A Mouhamedali Toumi, calciatore dilettante di origine tunisina, è stato negato l’accesso in una discoteca di Bolzano nella serata di venerdì 8 marzo. La spiegazione al divieto del buttafuori gli era arrivata indirettamente, grazie all’ascolto di una conversazione tra l’uomo e una pr del locale: “Guardalo”. Una parola chiarita dagli organizzatori del locale come un riferimento al dress code inappropriato di Toumi, che a detta loro avrebbe anche avuto un atteggiamento poco adeguato. Peccato che il calciatore – che lavora anche come funzionario di Banca – non avesse toccato un bicchiere di alcol per motivi religiosi, e aveva un abbigliamento del tutto simile a quello degli amici con cui si trovava, consistente in maglietta bianca e blue jeans. Ma loro vengono lasciati entrare, nonostante avessero anche bevuto. Il riferimento all’apparenza di Mouhamedali lascia invece sospettare che il problema non fosse nei suoi vestiti ma nel colore della sua pelle, e che quindi l’episodio vada connotato come un vero e proprio atto di razzismo. Dubbi che si rafforzano considerando che Toumi non è stato l’unico ad essere lasciato fuori dal locale: insieme a lui, era stato impedito l’accesso anche a H.A., un altro ragazzo del suo gruppo di origini pakistane. Anche lui totalmente sobrio, anche lui vestito come il resto dei suoi compagni, i quali hanno potuto proseguire la serata nella discoteca. In seguito alla categorica presa di posizione del buttafuori, i ragazzi avevano proposto di andare da qualche altra parte, ma Toumi ha raccontato di essere talmente amareggiato dalla vicenda da tornare a casa, a piedi e senza neanche recuperare la giacca lasciata nella macchina di uno di loro. L’episodio sarebbe passato sotto silenzio, se non fosse che Toumi ha deciso di parlare con un giornalista dell’Alto Adige, il quotidiano regionale che ha pubblicato la notizia nella giornata di ieri.
Fermati otto giovanissimi: fu tortura sul pensionato disabile. Ma la morte è ancora un mistero
Nessuna collaborazione da parte delle famiglie indagate e solo un esposto – arrivato all’inizio del mese scorso – dopo mesi di silenzio. È questo l’ennesimo aspetto raccapricciante dell’orrore che si è consumato a Manduria, nel Tarantino, e che ieri ha portato a otto fermi. Tortura, danneggiamento, violazione di domicilio e sequestro di persona aggravati, sono le accuse alle quali dovranno rispondere sei minorenni, ora in comunità, e due maggiorenni finiti in carcere, su disposizione della Procura di Taranto. Per l’accusa di omicidio preterintenzionale bisognerà attendere l’esito dell’autopsia. I provvedimenti arrivano a una settimana dal decesso di Antonio Cosimo Stano, il 65enne morto per “shock cardiogeno” nell’ospedale di Manduria.
Nei guai la “comitiva degli Orfanelli” dal nome di una delle chat di Whatsapp in cui facevano girare in modo ossessivo video e file audio delle aggressioni (ora nelle mani degli investigatori) contro Stano.
Botte in casa e per strada, le urla della vittima e le risate dei suoi aguzzini: in uno dei tanti video si sente che, invano, chiama le forze dell’ordine: “Aiuto, carabinieri, polizia. Aiuto”. “Stai zitto pezzo di m…”. E poi calci e pugni. Sputi e insulti. Torture psicologiche e fisiche che erano diventate abituali. Stano era un bersaglio facile: debole e solo. Il passatempo del sabato sera, l’appuntamento con “il pazzo da sfottere”, prima di proseguire la serata.
Lo scorso 5 aprile gli agenti di polizia sono entrati in casa sua, dopo l’esposto presentato in questura dai suoi vicini di casa. “Lo Stano – si legge nelle carte – appariva in precarie condizioni igieniche e di salute. Non assumeva cibo da una settimana perché, uscendo di casa per fare la spesa, temeva di essere aggredito”.
“Il nostro lavoro è solo all’inizio: questa è una prima risposta a fatti gravissimi”, ha detto il procuratore capo di Taranto, Carlo Maria Capristo. “Ne seguiranno tante altre – ha concluso – compresa un’indagine su questi silenzi che uccidono”.
Più nero che rosa: manager d’ultradestra con i nuovi proprietari della squadra
Adispetto dei colori della maglia, il futuro del Palermo potrebbe essere più “nero” che rosa: la squadra siciliana sta per essere venduta ad Arkus Network, azienda presieduta da Walter Tuttolomondo attiva nel turismo, ma in realtà riconducibile a una sconosciuta società inglese, diretta da Stefano Pistilli, manager vicino a Forza Nuova e fondatore di un partito, Coalition pour la vie et la famille che promuove l’ideologia no-gender e altre simpatiche teorie simili.
Da tempo il Palermo cerca un nuovo padrone: lo storico patron Maurizio Zamparini, per cui sono stati disposti i domiciliari, è accusato di falso in bilancio durante la precedente gestione. L’attuale amministratrice (e sua collaboratrice) De Angeli cerca di vendere, anche a zero. Il problema è che oggi il Palermo è una società indebitata (circa 50 milioni), con poche chance di conquistare la Serie A che garantirebbe la salvezza economica e anzi con la spada di Damocle di un deferimento che può portare penalizzazioni, persino la retrocessione. Quale imprenditore serio lo comprerebbe? Più facile finisca nel mirino di avventurieri e strani giri.
A dicembre Zamparini aveva annunciato la cessione a degli inglesi, fuggiti al momento di presentare garanzie. Ora pare fatta con Arkus, gruppo specializzato in facility management di Tuttolomondo. Non è lui, però, il proprietario di Arkus, il cui 89% delle quote è in mano a Gepro Investment Ltd, società con sede a Londra e diretta da Pistilli: lo ha riportato il Giornale di Sicilia e lo conferma una semplice visura, da cui risulta pure che Arkus nel 2017 ha fatturato appena 400 mila euro (pochini per permettersi una squadra di calcio). E ieri l’Enac ha comunicato che una sua controllata (Partours) non ha pagato un vettore, mettendo a rischio le partenze.
I dubbi crescono. I trascorsi di Pistilli non li fugano: lui sì che è conosciuto, anche se non nel calcio, ma come segretario di Coalition pour la vie. Originario di Albano Laziale (Roma), è residente a Londra, dove ha avuto ruoli in diverse aziende accostabili più o meno indirettamente all’estrema destra. Una di queste prima di Gepro aveva il nome evocativo di Gladio Consulting. Un’altra era Uk Privilege, agenzia che organizzava soggiorni in Inghilterra, ed è stata poi ceduta a Matteo Stella, militante di Forza Nuova. Scavando negli archivi, si ritrovano sue “apprezzate collaborazioni” su RadioFN.
Arkus ha precisato che Pistilli ha solo una “minima quota” in Gepro, quindi “non è in grado di esercitare alcuna influenza sulla società”, e che la “matrice xenofoba” è destituita di fondamento. Sarà. Il collegamento con Pistilli resta, come il fatto che lui e Tuttolomondo risultano legati anche in un’altra società (Amandatour). Perché non è chiaro, come possa succedere invece sì: il pallone italiano non ha un sistema efficace di controllo sulle proprietà. La Figc ha stretto le maglie, ma per acquistare un club basta avere i requisiti di onorabilità (niente condanne definitive per truffa o reati gravi) e presentare una dichiarazione di solvibilità di una banca. Nessuno può davvero verificare che una squadra non finisca in mano a truffatori o prestanome. Figuriamoci a ideologhi dell’ultradestra.
Servizio nostalgico su Mussolini: paga il caporedattore
Sul caso Predappio alla fine a pagare sarà il caporedattore del Tg regionale dell’Emilia Romagna. La Rai, infatti, ha avviato un procedimento disciplinare nei confronti di Antonio Farnè, caporedattore della testata regionale. La persona che, visionato il servizio confezionato dal giornalista Paolo Pini, ha dato il via libera alla messa in onda. Ora Farnè avrà cinque giorni di tempo per fornire la sua versione dei fatti. Poi sarà l’ad Fabrizio Salini a decidere per un eventuale provvedimento, che potrebbe andare dalla censura, alla multa, fino alla sospensione. La decisione di avviare il procedimento è stata presa dal vertice dell’azienda alla luce della relazione prodotta dal direttore della Tgr Alessandro Casarin, che già lunedì aveva preso le distanze dalla scelta dalla redazione emiliana. Nel servizio trasmesso domenica si è raccontata la celebrazione da parte di militanti di destra e nostalgici del fascismo dell’anniversario della morte di Benito Mussolini davanti alla sua tomba, a Predappio. Un servizio che è stato una sfilza di saluti romani, camicie nere ed elogi al duce senza alcun filtro giornalistico.
“A destra non c’è limite. E ora Salvini fa come CasaPound a Vallerano”
“Oggi la destra ha un problema, la rincorsa al pensiero oscuro, che in CasaPound è evidente. La barriera sta da questa parte, meglio capirlo prima che sia troppo tardi”. Parola di Filippo Rossi, direttore di business.it e direttore artistico di “Caffeina”, un passato e un presente di globetrotter della politica con il cuore a destra, per di più – in giorni in cui si fa un gran parlare di CasaPound a Viterbo – viterbese doc.
Filippo Rossi, lei i “ragazzi” di CasaPound li conosce bene…
Fisicamente, sì…
Il famoso “schiaffo futurista”…
Alla faccia dello schiaffo, era un cazzotto. Era l’estate 2012, durante il Festival Caffeina a Viterbo. Fui affrontato dall’allora leader di CasaPound Gianluca Iannone, che a malapena conoscevo. Mi diede del traditore e mi colpì al volto, rivendicando poi pubblicamente il fatto quasi come una goliardata. Un episodio che dà la misura della cifra culturale di questa gente. E lo dico senza alcun moralismo e retorica, non mi interessano le reprimende. Quello di CasaPound è un mondo borderline, molto simile, per certi versi, a quello dei centri sociali di sinistra: in una civiltà occidentale sono realtà assolutamente normali, che oltretutto controllano e accolgono pulsioni che – piaccia o no – esistono e non si possono eliminare, per esempio, sciogliendo un movimento politico o sgomberando un’occupazione. Non serve fare i moralisti, basta aver ben chiaro che si tratta di fenomeni sociologici da studiare e da controllare se e quando creano problemi di ordine pubblico. Il problema è quando questo mondo vuole farsi politica istituzionale. Non si può essere “contro il sistema” e poi farsi istituzione. Non è possibile stare da entrambe le parti.
A Vallerano, il comune del consigliere Francesco Chiricozzi al centro delle cronache, CasaPound è l’unica opposizione. Chi è di destra non aveva scelta…
Al di là dei motivi per cui ciò è accaduto, penso che CasaPound stia a Vallerano come la Lega sta all’Italia. Nel momento in cui manca una destra sana e normale, come esiste in tutta Europa, non si può pretendere che la gente non voti. Anche il superpotere di Salvini – quel signore che con CasaPound va volentieri a cena e si fa anche fotografare e pubblica libri con la loro casa editrice – è frutto certo di abilità politica ma soprattutto di mancanza di alternative. Berlusconi ormai ha perso tutta la sua propulsione, un suo erede non è ancora nato, l’emisfero italiano di destra che più o meno equivale sempre al 50 per cento, sceglie quel che c’è.
Quindi Salvini…
Salvini è un leader di estrema destra, di una destra sovranista razzisteggiante, iper tradizionalista, che fa del cattolicesimo un’arma politica. Realtà simili, in Occidente, esistono un po’ dappertutto, ma all’estero questo mondo può al massimo sperare di allearsi con una destra diciamo moderata. In Italia, invece, dà le carte.
Non ci dirà che la destra italiana è messa peggio della sinistra?
Mi concedo una citazione del Trono di Spade e dico che oggi la barriera è a destra, il muro da erigere è da questa parte. Con quella gente lì non si parla. E non mi riferisco solo a CasaPound. E il problema non è il delinquentello neofascista di turno. La questione è l’esaltazione del “cattiverio”, che esiste anche in una parte di Lega e di Fratelli d’Italia, dove pure militano tante persone per bene. Non sono un cultore dell’ideologicamente corretto, sia chiaro, ma questa guerra al buonismo – come se essere “buoni” fosse automaticamente un titolo di demerito – ha preso un po’ la mano a questa gente che attacca papa Francesco, per esempio, solo perché fa il suo mestiere, come se fosse un traditore di non si sa bene che cosa. Il culto del male è un problema, si può essere perbene anche a destra rimanendo di destra. Basta con questa perenne bava alla bocca, o si finisce per accendere interruttori sociali che sarà poi difficile spegnere. Avere paura è un diritto, sdoganare l’odio per dare una risposta è pericoloso. C’è una corsa verso un pensiero oscuro che in CasaPound è palese, ma che echeggia anche nella Lega e in Fratelli d’Italia. Che senso ha partecipare al Congresso di Verona, un’altra cosa borderline? Quella gente non rappresentava nessuno se non loro stessi. Non è lì il consenso, oggi i referendum su divorzio e aborto avrebbero lo stesso risultato anche a destra. Eppure ne abbiamo parlato per giorni e giorni.
“T’ammazzo, hai capito?” Così gridavano alla donna
“Scene raccapriccianti”. Così il gip di Viterbo Rita Cialoni descrive nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere i video e le foto sequestrati sui telefonini dei due militanti di CasaPound Francesco Chiricozzi (consigliere comunale a Vellarano) e Riccardo Licci, arrestati lunedì perché accusati di aver ripetutamente stuprato una donna di 36 anni all’Old Manners di Viterbo, il ritrovo ufficiale dei militanti locali di CasaPound. I due, ieri, sono comparsi di fronte al gip per l’interrogatorio di garanzia e hanno fornito la loro versione dei fatti: è stato un rapporto consenziente. Ma al momento fanno fede le dieci pagine di ordinanza di custodia cautelare. L’analisi minuziosa di tre video (e di alcune foto) della durata di circa 7 minuti ciascuno ritrovati sul telefono di Chiricozzi. Nei frame si vedono “reiterati abusi”, scrive il giudice, portati avanti in modo “beffardo e sprezzante” (Chiricozzi fa il gesto delle corna in favore di telecamera con la donna a terra sullo sfondo ma, deluso per la poca luce, esclama “Cazzo nun se vede niente”) tra risate (“Dai, non fare così, ci divertiamo un po’”), minacce (“T’ammazzo, hai capito?” urla Licci bestemmiando alla ragazza che tenta di divincolarsi) e gesti che sono indice di “un mancato controllo degli impulsi” nonostante “lo stato di semi incoscienza in cui si trovava la vittima”. Uno stato evidente già nelle prime immagini: la donna a terra priva di sensi, colpita da un pugno. Uno dei due le solleva il braccio e lo lascia ricadere senza trovare opposizione. È la “prova del braccio”, poi la denudano e la violentano ripetutamente, a turno.
“Li ho conosciuti per caso e li credevo miei coetanei, sembravano persone perbene – ha raccontato la donna al suo legale Franco Taurchini – Così quando mi hanno proposto di andare in un altro locale a bere mi sono fidata. Una volta all’Old Manners ci siamo seduti a un tavolo. Avevo chiesto una birra ma mi hanno portato qualcos’altro. Poco dopo uno di loro mi ha colpita con un pugno e sono svenuta. Poi non ricordo più nulla. Mi sono svegliata nel mio letto senza sapere come ci sono arrivata”. “Si è sentita male dopo un cocktail”, precisa Taurchini.
I due accusati, come detto, professano innocenza e, tramite i loro tre avvocati Giovanni Labate, Marco Mazzatosta e Domenico Gorziglia, sostengono al massimo di aver valutato “in maniera errata una situazione”. “Sono ragazzi – sostiene l’avvocato Labate – che hanno avuto un rapporto e ritengono che sia consenziente, sulla base di una serie di elementi che non vi possiamo dire”.
“Ma quale rapporto consenziente – replica l’avvocato della donna – spiegatemi allora come fa a essere piena di lividi e con un occhio nero. La verità è che l’hanno massacrata, ha preso un sacco di botte ed è svenuta”. E poi è arrivata la violenza, dice il gip, e quelle scene raccapriccianti.
La crisi dell’automotive, per la Fiom sono a rischio 180mila posti di lavoro
Nell’immediato ci saranno da risolvere almeno due crisi: lo stabilimento di Pomigliano, con 2.500 esuberi (e la cassa integrazione che scade a fine estate) e il rilancio mai partito di Termini Imerese, con 700 lavoratori coinvolti. Ma sono solo le più evidenti, perché nel medio e lungo periodo i rischi cresceranno. Per esempio le decine di migliaia di posti messi a rischio dall’avvento dell’auto elettrica, più tutti i fattori che stanno costringendo i fornitori di componenti a ridurre gli organici o attivare gli ammortizzatori sociali.
Anche quest’anno il Primo Maggio dei lavoratori del settore automobili sarà una festa all’insegna dell’incertezza. Contando gli addetti all’assemblaggio, alla componentistica e ai servizi connessi, sono 180 mila ma – secondo la Fiom – se il governo non affronterà con urgenza questa situazione, ci sarà il pericolo che con il passare del tempo quel numero vada gradualmente a decimarsi.
I timori dei metalmeccanici Cgil derivano dal fatto che in Italia c’è un solo produttore, Fca, quindi le sorti di questa industria sono legate a un unico soggetto. I dati del mercato non portano ottimismo: a marzo le immatricolazioni sono calate del 9,6% rispetto a un anno prima, e la performance di Fiat Chrysler è stata anche peggiore, con il 19,3% lasciato sul terreno. “Le produzioni di Fca nel nostro Paese crollano in tutti gli stabilimenti – afferma Michele De Palma, segretario Fiom che segue l’automotive – e gli ammortizzatori sociali sono in crescita. La scadenza di Pomigliano è da allarme rosso”. Sull’innovazione, il Lingotto sconta un ritardo; solo a giugno 2018 è arrivato il piano che prevede nuovi modelli anche ibridi ed elettrici, tra l’altro più volte messo in discussione. “Allo stato attuale – aggiunge De Palma – se uno guarda le fabbriche nota che c’è cassa ovunque”. E questo genera incognite nella filiera che produce componenti: “Ovunque andiamo – avverte il sindacalista – notiamo che stanno o mandando a casa i lavoratori precari o stanno usando ammortizzatori sociali pure loro”. Anche il piano industriale è pieno di insidie. Fare un’auto elettrica, infatti, richiede meno operai rispetto ai motori a benzina. I fornitori di Fca, inoltre, non sono al posso con queste tecnologie e secondo uno studio dell’Università Ca’ Foscari di Venezia le imprese che, con l’arrivo dell’elettrico, temono una perdita di competitività impiegano ben 18 mila lavoratori.
Oggi i 700 operai della Blutec di Termini Imerese manifesteranno fuori dai cancelli. Dovevano essere protagonisti della rinascita dello stabilimento ma, dopo anni di ritardi, si sono ritrovati con un’azienda posta sotto sequestro in un’inchiesta per malversazioni.
Tagliare l’orario di lavoro è una scelta inevitabile
Nel 1978 ci ha provato la Cisl, con il suo “lavorare meno, lavorare tutti”. Nel 1998 ha ripreso il tema Rifondazione comunista con le “35 ore”. Oggi avanza una proposta in merito il presidente Inps, Pasquale Tridico, con l’appoggio dei Cinque Stelle. Ogni vent’anni si apre uno spiraglio per riflettere sulla questione della riduzione dell’orario di lavoro a pari salario. Ma finora quello spiraglio si è sempre richiuso velocemente, senza dare alcun frutto. Sarà diverso questa volta?
All’orizzonte non ci sono segnali che le cose possano evolvere diversamente, perché manca un elemento essenziale affinché l’esito non sia nuovamente disastroso. Di che cosa si tratta? Dell’assenza, nonostante la disgregazione della cultura prevalente, di una teoria, o almeno di un orientamento, che permetta di ragionare sul perché quella strategia, oltre ad essere positiva, è anche l’unica possibile. Ciò è aggravato dal fatto che la maggior parte delle persone non è normalmente consapevole di sperimentare il mondo in un modo culturalmente determinato, ed è ingenuamente convinta di poter pensare e discutere di qualsiasi argomento senza dover educare la propria sensibilità nel confrontarcisi.
In questo la storia si ripete. Tra le due guerre mondiali la società fu, infatti, investita da una profonda crisi. La disoccupazione media nei Paesi sviluppati, come per esempio la Gran Bretagna, si aggirò per tutto il ventennio attorno al 15 per cento. Negli Usa il Pil crollò in valore del 50 per cento. Che fare? John Maynard Keynes, cominciò a battersi per una politica di crescenti investimenti pubblici. La sua tesi era relativamente semplice. Per creare lavoro e per produrre occorre una spesa. Le imprese private avevano ormai esaurito il loro ruolo propulsivo, e si astenevano dallo spendere per non incorrere in perdite. Lo Stato doveva supplire alla spesa mancante, mettendo in moto la produzione e soddisfacendo bisogni.
Per più di dieci anni l’insegnamento di Keynes cadde nel vuoto più assoluto, perché cozzava col senso comune prevalente. Lo stesso presidente Usa Franklin Delano Roosevelt, che aveva prestato un vago ascolto a Keynes col New Deal negli Usa, tornò rapidamente sui suoi passi, tagliò la spesa federale e fece ritornare la disoccupazione al di sopra del 15%.
Quando la società, spossata dalla guerra e memore della lunga crisi, fu abbastanza aperta da accogliere qualche novità, riuscì a far propri gli insegnamenti di Keynes, che nel frattempo, però, era morto. Tutti si limitarono a gridare al “miracolo economico”, dimostrando così di non aver compreso la base razionale delle politiche del pieno impiego. In realtà, lo straordinario sviluppo c’era stato perché la spesa pubblica era cresciuta, rispetto a prima della guerra, di tre volte in rapporto al Pil e lo Stato era arrivato a occupare direttamente, in alcuni Paesi, tra il 30 e il 40 per cento della forza lavoro (!) ricreando così un mercato per le imprese.
Come sempre accade, il mondo keynesiano è diventato per noi come una “seconda natura”, tanto che non ci siamo interrogati sulla sua origine e sul suo futuro. Per questo, quando sul finire degli anni 70 sono emersi gravi problemi, la società si è spaccata in due. Da un lato, coloro che continuavano a giurare sull’illimitata validità delle strategie keynesiane, che però facevano sempre meno presa sulla società, perché contraddette dall’evoluzione reale. Dall’altro lato, i corvi neoliberisti, che riprendevano la loro opposizione al keynesismo, come se il mondo non fosse stato radicalmente trasformato dal Welfare.
Fu allora che emerse il problema della necessità di redistribuire il lavoro. Se invece di credere che Keynes avesse proposto una ricetta sociale, per riprodurre il lavoro, valida illimitatamente, gli si fosse dato veramente ascolto, la crisi emersa a fine anni 70 ci avrebbe presi meno di sorpresa. Nel momento stesso in cui si batteva per la politica del pieno impiego, egli insisteva nel sottolineare che sarebbe stata valida solo per una breve fase storica. Nel giro di un paio di generazioni avrebbe perso efficacia. Non solo le imprese non sarebbero più state in grado di riprodurre lavoro sulla scala necessaria ad assicurare un livello decente di impiego, agganciandosi alla spesa pubblica, ma anche lo Stato sarebbe incappato in una limitazione che non sarebbe stato in grado di superare.
Nel tentativo di spiegare il perché di tutto ciò, Keynes ricalca una delle tesi care a Marx. Il lavoro salariato è una forma di partecipazione alla produzione storicamente valida solo fintanto che la società procede sulla spinta della costrizione economica. Funziona quando c’è sovraffollamento abitativo, carenza di cibo, servizi igienici inesistenti, penuria di mezzi di trasporto e di comunicazione, malattie incontrollate, che abbattono la durata della vita, analfabetismo generalizzato. Quando, grazie allo sviluppo il mondo cambia, e ci sono più abitazioni che abitanti, servizi igienici decorosi, sovralimentazione, congestione per troppi mezzi di trasporto, la quasi scomparsa dell’analfabetismo, e la vita media si prolunga fino a più di 80 anni, la costrizione economica è ridotta e il rapporto di lavoro salariato diventa anacronistico.
Il lavoro necessario va allora redistribuito tra tutti e, per non incidere negativamente sulla domanda, va effettuato a parità di salario. Solo in questo modo il tempo reso disponibile, che ora va sprecato nella disoccupazione, può essere appropriato da tutti per lo sviluppo individuale del quale c’è assoluto bisogno nel processo di superamento dei limiti del rapporto salariato.
Alitalia, Fs chiede la proroga della proroga. Sciopero il 21 maggio
Serve più tempo. A chiederlo sono sia le Fs coinvolte nel rilancio che i tre commissari che gestiscono la compagnia aerea illustrando la situazione ai funzionari del ministero dello Sviluppo economico. La partita Alitalia, insomma, è ancora tutta da giocare. “In queste ore e in questi giorni stiamo valutando altre offerte rispetto al blocco Fs-Delta-Mef”, spiega il ministro Luigi Di Maio, che segue il dossier e dal vertice Italia-Tunisia rassicura: “Non ci sono notizie negative”. Al suo rientro a Roma, Di Maio si confronterà con i commissari che hanno anticipato alcune valutazioni agli esperti del suo dicastero. Accanto alle ferrovie, ci deve essere un partner di peso. Oltre a Delta, citata da Di Maio, molti guardano ad Atlantia, società che gestisce Autostrade e Aeroporti di Roma, che dopo la tragedia del Ponte Morandi ha pessimi rapporti con il governo. Un aiuto da Lufthansa o China Eastern sono altre ipotesi emerse nelle ultime settimane, così come la possibilità di una partecipazione della famiglia Toto, già attiva in Air One e nella gestione delle autostrade abruzzesi. Ma sono tutte possibilità che, al momento, rimangono sulla carta o, come spiega Di Maio, in corso di valutazione. Si va quindi avanti nell’incertezza: la risposta formale dei commissari a Fs dovrebbe arrivare il 2 maggio, mentre solo nelle prossime settimane si arriverà (forse) alla concreta e dettagliata offerta da parte di Ferrovie. La Lega, con i capigruppo alla Camera e al Senato, chiedono di “fare presto, non può essere perso altro tempo: vanno tutelati gli oltre diecimila posti di lavoro”. Intanto i sindacati si dicono preoccupati: Cgil, Cisl, Uil e Ugl hanno proclamato lo sciopero per 24 ore per il 21 maggio. Incroceranno le braccia tutti i lavoratori del settore tranne i controllori di volo. Si teme per l’impatto sul lavoro, in termini di esuberi e tagli. Più in generale, i sindacati denunciano la mancanza di “una concreta legislazione per il sostegno del settore, che contrasti il dumping contrattuale e che preveda l’applicazione del contratto del trasporto aereo a salvaguardia dell’occupazione e dei salari”. Intanto resta nel dl Crescita la proroga a tempo indeterminato del prestito ponte da 900 milioni concesso ad Alitalia.
Un altro colpo a Huawei: le accuse sulla “backdoor”
Ascoppio ritardato, con otto anni di differenza, senza un apparente motivo se non alimentare la diffidenza nei confronti di Huawei in un momento in cui pian piano l’azienda sta recuperando terreno in Europa (con le recenti aperture della Germania e della Gran Bretagna sulla collaborazione del gigante cinese alla rete 5G) ieri viene fatta circolare una notizia: Vodafone nel 2011 e nel 2012 ha scoperto delle “backdoor” nelle apparecchiature fornite dal colosso cinese, poi utilizzate per i servizi di connettività su linea fissa in Italia (in pratica sui router acquistati a partire dal 2008).
C’è un documento interno, altri ancora – secondo Bloomberg che veicola l’informazione – dimostrerebbero che le vulnerabilità permangono. In Italia come in diversi Paesi europei. Nell’articolo si parla di “backdoor nascoste”, cioè porte sul retro che permetterebbero di entrare nei dispositivi e nelle reti e di intercettarne i dati. La replica arriva poco dopo in due comunicati, quello di Huawei e – soprattutto – quello di Vodafone. “ I problemi in Italia identificati nella storia di Bloomberg sono stati tutti risolti e risalgono al 2011 e al 2012” spiega l’operatore. In sostanza, la “backdoor” a cui Bloomberg fa riferimento è in realtà Telnet, un protocollo comunemente utilizzato da molti fornitori del settore (quindi non solo da Huawei) per svolgere alcune funzioni di diagnosi sugli strumenti e, in pratica, per effettuare controlli e interventi a distanza in caso di malfunzionamenti. Una funzione che “non sarebbe stato accessibile da Internet – spiega Vodafone – e Bloomberg non è corretta nel dire che ciò potrebbe aver dato a Huawei l’accesso non autorizzato alla rete fissa della compagnia in Italia”. L’azienda sottolinea poi che non ci sono prove di accessi non autorizzati, che si sarebbe trattato solo della mancata rimozione di una funzione diagnostica lasciata lì per sbaglio dopo lo sviluppo. Inoltre, per Vodafone, questa storia è solo la prova del suo zelo nei controlli visto che i problemi sarebbero stati identificati da test di sicurezza indipendenti, avviati dall’operatore stesso, come parte delle sue misure di sicurezza di routine e risolti immediatamente da Huawei. Secondo la ricostruzione di Bloomberg, invece, Huawei non avrebbe rimosso immediatamente le vulnerabilità, con la scusa che fosse una funzione necessaria per assicurare alti livelli di qualità del servizio, costringendo Vodafone a chiederlo una seconda volta. Non ci sono prove, però, che si tratti della stessa vulnerabilità.
“La notizia pubblicata da Bloomberg è fuorviante – ha commentato invece Huawei – Si riferisce a una funzione di manutenzione e diagnostica, comune a tutto il settore. Non c’è assolutamente nulla di vero nell’allusione a possibili backdoor nascoste negli apparati di Huawei”. Una osservazione puntuale. Dal punto di vista tecnico, infatti, esiste una differenza tra una vulnerabilità (che è involontaria) ed una backdoor (che invece è volontaria). Anche se, nella grammatica della cybersecurity, una falla volontaria potrebbe essere “mascherata” da involontaria proprio per confondere le acque. Resta il fatto che serviranno prove molto più concrete (e attuali) per riuscire a fermare la corsa di Huawei. Prove che finora non sono ancora venute a galla.