Salvini furibondo ma non “s’impicca” al sottosegretario

Per Matteo Salvini è la prima vera sconfitta politica dalla nascita del governo. Un boccone amaro difficile da digerire, quando sembrava che il caso stesse già passando in cavalleria. Invece la decisione di Giuseppe Conte di scaricare Armando Siri, il sottosegretario alle Infrastrutture sotto inchiesta per corruzione per la vicenda dell’eolico, annunciando la revoca del mandato nel prossimo consiglio dei ministri, ha colto il Capitano come una fucilata, in una giornata tutta dedicata all’Europa, a Budapest, dove ha stretto un patto con Viktor Orbán sul rapporto col Ppe in vista delle Europee. “Mi fanno questi scherzi proprio quando sono all’estero…”, ha detto il vicepremier parlando al telefono con Roma, dove, all’annuncio della conferenza stampa di Conte per le 18.30 (poi slittata alle 19), tutta la Lega è entrata in fibrillazione.

Di fronte alla forzatura del premier, con la copertura politica dei 5 Stelle, Salvini ha dovuto prenderne atto, ma si è tentato comunque di far uscire il Carroccio a testa alta, o almeno con una sconfitta meno bruciante. Da qui la nota del sottosegretario che, verso le sei del pomeriggio, ha annunciato le sue dimissioni entro quindici giorni se non ci fossero state novità da parte della magistratura. “Sono innocente, confido che una volta sentito dai magistrati la mia posizione sarà archiviata. Qualora non dovesse accadere, rimetterò il mio mandato per rispetto del ruolo che ricopro”, recita la nota di Siri. Un tentativo concordato col leader per anticipare le mosse di Palazzo Chigi.

Ma Conte, innervosito parecchio dal maldestro tentativo, ha rimandato la proposta al mittente. “Le dimissioni non si annunciano, si danno. Un eventuale incontro tra Siri e gli inquirenti da qui a due settimane non risolve il problema politico, che è diverso da quello giudiziario”, ha detto il premier. Una fermezza di fronte cui il leader leghista ha dovuto alzare le braccia. “Qualunque decisione mi va bene, ma Conte deve spiegarla agli italiani. In democrazia si è innocenti fino a prova contraria. Almeno lo si lasci parlare con i magistrati”, ha affermato Salvini quasi in concomitanza con le parole di Conte. “Siri è tranquillissimo, pronto a farsi sentire. È una vicenda locale che non ferma il governo. Io mi occupo di cose vere, lascio a Conte e Siri il resto…”, ha aggiunto. Parole, le sue, che dimostrano irritazione e contrarietà, ma non al punto di far cadere il governo. “Non ci impicchiamo al caso Siri”, aveva detto il leader leghista nei giorni scorsi.

Ieri, però, è stato il giorno dello scontro e delle minacce, e il prossimo consiglio dei ministri (previsto per l’8 o il 9 maggio) si annuncia turbolento. “Sono preoccupato. È una vicenda che blocca il governo”, dice proprio Giancarlo Giorgetti, il più interessato alla vicenda Arata-Siri. Anche perché questo non è l’unico motivo di attrito, come si è visto sul braccio di ferro sulle province. Quella di Giorgetti, però, sembra più una minaccia che altro.

Ieri, infatti, è stato il momento delle spade, ma nei prossimi giorni probabilmente gli animi si calmeranno.

Perché da fonti leghiste trapela che Salvini alla fine non farà le barricate in difesa del sottosegretario, la cui sorte sembrava segnata dopo il faccia a faccia con Conte di lunedì sera. E men che meno metterà in crisi la maggioranza e in pericolo l’esecutivo. Anche se per ora non giungono rassicurazioni di fronte agli appelli al senso di responsabilità della Lega da parte del presidente del consiglio e di Luigi Di Maio. “Far cadere il governo a venti giorni dalle Europee e coi sondaggi che abbiamo sarebbe un suicidio politico”, osserva una fonte leghista.

La forzatura di Conte, tra l’altro, fa tirare un sospiro di sollievo a quella parte del Carroccio che iniziava a vivere con sofferenza il caso Siri. “Questa cosa rischia di farci andare sotto il 30% e per noi sarebbe un tracollo”, “Quando si tratta di corruzione, il nostro atteggiamento dev’essere simile a quello dei 5 Stelle, non a quello di Berlusconi” sono alcune delle voci raccolte tra i peones, a microfoni spenti.

Lo scontro, però, resta. E proseguirà nel Consiglio dei ministri. In un’eventuale conta su Siri i 5 Stelle prevarrebbero. Ma nella maggioranza sono certi che Salvini non andrà alla guerra. E farà buon viso a cattivo gioco, abbandonando il sottosegretario al suo destino.

Del resto si è già visto il suo voltafaccia sul caso Diciotti. E lì furono Di Maio e Conte a “salvare” il ministro dell’Interno. Salvini, da questo punto di vista, semmai è in debito.

“Siri fuori”: il decisionista Conte perde la pazienza

Alle sette e qualcosa della sera, il premier che vuole sempre mediare non media più. Perché è furibondo e stufo, di Armando Siri. Così gli lancia un avviso di sfratto che mette la Lega di fronte a un bivio e il governo più vicino al precipizio verso cui correva da settimane, quello della crisi. “All’ordine del giorno del prossimo Consiglio dei ministri porrò la mia proposta di revoca del sottosegretario Armando Siri” scandisce Giuseppe Conte dentro Palazzo Chigi.

Ha deciso di rimuovere il sottosegretario leghista alle Infrastrutture indagato per corruzione, e ha messo in preventivo una possibile, sanguinosa conta nel prossimo Cdm, l’ 8 o il 9 maggio, dove i ministri potranno dare un parere (non vincolante) sul decreto di revoca, che poi dovrà essere firmato dal Quirinale. E chissà cosa farà, il Matteo Salvini che ieri sera descrivevano come “imbestialito”. Però salta ugualmente il fosso, Conte, e il tono di voce è controllato. Ma la camicia è stropicciata, la cravatta viola allentata e il volto è segnato. Tratti inconsueti per l’avvocato. Ed è lo specchio della sua ira, perché fino a pochi minuti prima, giurano, Conte aveva provato a convincere Siri a dimettersi. Non c’era riuscito lunedì, in un incontro di due ore a tarda sera in cui il premier aveva già paventato il decreto: “Dimettiti Armando, non mi costringere a prendere decisioni pesanti”. Ma Siri aveva detto no: “Mi dimetto solo se me lo chiede Salvini”. Però il capo del Carroccio non glielo ha chiesto, così ieri Conte ci riprova: “Se non lasci dovrò chiedere pubblicamente le tue dimissioni”. Ma il sottosegretario non cede: “Voglio essere sentito dai magistrati”. E allora il premier tira dritto. Ma non si aspetta lo sfregio delle 18.29 quando, pochi attimi prima del previsto inizio della conferenza stampa, Siri piazza un comunicato che è un’entrata a gamba tesa: “Confido che una volta sentito dai magistrati la mia posizione possa essere archiviata in tempi brevi. Qualora ciò non dovesse accadere entro 15 giorni, sarò il primo a voler fare un passo indietro, rimettendo il mio mandato per rispetto del ruolo che ricopro”. Ossia di andarsene prima delle europee del 26 maggio non ne vuole saperne. Sillabe che fanno infuriare Conte. E che lo portano a rinviare di mezz’ora la conferenza, e a virare sulla linea dura. Non più sola richiesta delle dimissioni, con annessa minaccia del decreto, ma l’avviso di revoca, dritto. “Le dimissioni o si danno o non si danno, le dimissioni future non hanno molto senso” morde il premier. E poi “eventuali dichiarazioni spontanee non potranno segnare una svolta”.

E d’altronde l’avvocato Conte il suo verdetto lo ha già emesso, e lo spiega così: “Il sottosegretario si è prestato a raccogliere le istanze di un imprenditore. È normale che si ricevano suggerimenti di modifiche di norme”. Ma il problema è un altro: “In questo caso la norma non avrebbe offerto chance future agli imprenditori, ma vantaggi retroattivi: era come una sanatoria, non era generale o astratta, e non disponeva per il futuro”. Per questo, conclude, “ho valutato l’opportunità e la necessità di dimissioni di Siri”.

E gli effetti potrebbero essere dirompenti. Conte, comunque l’arbitro, invoca responsabilità : “Invito la Lega a non lasciarsi guidare da reazioni corporative, ed esorto il M5S a non approfittarne per cantare vittoria”. Saluti e via, senza accettare domande (brutto). E sulle agenzie plana Di Maio, che si appella a Salvini: “Ha buon senso, non aprirà la crisi di governo, mi auguro che non si voti in Cdm”. Ossia che Siri si dimetta prima. Però, avverte il capo del M5S, “in caso si voti noi in Consiglio abbiamo la maggioranza”. Mentre il sottosegretario Stefano Buffagni al Fatto ripete la linea: “Io sono il primo dei garantisti, ma in una vicenda in cui si parla di mafia serve il passo di lato”. E in generale nel M5S lo dicono tutti: “A Salvini non conviene aprire la crisi su un indagato, ci regalerebbe un’autostrada per la campagna elettorale”. Ma Siri è ancora lì: come una mina.

È caduto giù l’Armando

Ci voleva un “premier per caso”, che non deve conquistarsi riconferme o ricandidature o rielezioni, per dire ciò gli italiani onesti attendevano di sentirsi dire da tempo immemorabile. Non basta un’indagine a stroncare la carriera di un politico, ma non basta neppure l’assenza di una condanna definitiva per lasciarlo al suo posto. Tutto dipende da ciò che ha fatto e dal giudizio etico, deontologico e politico che si dà della sua condotta, con tempi e parametri totalmente diversi da quelli penali. Il giudizio di Giuseppe Conte sul sottosegretario leghista ai Trasporti Armando Siri, inquisito per corruzione insieme all’imprenditore-faccendiere Paolo Arata, è diverso da quello della Lega (che lo difende a oltranza) e dei 5Stelle (che lo vogliono fuori dal governo perché indagato per corruzione in combutta col socio di un pregiudicato per corruzione imputato per mafia). Il premier s’è fatto un’idea precisa sia dell’indagine sia delle condotte politiche di Siri che essa ha svelato e che l’interessato, fra una bugia e l’altra, ha finito con l’ammettere. Nell’incontro di lunedì notte, si è fatto mostrare da Siri le carte depositate dai pm e prelevate dai suoi legali, con le intercettazioni fra Arata e il figlio che hanno convinto i pm a contestargli una tangente (promessa o incassata, poco importa) di 30 mila euro in cambio di favori legislativi. Ma non è per quelle che Conte ha deciso di estrometterlo dal governo: Arata sr. dice ad Arata jr. che il favore di Siri gli è costato 30 mila euro. E altri elementi indiziari sembrano confermare la mazzetta.

Ma, per quanto improbabile fra padre e figlio, è sempre possibile che si tratti di millanterie. In un clima politico così intossicato, due persone che sospettano di essere intercettate potrebbero accordarsi per inguaiare qualcuno con false accuse. Dunque non può bastare così poco per eliminare un politico. Eppoi, se i pm avessero “solo” quelle intercettazioni, oltre alla conferma delle manovre di Siri per piazzare l’emendamento ad Aratam, potrebbero decidere di archiviarlo: ci vuol altro per dimostrare in giudizio una corruzione anche solo tentata. Ma, anche senza quelle intercettazioni e quell’accusa, Siri non può più far parte del governo, specie se questo si fregia dell’impegnativa qualifica del “cambiamento”. E ieri Conte l’ha spiegato bene, respingendo lo sgarbato e maldestro tentativo in extremis della Lega di tappargli la bocca proprio nell’ora fissata per la conferenza stampa, con l’annuncio-supercazzola delle dimissioni postdatate di Siri “se i pm non lo interrogano e archiviano entro 15 giorni”.

I pm non hanno, in questa fase preliminare, alcuna intenzione di sentire o archiviare Siri: cercano riscontri all’ipotesi accusatoria e, oltre agli elementi depositati dai suoi legali dinanzi al Riesame, non possono scoprire altre carte. È Siri che vuole essere sentito, e probabilmente lo sarà, per rilasciare “dichiarazioni spontanee”, che sono tutt’altra cosa da un interrogatorio: questo consiste nelle domande dei pm, nelle risposte dell’indagato e nelle successive contestazioni dei pm; le dichiarazioni spontanee sono un monologo dell’indagato dinanzi ai pm muti, che verbalizzano le sue parole senza muovere alcuna contestazione. Dunque, anche se ciò avverrà, nulla cambierà ai fini dell’indagine. Né, tantomeno, dei fatti politici fin qui accertati dalle testimonianze dei ministri 5Stelle e dei funzionari del Mise sul pressing di Siri, durato 8 mesi, per infilare la norma pro Arata in questo o quel provvedimento. Con una sintetica ma efficace lezione di diritto costituzionale, Conte ha spiegato che le leggi sono “provvedimenti generali e astratti”, di solito validi per il futuro: quella spinta da Siri era una norma particolare, concreta e rivolta al passato, una sorta di sanatoria retroattiva per aumentare i guadagni privati con soldi pubblici dell’azienda di Arata (e del suo socio occulto imputato per mafia). Altro che aiuto alle energie alternative: era una marchetta ad personam, per giunta tentata alle spalle del premier, dei ministri e dei cittadini.

Ecco perché Siri è fuori dal governo: non perché sia colpevole di corruzione (questo lo stabiliranno o lo smentiranno i giudici fra qualche anno), ma per il conflitto d’interessi – e che interessi! – di cui si è fatto portatore per conto di Arata (questo lo sappiamo senza dubbi da quando lui stesso, dopo averlo negato, l’ha ammesso). E, così facendo, ha perso la fiducia del premier e di tutto il governo, oltreché dei cittadini. Se i leghisti fossero un partito serio, avrebbero dovuto sfiduciarlo subito per aver gabbato anche loro. Ma, visto che non l’hanno fatto e continuano a difenderlo a dispetto dei santi, del discredito, delle sue ammissioni e delle loro contraddizioni (Salvini chiese le dimissioni di indagati e addirittura di non indagati del centrosinistra coinvolti in conflitti d’interessi, da Alfano alla Boschi, dalla Guidi alla Cancellieri, giù giù fino alla governatrice umbra Marini), autorizzano un sospetto: che nella Lega qualcun altro sapesse della marchetta e del suo mandante. Del resto Salvini continua a sorvolare su Arata, come se fosse un passante e da FI alla Lega l’avesse portato la cicogna. Ma non spiega perché il 16 luglio 2017 – quando Salvini racconta di averlo conosciuto per la prima volta – quello strano affarista ligure-siciliano già parlava da padrone al convegno programmatico leghista di Piacenza; perché Salvini, appena divenne vicepremier, tentò di piazzarlo al vertice dell’Authority dell’energia; e perché due mesi fa Giorgetti assunse il figlio come “esperto” a Palazzo Chigi. Se il sottosegretario resta imbullonato alla poltrona, sarà inevitabile che il “caso Siri” diventi lo “scandalo Lega” e poi lo “scandalo Salvini”.

Gli eroi son tutti giovani e belli (e Ayrton Senna lo era davvero)

Ayrton Senna è davvero morto a Imola venticinque anni fa il primo maggio del 1994? No. Vive sempre con noi, con quella parte della nostra memoria che non dimentica i sogni, anche se non c’è più da venticinque anni giusto oggi. Lo ricordano ogni Gran Premio di Formula Uno: dopo la sua drammatica e spettacolare morte il Circo della Velocità non è stato più lo stesso. Viviana, la sorella, lo spiega così: “Credo che Ayrton non appartenga al mondo delle celebrità, non più. L’ha superato. È in una categoria mitica che trascende il tempo e lo spazio”.

Quella degli eroi. Lo sport ha sostituito le trincee e le battaglie. Lo sport dona la capacità di entrare nel cuore, nella fantasia, nei sentimenti della folla. Poi c’è il destino.

Il giorno prima di morire, Ayrton aveva confessato di avere brutte sensazioni: venerdì 29 aprile Ruben Barrichello aveva rischiato la pelle. Ma il giorno dopo, era stato un austriaco, Roland Ratzenberger, a pagare con la vita. Senna aveva rifiutato di correre le ultime prove. Per protesta. E per qualcosa che l’opprimeva.

Qualcosa di oscuro. Aveva paura? Non proprio. Aveva vissuto dieci anni pericolosamente sui circuiti di F1, aveva avuto qualche incidente però il coraggio certo non gli mancava, anzi, aveva la capacità di portare le sue gare al massimo della tensione e domare l’indomabile. Piaceva per questo.

Tant’è che nel 1993 una giuria internazionale l’aveva proclamato “il più grande pilota di sempre”. Gerhard Berger, amico e compagno di team, disse: “Al volante era eccezionale, con uno charme particolare… questa combinazione faceva di lui una leggenda già da vivo”. Persona semplice. Sensibile. Mai indifferente ai mali del mondo. Sa di essere un privilegiato. Sa di vivere una vita esagerata, fatta di emozioni, “cerchiamo sempre delle emozioni. È solo questione di trovare il modo per provarle”, citazione che scippo dal bel libro di Giorgio Terruzzi Suite 200. L’ultima notte di Ayrton Senna (edito da 66thand22nd, 2014). Senna, tuttavia, quel primo maggio corre lo stesso.

Alle 14 e 17, prima di affrontare la difficile curva del Tamburello, la sua Williams-Renault ha un brusco scarto. Un attimo. Ricordo l’urlo di terrore della gente. Il nostro urlo.

“Il mio nome è Ayrton/e faccio il pilota/e corro veloce per la mia strada…”. Lucio Dalla. Voce sommessa, triste. Canzone bellissima. “Dov’eri quando è morto Ayrton Senna? Prova a fare questa domanda a chiunque. Ciascuno ti risponderà descrivendoti un luogo, il momento preciso” (sempre Dalla, 1996). La velocità della monoposto di Senna, al momento della sbandata, è di 307 chilometri orari. Al momento dello schianto contro il muro della curva Tamburello, di 216. Tutto avviene in 13 decimi di secondo. Prima si spacca il piantone dello sterzo. Poi, nell’urto, un braccio della sospensione anteriore destra diventa una lancia appuntita d’acciaio. Sfonda il volto di Senna, appena sotto la visiera del casco oro e verde – i colori del suo Brasile, dove era nato il 21 marzo 1960, a Santana, nello Stato di San Paolo. Inutile la corsa all’ospedale di Bologna.

Ma già Ayrton ha smesso di vivere la sua vita terrena. È altrove, “…anche se non è più la stessa strada/anche se non è più la stessa cosa/anche se qui non ci sono piloti/ anche se qui non ci sono bandiere/anche se qui non ci sono sigarette e birre…”. Le parole della canzone sono di Paolo Montevecchi. Gli venne l’impulso di scriverla ascoltando Senna, il più grande dei piloti di F1, amato dalle folle, idolatrato in Brasile, che parlava del suo rapporto con Dio. Furono decretati tre giorni di lutto nazionale. Ogni anno è celebrato come il “meglio”. Il più amato degli eroi. L’ultimo “vero” pilota: più determinante della tecnologia, degli ingegneri, dei direttori sportivi, dei procuratori.

Nel 2019 è ancora con i quiz che si fanno i soldi (e la fama)

Da domani in libreria “Celebrity” di Andrea Kerbaker, un racconto ironico sull’ossessione di diventare famosi. L’autore ce ne racconta qui la genesi.

Prime giornate di primavera, interno notte. A cena con qualche amico, riassumo brevemente la trama del mio prossimo romanzo – “Si chiama Celebrity, è la storia di un ragazzo di provincia che va in televisione a concorrere a un quiz per inseguire il suo sogno del quarto d’ora di notorietà…” – e qualcuno tra loro immediatamente obietta: “Come, un romanzo sulla televisione, oggi? Ma non ti sembra di essere arrivato un po’ tardi? Non sarebbe piuttosto il caso di raccontare di un blogger, un influencer, delle nuove professioni che hanno un impatto sul mondo?”. Gli altri annuiscono, più dalla sua parte che dalla mia.

Può darsi, naturalmente. E tuttavia, senza nulla togliere alla infinita potenza della rete, la mia impressione è che ancora oggi nulla abbia lo stesso fascino della buona vecchia televisione, soprattutto per quanto è legato a certe ritualità collettive. Quelle dettate da format che ogni tanto vediamo nascere con qualche sgomento, pensando che dureranno lo spazio d’un mattino, e invece ci accompagnano eterni, sempre uguali a se stessi. I talk show, per esempio. All’inizio – anni Settanta, addirittura: siamo quasi al mezzo secolo – ce n’era uno solo, con re Maurizio Costanzo, sovrano incontrastato per decenni. In pensione lui, si diceva, finirà anche la formula. Si è visto: oggi se ne è perso il conto, e ogni rete sente il bisogno di averne uno, a volte due. Storia identica per i reality: a una ventina d’anni dall’invenzione del Grande fratello restano uno dei capisaldi di un certo modo di fare e vedere televisione, anche nelle loro varianti più trash; e così i talent, che imperversano su tutti i canali giorno e notte, a ogni ora. E in quelle giurie, non a caso, stanno nomi dello spettacolo vecchi e nuovissimi, Iva Zanicchi e Morgan e Fedez, tutti insieme appassionatamente, nella tv dove ogni nuova formula si sovrappone alle altre, senza cancellarle. Ma il protagonista del mio libro, Pino, un ventenne di provincia senz’arte né parte, non ha i numeri per andare a un talent, tanto meno a un talk show. A un quiz però forse sì: perché lì in fondo ci vanno tanti di quelli che sanno poco o nulla, come gli intellettuali noiosi – direbbe Pino – non fanno che rimarcare. Del resto il quiz è il papà di tutti i riti collettivi televisivi, partorito prima ancora delle partite di calcio in diretta; e, fin dalla sua nascita, è identificato da un requisito di base: “la riduzione del superman all’everyman“, spettacolare definizione con il copyright di Umberto Eco. Ricordate? Era il 1961 e – dalle colonne di un periodico d’azienda, la Rivista Pirelli – il giovanissimo Eco si inventava la Fenomenologia di Mike Bongiorno: “Egli convince il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della mediocrità. Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo”. All’inizio il fenomeno riguardava solo lui, il presentatore, mentre i concorrenti erano coloro che sapevano: “Mike Bongiorno dimostra sincera e primitiva ammirazione per colui che sa… professa una stima e una fiducia illimitata verso l’esperto; un professore è un dotto, rappresenta la cultura autorizzata”. Insomma, allora il mio giovane di provincia non avrebbe potuto andare al quiz televisivo: perché, a differenza del conduttore, avrebbe dovuto essere colto e preparato sopra la media. Oggi la caratteristica si è persa totalmente, ma questo è talmente noto che non merita neppure un commento.

Resta piuttosto una curiosità di base: qual è il motivo per andare in tv se non si ha molto da mostrare? Intanto per denaro: come cantava Arbore, “è coi quiz che si fanno i milioni / evviva le televisioni”. Ma soprattutto perché anche nell’epoca del web, quella che non si è persa è la formidabile capacità della televisione di dare notorietà a persone fino al giorno prima totalmente sconosciute. E questo vale tanto per un poeta da Nobel (Wislawa Szymborska, letta da Saviano in prima serata, è balzata al comando delle classifiche letterarie, sfuggendo al destino che vuole anche i più grandi poeti confinati nelle nicchie dei pochissimi) quanto per chi arriva da un’esistenza oscura. Certo, i più colti, che conoscono Andy Warhol, sanno che tutto questo rischia di essere molto effimero. Ma i più Andy Warhol non sanno neppure chi è; e poi in fondo chi l’ha detto? Si può partire da lì per finire chissà dove. Vedere per credere i nostri più votati leader politici dell’ultimo decennio: divisi praticamente da tutto, hanno in comune più o meno solo la partecipazione in gioventù alla grande giostra dei quiz televisivi – Matteo Renzi alla Ruota della Fortuna nel 1994; Salvini qualche anno prima al meno noto Doppio slalom, condotto da Corrado Tedeschi. E se l’hanno fatto loro, che di fama e consenso se ne intendono…

Primo Maggio Taranto: l’aria buona anche per i bambini

“In un Paese normale i bambini vanno a scuola ogni giorno. A Taranto fanno i turni, come piccoli operai, perché durante i wind days le scuole chiudono per inquinamento. E nel quartiere Tamburi c’è persino il divieto di giocare all’aperto. È normalità questa?”. Sarà ancora una volta un Primo Maggio di protesta, quello di Taranto. Lo assicura Michele Riondino, direttore artistico del concerto insieme a Roy Paci e Antonio Diodato (il Fatto sarà media partner dell’evento). “Protesta, ma anche proposta e sfogo – dice Riondino – perché siamo arrabbiati”.

Il clima in città è acceso, dopo la visita del ministro del Lavoro e vicepremier Luigi Di Maio. A quell’incontro ha partecipato anche l’attore tarantino che oggi, a proposito dei Cinque Stelle, parla di “promesse tradite e truffa politica”: “Ci hanno sedotti e abbandonati. Non credo più alle loro parole”. Il riferimento è alla gestione della questione Ilva, tema al centro del manifesto politico della giornata. “L’incubo del siderurgico – si legge – simbolo di una strategia economica distruttiva, che pian piano avrebbe dovuto spegnersi sotto i nostri occhi, oggi è più incombente che mai: ora si chiama Arcelor-Mittal. Mentre noi non abbiamo saputo cambiare il nostro nome: vittime eravamo e vittime siamo rimaste”. “Questa manifestazione è nata nel 2013 per dare informazione e tenere alta l’attenzione su questa città – prosegue Riondino –. A volte sento il peso della stanchezza perché la coscienza collettiva non si è svegliata molto, legata ancora alla dicotomia tra salute e lavoro. Ma sono contento di poter dare voce a tante realtà. Oggi su questo palco saliranno i ragazzi con cui manifesteremo il 4 maggio. Ci saranno studenti, associazioni e gente da tutta Italia, oltre a noi del Comitato, un grande corteo che arriverà fin sotto i cancelli dell’Ilva”.

L’attenzione, però, è tutta sul concerto. Sul palco si alterneranno i cantanti e le tante testimonianze di attivisti, ambientalisti, cittadini e associazioni. Interamente autofinanziato e organizzato dal Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti, l’evento sarà condotto da Valentina Petrini, Valentina Correani e Andrea Rivera. Si esibiranno Max Gazzè, Elio, Malika Ayane, Colle der fomento, CorVeleno, Andrea Laszlo De Simone, Viito, The Winstons, Dimartino, Epo, Mama Marjas, Tre Allegri Ragazzi Morti, Istituto Italiano di Cumbia, Terraross, Bugo, Sick Tamburo, Bobo Rondelli, Maria Antonietta, Ainé, Misspia e Brigata Unomaggio. “Ci saranno grandi anteprime assolute”, ha spiegato Roy Paci, e anche l’importante ritorno di Vinicio Capossela, accompagnato da una special band capeggiata proprio da Roy Paci, Daniele Sepe e Alessandro “Asso” Stefana. Grande attesa anche per gli “Oesais”, ovvero Toti e Tata (Emilio Solfrizzi e Antonio Stornaiolo), che regaleranno al pubblico un’esilarante parodia degli Oasis.

Ma #unomaggioliberoepensante è anche un luogo di incontri e voci delle tante realtà, nazionali e internazionali, impegnate nella difesa dei diritti universali. Tra gli ospiti i movimenti in lotta per l’ambiente come No Tav e i No Tap, accompagnati dal sindaco di Melendugno Marco Potì ed Enzo Di Salvatore, docente di Diritto all’università di Teramo, l’associazione “Bagnoli libera” e in collegamento i ragazzi di “Stop biocidio”, che si battono contro la devastazione ambientale nella “terra dei fuochi“ e che hanno organizzato un primo maggio anche a Napoli. “Spiegheremo – ha detto la presidente dei Liberi e Pensanti, Virginia Rondinelli – che altro gas non serve e che siamo contro la decarbonizzazione”.

E poi il referente italiano degli Ende Gelände, alleanza per la giustizia climatica globale e le mamme: quelle dell’associazione “Mamme da nord a sud”, le venete “no Pfas” che si battono contro l’inquinamento delle falde acquifere e le lucane, il video messaggio delle madri di Plaza de Mayo, che da quarant’anni chiedono verità per i loro figli desaparecidos. E poi Ilaria Cucchi, il vignettista Mauro Biani e il papà di Lorenzo Orsetti, il 33enne ucciso in Siria mentre combatteva al fianco dei curdi. In collegamento anche lo scrittore Christian Raimo e Mimmo Lucano, sindaco sospeso di Riace, e la testimonianza di Pietro Marrone, “il pescatore-comandante della nave Mare Jonio della Ong Mediterranea che, disobbedendo all’alt della Guardia di Finanza, ha soccorso e salvato 49 migranti in acque libiche e ora è indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. “Questa – ha detto Antonio Diodato – è la bella Italia che ci fa sentire fieri di appartenere a questo Paese”. Si parte alle 14 con l’urlo, forte, della piazza.

Signorini e le altre vittime dei “fidanzati-fantasma”

E fu così che anche Alfonso Signorini ammise “JesuisPamelaPrati”. Anche lui, direttore di una testata di gossip, sgamato 55enne capace di fiutare inciuci e amorazzi altrui, è cascato nella trappola delle agenti di Pamela Prati, e ha ammesso di essersi innamorato di un uomo inesistente. Cosa che a quanto pare è accaduta anche a Manuela Arcuri, a Sara Varone e chissà a quanti altri. Ha confessato di essersi fatto fregare, insomma, da qualcuno che su Facebook si era costruito un’identità maschile fascinosa e inesistente. Ci sarebbe da riderci su, ma a questo punto, mettendo insieme i pezzi del puzzle, la vicenda comincia a sembrare un fenomeno 2.0 i cui contorni sarebbero quelli di una vera truffa sentimentale.

Qualcosa che potremmo chiamare Ghost lover scam: la truffa del fidanzato fantasma. Perché sì, la storia del finto marito di Pamela Prati, inizialmente è sembrata solo un divertente teatrino messo in piedi per racimolare copertine e cachet, ma con il sopraggiungere di nuove testimonianze, ha preso un’altra direzione, una direzione in cui io stessa mi sono imbattuta circa un anno fa.

Partiamo dall’inizio. A febbraio Pamela Prati annuncia che a 60 anni sposerà un uomo meraviglioso incontrato da poco, tale Mark Caltagirone. Poco dopo si scoprirà che tale Mark non esiste, se non su Facebook, e che dietro il suo profilo ci sarebbero le agenti della Prati Eliana Michelozzo e Pamela Perricciolo. Le due, legate da un rapporto molto stretto, negli anni avrebbero gestito anche altri falsi profili maschili quali “Simone Coppi” e “Lorenzo Coppi” con cui corteggiavano alcuni personaggi noti tra cui appunto Alfonso Signorini. I profili fantasma sono irresistibili: Lorenzo Coppi, come raccontato da Signorini, è un biondo filantropo che vive ad Haiti. Simone Coppi, come descritto da Sara Varone, è il figlio di un importante avvocato. Mark Caltagirone un ricco imprenditore. E così via. Tutti fascinosi, romantici, ma imprendibili. Capaci di mille attenzioni, di promesse d’amore eterno ma con una cartucciera carica di scuse ogni volta che gli si chiedeva un incontro dal vivo.

Ma come si fa a cascarci? Va bene una settimana, ma poi si capisce che qualcosa non va, no? E invece, da quello che ho scoperto, il Ghost lover scam è un fenomeno in cui inciampano anche persone sveglie, sgamate e per un periodo di tempo che arriva anche ad anni di “relazione”. E non solo. L’aspetto interessante è che i predatori, coloro che costruiscono questi profili maschili, sono quasi sempre donne, e nella quasi totalità dei casi lesbiche o bisessuali. Alcune conducono normali vite da donne sposate, e sul web vivono una realtà alternativa; altre giocano a sedurre ragazze che mai accetterebbero il loro corteggiamento. Non ci sono fini economici o tentativi di truffare l’altra persona (il Romance scam, fenomeno descritto anche dalla Bbc), anzi. E le prede descrivono questi rapporti col ghost lover come vere e proprie relazioni sentimentali, in cui l’aspetto romantico prevale su quello erotico.

Mi sono imbattuta in diversi casi che si somigliano tutti. Il più clamoroso coinvolge almeno una decina di ragazze, tutte cadute nella rete di tale Jolen. Questo Jolen, dal 2015 in poi, contatta una serie di ragazze su Facebook. Si presenta con un profilo che ha già varie amicizie in comune con le sue “vittime”: ragazze molto carine, over 30, e con vari problemi personali, chi con un fratellino o un papà morto da poco, chi con separazioni in corso. Jolen le corteggia, inizia delle relazioni, parla al telefono con tutte più volte al giorno e di notte, fa promesse, litiga e si riappacifica per gelosia, promette matrimonio e figli, manda regali anche costosi, parla con i parenti delle ragazze, compresi eventuali figli. Quando è il momento di incontrarle, però, inventa sempre una scusa: muore un parente, ha un problema lavorativo e così via. Con alcune la storia dura mesi, con altre anche due anni. Finché un giorno non fa un bonifico a una delle sue fidanzate, e quella va a vedere l’intestatario del conto. Scopre che si tratta di A., una donna, sposata, che vive in Basilicata. E anche il cellulare da cui la chiama è intestato a lei.

Parlo a lungo al telefono con A., mi dirà che ha un rapporto irrisolto col sesso femminile, che riusciva a modificare la sua voce, poi che Jolen non era lei, copriva qualcun altro. I suoi amici più stretti confermano che Jolen sia lei. Da questa storia, le ragazze sono uscite traumatizzate e incredule.

La storia di Chiara è simile. Sta attraversando un periodo difficile, la contatta su fb tale Lucio che si presenta come un ragazzo siciliano che lavora a Milano per Unicredit. Inizia una relazione sentimentale via chat e telefono che dura mesi, lui contatta anche le amiche di lei, le fa trovare delle sorprese con il loro aiuto (fiori, regali…), ma quando è il momento di vedersi, gli muore sempre un parente. Alla fine Chiara scoprirà che il numero di telefono da cui Lucio la chiama è intestato a tale Francesca B., e che le foto di Lucio sono rubate dal profilo di un modello brasiliano.

Donatella invece si imbatte su fb in “Alessandro” nel 2010. “Per me fu facile innamorarmi di lui. Era bellissimo, mi attraeva mentalmente, era colto, sensibile, sapeva cosa dire a una donna. Per 4 mesi abbiamo parlato al telefono giorno e notte, aveva una voce maschile. Poi per caso ho scoperto che si chiamava Carmen. Superato il trauma, le ho chiesto di incontrarci, avevo bisogno di sapere con certezza che ‘lui’ fosse una donna. Lei ha accettato: sapeva tutto quello che ci eravamo dette in mesi di intimità, Alessandro era lei. Era lesbica, ho scoperto che aveva fatto lo stesso con tante ragazze”.

In un altro caso, le ragazze coinvolte sono alcune decine e qui il protagonista è tale “Harry”, fratello di tale Victoria che però in alcuni casi si chiamava Francesca o Shuela, a seconda della ragazza che abbordava via social. Le vittime non solo si innamoravano di Harry, ma stringevano una forte amicizia con sua sorella e varie amiche, peccato che dietro ogni profilo si nascondesse la stessa persona, nello specifico tale Francesca C. D., sposata, di mezza età. Ma c’è anche la storia (incredibile) di Serena che ha una relazione sentimentale di mesi con un ragazzo e poi scopre che a parlare con lei era sempre e solo la sorella di quel ragazzo.

“Non so quanti alberghi, quanti voli prenotati, quanti regali, quanti bonifici ho fatto… Tu dirai: ma entravi nella vita delle ragazze, spesso con dei problemi… Mi sentivo importante, realizzavo i loro sogni”, mi ha spiegato una di queste predatrici. Già. Fatto sta che il giochino del “Ghost lover scam” si lascia dietro parecchie vittime. E non tutte poi vendono l’esclusiva della fregatura a “Verissimo”.

Berlinguer e Almirante, quel gesto contro il terrorismo

Non succederà mai, e poi mai, quello che Antonio Padellaro nel suo ultimo libro – Il gesto di Almirante e Berlinguer – auspica di vedere un giorno, e cioè una cosa tipo “Piazza Almirante e Berlinguer”.

Proprio mai – a esserci, se mai ci sarà – potrà capitare questa intitolazione.

Neppure a Villa Borghese, a Roma, dove i due leader – protagonisti del nostro recente passato nel frattempo diventato storia – in una panchina si parlano riservatamente per un’ultima volta.

A e B che Padellaro immagina seduti uno accanto all’altro – all’imbrunire – portano sulle spalle, ciascuno la propria metà, una stessa storia: la guerra civile.

Il primo è il capo del Msi, il movimento cui si riconoscono gli eredi del fascismo, mentre il secondo lo è del Pci, il più grande partito comunista in Occidente.

Si sono già incontrati per quattro, o sei volte, tra il 1978 e il 1979 in un ufficio all’ultimo piano di Palazzo Montecitorio.

Sempre di venerdì – per quattro, o sei volte – nel giorno in cui la Camera dei deputati si svuota.

Giorgio Almirante, segretamente convocato, vi arriva con i suoi occhi dal colore dei ghiacci quando smottano.

Enrico Berlinguer che ha chiesto l’incontro lo accoglie con la sua stretta, quella mano che è come pane.

Di questi appuntamenti ci sono solo quattro testimoni, di cui uno solo in vita: Massimo Magliaro, il capo ufficio stampa di A.

Padellaro, dei pochi frammenti di memoria rimasti, ne forgia un libro – ne cristallizza il gesto –nell’impossibilità: riuscire a sapere cosa effettivamente si dicono A e B nei loro incontri.

Il loro gesto è nel loro incontrarsi e tanto basta – al netto delle supposizioni e delle interpretazioni – per riavvolgere il nastro della nostra memoria in un doppio apologo.

Intanto sull’amicizia che sorge nei cuori dei nemici mortali – come nell’incontro tra Achille e Priamo nell’Iliade, citato dall’autore – e poi su quel che di meglio si può fare sempre, da fronti opposti, nell’interesse superiore.

A e B non si spartiscono un segreto bottino. Neppure ordiscono un indicibile patto tra nemici. Nessuno, infatti, tradisce nessuno e quegli uomini che – come scrive Padellaro – “hanno come principale strumento di lavoro la parola”, non per un lavoro sporco decidono di “non farne parola” dei loro incontri ma per il compito duro dei capi: per prendere seriamente la propria vita, e quella degli altri. Hanno una sola urgenza: sradicare, ognuno nel proprio orto – nella severità, definitivamente – l’ortica di “una generazione omicida”.

Da un lato Berlinguer, dall’altro Almirante e quindi un’Italia – che nello stretto giro di una stagione vede cambiare tre presidenti al Quirinale e tre Pontefici in Vaticano – ancora arroventata dalla “strategia della tensione”, subito dopo precipitata “nell’esplosione del terrorismo rosso”.

Con il metodo di Nietzsche – “non esistono fatti, ma solo interpretazioni” – Padellaro elenca gli elementi a disposizione della memoria collettiva. Innanzitutto le date, gli eventi, eccoli: il 16 marzo 1978, il rapimento di Aldo Moro; il 9 maggio 1978, l’ uccisione del leader Dc; il 21 giugno 1978 omicidio del commissario Antonio Esposito, a ottobre l’irruzione nel covo delle Br di via Monte Nevoso a Milano, quindi – nella conta di piombo e terrore – più di trenta attentati nel mese di luglio. Inizia il tempo del tentato sovvertimento della società e delle istituzioni in Italia.

Padellaro, nel suo libro, rievoca tutto questo come in un unico piano sequenza.

In una domanda lascia sospeso un solo fermo immagine: “Torniamo al secondo piano di Montecitorio; chi sono Almirante e Berlinguer se non le vittime politiche predestinate di una cospirazione di cui hanno sentore ma che non sanno come fermare?”.

Sia il rappresentante inevitabile del male, il fascista, che il primo degli antifascisti – il segretario nazionale dei comunisti – hanno l’ossessione della violenza che insanguina l’Italia: la giornata di tutti, intanto, è sempre più avviluppata nei misteri della P2 di Licio Gelli che nel suo piano di rinascita nazionale se li vuole togliere di mezzo quei due, a tutti i costi.

Ad Almirante è recapitato un biglietto di condanna a morte, e non è vergato dai “nemici” comunisti.

Berlinguer rischia di morire in un incidente stradale a Sofia. Un camion piomba addosso all’automobile che lo sta accompagnando in aeroporto. Alla guida c’è un agente dei servizi segreti del Pc bulgaro. Berlinguer si salva miracolosamente e la morte lo coglie a Padova nel 1984 durante un comizio. La scomparsa di B è un lutto per tutta la nazione e la scena che tiene tutti col fiato sospeso è una: A fende il fiume di lacrime e di dolore dei comunisti, va davanti alla bara di B e lì, come un parente stretto, si fa il segno della Croce.

Non è la prima volta di un appuntamento clandestino tra fascisti e comunisti.

Palmiro Togliatti, nei giorni che precedono il Referendum s’incontra con il segretario del Partito Fascista, il pur condannato a morte Pino Romualdi – latitante – per assicurarsi, e sottrarli così al Re, i voti dei “fratelli in camicia nera”. Ma mai, e poi mai, quello che Padellaro immagina al modo di un epilogo – “mettendo al posto dell’odio, il rispetto e forse, chissà, l’amicizia” – potrà verificarsi ora che il comunismo non c’è più. E figurarsi cosa può esserci ancora del fascismo.

Svaniti i combattenti della guerra civile, sono rimasti di sentinella gli spettri dell’odio. Ancor più che nel passato – oggi più di ieri – i fantasmi non vogliono pace.

Omicidio Vannini, Ciontoli fa ricorso Salvini: “Vergogna”

Dopo le condanne in appello per l’omicidio di Marco Vannini, al centro di polemiche perché ritenute troppo lievi, la famiglia Ciontoli ricorre in Cassazione. Antonio Ciontoli, capofamiglia condannato a 5 anni per omicidio colposo, la moglie e i due figli condannati tutti a tre anni, hanno fatto ricorso. In primo grado Ciontoli aveva preso 14 anni per omicidio volontario. Marco Vannini, 20 anni di Cerveteri (Roma), morì il 18 maggio 2015 a Ladispoli, sul litorale romano, raggiunto da un colpo di arma da fuoco sparato da Antonio Ciontoli, padre della sua fidanzata e sottufficiale della Marina Militare. Cosa successe davvero non è chiaro. Marco Vannini, secondo l’accusa, fu lasciato per tre ore agonizzante con la complicità dell’intera famiglia e le sue condizioni peggiorarono fino alla morte. Secondo la versione dell’accusa, Vannini stava facendo un bagno in casa della fidanzata quando entrò Ciontoli per prendere un’arma. Partì un colpo che lo ferì gravemente. Di lì un ritardo “consapevole” nei soccorsi. Matteo Salvini ha commentato: “La vita di un ragazzo di vent’anni, ucciso in maniera vigliacca, vale solo cinque anni di carcere? E gli assassini chiedono anche uno sconto… Vergogna. Non è giustizia”.

Nuova sentenza di Cassazione: “I clan Casamonica e Spada sono mafiosi intercambiabili”

Ennesima conferma, dalla Cassazione, della mafiosità del clan Casamomica-Spada, attivo in diverse zone della capitale. Tra gli affiliati, rilevano gli ermellini nelle motivazioni fresche di deposito e relative alla convalida di diciotto arresti nell’udienza svoltasi alla Terza sezione penale lo scorso 9 gennaio, c’è “un solido vincolo familiare”, sono persone “interscambiabili nei ruoli e accomunati dal fine comune di commettere svariati reati”. Gestiscono insieme anche il grosso business dello spaccio di droga. La Suprema corte sottolinea come ormai sono numerosi i collaboratori di giustizia, oltre alle vittime di estorsioni e usura, che hanno “concordemente ricostruito l’organizzazione del sodalizio criminoso e hanno identificato i ruoli svolti da ciascun componente, segnalando talvolta lo svolgimento di una mansione specifica e immutata (si pensi a Casamonica Giuseppe, vertice del sodalizio), talaltra alla interscambiabilità delle funzioni svolte dai singoli”. Ad esempio, per la riscossione dei prestiti a usura, per intimidire, per entrare “nella base logistica del clan”. I giudici spiegano che le dichiarazioni dei collaboratori sia quelle delle vittime dell’associazione di stampo mafioso, “sono state ampiamente riscontrate da plurimi atti di indagine”, e da “svariate intercettazioni telefoniche”. La Corte sottolina che “tutti gli indagati erano parte di un nucleo associativo familiare fortemente radicato nel territorio romano e ben noto alla popolazione, godevano di una base logistica comune all’interno della quale tenevano le armi e la sostanza stupefacente e nei pressi della quale le varie persone offese erano state convocate da diversi membri dell’associazione, disponevano di una cassa comune, svolgevano la propria attività con metodo fortemente intimidatorio, ponevano in essere condotte di aiuto e di reciproca sostituzione e recuperavano le somme di denaro conseguenti al reato di estorsione o di traffico di sostanze stupefacenti”. Infine “0ricevevano precise istruzioni criminali dai vertici del clan” e si riferisce all’episodio in cui il boss Giuseppe Casamonica, detenuto, “dava istruzioni al figlio Guerrino e alla moglie Katia Tolli, che attendevano il colloquio in carcere”.