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La polizia deve rispondere a noi cittadini, non ai partiti

A Torino, il 1º maggio, la stessa polizia del G8 di Genova e del caso Cucchi. Indegna di un Paese democratico, che non lascia spazio al dissenso. Quando si manifestano in maniera così aggressiva e palese le pulsioni antidemocratiche di funzionari dello Stato che tutti noi stipendiamo, c’è da dubitare del futuro della nostra Repubblica antifascista. Ancora una volta i caschi blu dei poliziotti ci hanno detto che non erano lì a difendere i diritti di ogni cittadino di manifestare le proprie idee, come da dettato costituzionale ma per farsi, ancora una volta e come sempre, paladini dei poteri forti. E ai difendere i fondoschiena del Pd con essi colluso. A Torino, in scena una pessima rappresentazione dello Stato, proiezione di chi indegnamente lo dovrebbe guidare dal ministero degli Interni.

Melquiades

 

DIRITTO DI REPLICA

In riferimento all’articolo Asti–Cuneo, il nuovo regalo dello Stato al Gruppo Gavio, si ribadisce come la soluzione individuata dal ministro Toninelli per realizzare subito i 10 Km mancanti della Asti-Cuneo sia significativamente migliorativa rispetto alla proposta del precedente governo, non comportando proroghe di concessioni e garantendo i lavori al minor costo possibile. Si prevede una riduzione degli interessi precedentemente ipotizzati per il “contenimento delle tariffe”, che si riflette in pedaggi ridotti per l’utenza. Venendo alle domande formulate nell’articolo: 1) Alla data odierna il concessionario ha conferito un apporto di capitale sociale per 50 milioni di euro. La copertura finanziaria degli investimenti eseguiti è stata assicurata attraverso indebitamento pari a circa 260 milioni di euro. Tale indebitamento non ha avuto sinora alcuna remunerazione. Ai fini economici l’esposizione debitoria risulta comunque più vantaggiosa dell’apporto di capitale proprio. 2) Gli utili stimati per il periodo di concessione sono commisurati al capitale investito e sono soggetti al rischio imprenditoriale. Sul concessionario ricadono i rischi di costruzione, traffico e operativi. 3) L’operazione di finanziamento incrociato è stata considerata anche dalla Commissione europea idonea per il completamento di un’opera quale l’Asti-Cuneo, che è priva di una propria autonomia economica. Nella misura in cui le condizioni economiche lo dovessero consentire e le tariffe dell’Asti-Cuneo siano mantenute su livelli sostenibili, si prevede una riduzione degli oneri da parte del soggetto finanziatore (Satap A4). 4) Il sistema regolatorio vigente non consente il trasferimento delle tariffe di Asti–Cuneo sull’intera rete nazionale. Altre ipotesi di perequazione della tariffa su differenti reti non sono percorribili giuridicamente. L’operazione di finanziamento incrociato, secondo quanto rappresentato dalla stessa decisione dell’Ue, trova ragione nel fatto che le due società risultano collegate. 5) Nell’ipotesi di apporto di capitale sociale da parte degli azionisti della Asti–Cuneo le tariffe della medesima tratta autostradale dovrebbero essere incrementate parallelamente per assicurare la remunerazione del capitale proprio. Tale situazione comporterebbe livelli tariffari non sostenibili per l’utenza. L’autofinanziamento assicurato dalla società consente unicamente il recupero dei costi operativi.

Ufficio stampa ministero dei Trasporti

 

Dispiace dover riscontrare che rimane senza risposta la mia domanda di fondo: perché il 65% di questa autostrada, e degli utili attesi per i prossimi decenni, dovrebbero andare a un concessionario che ha versato a oggi come capitale solo il 3% di quanto è già stato o verrà pagato dallo Stato e dai “pedaggiati” della Torino-Milano? Gli uffici del ministero sembrano trovare giustificazione nel fatto che società del gruppo Gavio hanno elargito alla Asti-Cuneo un finanziamento di 260 milioni “che non ha avuto sinora alcuna remunerazione”, ma evidentemente confondono cassa con competenza: gli interessi sono dovuti e verranno pagati. Se avessero versato il capitale sottoscritto non avrebbero maturato interessi. Che poi il concessionario, sul modestissimo capitale versato, “corra rischi di costruzione, traffico e operativi” sembra una favola: gli errori originari di previsione dei costi e del traffico vengono oggi compensati aumentando l’esborso di fondi pubblici (tali sono quelli pagati dai “pedaggiati”) per assicurare comunque una eccellente redditività sul capitale investito. Resta infine senza risposta perché il nostro Stato, visto che arriverà a coprire il 97% dei costi, non decida di versare una briciola in più e gestire questa autostrada “in house”, senza dover assicurare per decenni elevati profitti a un concessionario il cui apporto finanziario è pressoché irrilevante.

Giorgio Ragazzi

“Tutte le spese in detrazione e poi una flat tax al 50%, si può provare?”

Va bene alzare le pene per gli evasori, va bene abbassare le soglie di impunità, non va bene la flat tax come proposta da Salvini. Io proporrei un’aliquota unica per tutti al 50 per cento su quello che rimane mensilmente dopo aver detratto tutte le spese documentate, compreso il caffè preso al bar. Sarebbe l’unico modo per scovare gli evasori e il lavoro nero. Forse ci guadagnerebbero i commercialisti, ma questo sarebbe il male minore. Sarei contento se mi mostraste i pro e i contro di questo sistema di tassazione.

Gentile Aurelio, la sua proposta ritorna ciclicamente nel dibattito. Provo a darle qualche spunto di riflessione. In Italia il cosiddetto tax gap complessivo (calcolato come divario tra gettito teorico e gettito effettivo) è pari a circa 108,9 miliardi di euro, di cui 97,8 miliardi di mancate entrate tributarie e 11,1 miliardi di mancate entrate contributive. Di soldi da recuperare ce ne sono quindi parecchi. Anche se, per quanto sembri spiacevole ricordarlo, se da un giorno all’altro incassassimo tutte quelle tasse la pressione fiscale schizzerebbe e probabilmente ci sarebbero dei pesanti impatti negativi sul Pil (gli evasori non pagano tasse ma consumano e investono). Per questo è consigliabile procedere in modo graduale, abbinando interventi di lotta all’evasione a sgravi sui contribuenti onesti. L’idea che basti portare in detrazione tutte le spese per convincere gli italiani a pagare le tasse è tanto affascinante quanto difficile da tradurre in pratica. Perché ci sia un incentivo a detrarre la spesa, al contribuente deve convenire chiedere la detrazione allo Stato invece che uno sconto per il pagamento in nero al fornitore. È una gara al ribasso che lo Stato rischia di non vincere. Nel caso delle detrazioni per la ristrutturazione edilizia, per esempio, gli incentivi fiscali funzionano anche per l’emersione del nero perché sono abbinati a una griglia di controlli documentali incrociati che non permette di fare una parte soltanto dei lavori in nero. O tutto o niente. L’aliquota che lei propone, poi, è molto elevata: il suo schema finirebbe per essere conveniente diciamo per un avvocato o un commercialista, ma non per un dipendente a basso reddito che in detrazione può portare solo le spese della famiglia e non quelle professionali.

Le notizie prima o poi escono tutte

Singolare la scelta di Federico Fubini, vicedirettore ad personam del Corriere della Sera: scrive in un libro (Per amor proprio) e racconta a Tv2000 di aver lavorato a un articolo su come l’austerità di stampo europeo ha contribuito a far salire la mortalità infantile in Grecia. Ma poi ha deciso di non scriverlo, perché il dibattito è già troppo “avvelenato” e non voleva dare argomenti a un fronte anti-europeo che lui considera una minaccia per la democrazia. Fubini è riuscito così in un sol colpo a diventare virale nei tweet sovranisti e a far rimanere a bocca aperta gli altri europeisti: è la mossa più controproducente da quando Mattarella disse che Paolo Savona non poteva fare il ministro perché i mercati non gradivano. Un giornalista che censura le notizie che non gli piacciono è un cattivo giornalista. Ma uno che lo va anche a raccontare è dannoso pure per la causa che vorrebbe difendere. Soprattutto perché non ha controllato neppure gli archivi del Corriere prima di informarci sui suoi tormenti: il 15 settembre 2013 La Lettura, l’inserto del Corriere, ha pubblicato l’articolo “Ammalarsi di austerità, davvero” e il 7 marzo 2014, il magazine Sette del Corriere ha pubblicato l’articolo “Così l’austerità fa ammalare la Grecia”. Con i dati sulla mortalità infantile che Fubini voleva custodire nell’intimo della sua coscienza europeista.

Cari M5S, il treno da Catania a Palermo è peggio del Tav

Grandi novità per gli investimenti, che tutti chiedono a gran voce per rilanciare l’economia: non si valuta più niente, poco importa se servono o meno. Il Movimento 5 Stelle applaude non solo gli 8 miliardi per la nuova linea Palermo-Catania, ma già parla di una spesa complessiva per le ferrovie dalla Sicilia da 13 miliardi. Cioè circa 7.800 euro per famiglia siciliana. È il nuovo che avanza. Una rozza analisi costi-benefici indipendente per quella linea esisteva, ed era pubblicata dal- l’ingegner Francesco Ramella e da chi scrive, in un recente libro dal titolo Trasporti: conoscere per deliberare. I costi allora noti, probabilmente vecchi, erano di 4,5 miliardi, ma si sa che non bisogna badare a spese, soprattutto quando si tratta di soldi altrui. Anche considerando quei 4,5 miliardi i risultati di un’analisi costi-benefici erano catastrofici, a causa di una domanda insufficiente.

IL TRAFFICO. La linea Torino-Lione nota come Tav e oggetto di infinite polemiche, costa di più (11 miliardi), ma ha un traffico, pur del tutto insufficiente a giustificarla, molto maggiore di quello prevedibile sulla Palermo-Catania, che avrà solo traffico passeggeri, al contrario del Tav (che prevede treni passeggeri e merci per un totale di circa 80 treni al giorno).

La Palermo-Catania sarebbe una linea a doppio binario con una capacità minima di 220 treni al giorno. Tra le due città si può immaginare che al massimo si potrà avere un servizio di un treno ogni mezzora per le quattro ore del giorno più appetibili per spostarsi, e uno ogni ora per le altre 8 ore, su 12 ore totali di esercizio (se non si vuole vedere i vagoni completamente vuoti). Con questa generosa stima, si arriva a 16 treni al giorno per senso di marcia, 32 in tutto. L’utilizzazione della linea sarebbe meno del 15 per cento della capacità. Sarebbe quindi una linea deserta. E con un’utenza destinata a diminuire nel tempo: la popolazione italiana è in lieve calo demografico, ma quella siciliana lo è più della media.

L’ASPETTO SOCIALE. Si potrebbe obiettare (come sempre si fa nei casi di servizi deserti) che vi sono gli aspetti sociali. Ma quanti saranno i poveri che andranno spesso tra Palermo e Messina? Molto pochi, sicuramente non operai e contadini. L’utenza sarà composta per lo più da impiegati e studenti, e da molti professionisti e funzionari. Molti che oggi vanno in macchina certo sceglieranno il treno.

Ma perché mai sussidiare categorie di reddito medio-alto con un fiume di soldi pubblici? Per fargli risparmiare un po’ di tempo a spese di tutti i contribuenti?

L’AMBIENTE. Non ci si può dimenticare dell’ambiente, altro storico appiglio per grandi opere inutili. Peccato che con un traffico di queste dimensioni spostato della strada alla ferrovia, per recuperare i costi ambientali di anni di cantiere, a occhio ci vorrebbe un secolo. Soprattutto se consideriamo che i veicoli stradali inquineranno sempre di meno, stando alle previsioni più recenti per il settore.

Proviamo ora un altro conto che si può fare sul retro della busta, tanto i numeri in gioco sono clamorosi.

IL CAPITALE. Oggi si prevede un costo di 8 miliardi (poi, si sa, alla fine le opere tendono a costare un po’ di più, ma prendiamolo per buono). Stimiamo un costo del capitale basso, cioè di tipo pubblico, usando un parametro europeo: il 3% annuo (un privato per meno del 6% neanche si muove).

Vediamo i passeggeri trasportati all’anno: 32 treni al giorno con 250 passeggeri in media per treno, fanno 8.000 passeggeri al giorno, in un anno sono circa 3 milioni di passeggeri. Il 3% del costo annuo del solo capitale fanno circa 240 milioni all’anno, cioè circa 80 euro per ogni passeggero trasportato. Conviene regalare una macchina elettrica a ciascuno, o forse anche fare un servizio di elicotteri da centro a centro delle due città. O, meglio ancora, introdurre un servizio di autobus ecologici gratuiti per tutti, molto frequente, e che occuperebbe molta più gente.

L’IMPATTO. Vogliamo dimenticare gli impatti macroeconomici? Per le imprese, sono praticamente nulli (non sono prevedibili traffici merci di qualche consistenza spostabili su treno). Gli impatti occupazionali diretti nelle opere di questo tipo, per euro speso, sono oggi modestissimi e comunque temporanei. Quelli indiretti sicuramente inferiori a quelli ottenibili in settori più labour-intensive (se non forse per alcune organizzazioni molto particolari che sembrano presidiare con attenzione il settore delle opere pubbliche, e non solo in Sicilia).

Qualcuno pensa davvero di far sviluppare il Mezzogiorno con ferrovie costosissime e deserte? Certo, i conti qui presentati sono un po’ rozzi. Visti gli importi in gioco, occorrerebbe una seria analisi costi-benefici. Ma, Dio non voglia, forse l’obiettivo di questo progetto non è lo sviluppo della Sicilia, ma la raccolta di voti.

Non c’è che sperare di essere smentiti e che il ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli, si attenga alle sue intenzioni iniziali, valutando tutto in modo trasparente e aprendo su tali valutazioni il dibattito politico, ben prima di decidere.

Alitalia, il governo invoca i Benetton (che ci pensano)

Ormai la il negoziato è trasparente, la possibilità di uno scambio esplicita: i Benetton di Atlantia-Autostrade devono salvare Alitalia? E se sì, in cambio di cosa? Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti (Lega), ha detto quello che da settimane circolava soltanto come retroscena: “Atlantia in quanto concessionario autostradale secondo me non dovrebbe entrare in Alitalia, ma Atlantia come proprietaria di Aeroporti di Roma ha un interesse concreto di tipo industriale”. Atlantia controlla sia Autostrade per l’Italia, che il governo Conte ha considerato responsabile della tragedia del ponte Morandi a Genova, sia Aeroporti di Roma (Fiumicino e Ciampino). I due scali della Capitale avrebbero un pesante contraccolpo se il governo non riuscisse a salvare l’Alitalia commissariata a cui manca ancora un partner almeno finanziario che affianchi Ferrovie dello Stato, Delta e ministero del Tesoro per tentare l’ennesimo rilancio ed evitare il fallimento. La scadenza per definire un nuovo azionariato era il 30 aprile, ed è passata senza svolte se non che il governo ha stabilito che il prestito ponte da 900 milioni di euro ricevuto dall’Alitalia commissariata non sarà mai restituito allo Stato.

Ieri ha parlato Giovanni Castellucci, oggi ad di Atlantia, la holding che controlla Autostrade (società che era guidata da Castellucci fino a pochi mesi fa): “Seguiamo da vicino le vicende di Alitalia e ci auguriamo possa trovare un suo assetto definitivo. Ma abbiamo talmente tanti fronti aperti in questo momento, che non possiamo pensare di impegnarci su un fronte come Alitalia, estremamente complesso”. Il messaggio al governo non è certo difficile da cogliere: Atlantia si impegnerebbe volentieri a salvare Alitalia se si chiudesse qualche altro fronte. Per esempio quella della minacciata (e non ancora attuata) revoca della concessione ad Autostrade, o magari quello del contenzioso legale sui costi della ricostruzione del ponte Morandi, con Autostrade che deve pagare 439 milioni, ma non può partecipare ai lavori. Castellucci ha fatto la sua mossa, ora tocca al governo.

Reddito, il racconto di Conte: “C’è chi si è comprato gli occhiali”

“Il redditodi cittadinanza è stata una riforma che ha suscitato diffidenze e reazioni ostili, qui da noi in Italia e anche all’estero. Abbiamo dovuto intestardirci e mostrare la massima risolutezza per realizzarla. L’abbiamo infine realizzata e adesso sta dando i primi frutti. Sono davvero orgoglioso di questo risultato. Questa è la Politica, quella con la P maiuscola, che si mostra attenta ai bisogni dei cittadini, soprattutto quelli più vulnerabili, e procede determinata in direzione dell’equità e della giustizia sociale, andando contro tutti coloro che invece difendono l’esistente”: così ieri su Facebook il premier Giuseppe Conte che ha arricchito la sua dichiarazione d’orgoglio con un aneddoto di vita reale.
“Un vecchio amico che ha un negozio di ottica mi ha inviato un messaggio informandomi di avere venduto un paio di occhiali da vista a un signore che ha utilizzato la carta del reddito di cittadinanza – ha scritto ancora il presidente del Consiglio -. Mi ha scritto che il cliente aveva problemi di vista, ma non poteva permettersi un paio d’occhiali”.

Scuola, torna l’educazione civica. Ma via le note

I bambini delle scuole elementari non dovranno più temere le sanzioni disciplinari, ovvero le note sul registro e le espulsioni: un emendamento al provvedimento che reintroduce l’insegnamento dell’Educazione civica nelle scuole, approvato ieri dalla Camera, abroga gli articoli di un Regio Decreto del 26 aprile 1928 che prevedeva queste punizioni.

“Verso gli alunni che manchino ai loro doveri – recitava l’articolo 414 del Regio decreto – si possono usare, secondo la gravità delle mancanze, i seguenti mezzi disciplinari: ammonizione; censura notata sul registro con comunicazione scritta ai genitori, che la debbono restituire vistata, sospensione dalla scuola, da uno a dieci giorni di lezione; esclusione dagli scrutini o dagli esami della prima sessione; espulsione dalla scuola con la perdita dell’anno scolastico”. La legge approvata ieri, che ora dovrà passare all’esame del Senato per l’approvazione definitiva estende alla scuola elementare il Patto educativo di corresponsabilità sulle sanzioni, oggi previsto per le scuole medie e per le superiori. Dividendo i commentatori tra chi è d’accordo (soprattutto i presidi) e chi invece, soprattutto tra i docenti, ritiene si stiano depotenziando gli strumenti educativi. Il ministero dell’Istruzione ha precisato infatti che “le sanzioni restano, ma all’interno di un quadro normativo attualizzato”.

Il patto di cui si parla è praticamente un accordo che sottoscrivono i genitori a inizio anno impegnandosi con i docenti a fare determinate cose, dall’assicurare loro gli strumenti essenziali alla partecipazione scolastica del bambino fino all’assistenza a casa per assicurarsi che i compiti siano fatti. Tutto ciò che quindi riguarda la corresponsabilità nell’istruzione degli studenti tenendo comunque conto del regolamento d’istituto. E ora, questo patto, potrebbe riguardare anche le sanzioni. Quelle previste nell’articolo abolito, a ogni modo, erano utilizzate molto raramente nella scuola primaria.

Sempre ieri, la Camera ha approvato anche il provvedimento che reintroduce in tutte le scuole l’educazione civica, finora accorpata ad esempio al programma di storia alle scuole medie e alle elementari. Saranno previste almeno 33 ore di studio della nuova materia con tanto di voto in pagella. Alle elementari e alle medie sarà affidata all’insegnante di storia e geografia mentre alle superiori a docenti di diritto (area economico-giuridica) Un ordine del giorno, poi, prevede anche l’introduzione dell’insegnamento dell’educazione emotiva, inizialmente in via sperimentale. “La legalità, il rispetto, le regole della convivenza si imparano a partire dai banchi di scuola”, ha detto il ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti. Ma il presidente della Commissione Cultura e Istruzione della Camera, Luigi Gallo, spiega che si tratta “solo di un primo passo” perché il M5S voleva un’ora specifica per questo insegnamento che al momento verrà trattato all’interno dell’orario scolastico esistente.

Banche venete, una odissea giudiziaria che durerà anni

Le vertenze sui crac bancari del 2015-17 tengono banco nelle aule di giustizia ma l’infinito avvitamento di procedure, termini, competenze dimostra quanto sia ancora lunga e ardua la via per ottenere giustizia, in assenza di una procura nazionale per i reati finanziari con competenze specifiche e professionisti specializzati. Un’odissea che potrebbe concludersi con la beffa della prescrizione per i collassi datati 25 giugno 2017 della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, che ha distrutto 11 miliardi di risparmi di 210mila azionisti e migliaia di bondisti subordinati.

Nei giorni scorsi, i pubblici ministeri Gianni Pipeschi e Luigi Salvadori della procura berica hanno chiesto l’archiviazione per 17 ex consiglieri, tre ex sindaci e per l’ex direttore generale di BpVi, indagati per ostacolo alla vigilanza, aggiotaggio e falso in prospetto. I magistrati non sono riusciti a raccogliere prove sufficienti. Il 24 gennaio a Mestre si è tenuta la prima udienza del processo all’ex presidente Gianni Zonin, l’ex consigliere Giuseppe Zigliotto, insieme all’ex responsabile finanza Andrea Piazzetta e all’ex dirigente contabile Massimiliano Pellegrini, oltre ai vicedirettori Emanuele Giustini e Paolo Marin (e allo stesso istituto di credito, in qualità di responsabile civile) per aggiotaggio, ostacolo alle autorità di vigilanza e falso in prospetto.

Un procedimento monstre, con oltre 9mila parti civili e più di 200 avvocati, che il presidente del collegio giudicante Lorenzo Miazzi conta di chiudere “al massimo” in due anni. Per l’ex dg Samuele Sorato il 30 aprile si è svolta la nuova udienza preliminare e un’altra è in calendario per il 13 giugno. Il 10 gennaio il Tribunale di Vicenza ha dichiarato stato di insolvenza di BpVi: può essere ora contestata la bancarotta fraudolenta, un reato con termini di prescrizione più lunghi, ma i legali di Zonin hanno già preannunciato ricorso in appello. Intanto il 19 dicembre al tribunale delle imprese di Venezia è iniziata la causa civile per l’azione di responsabilità per circa due miliardi intentata contro Zonin, i consiglieri, i sindaci, l’ex direttore generale e i vice dg.

In parallelo si svolgono le vicende penali di Veneto Banca. Il 9 aprile gli indagati per ostacolo alla vigilanza nel crac dell’ex Popolare di Montebelluna sono calati da undici a quattro. La Procura di Treviso si accinge a chiedere il rinvio a giudizio per l’ex amministratore delegato Vincenzo Consoli, l’ex vicepresidente Flavio Trinca, l’ex condirettore generale Mosè Faggiani e l’ex responsabile dell’amministrazione centrale, Stefano Bertolo. Per l’ex ad Consoli la richiesta di rinvio a giudizio è anche per falso in prospetto. Il 27 giugno 2017 la procura di Roma aveva chiesto il rinvio a giudizio di Consoli, Trinca e altri nove ex amministratori e manager per le irregolarità nella gestione dal 2012 al 2014 con l’accusa di ostacolo alle autorità di vigilanza. All’ex amministratore delegato veniva addebitato in concorso con Trinca e con i sindaci Diego Xausa e Michele Stiz anche l’aggiotaggio, ma la posizione di questi ultimi due va verso l’archiviazione. A Treviso Consoli era indagato anche per estorsione e truffa nella vicenda dell’acquisto di Banca Intermobiliare del 2008. Ma il 27 marzo 2018 – a quattro mesi dall’inizio del processo – Roma aveva riconosciuto la propria incompetenza territoriale trasmettendo il procedimento a Treviso.

Il 27 giugno 2018 poi il Tribunale di Treviso aveva dichiarato lo stato di insolvenza di Veneto Banca e la Procura aveva avviato un’indagine per bancarotta per distrazione. Intanto lo scorso 8 febbraio la Procura di Verbania ha chiesto 41 rinvii a giudizio tra ex vertici e ex dipendenti con l’accusa di truffa aggravata per il “misselling” nei collocamenti delle azioni dal 2012 al 2016. L’udienza preliminare è fissata il 15 maggio. Il 3 ottobre al tribunale delle imprese di Venezia ha poi preso il via l’azione di responsabilità da 2,3 miliardi contro gli ex vertici di Veneto Banca che, secondo alcuni osservatori, potrebbe durare anni.

Stand di “Altaforte” al Salone del Libro, la casa editrice di CpI

Al Salone del Libro di Torino ci sarà anche Altaforte, la casa editrice vicina a CasaPound che dà alle stampe un libro-intervista a Matteo Salvini, e il direttore editoriale della rassegna, Nicola Lagioia, ne prende le distanze. Mercoledì Nicola Perugini, antropologo e ricercatore universitario, lancia l’allarme sul sito lavoroculturale.org: “Come mai il Salone del libro di Torino si presta a fare da piattaforma a una casa editrice neofascista?”. “La presentazione di quel libro non è nel programma ufficiale del Salone”, replica Lagioia. Non basta: su Twitter molti chiedono conto di questa presenza. “Non concediamo un solo centimetro quadrato a questa gente – gli scrive Wu Ming –. Hai un’occasione d’oro e sei nella posizione giusta al momento giusto per affermare un principio con la massima forza”. Lagioia precisa che lui e il comitato editoriale ritengono che “all’apologia del fascismo, all’odio etnico e razziale non debba essere dato spazio nel programma editoriale”, ma che la decisione sugli stand spetta alla direzione commerciale del Salone, invitata a dare una risposta.

Auschwitz e la banalità di Instagram

Leggiamo sui siti di autorevoli testate (Corriere) che è appena partito un “progetto innovativo” consistente nel “raccontare lo sterminio nazista su Instagram trasformando in post e filmati il contenuto dei diari di una 13enne morta ad Auschwitz”; cosa che ha avuto pure “il plauso del premier israeliano” Benjamin Netanyahu, che è come dire il sigillo papale. Ce ne sarebbe abbastanza per metterci in guardia: un miliardario ha un’idea per migliorare il mondo; i media globali chiamano questa idea “progetto” (le cose si fanno o non si fanno; quando sono progetti, a meno che non si tratti di ospedali in costruzione, di solito sono fregature politiche o start-up schiavistiche o installazioni di arte contemporanea o tutt’e tre le cose insieme). Il miliardario distribuisce l’idea a costo zero su una piattaforma di proprietà di altri miliardari; i sacerdoti del politicamente corretto plaudono alla trovata spremendosi dagli occhi la lacrimuccia anti-antisemita tenuta in serbo per casi simili.

Sul profilo Instagram di Eva.stories ecco l’idea del miliardario, che si chiama Mati Kochavi, è israeliano, vive negli Stati Uniti ed è Ceo di numerose società di cybersicurezza con sede in Svizzera per pagare meno tasse. “Cosa sarebbe successo se una ragazza durante l’Olocausto avesse avuto Instagram?”, dice la schermata iniziale del video che lancia la serie basata sui diari di Eva Heyman, 13enne ungherese morta a Auschwitz nel ‘44. Una vocina fatata dice: “Ciao, sono Eva, benvenuti nella mia pagina. Seguitemi”. È il primo passo con cui una vittima del nazismo viene resa simpatica (si chiama nice touch in pubblicità), attualizzata, formattata secondo i codici delle sue coetanee di oggi con molti follower. Quindi una Eva nativa digitale acconciata e vestita secondo lo stile degli anni ’40 si fa selfie mentre sorride, balla, spegne candeline, scherza col nonno; poi piange, viene insultata per strada in quanto ebrea, si selfa mentre passano i soldati tedeschi, subisce la retata delle SS, viene deportata.

Tutto ciò che il “progetto” richiede è la sospensione dell’incredulità: ci fossero stati Internet e i telefonini sotto il nazismo, Anna Frank avrebbe scritto tweet dalla mansarda, e di Eva avremmo storie di Instagram. Che male c’è a piegare la Storia a questa fantasiosa torsione?

Direbbe Sciascia: è il contesto a fare le cose. L’Instagram di Eva vende (anche se sembra gratis) la tragedia di una deportata a Auschwitz mettendola in scena nella forma accattivante del prodotto digitale. Non ci chiede nulla, se non un like: il massimo della deresponsabilizzazione ci viene donata insieme all’infrazione del tabù dentro un’estetica da serie Tv.

È ovvio che per giustificare l’alta futilità didattica dell’operazione si ricorra a ogni trucco e funambolismo verbale, si chiami in causa il valore della memoria e la necessità di insegnare la Storia ai giovani con gli occhi sempre fissi sugli smartphone, dunque impossibilitati (da chi?) ad accedere alle fonti ufficiali sull’Olocausto. I quali giovani, si sa, dedicheranno alla storia di Eva la frazione di secondo e di mente consentita dalla modalità compulsiva con cui tutti scorriamo lo schermo per visualizzare i profili di influencer, calciatori, spettri vari delle mille incarnazioni di Sua Santità la Merce.

Il capitalismo funziona così: desacralizza ciò che è sacro. La pseudo-partecipazione emotiva richiesta dal progetto Eva si basa sull’assunto che la scelta sia tra negare l’Olocausto, come ancor’oggi fanno criminali e/o esponenti politici, e seguire acriticamente, o peggio col sadico piacere dello spettatore che assiste al naufragio, la serie di Auschwitz su Instagram; come se non esistessero più, o non avessero più alcuna efficacia persuasiva, la scuola, i libri degli storici, le testimonianze dei sopravvissuti, le fotografie e i filmati veri del momento in cui l’umanità ha distrutto sé stessa. Forse è così, e se è così il miliardario ci presenta non la tragedia di ieri, ma quella di oggi.