Pd, Zingaretti “vede” le urne a settembre: “Scenario probabile”

Una riunionededicata all’economia, per cominciare a elaborare le proposte del Pd per la legge di Bilancio che però potrebbero divenire il programma in caso di urne anticipate a settembre, ritenute “uno scenario probabile”. È il senso della prima riunione della segreteria provvisoria del Pd che Nicola Zingaretti ha voluto allargata ad alcuni esponenti dei gruppi parlamentari. L’idea del segretario è di fare cinque proposte concrete, anche con coperture finanziarie, che possano innanzi tutto far passare il Pd dalla fase di semplice critica a quella di proposta, per farsi percepire dall’opinione pubblica come una alternativa a Lega e M5s. Ma le proposte poi diverranno la contro-manovra del Pd rispetto a quella del governo gialloverde. Cinque punti incentrati su lavoro e welfare, così da qualificare le proposte in modo progressista.

Nella riunione al Nazareno si sono confrontati non solo i membri della segreteria provvisoria (il “coordinamento”) e cioè Marina Sereni, Marco Miccoli, Andrea Martella e Enzo Amendola, ma anche il presidente dem Paolo Gentiloni, i vicesegretari Paolo De Micheli e Andrea Orlando.

Gioco d’azzardo, gli “strani” interessi: l’indagine

Bruno Michieli, romano con cittadinanza nei Paesi Bassi e domicilio a Hong Kong, negli ultimi anni è stato capace di entrare a far parte dell’aristocrazia del gioco d’azzardo, sviluppando piattaforme utilizzate in Asia ed Europa. Tra le sue occupazioni, c’è anche quella di procacciatore d’affari per un fondo d’investimento di Amsterdam, Ramphastos: uno dei colpi meglio riusciti è quello di Planetwin365 – tra i primi cinque marchi di scommesse in Italia – finito nel portafogli di Ramphastos nel 2017, insieme alla società di capitali SKS365, la società di cui “Bepi” Pezzulli è diventato general counsel dell’ufficio legale. Un marchio noto agli scommettitori, ma anche alle indagini giudiziarie: nel novembre 2018 le procure di Reggio Calabria, Bari e Catania accusano l’azienda di aver stretto alleanze, almeno fino al 2017, con clan di Cosa Nostra, Sacra Corona Unita e ’Ndrangheta. Ponendo così le basi per costruirsi una solida posizione nel mercato. Michieli non è indagato, ma dalle carte dell’inchiesta risulta al centro di un groviglio di interessi che passa da biscazzieri in odor di mafia e offshore.

Il gruppo ha una holding a Malta, controllata da un fondo di Ramphastos nel paradiso fiscale di Curacao, e due sedi operative in Italia e Serbia. Un sistema complesso, ma, sul punto, il nuovo management  assicura: “Lo sforzo è di lavorare in modo completamente lecito”, sostiene Pezzulli.

Il passato di Planetwin365, sei mesi dopo le indagini, non sembra però essere stato chiuso del tutto. I tempi sono chiave: fino all’agosto 2016, la proprietà è legata a Paolo Tavarelli e Giuseppe Decandia (arrestati a novembre). Poi c’è un interregno con Ramphastos che acquisisce l’80% delle quote. Fino a quando, da fine 2017, gli olandesi assumono il controllo totale. Nel periodo della trattativa per il cambio di gestione, è Michieli il fulcro. Il primo con cui negozia per entrare in Planetwin, stando agli atti delle indagini, sarebbe stato Francesco Martiradonna, figlio di Vito, cassiere del clan Capriati di Bari. Anche se Michieli, dal canto suo, assicura di non avere avuto nessun tipo di rapporto. E Martiradonna, sulla carta, non compariva mai in Planetwin. Ma il suo è uno dei nomi-cerniera che ricorrono nelle inchieste sui presunti legami tra mondo delle scommesse e mafia.

Secondo le procure, Martiradonna nel 2014 avrebbe stretto un “patto riservato” a nome della sua società di gioco, la Bet1128. Avrebbe venduto alcuni negozi, mantenendo una “contabilità parallela” all’interno di Planetwin, come ha dichiarato alla procura Angela Gemma, ex legale dell’azienda. Le Dda scrivono che il marchio di Martiradonna “era un asset del gruppo” anche dopo l’ingresso degli olandesi, “almeno fino al gennaio 2018”. Secondo Fabio Lanzafame, ex agente di Planetwin365 diventato pentito, uno degli uomini della vecchia dirigenza ritenuta vicina ai clan avrebbe “una quota del fondo”. Ma la nuova proprietà olandese smentisce.

Michieli è nel cda anche di un’altra società acquisita dal fondo olandese: l’italiana Talenta Labs, che produce software di gioco per piattaforme online. Nel board, come emerge dai registri camerali, dal 2011 compare Massimiliano Rizzo, veterano del settore. Per gli inquirenti di Bologna, però, il problema di Massimiliano Rizzo sarebbero le frequentazioni. Nell’ordinanza dell’inchiesta Black Monkey (2012), è tratteggiato come colui che “concedeva al boss della ’Ndrangheta Nicola Femia l’utilizzazione per il gioco illegale di tre siti web”. In primo grado, i giudici hanno assolto Rizzo dall’accusa di associazione mafiosa “perché il fatto non sussiste” (condannandolo però a tre anni e sei mesi per esercizio abusivo di raccolta di scommesse). La procura ha ricorso in appello, avvalendosi delle dichiarazioni dello stesso Femia, diventato intanto pentito, e contestando nuovamente a Rizzo l’accusa di mafia. Bruno Michieli: “Rizzo? Apprendo da voi dei suoi problemi. Valuteremo se riconsiderare la nostra posizione”.

Bepi, l’ispiratore della Flat-tax tra la Lega, Siri e le scommesse

Lui si dichiara “filo americano, filo-semita e filo-britannico” e aggiunge: “Se mi definite filo-russo vi querelo”. Giuseppe “Bepi” Pezzulli è, su piazza milanese, un noto avvocato d’affari di origini partenopee molto apprezzato dalla Lega di Matteo Salvini. Colpa del Fatto, sostiene, se lo si considera vicino all’ormai fu sottosegretario alle Infrastrutture Armando Siri, indagato a Roma per corruzione a partire dalla famosa inchiesta siciliana sul business dell’eolico. “Avendo scritto di flat-tax, questo mi ha fatto accostare a chi ne ha parlato in Italia. Ma io preferirei essere affiancato a Ronald Reagan”, dice Pezzulli assai modestamente. Anche se lui, il diretto interessato, smentisce, in passato non sono mancati gli ammiccamenti con Siri (e non solo per gli editoriali su Milano Finanza in cui Pezzulli benediceva il progetto economico dell’ideologo della flat-tax).

La biografia di Pezzuli incrocia i destini dei lùmbard almeno dal maggio 2017, quando ottenne la carica di consigliere d’amministrazione in Finlombarda, la finanziaria di Regione Lombardia. L’anno seguente, durante la campagna elettorale per le Regionali, presentò insieme al futuro Governatore, il leghista Attilio Fontana, un programma condiviso per il rilancio dell’economia regionale, con un occhio di riguardo all’estero: un tema molto caro a Pezzulli.

Un mese prima del voto della Brexit, nasceva il Comitato Select Milano, think tank diplomatico-affaristico con l’obiettivo di “creare un ponte commerciale permanente tra Londra e Milano”, e promuovere Milano come nuova sede delle agenzie europee un tempo londinesi. Sono stati diversi gli eventi organizzati da Select acui hanno presenziato pezzi della Lega. A gennaio 2018 alla ClubHouse di Brera è andato in scena “Salvini incontra la City”. “L’immigrazione incontrollata è una forma di guerra ibrida, […] Salvini è l’unico che persegue l’interesse nazionale, gli altri quello franco-tedesco”, dichiarava Pezzulli seduto a fianco del futuro vicepremier, che si schermiva commosso. A maggio 2018, lo stesso Comitato ha promosso altri incontri alla City di Londra, a cui ha partecipato tra gli altri proprio Siri. Oggi Pezzulli precisa al Fatto: “Select non ha carattere partigiano. Io sono un liberal-conservatore iscritto al Partito Repubblicano”. Sarà. Ma un mese dopo la tappa londinese, a Palazzo Madama Pezzulli presenta, su iniziativa di Siri, anche il suo libro L’altra Brexit: geopolitica&affari.

Dal 2018, poi, il legale si è dato anche all’insegnamento: un master su “Blockchain e cryptocurrencies” alla Link University, l’università più “frequentata” da questo governo giallo-verde. Tra i salviniani, alla Link insieme a Pezzulli insegna anche Antonio Maria Rinaldi, l’economista euroscettico candidato alle europee con Salvini.

Ma, la casacca più recente, Pezzulli la indossa da febbraio 2019, quando diventa general counsel dell’ufficio legale di Sks365, società di scommesse sportive. Il management precedente – a cui Pezzulli è totalmente estraneo – avrebbe fatto affari, secondo un’inchiesta della magistratura, con Cosa Nostra, ‘ndrangheta e Sacra Corona Unita. Ma come ci è finito Pezzulli? Galeotto fu proprio il Comitato Select Milano: nel lungo elenco di notai, avvocati, manager, imprenditori e uomini d’affari che ne fanno parte compare Francesco Gaziano, decano dell’industria dell’azzardo, oggi responsabile marketing della nuova Sks, il cui lancio ufficiale ha coinciso con l’ingresso di Pezzulli.

Il liberal-conservatore più ascoltato dai leghisti dice di non essere al corrente di cosa il governo abbia in serbo in materia di gioco d’azzardo. Dove porterà la sua nuova avventura è difficile prevederlo. Ma per Pezzulli, tanto apprezzato dai seguaci di Alberto da Giussano, c’è la possibilità di accreditarsi in un mondo in cui in tanti, prima di lui, sono scivolati.

*Irpi-Investigative Reporting Project Italy

Berlusconi scherza: “L’ho scampata pure stavolta…”

Una piccolarassicurazione rivolta più all’esterno che al suo uditorio. È il senso della battuta (“l’abbiamo scampata bella anche stavolta…”) con cui Silvio Berlusconi ha scherzato sul suo stato di salute con chi – racconta l’agenzia Adnkronos – ha avuto modo di vederlo ieri al San Raffaele di Milano dopo l’intervento di urgenza, martedì, per una occlusione intestinale. Una battuta, ricordano i collaboratori dell’ex Cavaliere, già fatta in occasioni analoghe negli ultimi anni. L’ex premier comunque, che ieri ha lasciato il reparto di terapia intensiva, “sta bene” – assicurano fonti di Forza Italia – e dovrebbe tornare a casa, ovvero nella sua villa di Arcore, domenica. Il problema, a quel punto, sarà la ripresa della sua attività pubblica. I medici e i figli non gli consigliano di certo di prendere parte alla campagna elettorale per le Europee, ma lo stesso Berlusconi avrebbe assicurato ai dirigenti del suo partito – anche per mettere fine a voci interne non proprio benevole sul suo stato di salute – di essere pronto e che i suoi impegni ricominceranno a breve. D’altra parte, avendo scelto di candidarsi, non può rischiare di essere stracciato da Matteo Salvini nel conto delle preferenze.

Niente fondi a chi ha ospitato migranti

Niente finanziamenti a chi ha ospitato migranti. Lo dice la nuova legge della Regione Liguria guidata da Giovanni Toti: non verranno erogati contributi per lo sviluppo del turismo alle strutture ricettive che negli ultimi tre anni hanno ospitato migranti. Un testo che ha come prima firmataria proprio l’ex consigliera regionale leghista Stefania Pucciarelli, oggi presidente della Commissione Diritti Umani del Senato. La norma, proposta dalla Lega, è stata approvata il 30 aprile dal consiglio regionale – maggioranza di centrodestra – con 16 voti a favore (centrodestra) e 11 contrari (Pd, M5S, Rete a Sinistra-LiberaMente Liguria).

Secondo il nuovo testo alberghi e ostelli che in passato hanno firmato le convenzioni del sistema Sprar non potranno ricevere i finanziamenti. “La nuova legge è palesemente illegittima da un punto di vista costituzionale perché retroattiva”, sostiene Raffaella Paita, deputata ligure del Pd e avversaria di Toti alle regionali del 2015. Aggiunge: “La norma è anche vergognosa perché punisce un utilizzo delle strutture da parte dei migranti che avveniva per conto del governo”.

I consiglieri regionali Pd Giovanni Lunardon e Luca Garibaldi parlano di “norma discriminatoria e provvedimento razzista, che viola le norme sulla concorrenza, le norme comunitarie e nazionali sulle imprese turistiche e la loro ammissione ai bandi”. Critica anche la consigliera del M5S Alice Salvatore: “Un provvedimento vuoto, di propaganda”.

Toti era stato eletto e ha cercato sempre di accreditarsi come un moderato. Un cattolico. Nello stesso tempo un amico di Matteo Salvini con cui ama incontrarsi durante le trasferte in Riviera del leader del Carroccio. Un leghista azzurro, è stato definito il Governatore. Ma nel 2015, quando è stato eletto, Forza Italia era la gamba più lunga dell’alleanza di centrodestra, mentre oggi Berlusconi è sul viale del tramonto e Toti è in cerca di nuovi sostenitori.

Anche perché in Liguria il prossimo anno si vota e, se non ci saranno elezioni Politiche, Toti potrebbe ripiegare su una ricandidatura in Liguria (anche se lui ambiva a ben altro). Di qui, secondo qualcuno, la sua “deriva” leghista. Anche se il governatore nega ogni intento discriminatorio: “La legge dice una cosa banale: cerchiamo di destinare soldi dei cittadini allo sviluppo di un settore economico e di non darli a qualcuno che, legittimamente secondo le leggi dello Stato, fa tutt’altro nella vita”.

A curare il testo della legge, appunto, è stata l’attuale presidente della Commissione Diritti Umani di Palazzo Madama. Pucciarelli “rivendica con orgoglio la norma”. E alza il tiro: “Gli alberghi che hanno deciso di abdicare alla propria vocazione turistico-ricettiva per fare accoglienza è giusto che non siano equiparati a chi, negli anni passati, ha offerto un servizio turistico nonostante le difficoltà della congiuntura economica sfavorevole”.

E ancora: “Se oggi il grande afflusso di turisti che sta investendo la nostra regione trova strutture affidabili e di qualità ad accoglierli è grazie ai secondi e non certo ai primi, che facendo accoglienza pelosa hanno piuttosto degradato e reso più insicuro il territorio”.

La Lega: “Autonomia in Cdm” Ma M5S (e il Colle) la fermano

Come far finta di andare avanti restando fermi? È questo il dilemma del premier Giuseppe Conte che – non bastassero l’indagato Siri e tutto il resto – ora si ritrova tra i piedi pure il vero convitato di pietra delle nozze tra Lega e 5 Stelle: il regionalismo differenziato chiesto da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Se infatti le province (“chi le rivuole si trovi un altro alleato”, ha detto ieri Luigi Di Maio) sono a oggi solo l’ennesima scaramuccia elettorale, la cosiddetta “autonomia” – peraltro inserita anche nel contratto di governo – è invece terreno di una guerra vera. Se i 5 Stelle sono infatti più che perplessi sulla devoluzione di poteri e soldi ai governatori, Matteo Salvini non può farne a meno, anche perché è il principale interesse di quel pezzo del suo partito a cui invece poco interessa della Lega nazionale. Tradotto: Salvini la deve a Luca Zaia e a quelli che “prima il Nord” e gliela deve pure in tempi brevi perché sul territorio, specie a Nord-est, la situazione non è così tranquilla. Qualche giorno fa, per capirci, i movimenti autonomisti veneti hanno annunciato che alle Europee sosterranno il candidato altoatesino della Svp e non quelli veneti della Lega. Zaia non l’ha presa bene: “Se saltasse l’autonomia verrebbe meno uno dei pilastri del contratto di governo. Chiunque può immaginare le conseguenze”.

Per questo, dopo “l’informativa” di martedì sera, i leghisti vorrebbero che le intese tra lo Stato e le tre Regioni andassero in Consiglio dei ministri subito, al massimo la settimana prossima. Non succederà – e per la buona ragione che le “intese” non ci sono ancora su parecchie materie, quelle appannaggio di ministri “grillini” e non solo – ma Conte lunedì vedrà la ministra degli Affari regionali, la leghista veneta Erika Stefani, e dovrà trovare appunto il modo di far finta di avviare la pratica: questa ammuina potrebbe prendere le forme di un accordo quadro che recepisca formalmente le richieste arrivate da tutte le Regioni e dica all’ingrosso come si intende procedere.

Come che sia, anche l’accordo definitivo in Consiglio dei ministri, se e quando ci si arriverà, non sarà risolutivo: è scontato – e in questo senso spinge lo stesso Sergio Mattarella, preoccupato dalle “ampie” richieste di decentramento arrivate da Veneto e Lombardia – che il Parlamento dovrà avere spazio in questa vicenda. L’iter – una novità assoluta – andrà “inventato”, ma le Camere dovranno poter emendare i testi prima della firma dell’intesa tra premier e governatori. Su questo i 5 Stelle non cederanno e la cosa ha un inevitabile corollario: per chiudere tutto ci vorranno molti mesi, forse di più.

Ma a che punto è questa benedetta autonomia? Nonostante la fretta di Salvini, che la definisce “già pronta”, esattamente dov’era a febbraio, cioè assai lontana dal traguardo. I testi delle intese illustrati da Stefani al Cdm di martedì sera sono pieni di buchi e punti su cui è necessaria un’intesa politica tra le parti: manca, ad esempio, l’accordo coi ministeri di Infrastrutture, Ambiente e Lavoro; quello col Tesoro è solo di principio.

Il tema sono i futuri poteri delle Regioni, il patrimonio di cui reclamano il trasferimento e, ovviamente, i soldi: l’accordo col ministro Tria, pure rivendicato dalla collega Stefani, è talmente poco solido che l’interessato, in audizione in Parlamento il 18 aprile, ha sostenuto che “in alcuni casi le richieste regionali non appaiono del tutto coerenti coi principi costituzionali”. Nota a margine: Tria echeggia i timori di Mattarella, suo dante causa politico nell’esecutivo.

Qualche parola a parte merita la scuola. Veneto e Lombardia vogliono una competenza quasi esclusiva sul tema, fino a ruoli e concorsi regionali per il personale. Inaccettabile per i sindacati che però, qualche giorno fa, hanno sottoscritto un’intesa col governo in cui quest’ultimo si impegna “a salvaguardare l’unità e l’identità culturale del sistema nazionale di istruzione e ricerca”, ivi compreso quanto a concorsi e contratto nazionale (cioè il contrario di quel che chiedono Zaia e Fontana).

Quanto sia complesso trovare un’intesa lo dimostra plasticamente una vicenda non edificante che coinvolge il sito del ministero degli Affari regionali: sulla scuola, secondo una tabella allegata ai materiali preparatori dell’intesa, Veneto e Lombardia sarebbero penalizzate per circa un miliardo l’anno rispetto alle regioni del Sud; come ha dimostrato però l’economista Gianfraco Viesti su eticaeconomia, scegliere un parametro arbitrario come la spesa centrale per studente finisce per distorcere i fatti e mostrare una penalizzazione che non esiste.

Non è affatto un dettaglio: la Costituzione prevede, infatti, che lo Stato fissi dei livelli essenziali di prestazione per settore, ma il pre-accordo con le Regioni dice che, se non verranno stabiliti entro un anno dalle intese, le risorse saranno divise tra le regioni calcolando proprio il “valore medio nazionale pro-capite della spesa statale” per le funzioni trasferite. A seguire i soldi non si sbaglia mai: vanno verso Nord.

Giulia Bongiorno, avvocata di parte

Da una parte c’è l’avvocato “del popolo” – come si è definito Giuseppe Conte – dall’altra c’è l’avvocata della Lega. Giulia Bongiorno da giugno ha giurato sulla Costituzione come ministro della Funzione Pubblica, ma si direbbe che non abbia ancora smesso la toga. In questo scorcio di legislatura la si ricorda soprattutto per lo zelo con cui continua a svolgere la vecchia professione. L’ha fatto, in modo tecnicamente impeccabile, difendendo Matteo Salvini sul caso Diciotti: fu la Bongiorno a consigliare al “Capitano” di non farsi processare e non rinunciare all’immunità, e fu sempre lei a vergare il discorso pronunciato dal ministro al Senato nel giorno in cui i colleghi lo sottrassero ai giudici (Bongiorno accompagnava l’intervento di Salvini parola per parola, come una madre partecipe e sollecita). Sul caso Siri l’avvocato Bongiorno è intervenuta ancora. E ancora una volta per garantire il collega di partito dalla voracità della magistratura: “Armando Siri resti al suo posto”, ha sibilato in un’intervista a Repubblica. “È stato trattato dai media come un condannato definitivo, mentre è un indagato per fatti di corruzione che ha subito chiesto di essere ascoltato, ma ancora non ha reso interrogatorio”. L’avvocata è perentoria, la ministra non si sa.

Fondi Lega: “Bossi non poteva usarli a suo piacimento”

Gli atti della sentenza emessa dalla quarta Corte d’Appello di Milano il 23 gennaio, nei confronti di Umberto Bossi e del figlio Renzo, parlano chiaro. Il segretario di un partito non può disporre “a suo piacimento” dei fondi versati dagli associati o erogati dai presidenti di Camera o Senato come “rimborso delle spese elettorali”. La mancata querela da parte del leader della Lega Matteo Salvini, necessaria per il processo per appropriazione indebita, aveva determinato il non luogo a procedere nei loro confronti, cancellando le rispettive condanne in primo grado a 2 anni e 3 mesi e 1 anno e 6 mesi. Diversa la sorte dell’ex tesoriere del Carroccio, Francesco Belsito, che – avendo ricevuto la querela – è stato condannato a un anno e 8 mesi e a 750 euro di multa pena sospesa. Gli atti rivelano un Belsito “letteralmente terrorizzato di essere rimosso dall’incarico di Tesoriere della Lega, soprattutto a causa dei controlli che alcuni esponenti della Lega volevano realizzare sull’intera gestione delle risorse del partito”. La “totale libertà di utilizzazione” dei fondi reclamata dalla difesa è stata respinta. Così come la tesi dell’”insindacabilità delle spese di un partito”.

Il premier rapito da Theresa May: come ti rimuovo quel ministro

Vento inglese ieri sull’Italia. Tra i fumi di Londra, la premier Theresa May caccia in appena mezza mattinata il ministro della Difesa, Galvin Williamson (nella foto). Nella placida Roma, dopo settimane di tira e molla, Giuseppe Conte chiude la vicenda del sottosegretario Armando Siri. Che “l’avvocato del popolo” italiano sia rimasto folgorato dalla “semi-dama di ferro”?

Williamson è accusato di aver spifferato alla stampa una riunione riservata di governo su Huawei, il colosso cinese delle telecomunicazioni. E, nonostante non abbia rivelato segreti o commesso reati, gli si contesta, sulla base di “prove stringenti”, di aver violato “il codice di condotta governativo”. La vicenda nasconde, forse, un intrigo politico degno di House of Cards (che, non dimentichiamolo, nasce proprio sotto l’ombra di Westminster). Alla Difesa, infatti, va ora Penny Mordaunt che contendeva a Williamson la successione alla stessa May. Ma la decisione è presa.

Siri, come sappiamo, è accusato di aver favorito l’imprenditore Arata, come ieri Conte ha puntualmente ribadito in conferenza stampa anche se non ha ricordato i legami indiretti con il boss mafioso Matteo Messina Denaro. Una situazione molto più imbarazzante, quella italiana, risolta dopo un braccio di ferro infinito. Una semplice fuga di notizie, quella inglese, risolta in un lampo.

Certo, in Gran Bretagna il premier gode delle Royal Prerogatives, nomina in assoluta autonomia i ministri e li rimuove in qualsiasi momento. In Italia è tutto molto più complesso e l’unico precedente riguarda Vittorio Sgarbi, nel 2002, quando il Consiglio dei ministri decise all’unanimità. Resta che May ci ha messo due ore, Conte, forse per via dei ponti primaverili, un po’ di più. Ma la giornata restituisce un Conte che decide, frizzante e aitante come poche volte prima. Sempre che anche lui non venga risucchiato in qualche “exit”.

L’ultima mossa di Mr. Flat Tax: puntava sull’incontro con i pm (ma senza domande)

Pochi minuti prima della conferenza stampa in cui il premier Giuseppe Conte ha annunciato di voler chiedere le dimissioni di Armando Siri, il sottosegretario leghista ha tentato una strada che poteva consentire di prendere del tempo che alla fine non è stato concesso. Il senatore – indagato per corruzione a Roma – ha infatti dichiarato che se la sua posizione non fosse stata archiviata dopo soli 15 giorni dal suo incontro con i pm titolari dell’indagine, sarebbe stato lui stesso a farsi da parte: “Confido – ha detto – che una volta sentito dai magistrati la mia posizione possa essere archiviata in tempi brevi. Qualora ciò non dovesse accadere, entro 15 giorni, sarò il primo a voler fare un passo indietro, rimettendo il mio mandato, non perché colpevole, bensì per profondo rispetto del ruolo che ricopro”. Ieri le cose sono andate diversamente.

L’equivoco. Eppure c’è un grande frainteso dietro questa proposta (superata dai fatti) del sottosegretario. Perché quando Siri incontrerà i magistrati non sarà un interrogatorio. Tramite il suo legale infatti nei giorni scorsi ha depositato un’istanza ai pm di Roma Paolo Ielo e Mario Palazzi per chiedere di rendere spontanee dichiarazioni. Atto istruttorio che potrebbe esserci già la prossima settimana (massimo riserbo sulla data) ma che di fatto vede un ruolo non attivo dell’accusa. Infatti con le spontanee dichiarazioni è l’indagato che spiega la propria posizione, che si difende. I magistrati non possono fare alcuna domanda né mostrare le proprie carte, ossia le prove (ancora segrete) raccolte durante le indagini. Come previsto dal codice di procedura penale, quindi, non ci sarà alcuna discovery degli atti d’inchiesta e Siri potrà tranquillamente esporre la propria posizione, senza che gli sia contestato alcunché. In ogni modo, il senatore ha diritto a far proprie tutte le scelte difensive previste dal codice, ma quella di rendere spontanee dichiarazioni – e non di farsi interrogare – non l’ha di certo aiutato nella vicenda politica. E non deve averlo aiutato neanche il mostrare a Conte– come avvenuto durante l’incontro di mercoledì – l’intercettazione chiave dell’indagine, quella contenuta in un’informativa della Dia depositata e di cui hanno disponibilità gli avvocati.

Le accuse. Si tratta della conversazione durante la quale l’imprenditore Paolo Arata – indagato con Siri per corruzione – parlava del denaro per il sottosegretario. È questa l’accusa della Procura di Roma: per i pm Siri avrebbe messo a disposizione dell’imprenditore Arata la propria funzione “proponendo e concordando con gli organi apicali dei ministeri competenti per materia (…) l’inserimento in provvedimenti normativi (…) ovvero proponendo emendamenti contenenti disposizioni in materia di incentivi per il cosiddetto ‘mini-eolico’”. In cambio Siri “riceveva la promessa e/o la dazione di 30 mila euro da parte di Arata”. I magistrati parlano di uno “stabile accordo” tra Siri e Arata (indagato anche a Palermo per trasferimento fraudolento di valori con l’aggravante di aver favorito l’associazione mafiosa) e che del sottosegretario “è stato anche sponsor per la nomina proprio in ragione delle relazioni intrattenute”. Da queste accuse Siri dovrà difendersi davanti ai pm. Che non potranno fare domande (per ora).