è anche un biglietto scritto a mano da Risso e inviato al direttore della Pkb Privatbank, Oberto della Torre di Lavagna: “Gentilissimo dottore Della Torre”, scrive l’ex compagno di Ruby, “la prego cortesemente di voler bonificare, con cortese urgenza, sul mio conto presso la Monex di Playa del Carmen, numero 018273801 la somma di euro 60.000 (sessantamila). Il conto è lo stesso utilizzato per il bonifico precedente”.

Risso ha fretta: “La pregherei di farmi il bonifico entro giovedì perché in data successiva sarei costretto a pagare una penale per il mancato inizio dei lavori nella mia proprietà, qui a Playa. In allegato le invio tutti i dati richiestomi nel precedente. Ringraziandola, le porgo i migliori saluti”. Dunque i soldi viaggiano dalla Pkb Privatbank di Lugano fino alla Monex di Playa del Carmen, dove Risso ritira i contanti. I documenti arrivati per rogatoria sono stati depositati da Siciliano e Gaglio nel procedimento detto Ruby 3, in cui Berlusconi è imputato di corruzione in atti giudiziari con l’accusa di aver dato soldi a Ruby e ad altri 27 testimoni, per farli mentire davanti ai giudici. Alcuni degli imputati sono accusati di falsa testimonianza e di corruzione in atti giudiziari, in concorso con Berlusconi. Altri solo di falsa testimonianza.

Il dibattimento è stato sospeso, su richiesta dell’avvocato di Berlusconi, Federico Cecconi, per permettere all’ex presidente del Consiglio di partecipare alla campagna elettorale per le europee. Riprenderà a Milano il 10 giugno. In quella data, i pm riprenderanno il filo per dimostrare che i pagamenti ci sono stati. Alcuni sono stati ammessi da Berlusconi, che ha spiegato lo stipendio mensile che per un periodo ha passato alle ragazze come un contributo offerto generosamente a chi, per aver partecipato alle sue feste, aveva perso il lavoro e “aveva avuto la reputazione macchiata e la vita rovinata da magistrati e giornalisti”. Luca Risso, però, che secondo l’accusa avrebbe dovuto controllare l’imprevedibile Ruby, nella sua chat segreta le dice chiaramente che i soldi sono stati dati “per far tacere te”.

In questa storia non ci sono solo movimenti bancari, ma anche giri di contante. Nelle carte che Siciliano e Gaglio mostreranno in aula dopo il 10 giugno c’è anche il racconto di un incontro quasi magico. Genova, esterno giorno. Un’auto blu di grossa cilindrata arriva e si ferma davanti al padre di Luca Risso. Ne scende un uomo vestito di un completo scuro che infila una busta nel taschino di Risso senior. A casa, sarà Ruby ad aprirla, estrarre un pacco di banconote ed esclamare: “Sono 80 mila euro”.

Talent, giurie e siparietti. Ecco a cosa servono

A cosa servono i talent show? A nulla! Diranno in coro gli spettatori, sopraffatti dall’overdose di chef, pasticceri, fornai, trattori, pizzaioli e soprattutto cantanti. Tutti sono cantanti, lo abbiamo capito. E invece no: i talent non sono mai serviti quanto adesso. Alle giurie. In The Voice (Rai2, martedì sera) tutto ruota attorno ai giurati assemblati secondo un culto alchemico della lottizzazione, larghissime intese dal conservatore Gigi D’Alessio al ragazzo-padre nobile Morgan, al rapper che si è prodotto da solo Gué Pequeno. Poi c’è Elettra Lamborghini, la celebrità al tempo dei social, là dove si esprimono giganti quali Gianluca Vacchi e Giulia De Lellis: una congerie inestricabile di tatuaggi, selfie, cosce, terra di Siena e latte di soia. Se c’è una popstar in cui la voce non conta niente, è lei, eppure la vediamo sentenziare più convinta di re Salomone. Un tempo una simile giuria avrebbe procurato scintille; ma siamo nella fase terminale del talent, prevale il volemose bene di chi sa di essere sulla stessa barca. Ai poveri concorrenti restano 150 secondi di popolarità (la quota Warhol ha subito un’inflazione devastante), il resto sono siparietti dei giurati. Chi crede che siano lì per i talenti in erba può credere anche alla rinascita del Pd. Simona Ventura se ne sta schiscia, ancora non ci crede di essere tornata in Rai senza dover fremere per i tormenti amorosi dei tronisti passatigli dalla De Filippi. Eh sì: i talent servono ancora a qualcosa.

Per aumentare Pil e tassi di natalità servono asili gratis

Il Reddito di cittadinanza costerà un miliardo di euro in meno del previsto. Lo ha calcolato, alla luce delle domande presentate, il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico. Non è un tesoretto, perché i soldi sono stati messi a bilancio in deficit, ma si tratta comunque di una somma ragguardevole che lo Stato può spendere. Per questo sarebbe un bene per tutti i cittadini che Movimento 5 Stelle e Lega smettessero per una volta di litigare e si sedessero invece a un tavolo per stabilire come investire il denaro. Magari ricordando una celebre frase, erroneamente attribuita ad Alcide De Gasperi, ma in realtà pronunciata dal predicatore americano James Freeman Clarke: “Un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alla prossima generazione”.

È vero. Anche a usare il lanternino di statisti in Italia non sembra di vederne molti. Le elezioni europee oltretutto incombono. Ma noi siamo ottimisti e pensiamo che chiunque, se lo vuole, può migliorare. Per questo speriamo di venir stupiti dal governo. Come? Con una decisione che serva a favorire l’occupazione femminile e magari incrementare la voglia degli italiani di far figli. Pensiamo cioè che il miliardo in questione vada principalmente utilizzato per costruire nuovi asili nido, pagarne il personale e dare ai meno abbienti la possibilità di accedervi gratuitamente. La proposta, a dire il vero, non è nostra, ma di Chiara Saraceno, esperta di welfare e già docente alla facoltà di Scienze politiche di Torino. Sentita da ilfattoquotidiano.it Saraceno ha spiegato come, finanziare una misura come questa, serva ad aumentare Pil e tassi di natalità. Soprattutto se gli stanziamenti verranno accompagnati da una norma che trasformi l’attuale caos di assegni, detrazioni e bonus familiari, in un unico trasferimento diretto. Un investimento come questo, dice Chiara Saraceno, “consentirebbe in un solo colpo di ridurre le disuguaglianze di partenza che penalizzano i figli delle famiglie disagiate, creare domanda di lavoro per le donne e favorire la conciliazione per quelle che hanno redditi bassi e che senza servizi sono costrette a smettere quando diventano madri”.

Oggi solo una donna su due lavora, mentre lo fa il 70 per cento degli uomini. Secondo Eurostat, l’Italia è al penultimo posto nell’Unione europea, dopo la Grecia, per tasso di occupazione femminile: la Spagna ci supera di 8 punti percentuali, il Portogallo di 19, mentre in Germania è occupato quasi l’80 per cento delle donne. In Francia, dove non solo i servizi funzionano, ma è previsto un assegno di 180 euro al mese per tre anni per il primo figlio e di 130 per il secondo, le donne con due bambini hanno un tasso di occupazione più alto rispetto a quelle senza figli. Da noi invece il tasso cala di 5 punti per chi è al primo figlio e di 7 per il secondo. Ma non basta. Perché in Italia la madre che continua a lavorare è spesso costretta al part-time e quindi guadagna molto meno del proprio compagno. Ma se solo fossimo in grado di dimezzare questo gap salariare donna-uomo il nostro Pil, secondo i calcoli del World Economic Forum, crescerebbe dello 0,2 per cento ogni anno. È insomma grave che nel nostro Paese i servizi latitino e che i posti disponibili negli asili nido coprano solo il 24 per cento del potenziale bacino di utenza. Ed è pure grave che gli aiuti per le famiglie più povere siano pochi. In Lombardia quest’anno sono, per esempio, stati stanziati 35 milioni di euro per i nidi gratis. Serviranno per 16 mila famiglie, 1200 più che nei dodici mesi precedenti. Meglio che niente. Ma ancora troppo poco.

Boom di “Salvini”, nuovo farmaco tonificante

Tutti gli istituti di ricerca sono concordi: in Italia cresce la domanda di un nuovo farmaco. Forse per le carenze di ferro dei governi precedenti, è boom di vendite per il SALVINI, prodotto di nuova generazione della casa farmaceutica Lega. Si trova in commercio in diversi formati: per aerosol (nebulizzato nell’etere o via social), in compresse effervescenti (molto effervescenti) o in supposta (il più diffuso).

Il SALVINI è un medicinale che promette di curare tutti i mali attraverso alcune formule semplici semplici, adattabili alle diverse situazioni, tipo “tutti a casa”, “prima gli italiani”, “è finita la pacchia”, “gli diamo una bella sforbiciata”, “nessuna pietà”, “in galera” o, all’occorrenza, adorabili filastrocche quali “ruspa, ruspa, ruspa” o “zac, zac, zac”, accompagnata quest’ultima dal gesto delle dita a mo’ di forbici, per indicare vuoi il taglio drastico all’accoglienza, vuoi la castrazione chimica per gli stupratori. Tocca segnalare che in questi casi – così come di fronte alla visione improvvisa di navi con migranti, Fabio Fazio, Laura Boldrini o Roberto Saviano – il farmaco produce nei pazienti un fastidioso effetto collaterale: intensa salivazione, meglio nota come bava alla bocca.

Il SALVINI rientra nella categoria farmacologica dei “tonici adattogeni”: tempra il carattere, permette di superare la stanchezza psichica e fisica (ad esempio per scattare come un velocista dai giornalisti, a “fare tana” all’alleato di governo impegnato in tv) e consente di superare lo stress da vicepremier di minoranza attraverso un sofisticato processo di mimetizzazione. Al pari delle noccioline di Superpippo, una volta assunto il farmaco si può diventare Supersindaco (e commissariare i primi cittadini sulle ordinanze “anti balordi”), ministro dei Trasporti (e chiudere i porti e tenere aperto il Tav), ministro della Difesa (e lanciare la leva obbligatoria), su su fino alla premiership (e richiamare la ministra della Salute sui vaccini) e alla Presidenza della Repubblica (con direttive su migranti e Ong da capo del consiglio supremo di Difesa).

I laboratori della storica sede di via Bellerio stanno ora mettendo a punto il SALVINI ACT, che agisce in tempo reale e permette di guadagnare il soglio pontificio. Sarà disponibile solo tra qualche mese, forse subito dopo le europee. Da notarsi che la mimetizzazione può essere anche fisica: basta entrare in una toilette (in mancanza di cabine telefoniche), fare un giro su se stessi, e – ta-dah – ci si ritrova in divisa da poliziotto, finanziere, aviatore… con o senza mitra.

Il SALVINI può essere assunto in un’unica soluzione o, per ottenere risultati migliori e più duraturi, si consiglia la profilassi mensile, che offre una copertura mediatica costante a tutti i fastidi, attraverso lo spostamento sistematico dell’attenzione dell’opinione pubblica: caso Siri? Daje alla Raggi. Il M5S incassa il Reddito di cittadinanza? Viva il Tav. Eccetera.

Avvertenze e precauzioni: il Salvini è solo un integratore e non può sostituire una dieta varia ed equilibrata. Per bilanciarne l’assunzione si consiglia di alternare gli improperi ai nègher con petizioni per salvare qualche cane abbandonato o malmenato. Deve essere somministrato in corrispondenza dei pasti, a base di Nutella o pizza o pasta rigorosamente Made in Italy, preferibilmente la mattina. La sera, come la cassoeula, rischia di turbare il sonno.

Oltre la pretura c’è il giornalismo

Roberta Petrelluzzi ha scritto venerdì scorso su Facebook una lettera pubblica a Martina Ciontoli, condannata in appello con il padre, la mamma e il fratello per l’omicidio colposo del fidanzato Marco Vannini, avvenuto a casa Ciontoli nel 2015. Alla vigilia della puntata di Un giorno in pretura, dedicata al caso, la conduttrice ha scritto: “Cara Martina Ciontoli, ti vogliamo far sapere che siamo assolutamente in disaccordo con questo accanimento mediatico che, non si capisce perché, vorrebbe la vostra morte civile. È un segno dei miseri tempi che stiamo vivendo, dove l’odio e il rancore prendono il sopravvento su qualsiasi altro sentimento. Ci auguriamo che il nostro lavoro riesca a riportare la tragedia vissuta (perché tragedia è) alle sue reali dimensioni”. Molti hanno criticato l’appellativo “Cara” rivolto a una ragazza che nelle intercettazioni sembra interessata più alla carriera del padre che a salvare il ragazzo e a trovare la verità sulla sua morte. La polemica sul “Cara” sta facendo passare in secondo piano la questione più interessante: qual è il modo corretto di seguire un caso di cronaca? Il post esce due giorni dopo il record di ascolti dei due speciali dedicati al caso Vannini da Le Iene e Chi l’ha visto. La sensazione è che Roberta Petrelluzzi si riferisse proprio a Le Iene, che avevano inseguito i due fratelli Ciontoli, quando puntava il dito contro “l’accanimento mediatico”. La sensazione è che quel “Ci auguriamo che il nostro lavoro riesca a riportare la tragedia vissuta alle sue reali dimensioni”, mirasse a segnare una distanza da quel modo di fare giornalismo.

Anche nel corso della trasmissione, Roberta Petrelluzzi ha dato l’impressione di volere segnare il percorso corretto per seguire un caso giudiziario in tv: solo quello che è negli atti sembrerebbe degno di cronaca. Solo quello che i magistrati hanno vidimato con il loro bollo avrebbe diritto di cittadinanza nel dibattito. Questa prospettiva rischia però di confondere la cronaca giudiziaria con il giornalismo e delega completamente e in bianco ai magistrati il compito di accertare la verità. Una tesi pericolosa e da rigettare.

Quando il quadro disegnato dagli investigatori è depistante (Cucchi) o sciatto (Vannini) cosa dovrebbe fare un giornalista? Limitarsi a riprodurre la foto sbiadita o taroccata ma ufficiale o dovrebbe cercare di scattare una foto più aderente alla realtà?

Per fortuna non esiste solo un modo di raccontare il caso Vannini. Il giornalista giudiziario farà il resoconto dei fatti selezionati e valutati dai giudici. Mentre il giornalista investigativo cercherà – come ha fatto Giulio Golia delle Iene – la testimonianza inedita di una vicina di casa mai ascoltata dai carabinieri.

Di certo il ruolo di megafono delle corti è meno rischioso. Di certo è più complicato svolgere una contro-inchiesta che segnala la sciatteria delle indagini ufficiali, come ha fatto – sempre su Rai3 – Federica Sciarelli. Si può criticare la veemenza di alcuni inviati, ma su un punto tutti dovrebbero essere d’accordo: se un giornalista pensa di avere scoperto incongruenze tra una testimonianza inedita da lui raccolta su un omicidio e la versione di un investigatore o di un imputato, può anzi deve cercare di intervistare i protagonisti. Pensiamo al caso Cucchi. Chi, prima del secondo processo ha cercato la verità oltre le informative taroccate, ha fatto giornalismo o “accanimento mediatico”?

I media non devono essere un quarto grado di giudizio, ma devono restare almeno un quarto potere. Non la ruota di scorta del terzo. Un giornalista non deve mai delegare in bianco a pm e carabinieri l’accertamento della verità. Il giudice estensore della sentenza di appello sul caso Vannini che ha tolto 9 anni di pena ad Antonio Ciontoli, derubricando il reato in omicidio colposo, si chiama Giancarlo De Cataldo. Dopo avere scritto Romanzo Criminale ha fatto anche il giurato in un talent di Rai3 e nessuno meglio di lui può comprendere la differenza tra accertamento della colpevolezza e accertamento della verità su un fatto. Infatti all’inizio della sentenza, proprio De Cataldo mette le mani avanti chiarendo i limiti del suo potere: il giudice si può esprimere solo sui fatti che gli sottopone il pm. Se De Cataldo è stato costretto a giudicare i fatti entro questo limite, i giornalisti possono, anzi devono, cercare di uscire dal perimetro giudiziario per capire se i fatti, così ricostruiti, siano veri o falsi. Roberta Petrelluzzi può quindi restare tranquilla nel suo studio televisivo ad aspettare che la Cassazione le consegni la verità giudiziaria finale sul caso Vannini. I colleghi delle Iene e di Chi l’ha visto intanto faranno bene a cercare, fuori dagli studi televisivi e dai tribunali, la verità su quel che è successo quella notte a casa Ciontoli. Non si chiama accanimento mediatico, ma giornalismo investigativo.