Viterbo, ora rischia anche chi ha avuto i video dello stupro

C’è un nuovo aspetto dell’indagine sulla violenza sessuale di gruppo ai danni di una 36enne di Viterbo a opera di due militanti di CasaPound che gli investigatori stanno approfondendo: riguarda le persone che hanno ricevuto sui propri telefoni i tre video e le quattro foto della notte all’Old Manners e che rischiano ora di finire nel registro degli indagati. Francesco Chiricozzi e Riccardo Licci (arrestati lunedì con l’accusa di violenza sessuale), infatti, non solo hanno documentato i loro rapporti sessuali con la donna (fotografata anche esanime a terra “in posizione fetale”), ma i video e le foto li hanno pure condivisi in due gruppi WhatsApp (“Gruppo Bazzi” e “Gruppo blocco studentesco”) e perfino con il padre di Licci, anch’egli militante di CasaPound, già candidato consigliere comunale a Viterbo.

È quanto emerge dall’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Viterbo Rita Cialoni, secondo la quale “le aberranti immagini della violenza sessuale di gruppo” erano state condivise con “soggetti terzi” allo scopo di “schernire” la donna, esibendo come fosse un “trofeo tale scempio”. Secondo quanto rileva l’ordinanza, i membri della chat ci si era solo preoccupati di “sollecitare l’immediata eliminazione delle immagini ritraenti la brutale violenza” (“Fai il reset del telefono”, “Regà, cancellate le chat”, “Riccà leva tutti i video e tutte le foto di ieri sera, ci sono le guardie al pub”), mentre il padre di Licci – in un sms privato – avrebbe esortato il figlio a disfarsi del telefono: “Riccardo, butta il cellulare subito”.

Ma se Licci sr, in quanto familiare dell’indagato, non rischierebbe nulla sul piano penale, per quanto riguarda i membri delle chat potrebbe scattare nei loro confronti l’iscrizione nel registro degli indagati per favoreggiamento, anche in relazione alle nuove norme da poco approvate sul revenge porn nel caso in cui qualcuno avesse a sua volta condiviso i video o le foto.

Quel che è certo è che mentre Chiricozzi aveva provveduto a cancellare dal suo telefono video, foto e chat, Licci, sul proprio Samsung, aveva conservato in una cartella chiamata “privato” il materiale “di estremo interesse investigativo” alla base del “gravissimo quadro indiziario” (“la vittima, con voce sfinita, ormai priva di una valida capacità reattiva, esortava i due a porre fine alle violenze”, scrive il gip) relativo all’accusa di violenza sessuale di gruppo contestata ai due militanti di CasaPound.

La vittima intanto, tramite il suo legale, fa sapere di “avere ancora paura di loro”. “La mia assistita – dichiara l’avvocato Franco Taorchini – teme di essere minacciata per rimangiarsi quanto raccontato. È ancora molto provata psicologicamente, è una situazione difficile da affrontare”. Per questo motivo la Procura di Viterbo sarebbe orientata ad ascoltarla in sede di incidente probatorio, un’udienza che consentirebbe di far entrare il racconto della vittima nel processo come prova acquisita.

Domani a Viterbo, intanto, la Rete degli studenti ha organizzato una manifestazione “contro ogni forma di violenza e di genere” cui parteciperà forse il Comune di Viterbo (“sole se apartitica”, puntualizza il sindaco Giovanni Arena) e sicuramente il Comune di Vallerano, a cui peraltro non sono ancora state formalizzate le dimissioni da consigliere comunale. Allo stato risulta solo l’espulsione da CasaPound in quanto autore di “un atto infame. CasaPound non si è mai macchiata di reati relativi a violenze sessuali che abbiamo sempre condannato e mai avallato”.

Parola di Gianluca Iannone, presidente di CasaPound nonché fondatore e leader degli Zetazeroalfa, band che il 22 giugno sarà in concerto con gli Hate For Breakfast del leader viterbese Alessadro Mereu.

Chissà se quella sera sarà in scaletta Donna cesso, il brano degli Hate For Breakfast il cui ritornello recita “Donna cesso, feticcio sessuale. Prendi più cazzi, compra meno cazzate”.

Cooperante italiano morto a Capo Verde, giallo sulle cause

Tutti gli scenari restano aperti nel giallo sulla morte di David Sollazzo, cooperante italiano di 31 anni trovato senza vita nella sua casa sull’isola di Fogo a Capo Verde. “Al momento non c’è una pista privilegiata – spiega il legale della famiglia, avvocato Giovanni Conticelli –, attendiamo di capire quello che emergerà dall’autopsia”. Sollazzo, una laurea in Scienze agrarie tropicali, aveva già fatto precedenti esperienze in Angola. Si trovava sull’isola di Fogo per conto della ong Cospe, per realizzare un progetto di turismo sostenibile. Sarebbe dovuto tornare a Firenze ma aveva deciso di rimandare di alcuni giorni il rientro. Il presidente di Cospe Giorgio Menchini ha spiegato che in base alle notizie in possesso della ong fiorentina, è stato trovato morto in casa, sembra in bagno, ferito e circondato da una pozza di sangue. Sul pavimento dei frammenti di vetro, quello di una finestra dell’abitazione, trovata sfondata. La sera prima aveva partecipato a una festa organizzata dalla comunità locale, da cui si era poi allontanato insieme all’altra cooperante del Cospe. Tra le ipotesi al vaglio, certamente anche quella di una rapina finita male, sebbene l’isoletta di Fogo non sia certo nota per un alto tasso di criminalità.

Il solito copione di violenze e litigi. Ma questa volta è rissa anche con i dem

Un rito che si ripete ogni anno, ogni Primo Maggio. A Torino, l’ex città operaia, il corteo della festa dei lavoratori prevede da anni gli scontri tra la polizia e una parte dei manifestanti, quelli del cosiddetto spezzone “sociale”, animato dai militanti dei centri sociali (“Askatasuna” in testa). Quest’anno c’erano anche i No Tav e molti eletti del Movimento 5 Stelle, tra i quali alcuni hanno rimediato dei colpi. E anche quest’anno, a manifestazione conclusa, dopo aver arrotolato le bandiere e gli striscioni, sono ricominciati gli attacchi incrociati tra Pd e M5S, tra movimenti e polizia.

Sin dall’inizio della giornata in piazza Vittorio Veneto l’atmosfera è tesa. Lo spezzone con gli iscritti al Pd, protetto dai volontari del servizio d’ordine, si trova a contatto con quello dei movimenti, che comincia a spingere nonostante la presenza della polizia, poi costretta a una prima carica. Poco dopo i due spezzoni si riavvicinano e dal gruppone dei dem un uomo, cinghia in mano, tira un colpo verso gli avversari, che spintonano e usano i bastoni delle bandiere. I No Tav accusano il Pd di averli provocati e viceversa. In via Roma, verso la conclusione, la polizia carica lo spezzone sociale. Un avvocato, Gianluca Vitale, che tentava di proteggere un manifestante ottantenne caduto a terra, rimedia una manganellata e così anche Damiano Carretto, consigliere comunale del M5s. Il movimento viene accusato dai rivali di essere un fiancheggiatore dei violenti. “La polizia gli ha fatto assaggiare i manganelli… finalmente”, twittava in serata Joseph Gianferrini, il vicepresidente del Pd torinese, obbligando i segretari del partito del Piemonte e di Torino, Paolo Furia e Mimmo Carretta, a precisare: “Il partito non gioisce per manganellate, repressioni o altre forme di violenza”. Alcuni deputati dem chiedono che il ministro dell’Interno riferisca in parlamento “sulle aggressioni dei No Tav nei confronti dei militanti Pd” e sottolineano che “alla testa di tale corteo erano presenti numerosi consiglieri comunali del M5S che in molteplici occasioni hanno colpevolmente difeso e giustificato gli atti di violenza degli oppositori della Torino-Lione”. La sindaca Chiara Appendino difende i suoi, che cercavano di mediare: “Il comportamento degli esponenti della maggioranza all’interno del corteo è stato, come in altre occasioni, pacifico e civile – dichiara –. Chiunque dica il contrario può fare nomi e cognomi nelle sedi opportune. In caso contrario sta sfruttando la menzogna ai fini di mera propaganda politica”.

“Scontri del 1°Maggio. Il Pd vuole la polizia per dividere i NoTav”

“Guardando il corteo si vedeva l’Italia di oggi. E davvero credo che la sinistra tradizionale non abbia un gran futuro se ha bisogno di un cordone di polizia per farsi separare dai movimenti e dai territori dove invece dovrebbe affondare le proprie radici”.

Marco Revelli, lei è storico, sociologo, ma anche protagonista delle battaglie contro il Tav. Come vede gli scontri del Primo Maggio a Torino?

Io c’ero. Prima della partenza hanno costruito un tappo di polizia che sembrava volesse tener fermo metà corteo, quello con i movimenti. Hanno bloccato la gente con le bandiere No Tav come se volessero sterilizzare il corteo dai suoi simboli.

Del corteo per il Primo Maggio a Torino restano soprattutto le botte. Adesso c’è chi punta il dito contro la polizia e magari il Pd. E chi invece se la prende con i No Tav che, si dice, avrebbero provocato gli incidenti.

Ripeto, ho visto. Sono un testimone. Sentivo gli altoparlanti dei movimenti urlare “non reagite”. E credo non serva molta malizia per pensare che anche nel Pd qualcuno volesse creare tensione. Alla fine, dopo un percorso tranquillo, la polizia ha caricato a freddo per ritardare l’ingresso in piazza San Carlo di metà corteo, come se il Primo Maggio fosse proprietà di qualcuno. Ho letto sui giornali una frase che mi ha colpito: ‘I No Tav vogliono prendersi il Primo Maggio’. Come se questa festa fosse di qualcuno.

Alla fine, c’è chi obietta, del corteo restano solo le cariche della polizia…

In passato, come quando c’è stata la guerra in Serbia, avevo visto ben di peggio. Volavano i tavoli dei bar.

Non crede che gli incidenti possano giocare contro la battaglia No Tav?

Dai movimenti non ho visto né violenza né provocazioni. Sono arrivati slogan anche duri per esempio verso il Pd. Ma questa non è violenza, è polemica politica. È vita.

Due cortei anche per il Primo Maggio…

Io ho visto un solo corteo con due segmenti totalmente diversi.

Che cosa, secondo lei, li divideva?

Il primo confine era quello tra passato e futuro. Ma c’era anche quello tra le istituzioni – e ci metto dentro anche le rappresentanze sindacali – e i movimenti. Compresa quella parte dei Cinque Stelle che si sente ancora movimento.

Parliamo della prima parte del corteo. C’erano il Pd e i sindacati. È tutto ‘passato’?

Il Pd torinese è particolarmente contaminato dal Tav che gli ha mangiato l’anima e ha compattato un establishment di destra e di sinistra che non riesce a trovare nel territorio la capacità di risollervarsi. Che non ha trovato un’alternativa vera al modello fordista, ma solo olimpiadi e grandi opere. Il Tav non è solo treno e rotaie, è un paradigma dove si immagina un mondo invivibile con una crescita esponenziale di merci e trasporti a beneficio dei soliti imprenditori e delle banche.

Ma nella prima parte del corteo c’erano anche i sindacati, come la Cgil di Maurizio Landini. Anche questo è passato?

Nella prima parte del corteo non ho visto migranti, giovani, precari. Non ho sentito slogan nuovi, non hanno mai pronunciato parole come ‘sfruttamento’. Ho molta stima di Landini, ma temo che l’inerzia dell’apparato sia troppo forte. C’è un corpaccione di funzionari che fa da zavorra e temo che per essere segretario generale ti tocchi annacquare troppo il tuo messaggio.

E il M5S che nel corteo era insieme con i centri sociali?

In Piemonte se non tengono il punto sul Tav possono chiudere baracca e burattini. Ma finora mi pare che a Roma si sia solo preso tempo per permettere a chi è favorevole e a chi è contrario di dire che hanno vinto.

Lei dice che nel corteo torinese del Primo Maggio si potevano vedere l’Italia e la sinistra di oggi…

Quel tappo della polizia è un pessimo segno di caduta per la sinistra tradizionale. Dobbiamo attrezzarci per un periodo duro. Dopo quello che ho visto a Torino sono molto pessimista. Alla fine ‘l’utilizzatore finale’ di tutto questo è soltanto Matteo Salvini.

Il confronto tra i 4 big Ue che rischiano di sparire dopo il voto

In maniera stanca, come in una recita scontata, e senza grandi picchi, è ufficialmente partita la lunga e incerta volata per decidere chi sarà il nuovo presidente della Commissione europea. Gli Spitzenkandidaten (i “candidati-guida” secondo il teutonico lessico burocratico di Bruxelles) dei 4 partiti tradizionali (i popolari, i socialisti, i liberali e i verdi) si sono incontrati e scontrati in un dibattito a Fiesole spiegando la loro visione dell’Europa in vista della nomina del successore di Jean Claude Juncker prevista per l’autunno, se la Brexit non guasterà di nuovo i piani dell’Ue.

Ma quella svoltasi sulle colline intorno a Firenze rischia di essere una falsa partenza, non tanto per i contenuti illustrati da Manfred Weber, Frans Timmermans, Guy Verhofstadt e Ska Keller. Nessuno di loro ha brillato in modo netto sugli altri, ma non è questo il punto. La realtà è che le liturgie comunitarie rischiano di non funzionare più non essendo in grado di prevedere i nuovi parametri e le nuove condizioni che le prossime elezioni per il Parlamento europeo potrebbero mettere sul terreno di gioco, tanto che l’elezione popolare degli Spitzenkandidaten di oggi potrebbe poi non esser ratificata dal Consiglio europeo.

Lo strano caso del doppio programma del M5S

Il Movimento 5 Stelle presenta il suo programma per le elezioni europee, in un evento con Luigi Di Maio, ma i punti che sul Blog delle Stelle sono 24 diventano soltanto 10. La selezione è indice soprattutto dell’approccio alla campagna elettorale del M5S: sembra un programma da elezioni nazionali, con titoli tipo “misure di sostegno economico alle famiglie e al ceto medio” o “investimenti per la crescita e la piena occupazione”. Non mancano spunti più coerenti con il carattere del voto di maggio – la scelta dei membri del Parlamento europeo – tipo “redistribuzione obbligatoria dei migranti e l’immancabile “taglio stipendi e privilegi dei commissari e dei parlamentari europei”, ma anche un salario minimo europeo di cui si discute da tempo, senza successo.

Colpiscono però le omissioni. Per esempio, rispetto alla versione estesa del Blog, Di Maio non mette nei dieci punti annunciati alla stampa ieri la proposta di cambiare il mandato della Bce, in maniera da inserire “la crescita economica e la piena occupazione tra i suoi obiettivi”, invece che soltanto la stabilità dei prezzi e la difesa della moneta unica. È il genere di annuncio che può un po’ innervosire i mercati che non apprezzano mai quando la politica vuole condizionare l’autonomia della Banca centrale. Soprattutto perché gran parte del programma del M5S si traduce in una sintesi univoca: ottenere dall’Unione europea il permesso di fare più deficit di bilancio per finanziare spese e investimenti che dovrebbero generare crescita (o almeno consenso elettorale in patria).

Sparisce dalla sintesi di ieri anche una proposta ardita ma degna di dibattito: introdurre la possibilità di un “referendum europeo” perché soltanto dalla democrazia diretta, pensano i Cinque Stelle, “può arrivare la spinta al cambiamento che serve per rendere l’Europa più democratica, giusta e rispettosa dei cittadini”. Idea forse populista, ma anche anti-sovranista perché il processo decisionale europeo, in questi anni, si è spesso impantanato sul potere di veto di minoranze nazionali che bocciavano decisioni che forse sarebbero state approvate dalla maggioranza dei cittadini: dai trattati commerciali fermati dai valloni in Belgio agli accordi con l’Ucraina ostacolati in Olanda.

Alcuni punti del programma europeo esteso del M5S rientrano nella loro tradizione tipo “l’introduzione di una definizione comune di reato di criminalità organizzata” o una versione continentale della legge Spazza-corrotti, in modo che “se un cittadino è condannato per reati gravi in un Paese membro non deve fare affari in un altro Paese vicino”. Ma quasi tutte le altre proposte che riguardano la governance dell’Unione e dell’eurozona hanno il vizio di fondo di riguardare più le decisioni del Consiglio europeo, cioè dei governi nazionali, che quelle del Parlamento europeo. La redistribuzione obbligatoria dei migranti, per esempio, è stata chiesta per mesi dal governo Conte e da quelli precedenti. Ci sono delle regole precise fissate dalla Commissione, ma tutti i Paesi dell’Est guidati dalla Polonia e dall’Ungheria le violano.

Quanto a proposte come quella di tenere fuori dai vincoli di bilancio Ue gli investimenti pubblici (in un senso molto lato che include anche le spese per l’istruzione), sono così incompatibili con le posizioni di tutti i partiti di Germania, Olanda e altri Paesi del Nord che è assolutamente impossibile verranno mai prese in considerazione.

I due fronti del Partito Preso tra osanna e disastri continui

Il partito del partito preso, pro governo, annuncia trionfalmente che siamo fuori dalla recessione, grazie a quelli “descritti per mesi come pressappochisti e ciarlatani” (Gianluigi Paragone, senatore 5Stelle). Il partito del partito preso contro il governo ironizza sul governo Conte “che festeggia l’uscita dalla recessione tecnica provocata dal governo Conte” (Paolo Gentiloni, Pd). E fin qui nulla di nuovo sotto il sole della politica manichea, anche se un “più 0,2% del Pil è comunque meglio di un meno 0,2%” (Carlo Cottarelli, economista non certo governativo che con una massima alla Catalano prende semplicemente atto dei numeri).

Tutto si complica maledettamente quando, per esempio, il partito del partito preso contro il Salvimaio lancia la fatwa contro tutti coloro che non concordano sul fatto che Matteo Salvini è un fascista e Luigi Di Maio un imbecille al servizio di un fascista.

È accaduto all’autore di questo diario doversi discolpare in uno studio televisivo per aver detto che se il vicepremier 5Stelle celebra la ricorrenza della Liberazione, è cosa buona e giusta di cui tutti i sinceri democratici dovrebbero felicitarsi.

Errore, errore salta subito su la voce antifascista del partito preso contro Di Maio. Colpevole di atteggiarsi a “finto partigiano” quando poi resta l’alleato di governo di quel Salvini che in Europa si accompagna, a sua volta, con le forze politiche che “negano l’Olocausto”. Sillogismo dall’indubitabile fascinazione che tuttavia suscita un piccolo interrogativo. Quale reazione avrebbe avuto il partito (antifascista) del partito preso contro i 5 Stelle se Di Maio (e con lui la sindaca di Roma Virginia Raggi e il presidente della Camera Roberto Fico) invece di celebrare il 25 Aprile se ne fossero allegramente infischiati?

Cosa si sarebbe detto e scritto contro i nuovi ascari del capitano leghista, che pur di restare aggrappati alle poltrone non esitano a rinnegare i valori della Resistenza? Dolersi dell’incapacità di non fare di tutta l’erba un fascio (è il caso di dire) e di saper distinguere tra idee e comportamenti dell’avversario può sembrare vano esercizio retorico. Neppure tanto originale, visto che nell’ormai lontano 2011, con La scomparsa dei fatti, Marco Travaglio si occupava dei tanti ignobili motivi alla base di un’informazione che si rifiuta d’informare sulla realtà delle cose. Un caso, in particolare, spiega bene l’origine del partito del partito preso. Scrive Marco: “C’è chi nasconde i fatti anche a se stesso perché ha paura di cambiare opinione”.

È innegabile che alla base dell’attuale contrapposizione tra chi considera il governo gialloverde come fonte o del bene desiderabile o del male assoluto vi sia (anche) la solidificazione di un puntiglio. Non darla vinta agli altri. Ma siamo davvero convinti che chi crede di dare voce (sui giornali, sui siti, in tv) alla pubblica opinione ne sia davvero, in questo caso, l’interprete? Non è, per caso, che nel mentre, chi considera Salvini uno sdoganatore del razzismo peggiore incrocia le lame con chi lo giudica un benemerito della sicurezza, lo spirito del tempo chieda altro? Non è che, esaurito il tempo della rabbia e del rancore, molti si accontenterebbero di comprendere le buone ragioni degli uni e degli altri? Allora, è davvero così folle immaginare un confronto politico in cui il senatore Paragone ammette che un più 0,2% del Pil resta un piccolo segnale positivo, in uno scenario economico tuttavia preoccupante? Mentre l’ex premier Gentiloni prende atto che qualcosa di buono si può ricavare perfino dal governo Conte? (mentre scrivo bussano alla porta: sono gli infermieri che sono venuti a prendermi).

L’auto-proposta dell’umile Sala

Dice di no per non dire di sì, il sindaco di Milano Giuseppe Sala. Non lo ammette in termini espliciti, ma fa capire che è un percorso naturale, almeno per lui: potrebbe essere tranquillamente il prossimo candidato premier del centrosinistra. Partito da lontano – nel senso: da destra – si è trasformato in Mr. Expo e poi nel salvatore della patria del centrosinistra meneghino. Adesso Sala guarda lontano. Gli chiedono i giornalisti: se la sente di proseguire il cammino in direzione Palazzo Chigi? Lui sfoggia understatement, saggezza e umiltà: “Adesso lo escluderei. Milano va bene in Italia e siamo a poco più di metà del mandato, bisogna arrivare alla fine”. Però c’è un però: “So gestire le complessità e amo farlo”. Mica cavoli. La domanda è insistente: “E se glielo chiedessero?”. Sala continua a fare professione di modestia: “Penso che non me lo chiederebbero. Bisogna fare una cosa alla volta e io per 5 anni farò il sindaco di Milano”. Però c’è un altro però: “Mi chiedo anche se abbiamo bisogno di persone come me o di persone che con gli slogan governano il Paese”. Ma che domande si fa, sindaco Sala: abbiamo bisogno di persone come lei.

Che grande Cassino: la Lega laziale candida Abbruzzese

All’ombra delle mura austere dell’abbazia di Montecassino si consuma un’altra storiaccia grottesca e imbarazzante per la Lega di Matteo Salvini. Siamo nel basso Lazio, quasi a metà strada tra Roma e Napoli, lontani dai riflettori nazionali e dai pensieri del “Capitano”: Cassino e i suoi 36mila abitanti il 26 maggio votano per il nuovo sindaco. La Lega cittadina è letteralmente esplosa. Uno spettacolo quasi comico: nell’arco di due mesi il Carroccio prima ha dichiarato guerra a Forza Italia facendo cadere la giunta di Carlo Maria D’Alessandro, poi ha fallito ogni tentativo di trovare un’alternativa, infine ha ripiegato su un altro candidato forzista, di fatto il manovratore (neanche tanto) occulto del sindaco precedente. Ovvero l’ex presidente del consiglio regionale del Lazio, Mario Abbruzzese, il deus ex machina di Forza Italia nella provincia frusinate. Un processo incomprensibile che ha disintegrato il Carroccio locale, in una guerra intestina che ha come imputato il deputato Francesco Zicchieri.

Ma procediamo con ordine. A febbraio la Lega decide di fare fuori il sindaco forzista D’Alessandro. Troppe opacità nella sua giunta: una brutta inchiesta sui loculi del cimitero cittadino, una serie di bandi controversi che non hanno mai visto la luce, la minaccia di avvisi di garanzia e dell’ombra lunga della magistratura. Il Carroccio quindi guida il colpo di mano: via il sindaco, inizia una nuova stagione di trasparenza. Con una sola parola d’ordine: mai più con Forza Italia.

Il partito locale viene commissariato da Zicchieri. Lui e Claudio Durigon sono i nomi forti del Carroccio laziale e vengono dal territorio pontino (Latina e Terracina): per alcuni salviniani ciociari è una sorta di opa ostile.

La situazione precipita: viene inviata a Cassino la deputata leghista Francesca Gerardi. Coincidenza: era l’ex segretaria particolare di Abbruzzese alla Pisana. Gerardi cura la trattativa sui possibili candidati, ma sono tutti buchi nell’acqua: ne brucia 4 nel giro di pochi giorni. Tra di loro c’è Massimiliano Mignanelli, vicepresidente della Provincia di Frosinone, civico, eletto da indipendente con il Pd. Il capolavoro si consuma tra il 15 e il 17 aprile: prima Forza Italia, Lega e FdI annunciano la ricandidatura di D’Alessandro, il sindaco trombato qualche settimana prima. Quarantotto ore più tardi invece viene presentata come “candidata definitiva” Paola Carnevale, commercialista del Cosilam (il Consorzio per lo sviluppo industriale del Lazio meridionale presieduto – coincidenza! – da Abbruzzese). Carnevale è peraltro considerata a sua volta in quota Pd (in quanto moglie di Guido D’Amico, presidente di Confimprese vicino ai dem). Ma pure la sua candidatura è destinata al naufragio.

Alla fine scende in campo direttamente lui, Mario Abbruzzese, l’uomo forte del centrodestra nel basso Lazio. La Lega si accoda, due mesi dopo aver rotto con Forza Italia e promesso una candidatura alternativa e trasparente. E a proposito di trasparenza: Abbruzzese ha un corposo curriculum giudiziario, che di sicuro non è sfuggito agli alleati del Carroccio. Coinvolto nella prima inchiesta sulle spese pazze della Regione Lazio (avrebbe speso quasi 2 milioni di euro in spese di rappresentanza, principalmente penne e agendine), è stato condannato dalla Corte dei conti per “consulenze fantasma” e ora è indagato anche a Cassino per alcune nomine sospette effettuate da presidente del Cosilam (la Guardia di finanza gli ha sequestrato il cellulare).

Un bel cavallo per la Lega locale. Che nel frattempo, per protesta, si è ammutinata e svuotata: molti salviniani appoggeranno il candidato civico Giuseppe Golini Petrarcone. Mentre la lista elettorale del Carroccio è stata riempita di esterni, come gli ex assessori forzisti Franco Evangelista e Dana Tauwinkelova e l’ex CasaPound Maurizio Russo. Ma Salvini lo sa?

Abbraccio Salvini-Orbán per portare il Ppe a destra

Obiettivo: portare il Ppe a destra e da lì ripartire per trasformare l’Europa secondo il modello ungherese. L’incontro tra Viktòr Orbán e Matteo Salvini di fatto si conclude con l’individuazione di una linea comune. Che si traduce in due dichiarazioni quasi a specchio nella conferenza stampa che i due tengono nel Monastero carmelitano di Budapest.

“Spero che le elezioni europee vedano vincitore Orbán perché, se fosse prevalente la sua visione nel Partito popolare europeo, l’alleanza sarebbe nelle cose”, dichiara il vice premier italiano. E il premier ungherese: “Il Ppe deve restare aperto alla collaborazione con le destre, come quelle di Salvini”. E non esclude neanche l’uscita: “Se il Ppe si lega a quella sinistra europea che continuamente perde sostegno e la cui visione non fa bene, in questo caso, sarà difficile rimanerci”. La strategia comprende l’alleanza dei Popolari con il gruppo di Salvini (l’Europa delle Nazioni e delle Libertà), alla quale far partecipare almeno il Pis polacco, ora nell’Ecr. Si vedrà dopo il voto se si tratta di un progetto realistico. Perché Orbán è ora sospeso dal Ppe, che però è molto diviso, tra i moderati del nord (finlandesi, svedesi, belgi) che ne avrebbero voluto l’espulsione e i conservatori dell’Europa centrale, come i romeni, gli sloveni, gli austriaci. Mentre Salvini non è riuscito a dar vita a una grande alleanza sovranista da lui guidata.

In conferenza stampa, Salvini è tutto un gesticolare verso Orbán, l’altro ricambia compostamente. D’altra parte, appena arrivato in Ungheria, il ministro dell’Interno è salito a bordo di un elicottero per raggiungere Roeszke, il paese alla frontiera con la Serbia, dove è stato costruito il muro anti migranti. Lì ha trovato ad accoglierlo proprio Orbán. E non si è risparmiato le lodi, sia sulla chiusura delle frontiere dell’amico ungherese che sulla sorta di flat tax vigente nel paese. Peccato che Orbán si sia sempre opposto alla riforma del regolamento di Dublino per un riparto dei richiedenti asilo tra tutti i Paesi, sempre chiesta dall’Italia. “Il problema non è redistribuirli, è non farli arrivare”, dice ieri Salvini. E peccato che il regime fiscale ungherese – 9% per le società dal 2017 e 15% per le persone fisiche dal 2011 – attiri un’impresa italiana al giorno. “Ringrazio l’amico Orbán, con cui condividiamo l’idea di una Europa sicura, di pace, identità, lavoro e famiglia”, premette il Ministro, nonostante tutto. L’alleanza è per lui politicamente vitale, se gli conviene si vedrà.