Come far finta di andare avanti restando fermi? È questo il dilemma del premier Giuseppe Conte che – non bastassero l’indagato Siri e tutto il resto – ora si ritrova tra i piedi pure il vero convitato di pietra delle nozze tra Lega e 5 Stelle: il regionalismo differenziato chiesto da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Se infatti le province (“chi le rivuole si trovi un altro alleato”, ha detto ieri Luigi Di Maio) sono a oggi solo l’ennesima scaramuccia elettorale, la cosiddetta “autonomia” – peraltro inserita anche nel contratto di governo – è invece terreno di una guerra vera. Se i 5 Stelle sono infatti più che perplessi sulla devoluzione di poteri e soldi ai governatori, Matteo Salvini non può farne a meno, anche perché è il principale interesse di quel pezzo del suo partito a cui invece poco interessa della Lega nazionale. Tradotto: Salvini la deve a Luca Zaia e a quelli che “prima il Nord” e gliela deve pure in tempi brevi perché sul territorio, specie a Nord-est, la situazione non è così tranquilla. Qualche giorno fa, per capirci, i movimenti autonomisti veneti hanno annunciato che alle Europee sosterranno il candidato altoatesino della Svp e non quelli veneti della Lega. Zaia non l’ha presa bene: “Se saltasse l’autonomia verrebbe meno uno dei pilastri del contratto di governo. Chiunque può immaginare le conseguenze”.
Per questo, dopo “l’informativa” di martedì sera, i leghisti vorrebbero che le intese tra lo Stato e le tre Regioni andassero in Consiglio dei ministri subito, al massimo la settimana prossima. Non succederà – e per la buona ragione che le “intese” non ci sono ancora su parecchie materie, quelle appannaggio di ministri “grillini” e non solo – ma Conte lunedì vedrà la ministra degli Affari regionali, la leghista veneta Erika Stefani, e dovrà trovare appunto il modo di far finta di avviare la pratica: questa ammuina potrebbe prendere le forme di un accordo quadro che recepisca formalmente le richieste arrivate da tutte le Regioni e dica all’ingrosso come si intende procedere.
Come che sia, anche l’accordo definitivo in Consiglio dei ministri, se e quando ci si arriverà, non sarà risolutivo: è scontato – e in questo senso spinge lo stesso Sergio Mattarella, preoccupato dalle “ampie” richieste di decentramento arrivate da Veneto e Lombardia – che il Parlamento dovrà avere spazio in questa vicenda. L’iter – una novità assoluta – andrà “inventato”, ma le Camere dovranno poter emendare i testi prima della firma dell’intesa tra premier e governatori. Su questo i 5 Stelle non cederanno e la cosa ha un inevitabile corollario: per chiudere tutto ci vorranno molti mesi, forse di più.
Ma a che punto è questa benedetta autonomia? Nonostante la fretta di Salvini, che la definisce “già pronta”, esattamente dov’era a febbraio, cioè assai lontana dal traguardo. I testi delle intese illustrati da Stefani al Cdm di martedì sera sono pieni di buchi e punti su cui è necessaria un’intesa politica tra le parti: manca, ad esempio, l’accordo coi ministeri di Infrastrutture, Ambiente e Lavoro; quello col Tesoro è solo di principio.
Il tema sono i futuri poteri delle Regioni, il patrimonio di cui reclamano il trasferimento e, ovviamente, i soldi: l’accordo col ministro Tria, pure rivendicato dalla collega Stefani, è talmente poco solido che l’interessato, in audizione in Parlamento il 18 aprile, ha sostenuto che “in alcuni casi le richieste regionali non appaiono del tutto coerenti coi principi costituzionali”. Nota a margine: Tria echeggia i timori di Mattarella, suo dante causa politico nell’esecutivo.
Qualche parola a parte merita la scuola. Veneto e Lombardia vogliono una competenza quasi esclusiva sul tema, fino a ruoli e concorsi regionali per il personale. Inaccettabile per i sindacati che però, qualche giorno fa, hanno sottoscritto un’intesa col governo in cui quest’ultimo si impegna “a salvaguardare l’unità e l’identità culturale del sistema nazionale di istruzione e ricerca”, ivi compreso quanto a concorsi e contratto nazionale (cioè il contrario di quel che chiedono Zaia e Fontana).
Quanto sia complesso trovare un’intesa lo dimostra plasticamente una vicenda non edificante che coinvolge il sito del ministero degli Affari regionali: sulla scuola, secondo una tabella allegata ai materiali preparatori dell’intesa, Veneto e Lombardia sarebbero penalizzate per circa un miliardo l’anno rispetto alle regioni del Sud; come ha dimostrato però l’economista Gianfraco Viesti su eticaeconomia, scegliere un parametro arbitrario come la spesa centrale per studente finisce per distorcere i fatti e mostrare una penalizzazione che non esiste.
Non è affatto un dettaglio: la Costituzione prevede, infatti, che lo Stato fissi dei livelli essenziali di prestazione per settore, ma il pre-accordo con le Regioni dice che, se non verranno stabiliti entro un anno dalle intese, le risorse saranno divise tra le regioni calcolando proprio il “valore medio nazionale pro-capite della spesa statale” per le funzioni trasferite. A seguire i soldi non si sbaglia mai: vanno verso Nord.