Confindustria chiede i danni agli ex vertici del Sole 24 Ore

Con una mossa attesa ma nient’affatto scontata, dopo anni di “disattenzione” gestionale, Confindustria ha deciso di chiedere i danni della passata gestione del Sole 24 Ore agli ex vertici. Ieri l’assemblea degli azionisti della società quotata che pubblica il principale quotidiano economico e finanziario italiano, controllata dall’associazione degli industriali, ha approvato con il voto determinante a favore di Confindustria l’azione sociale di responsabilità nei confronti dell’ex presidente Benito Benedini, dell’ex ad Donatella Treu e dell’ex direttore Roberto Napoletano con il 99,3% dei voti a favore e solo lo 0,7% di astenuti, nessun contrario.

La proposta all’ordine del giorno era stata avanzata dal consiglio di amministrazione della società editrice che l’aveva approvata all’unanimità nella riunione del 12 marzo. L’azione di responsabilità, che segue la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dalla Procura di Milano per false comunicazioni sociali e aggiotaggio informativo (l’udienza preliminare è fissata al 12 settembre) e la proposta di pesanti sanzioni da parte della Consob, è stata formulata dal consiglio di amministrazione del Sole 24 Ore dopo un’istruttoria svolta dalle strutture interne della società e da verifiche legali e finanziarie condotte da un pool di consulenti. Secondo gli amministratori attuali, i danni sono stati causati al Sole da Benedini, Treu e Napoletano per le “pratiche commerciali e di reporting dirette a incrementare artificiosamente i dati relativi alla diffusione del quotidiano” e per “l’operazione mediante la quale Il Sole 24 Ore ha ceduto il ramo d’azienda Business Media a una società neocostituita denominata New Business Media Srl al prezzo simbolico di 1 euro e con il riconoscimento di una ‘dote finanziaria’ di circa 10,9 milioni, conclusa tra il dicembre 2013 e il gennaio 2014” oltre che per un’operazione di factoring su una rotativa di Bologna. L’azione di responsabilità nei confronti di Benedini è solo per l’operazione Business Media, per la quale a lui e all’ex amministratrice delegata Donatella Treu sono richiesti danni quantificati in almeno 4,3 milioni, mentre nei confronti di Roberto Napoletano e a Treu sono chiesti danni per 4,6 milioni in relazione ai dati diffusionali del quotidiano.

Il presidente del Sole 24 Ore, Edoardo Garrone, nella discussione sull’azione di responsabilità ha specificato che la richiesta di danni è stata avanzata solo nei confronti di Benedini, Treu e Napoletano, in quanto “non sono emerse circostanze per cui si possano considerare responsabili altri amministratori oltre le tre persone oggetto della proposta”. Rispondendo a una domanda degli azionisti, Garrone ha specificato che sono state “fatte verifiche anche sulla situazione patrimoniale delle tre persone oggetto dell’azione” per verificarne la solvibilità e che tale situazione “verrà monitorata per quanto possibile”. Garrone ha aggiunto che “è emersa anche la formazione di un trust con sede a Nola da parte dell’ex direttore Roberto Napoletano: la società ne è a conoscenza e si riserva ogni azione a riguardo anche a fini conservativi”. Napoletano è stato inserito nell’azione di responsabilità, secondo il presidente Garrone, non solo perché nell’inchiesta penale è emerso il ruolo di “amministratore di fatto” del gruppo, ma anche perché dalle verifiche realizzate si è evinto che “Napoletano ha ingerito in maniera costante nella strategia di diffusione del quotidiano, contribuendo alle condotte illecite contestate a Donatella Treu”, ex amministratore delegato. Soddisfazione per la decisione è stata espressa da numerosi azionisti presenti, compresi i rappresentanti sindacali dei comitati di redazione del quotidiano, che hanno votato a favore come pure i colleghi del CdR dell’agenzia di stampa Radiocor.

L’assemblea del Sole 24 Ore ha approvato anche il bilancio 2018 del gruppo editoriale. Nel 2018, il gruppo editoriale ha registrato ricavi consolidati per 211,3 milioni, in calo di 10,7 milioni (-4,8%) rispetto ai 222,1 del 2017. Il margine operativo lordo è migliorato su base annua di 18,2 milioni (da -8,6 a +9,5), il margine operativo è cresciuto di 22,5 milioni (da -21,9 a +0,5 milioni), soprattutto per il taglio dei costi e in particolare di quello del lavoro.

Asti-Cuneo, il nuovo “regalo” dello Stato al gruppo Gavio

L’Asti-Cuneo è un’autostrada regionale che ha assunto una rilevanza nazionale, perché rappresenta il grimaldello con il quale il gruppo Gavio mira, da anni, a ottenere nuove proroghe. L’esito di questa vicenda rischia di affossare le residue speranze di chi vorrebbe porre termine alle rendite dei concessionari, man mano che scadranno le concessioni, per restituire le autostrade allo Stato, come previsto da tutte le concessioni e mai avvenuto sinora. Per questo merita ritornare sul problema della Asti-Cuneo.

Per completare gli ultimi 10 chilometri dell’Asti-Cuneo occorrono 350 milioni di euro che il gruppo Gavio aveva concordato di finanziare con l’ex ministro dei Trasporti Graziano Delrio attraverso proventi dei pedaggi di un’altra autostrada del gruppo, la Satap (Torino-Milano), in cambio della proroga di 4 anni della concessione di quel ricco tronco. Il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli ha confermato l’accordo per il finanziamento incrociato tra società del gruppo Gavio ma, invece della proroga della concessione, ha previsto di riconoscere alla Satap un indennizzo di subentro che salirebbe a circa 800 milioni nel 2026, dovutole da un eventuale subentrante al termine della concessione.

Se lo Stato non ha oggi i fondi per completare l’ Asti-Cuneo è assai improbabile che potrà o vorrà sborsare 800 milioni nel 2026 per riprendersi l’autostrada e gestirla in house. Lo Stato sarà costretto allora a rimettere a gara una nuova concessione e ben difficilmente si presenterà un concorrente disposto a versare 800 milioni di euro per subentrare al gruppo Gavio che si assicura così la possibilità di perpetuare la “sua” concessione per la ricca Torino-Milano. La proroga non c’è nella forma ma nella sostanza.

L’accordo per il completamento della Asti-Cuneo appare però anomalo e assai squilibrato a favore del concessionario. Si pongono cinque domande.

1) Visto che i soci della Asti-Cuneo (35% Anas e 65% gruppo Gavio) hanno sottoscritto un capitale di 200 milioni di euro ma ad oggi ne hanno versati solo 50, perché lo Stato non impone che per finanziare i lavori residui vengano richiamati già da subito i 150 milioni di euro sottoscritti e non ancora versati dai soci? Già così si coprirebbe metà di quanto occorre per completare l’opera.

2) Visto che lo Stato ha già investito in questa autostrada circa 700 milioni con contributo a fondo perduto e investimenti effettuati dall’Anas, mentre il gruppo Gavio a oggi ha versato come capitale solo 33 milioni (oltre a dei prestiti ben remunerati), perché mai il concessionario privato dovrebbe mantenere una quota di controllo ed incassare il 65% degli utili per i 25 anni della concessione?

3) Chi paga i 350 milioni del cross financing, cioé la possibilità di collegare la realizzazione di una infrastruttura al flusso di cassa derivante dalla gestione di una tratta diversa? Il ministro Toninelli, in una lettera al Fatto, ha sottolineato che il completamento dell’opera avverrebbe senza oneri per le casse pubbliche, ma questo è solo apparentemente vero. A pagare saranno, infatti, gli ignari utenti (i “pedaggiati”) della Torino-Milano che dovranno continuare a versare salati pedaggi per molti anni ancora dopo il completo ammortamento di quella autostrada. In sostanza è come se lo Stato introducesse un’imposta futura a carico dei pedaggiati della Torino Milano, imposta che verrà riscossa dal concessionario e il cui gettito viene anticipato dal gruppo Gavio, facendoci anche un cospicuo lucro finanziario. I 350 milioni che arriverebbero dalla Satap sono, quindi, nella sostanza soldi pubblici, anche se non vengono registrati come uscite dal bilancio dello Stato. Questi fondi, sommati a quanto già speso dallo Stato, portano l’onere complessivo pagato dalla collettività per questa autostrada a oltre un miliardo: eppure il 65% appartiene a un concessionario che ha investito sinora 33 milioni. Si rinnova il solito miracolo: le autostrade si costruiscono con soldi pubblici, ma controllo e profitti vanno a privati che investono solo briciole.

4) Perché il costo del completamento della Asti Cuneo dovrebbe essere interamente pagato dai “pedaggiati” della Torino-Milano e non distribuito su tutta la rete nazionale? Sembra un affare trattato in famiglia dal gruppo Gavio. Ma il fatto che le due autostrade appartengano allo stesso gruppo non è certo una buona giustificazione per addossare l’onere ai soli “pedaggiati” della Torino-Milano.

5) Perché per finanziare i 350 milioni che occorrono non si segue la soluzione più lineare e logica: quella di richiamare i 150 milioni già sottoscritti ma non ancora versati dai soci e poi deliberare un aumento di capitale per quanto occorre? Mantenendo un prudente rapporto tra debiti e capitale potrebbe bastare un aumento di capitale di circa 100 milioni. È ben vero che una delibera di aumento di capitale non può farsi senza l’accordo dell’azionista di controllo, ma questo aveva presentato all’origine un progetto rivelatosi poi inattuabile per costi maggiori e traffico inferiore alle previsioni: non sarebbe ben giustificato allora revocare la concessione, se il socio privato continuasse a rinviare il versamento del capitale già sottoscritto e si rifiutasse di deliberare l’aumento necessario al completamento dell’opera?

Se il gruppo Gavio volesse mantenere il controllo (65%) dovrebbe sborsare circa la metà di quanto occorre per completare l’opera; se invece non sottoscrivesse l’aumento di capitale questo potrebbe essere coperto dall’Anas. Un versamento di 100 milioni non parrebbe un onere eccessivo per uno Stato che dalle autostrade incassa ogni anno 1.500 milioni di Iva e 650 milioni di canoni di concessione, oltre alle imposte sugli utili dei concessionari.

Versando 100 milioni oggi si eviterebbe di porre sulle spalle dei “pedaggiati” della Torino-Milano un onere quattro volte maggiore e, soprattutto, si lascerebbe aperta la possibilità che, alla scadenza della concessione della Torino-Milano, lo Stato possa riprendersi la gestione di questa autostrada, inserendola nella rete nazionale e riducendo se non abolendo del tutto il pedaggio.

 

Rating addio, le agenzie sono ormai inutili

Per anni, dopo la crisi del 2011, i complottisti finanziari hanno costruito il mito delle agenzie di rating capaci di decidere il destino di interi Stati, ribaltando governi e condannando alla recessione o, peggio, al default. Bene: questi allarmisti possono rifiatare, le agenzie di rating non contano più nulla, almeno per l’Italia. Guardate lo spread, ieri era a 255 punti, circa dove lo avevamo lasciato prima della decisione (relativamente positiva) di Standard & Poor’s di confermare il suo rating BBB per l’Italia, arrivato venerdì. Ormai i giudizi delle agenzie non spostano più nulla, in positivo come in negativo. E questo non soltanto per l’evidente tendenza dei valutatori a certificare situazioni di fatto già scontate dai mercati (è comodo affermare quello che già tutti pensano). Sta succedendo qualcos’altro. L’Italia paga un debito molto più alto di quello che il suo rating lascerebbe pensare: i nostri titoli di Stato costano oltre l’1,5 per cento in più che quelli di Spagna e Portogallo, che pure sono in classi di rischio analoghe. Come è possibile? L’Italia ha un debito pubblico più alto, vero. Ma, dice Lorenzo Codogno di LC Macro Advisors, anche il peso del debito sul Pil non spiega tutto: sulla base del suo rapporto debito/Pil al 44,2 per cento, molto basso, la Slovacchia dovrebbe avere un rating AAA, invece è soltanto A+. La Francia, che ha un debito al 97,2 per cento del Pil, dovrebbe invece avere un BB+ invece che un AA. Una possibile spiegazione, suggerisce Codogno, è che i mercati distinguano soprattutto tra centro e periferia: alcuni Paesi sono giudicati meno rischiosi, a parità di debito, perché sono economie più fragili e possono andare in crisi anche con bassi livelli di indebitamento. Oppure, semplicemente, la Francia è la Francia e quindi la si guarda con più indulgenza per il peso politico che ha. Qualunque sia la spiegazione, è ormai chiaro che guardare al rating di uno Stato non è più sufficiente per stabilire quanto le sue finanze sono a rischio. Chi denunciava lo strapotere delle agenzie di valutazione, ora potrà capire com’è muoversi nel mare dei mercati senza bussola.

Unicredit alla conta dei danni. Rischio multa per i dati violati

Una intrusione informatica per la quale Unicredit potrebbe pagare da un minimo di 200mila euro a un milione in caso fossero applicate tutte le aggravanti, per la violazione dei dati dei suoi clienti. Si deciderà nei prossimi 60 giorni, ma i numeri descritti nell’istruttoria del Garante della Privacy sono impressionanti: circa 760mila clienti coinvolti, assenza dei sistemi di sicurezza e, dopo poco, un tentativo di accesso (con tanto di identificazione di circa 7mila password) ai conti online. Una bella grana, insomma, dopo la notizia (di qualche settimana fa) del dipendente di Unicredit in Cina che avrebbe sottratto circa 15 milioni di dollari ai clienti usando password condivise e sfruttando le lacune della sicurezza.

La prima comunicazione del problema è del 25 luglio 2017: Unicredit lo denuncia sia al Garante della Privacy che alla Procura di Milano (che a maggio 2018 chiede la proroga delle indagini preliminari). Qualcuno ha avuto accesso ai dati personali dei clienti. Un data breach che all’inizio sembra riguardare circa 400mila utenti. In seguito si scopre che sono almeno 762mila. L’accesso però non arriva dalla banca bensì dalle credenziali di alcuni dipendenti di un partner commerciale esterno, la Penta Finanziamenti Italia srl., attraverso un’applicazione che si chiama “Speedy Arena” utilizzata per la gestione delle richieste di finanziamento. Gli accessi abusivi, secondo la ricostruzione, ci sarebbero stati in due momenti tra il 28 aprile 2016 e il 13 luglio 2017.

Nessuna password sottratta ma dati anagrafici e di contatto, professione, livello di studio, estremi dei documenti di identità, datore di lavoro, salario, importo del prestito, stato del pagamento, “approssimazione della classificazione creditizia del cliente” e identificativo Iban. Durante i primi rilievi, la Penta Finanziamenti dichiara che poteva accedere solo alle informazioni sulle pratiche che le erano affidate, quelle sulla cessione del quinto dello stipendio (servizio per cui Unicredit l’aveva ‘assoldata’). Ci si accorge, però, che c’è una discrepanza tra le violazioni dichiarate da Unicredit e l’attività della Penta che, sollecitata, ammette di aver aperto poco più di 300 pratiche. Il garante chiede quindi ulteriori chiarimenti a Unicredit. Si scopre che il numero complessivo riguarda 761.150 unità tra aziende e persone fisiche e che, attraverso l’applicativo Arena, Penta Finanziamenti poteva accedere anche a pratiche che non la riguardavano. Con il semplice identificativo della pratica (non criptato) si poteva accedere alle informazioni del database sottostante che non verificava se la richiesta di accesso ai dati di una pratica fosse generata da un utente autorizzato. Inoltre, riferisce Unicredit, la società esterna non era dotata “dei più elementari dispositivi informatici necessari a garantire la riservatezza dei dati gestiti (per esempio non c’era separazione tra la rete wi-fi utilizzata dal personale interno e quella messa a disposizione degli ospiti)”. Una vulnerabilità. “Così – si legge nel dispositivo – sfruttando alcune ‘debolezze della sicurezza’ dell’applicativo, soggetti ignoti, attraverso le credenziali assegnate al personale Penta, hanno avuto accesso ai dati personali presenti in pratiche di finanziamento (sia di “cessione del quinto dello stipendio” che di “prestito a consumo”) che non rientravano nell’ambito del mandato di Penta”.

Non ci sono state, per il garante, sufficienti misure di sicurezza né di tracciabilità di eventuali abusi: carenze nel sistema di log, malfunzionamenti, la non conservazione dei dati e delle “tracce” nei database per i 24 mesi previsti e quindi l’impossibilità di ricostruire nel dettaglio quanto accaduto. Non c’era poi nessun alert in grado di rilevare e segnalare eventuali anomalie o accessi sospetti, né alcun audit esterno: “Nel corso dell’accertamento ispettivo la società ha dichiarato che, generalmente, non vengono effettuate attività di audit specifiche per verificare il corretto tracciamento delle operazioni di inquiry sugli applicativi ” e che tuttavia “periodicamente vengono effettuati audit volti a valutare il processo e il sistema di gestione dei log” precisando “che, nel caso in esame, sarebbe stato comunque difficile rilevare il non corretto funzionamento della componente di tracciamento dell’applicativo in quanto lo stesso produceva comunque i log di tracciamento delle operazioni svolte dagli utenti interni”. Ovviamente ora tutto sembra essere stato sistemato. “Le verifiche condotte dall’Autorità (analisi della documentazione trasmessa e attività in loco) hanno consentito di accertare come la società, a seguito del data breach in questione, abbia adottato le necessarie misure tecniche e organizzative atte a evitare il ripetersi di accadimenti similari”. Una scelta obbligatoria, per evitare ulteriori sanzioni.

Anche perché questa misura va letta in parallelo a un’altra: il primo ottobre, Unicredit aveva subito un tentativo di data breach per forzare il sistema di online banking, In quel caso le informazioni riguardavano il codice identificativo per l’accesso ai servizi della banca multicanale di 731.519 dei suoi correntisti. Unicredit parlò di un tentativo “sventato” mentre però bloccava 6.859 conti per i quali era stata individuata la password. Tanto che fu consigliato di cambiare la password e i codici “poiché spesso i dati anagrafici vengono utilizzati per costruire codici facilmente memorizzabili” si leggeva nelle missive inviate ai clienti.

Dice che è fondata sul lavoro… Buon 1° Maggio

Noi lo sospettavamo, ma ieri la Repubblica ce ne ha dato la conferma in prima: effettivamente l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Dev’essere, questo scoop, frutto di un’inchiesta durata anni, perché non si ricorda analoga attenzione per la crisi del lavoro in Italia dacché governava ancora il puzzone. Bene, pare sia fondata sul lavoro e però “il lavoro vale sempre meno” e l’occupazione, i salari, i precari eccetera. E fosse solo quello: servirebbe pure un po’ di conflitto, di “lotta di classe”, ci dicono. E come si fa ’sto conflitto? Ecco, qui iniziano i guai. Ieri Istat ha comunicato un paio di dati (relativamente) positivi sull’economia: benino, ad esempio, l’occupazione, specie quella stabile, che in questi mesi sale rispetto a quella precaria anche grazie a un decreto assai osteggiato dalle imprese e da Repubblica. E poi c’è il Pil. Attenzione: dopo due trimestri negativi, il primo del 2019 fa segnare un po’ di crescita grazie alla domanda estera, quella interna rimane negativa. Ci spiega Repubblica nei commenti: l’austerità è brutta, ma “l’Italia nulla di serio ha fatto per impedire la crescita senza freni” del debito pubblico e quindi deve inchinarsi ai “mercati finanziari”. Tradotto: 20 anni di avanzo primario e alcuni “salva-Italia” non bastano, forse si può provare con “a letto senza cena” (però l’austerità è brutta). E qui c’è un problema: così come non si può stare dalla parte dei lavoratori col Jobs act di Confindustria, così non può essere allo stesso tempo fondata sul lavoro e sulla deflazione salariale per, scrisse un tizio, la contraddizion che nol consente.

Primo Maggio? È un simulacro senza alcun valore

Nel Paese dei balocchi durante la settimana che precede il Primo Maggio si assiste (più che impotenti, attoniti) a una surreale polemica sulle mance ai rider che consegnano i pasti a domicilio. Sulla pagina Facebook di un gruppo di rider milanesi viene postato un elenco di personaggi famosi accusati di non dare la mancia ai fattorini: “Questa è la nostra #blacklist di tutte le star e i vip che regolarmente ordinano con le app e non lasciano la mancia a nessun fattorino, nemmeno in caso di pioggia!”. Il post prosegue così: “Ricordatevi sempre una cosa, clienti: (…) Sappiamo tutto di voi. Sappiamo cosa mangiate, dove abitate, che abitudini avete. E come lo sappiamo noi, lo sanno anche le aziende del delivery. Queste piattaforme come sfruttano noi lavoratori senza farsi scrupoli, sfruttano anche voi, speculando e vendendo i vostri dati”. Fedez è l’unico di cui vale la pena riportare la risposta: “Parlano tutti di lotta di classe 2.0 ma le mance fanno parte di un retaggio americano che è il non plus ultra dello sfruttamento del capitalismo. In America le mance sono obbligatorie perché il datore di lavoro ti può pagare di meno. E se tu non dai la mancia causi un danno. Peccato che è il modo meno sindacalizzato e tutelato per lavorare. La tua sopravvivenza di lavoratore non può essere garantita dal cliente, perché rischi di fare una vita di merda. Spostare l’attenzione sulle mancette è la cosa meno di sinistra e meno lotta di classe possibile: è stupido. A me le liste di proscrizione pubblica hanno sempre puzzato di fascio”.

Ora, Fedez ha mille ragioni (sul retaggio americano, sul capitalismo, sulla sinistra, sulle liste di proscrizione). Non è chiaro però in che Paese crede di vivere. Se pensa a tutti quegli articoli della Costituzione (la Repubblica fondata sul lavoro, la vita dignitosa garantita dalla retribuzione, la piena realizzazione della persona) chiariamoci: sono carta straccia da tempo. Della stagione dei diritti si è fatto carne da macello, il lavoro è l’elemosina di un capitale sempre più ingordo e miope (occhio che prima o poi qualcuno s’incazza davvero, mica su Facebook). Sarebbe bello che ci fosse una Greta interessata ai tempi dell’occupazione, perché se la sua generazione non può subire in silenzio le politiche ambientali, non può nemmeno essere condannata al lavoretto nella cieca idolatria della flessibilità. Ma il sistema, che dà voce (e per carità) alle verdi istanze degli adolescenti, non farebbe lo stesso con quelle economiche perché sono necessarie al mantenimento di uno status quo fondato sulle disuguaglianze, sullo sfruttamento, sul caporalato e sul cottimo. Allo scambio tra il collettivo milanese e i vip col presunto braccino corto è seguita una polemica a cui si sono appassionati in molti (dato che in molti utilizzano le app di consegna a domicilio). “Perché ti devo la mancia”? si domanda il sincero democratico (magari con la tessera del Pd in tasca) che non ha dubbi su chi scegliere tra la servitù e i padroni. Cari compagni, un po’ di redistribuzione male non fa. Certo, non è con la mancia che si ripareranno i danni che anche voi avete fatto nel distruggere sistematicamente i diritti dei lavoratori (che giustamente non vi votano più). I rider forse non sanno usare le posate a tavola, ma del resto la rivoluzione non è un pranzo di gala, e loro ne sanno qualcosa dato che i pranzi li consegnano.

Quella di oggi non è più una festa, è un simulacro senza alcun valore. Non c’è nemmeno più la consolazione di stare a casa perché un sacco di gente lavora dato che il nuovo Vangelo è consumare, spendere, comprare. Sono rimasti la farfalla che muore sbattendo le ali, il guerriero di carta igienica e la donna che stira cantando. Su coraggio nessuno ha più il coraggio di dirlo.

“Sono bravi ragazzi”: in fondo stuprano “solo” le “nostre” donne

Già era fastidiosa un bel po’ questa faccenda delle “nostre donne” da difendere dalle violenze altrui. Mai capito cosa vuol dire quel “nostre”: libere al rogito? Immatricolate come la macchina? Poi erano venuti quei bei manifesti stile ventennio con il soldato nero che ghermisce la donna bianca e la scritta: “Difendila!”, penosa estetica modello Salò, rossi drammatici e il solito paraculismo familista: “Potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia”. Bene. Se non rientra nella casistica, liberi tutti, compreso il camerata Chiricozzi (per conquistare il mondo urgerebbe nome d’arte, perché in effetti sentite come suona male “Vincere, e vinceremo!”, firmato: Chiricozzi), e il suo socio in stupri Riccardo Licci, arditi di CasaPound, bella gente. Così astuti, “rapidi ed invisibili”, che si sono anche fatti il filmino della loro violenza sessuale per vantarsi con le altre camicie nere. Chissà, forse perché come diceva l’appeso buonanima “la cinematografia è l’arma del regime”.

Le cronache, come al solito, contengono le sfumature più grottesche. Per esempio il “viene da una famiglia assolutamente perbene” che non manca mai. Mah. Sarà. Ma se uno a diciannove anni ha già alle spalle un procedimento giudiziario per pestaggio, un Daspo allo stadio (portava dei razzi) e ora uno stupro con videoclip annesso, qualche dubbio anche sull’ambiente familiare è lecito farselo venire. Insomma, scatta il “salutava sempre” (romanamente, si suppone) d’ordinanza, ed è pieno di gente che cade dal pero: ah sì? Quei bravi ragazzi! Aggiungiamo la scena del crimine: una sede ufficiale di CasaPound e lascio ai lettori immaginare cosa succederebbe se una donna (nostra? loro? boh) venisse stuprata nella sede di un partito.

Insomma, ce n’è abbastanza per partire dallo stupro di Viterbo e guardare finalmente con attenzione dentro quella galassia di delinquenti che è il neofascismo italiano, che va dal nostalgico dei treni in orario (altra cazzata) al “fascista del terzo millennio”, quasi sempre poco scolarizzato, ignorante come un caprone e convinto che ci vogliono le maniere forti contro i più deboli (contro i forti, come da tradizione: a pecora).

Il prode ministro dell’Interno, forse reduce da un poderoso testa a testa con un cotechino o un selfie con la mitraglia, ha pensato bene di fare un tweet senza nominare né il fatto, né i colpevoli, né CasaPound, né il neofascismo, ma attivando i fumogeni per fare confusione e parlar d’altro. Così lui e Di Maio si sono messi a litigare sulla castrazione chimica, invece di pensare a ristabilire la legge presso la HitlerJugend de noantri che da anni agisce indisturbata.

Basta cercare in rete la mappa delle aggressioni fasciste, periodicamente aggiornata, che segnala centinaia e centinaia di casi di pestaggi, spedizioni punitive, botte, agguati, accoltellamenti e altri delitti. Oppure leggere le acute riflessioni di giornalisti, anche famosi, che li andavano a legittimare nelle loro sedi, partecipando a dibattiti con gente che per una sera indossava la cravatta e non il tirapugni.

Oppure il delizioso reportage del Tgr Emilia-Romagna (servizio di Paolo Pini, caporedattore Antonio Farné, direttore responsabile in quota Lega Alessandro Casarin), che mostrava come buona e brava gente della nazione i fascisti accorsi a Predappio a celebrare con “onore” (ahahah!) il vigliacco che dopo aver ammazzato mezzo milione di persone scappava in Svizzera travestito da tedesco coi soldi e l’amante. O ancora lo striscione dei fascisti laziali esposto a Milano a due passi da piazzale Loreto, o ancora le millemila volte che si è minimizzato un fenomeno criminale vietato da leggi e Costituzione. Chissà, magari la retorica del “sono bravi ragazzi” si fermerà a Viterbo grazie alle gesta del camerata Chiricozzi. Sarebbe ora. E sarebbe comunque tardi.

C’è un turbamento che unisce Lega e Pd

Nella corsa per il sindaco di Aci Castello, La Sicilia ha documentato “uno scambio di amorosi sensi fra Lega e turborenziani del Pd”: un’aberrazione periferica o l’emersione di una convergenza di fatto? Un’ipotesi, quest’ultima, che suona blasfema agli occhi di molti benpensanti: com’è possibile una sintonia tra Lega e Pd? Tra la destra “cattivista” di Salvini e i liberali compassionevoli di Renzi, o Zingaretti?

Eppure, su una lista infinita di temi cruciali la convergenza c’è, eccome. Dall’entusiastico sostegno al Tav alla difesa dell’immunità-impunità per i responsabili dell’Ilva a Taranto; dalla comune tensione all’abolizione delle soprintendenze tramite il silenzio-assenso e altri trappoloni giuridici all’autonomia differenziata (meglio nota come la “secessione dei ricchi”) delle regioni del nord: sono assai numerosi i temi che vedono accanto Lega e Pd. Per non parlare della politica sui migranti, su cui la parola definitiva è stata detta dal Marco Minniti di Maurizio Crozza: “Non possiamo lasciare il fascismo ai fascisti!”.

In buona parte si tratta di una convergenza di potere, di sistema: resa peraltro evidente dalla sostanziale bonomia con cui i grandi giornali italiani trattano la Lega di Salvini, mentre ingaggiano al contrario una lotta senza quartiere con i Cinque Stelle (peraltro talmente succubi delle politiche salviniane da apparire più un’appendice che un’alternativa).

Ma c’è qualcosa di più inquietantemente profondo: c’è una sintonia culturale su alcuni temi particolarmente sensibili. Su tutti, la sicurezza.

È una storia lunga: che inizia più di dieci anni fa, quando Veltroni sindaco di Roma e segretario del Pd decide che no, non si può lasciare alla destra il tema della sicurezza. Il che significa non dire più che la sicurezza è il frutto della giustizia sociale, dell’inclusione e della ricostruzione del tessuto civile: ma sposare invece le idee della destra, fatte di repressione e misure simboliche. L’ultimo vagone di questo treno senza fine è arrivato pochi giorni fa: si chiama legittima difesa. E il Pd ha un posto d’onore nella locomotiva. Zingaretti ha parlato in questi termini della legge appena approvata: “Noi non crediamo che la priorità sia dire agli italiani di tenere a casa una pistola. La priorità è il lavoro”. Una dichiarazione debolissima: perché non dice che la norma è sbagliata, ma ne fa una questione di priorità. Se gli italiani avessero il lavoro, dice il segretario dem, allora potrebbero anche tenersi la pistola. Un’ambiguità che fa il paio con quella del messaggio del presidente della Repubblica, il quale ha deciso di firmare una norma palesemente incostituzionale (come ha fatto anche con il decreto Sicurezza), e poi si è nascosto dietro l’ipocrita velo di una (inerte) interpretazione autentica del concetto di grave turbamento.

Ebbene, tanta arrendevolezza si spiega con la più indicibile delle spiegazioni: il “turbamento” che giustifica l’uso delle armi è un’invenzione non di Matteo Salvini ma del Pd. Nel maggio 2017 la Camera approvò la cosiddetta “legge Ermini” sulla legittima difesa, dove apparve per la prima volta l’esimente del “grave turbamento”, benché solo notturno. Forse perché nella notte della sinistra non solo tutte le vacche, ma anche tutte le politiche, sono nere. Di fatto, la categoria che Mattarella, seppur debolissimamente, si trova a censurare si deve a colui che il Pd ha catapultato al vertice della magistratura, l’attuale vicepresidente del Csm David Ermini. È vero che al Senato il Pd non ebbe il coraggio (ma soprattutto i voti) per far andare avanti quel capolavoro di legge: ma fece di peggio. Nell’ottobre del 2018 Palazzo Madama approvò clamorosamente la legge sulla legittima difesa targata Lega proprio grazie ai voti del Pd, che si unirono a quelli di Salvini per far passare l’articolo 2: quello del “turbamento”. Allora l’Huffington Post scrisse: “La decisione dei Dem di non contrastare più di tanto il progetto di legge leghista dipenderebbe dal precedente della legge Ermini. Nel 2017, infatti, venne approvata dalla Camera (con 255 si, 166 no e 11 astenuti) la proposta di legge messa a punto dal renziano Davide Ermini (Pd) che parlava appunto di ‘turbamento’ psichico se l’aggressione avveniva di notte. La Lega allora votò contro, ma oggi è un ‘precedente’, visto che l’articolo 2 del provvedimento ora al Senato parla proprio di turbamento come giustificazione della legittima difesa”.

C’è dunque del metodo in questa follia: e quel metodo è inseguire la “sicurezza percepita” con provvedimenti tanto inefficaci sul piano pratico quanto devastanti su quello culturale e giuridico. In questa, come purtroppo in molte altre materie, il grave turbamento mentale e morale del Partito democratico non giustifica affatto il suo decisivo contributo alla crescita esponenziale di un’egemonia culturale di destra.

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Cucchi, il ritardo dell’Arma pesa su tutti i suoi uomini

Dopo la testimonianza di Francesco Tedesco sul caso Cucchi, altri otto uomini dell’Arma dei carabinieri sono stati rinviati a giudizio. E ciò ha scoperchiato una catena di false testimonianze atte a garantire “l’impunità dei carabinieri”. Il ministero della Difesa e la stessa Arma potrebbero, ora, costituirsi parte civile. Ma il Capitano Ultimo, al secolo Sergio De Caprio, invoca le dimissioni di Giovanni Nistri, Comandante Generale dell’Arma dei carabinieri dal gennaio del 2018. Questo perché per dieci anni proprio il vertice dell’Arma ha negato e ignorato il caso Cucchi che ora si sta risolvendo solo grazie alla tenacia della sorella Ilaria. Alludendo a un’azione, quella di costituirsi parte civile, che attuata ora si rivela più politica e opportunistica che di mera responsabilità. “Noi carabinieri ci sentiamo parte lesa!”, ha aggiunto De Caprio. L’Arma è un vanto italiano dai saldissimi e incorruttibili princìpi morali. Il caso Cucchi, attuato da militari che sono venuti meno a questi princìpi, non deve infangare un Corpo che merita il massimo rispetto. E proprio per questo devono pagare senza sconti. Per mostrarne l’integrità intrinseca. Speculazioni anche sulle parole del ministro dell’Interno Matteo Salvini, che invece ha sempre affermato che “qualche mela marcia” non deve screditare la prestigiosa Arma. E che promette una querela contro un volantino diffuso da qualche membro del Pd (anche in questo caso non generalizziamo) nel quale gli si attribuisce la frase: “La sorella di Cucchi mi fa schifo”. Strumentalizzazioni.

Cristian Carbognani

 

Altro che festeggiare: il non-lavoro deve far riflettere

Quello che ci accingiamo a celebrare sarà un altro primo maggio triste, l’ennesimo, dove c’è poco da festeggiare e invece molto di cui riflettere. Gli oscillanti umori del mercato del lavoro lo confermano: a ripetuti annunci di ripresa economica e dell’occupazione, seguono improvvise frenate e nuove recessioni con imprese in crisi e conseguenti licenziamenti. Da troppo tempo, il clima esasperato del sistema Italia sta trascinando con se una lunga scia di suicidi e morti sul lavoro, un dramma sociale che una cinica politica distratta da futili diatribe tende a ignorare, mentre la criminale attività corrotti-corruttori si sta portando via la ricchezza devastando l’economia del Paese. Intanto, il progresso tecnologico sta diventando un fenomeno preoccupante: la robotica non prevede l’esigenza di bilanciare la produttività con la dignità della persona e sta relegando l’essere umano in secondo piano. Siamo un Paese sfiduciato e stanco dove la gente si sta inconsciamente adeguando ad accettare passivamente questo andazzo.

In questo contesto, è responsabilità di governo, partiti, imprese e sindacati ridare valore e dignità al mondo del lavoro.

Silvano Lorenzon

 

Trieste, per la maratona la toppa è peggio del buco

Una vicenda squallida e aberrante quella del “no ai negri!” alla mezza maratona di Trieste, che ha fatto il giro del mondo dando, tanto per cambiare, un’immagine sconsolante del nostro paese. Il dietrofront degli organizzatori, tardivo e impacciato, sotto la pressione dell’opinione pubblica, per una volta pronta a stigmatizzare una vicenda di chiara impronta razzista ha rappresentato, come si dice in Veneto, “la toppa peggiore dello squarcio”. Il rifiuto dei runner neri era “per fermare il mercimonio degli scafisti dello sport e dei manager parassiti che sfruttano i loro ragazzi”. Una amenità talmente grossolana che a crederci sono stati solo gli organizzatori della corsa e, forse, i vertici della regione Friuli Venezia Giulia. Ma di quale mercimonio cianciavano? Quello di contratti regolari, a invito, passati al vaglio della Fidal e del Coni che regolano da sempre la partecipazione alle gare in tutta Italia e nel resto d’Europa?

“Stavamo scherzando” hanno detto giulivi a bubbone esploso. No, cari signori, in quattro e quattr’otto avete dilaniato il buon nome di una delle città più accoglienti d’Europa, vergognatevi, se ci riuscite!

La risposta alla vostra miopia razzista è venuta subito da Londra e dalla sua splendida corsa, vinta, guarda caso, da quei ragazzi schiavi dei vostri “scafisti dello sport” e, oggetto di mercimonio, premiati dal principe Harry in persona. Il dichiarato “scherzo” pare sia nato, per una vostra furbata mediatica – far parlare di sé, anche male, purché se ne parli – per risollevare le sorti dell’evento. Accidenti che ideona! Complimenti! E chissenefrega del resto. Ma il resto è un macigno che vi ha travolti, per fortuna.

Vittore Trabucco

 

Risposta e solidarietà a una “figlia imperfetta”

Ho letto sulla posta di Selvaggia Lucarelli la lettera di “Una figlia imperfetta” e mi ha messo una grande tristezza… Voglio inviare tutta la mia solidarietà e vicinanza a questa “figlia perfettissima” che nonostante il “disamore” dei genitori è riuscita a non soccombere e a trovare la sua strada… e proprio su questa strada le auguro di trovare tutto l’amore che merita, e che comunque non potrà mai ricevere dai suoi genitori, perché leggendo la lettera mi sembra che siano proprio loro, in primo luogo, che non riescono ad amare se stessi.

Roberto Biagianti

Problemi con Inps? Siamo come insetti intrappolati nella rete tessuta dal ragno

Credo che i cittadinisiano totalmente inermi nei confronti dell’Inps: ho lavorato 46 anni, di cui 31 anni in Italia e 15 anni in Svizzera. E naturalmente lo Stato italiano mi ripagherà solo per i primi 31 anni. Una volta fatta la domanda al Caf non ho ancora ricevuto una risposta, e sono passati dei mesi. La Svizzera dopo 30 giorni dalla richiesta ha iniziato a versarmi la pensione dei 15 anni. Quello che chiedo è un aiuto.

Antonino Rizzo

 

Gentile Rizzo, in questo prezioso spazio che consente di avere un rapporto diretto con i lettori, più volte ho paragonato il contribuente a uno di quegli insetti che resta intrappolato nella rete tessuta dal ragno. Con l’effetto paradossale che più si cerca di muoversi e districarsi, più si resta intrappolati in quelle maglie così paralizzanti. Una sensazione, mista a frustrazione, che dovrebbe appartenerle e che si acuisce ancora di più con il paragone infelice (per l’Italia) con la Svizzera. Ma la sua attesa non è così immotivata o tale da essere considerata come l’ennesimo esempio della disorganizzazione della Pubblica amministrazione. La legge 241/90, che detta la disciplina normativa del procedimento amministrativo (dai principi alla semplificazione, passando per l’accesso agli atti) stabilisce, infatti, dei termini precisi entro i quali le pubbliche amministrazioni sono tenute a concludere i procedimenti con provvedimenti espressi. In particolare, la decorrenza della pensione di vecchiaia e anzianità prevede 60 giorni di tempo per valutare la domanda di certificazione e fornire la risposta. Ma il termine di conclusione del procedimento sale a 90 giorni nel caso della ricostituzioni delle pensioni. Gli anni di lavoro in Svizzera sono, infatti, cumulabili per maturare il requisito alla pensione italiana. Sono però figurativi: la pensione italiana viene versata sulla base dei contributi effettivamente versati in Italia. Chi vanta anni lavorativi in Svizzera e in Italia riceverà quindi due pensioni: una pensione italiana, per ottenere la quale saranno considerati anche gli anni lavorativi svizzeri, ma che sarà commisurata ai contributi versati in Italia e una pensione svizzera, che si può chiedere a 65 anni e che sarà commisurata ai contributi versati in Svizzera. Ma anche se si resta senza la pensione per oltre tre mesi, gli assegni pagati in ritardo non sono persi: verranno liquidati come arretrati. È solo una questione di tempo.
Patrizia De Rubertis