Cara sinistra, pensa all’elefante

Nel 1651 Thomas Hobbes tentò di bandire dal linguaggio politico “l’uso metaforico delle parole”. Il suo tentativo non ebbe successo: le metafore politiche non sono scomparse e anzi si sono moltiplicate al punto che oggi è difficile anche solo rendersi conto di quanto la loro presenza sia pervasiva. Hobbes stesso, del resto, per descrivere lo Stato, si era servito di una formidabile metafora: quella del Leviatano, gigantesco mostro mitologico. Pensare di fare a meno della metafora, in politica come in altri campi, è illusorio per una ragione tanto chiara quanto poco percepita.

La metafora non è (solo) una figura retorica, essa è soprattutto una forma di manifestazione del pensiero, una modalità di comprensione del mondo. Una metafora, una buona metafora, può produrre effetti molto difficili da ottenere con argomentazioni lineari, astratte, prive di immagini e di analogie. Può illuminare un concetto altrimenti troppo oscuro. Può sciogliere un problema intricato. Può svelare un aspetto decisivo, e fino a quel momento trascurato, di una questione fondamentale. La metafora può comunicare ciò che un discorso ordinario rischia talvolta di occultare, anche semplicemente annoiando.

George Lakoff, professore di Linguistica cognitiva a Berkeley e autore del libro Non pensare all’elefante!, è il più importante studioso vivente delle metafore applicate all’indagine teorica e alla pratica della politica. Non si tratta di argomento da accademici; è un tema cruciale per capire come funzionano il mondo e il potere: le metafore – e quelle della politica in particolare – incidono sui sistemi di credenze individuali e collettive e orientano, quando addirittura non determinano, comportamenti e scelte. In altre e più sintetiche parole: le metafore possono creare o comunque trasformare la realtà.

Il nostro modo di ragionare e comunicare è disseminato di metafore, anche se molte sono di uso così comune che nemmeno ci accorgiamo della loro esistenza. Tanto per dire, “disseminato” è una metafora. Il nostro è un linguaggio metaforico e prenderne consapevolezza è un passaggio fondamentale per capire certi meccanismi. A cominciare da quelli della comunicazione politica: quella buona e quella cattiva. Quest’ultima consiste nelle più diverse forme di manipolazione e intossicazione del consenso ed è il nemico dal quale più devono guardarsi oggi le forze progressiste.

Le metafore manipolatorie e tossiche non si contrastano con la loro negazione (che invece le irrobustisce: se dico di non pensare a un elefante è proprio a un elefante che penseranno i miei interlocutori o il mio pubblico), ma con l’elaborazione di altre, diverse metafore, capaci anch’esse di evocare strutture interiori – i frame di Lakoff – e definire diversi quadri di riferimento ideali.

Per non rimanere sul piano della teoria vediamo come Lakoff costruisce un’articolata metafora per proporre un modo alternativo di pensare alle tasse e al dovere di pagarle. Alternativo alla vulgata metaforica delle destre di tutto il mondo che parlano delle tasse come di un furto dello Stato (il concetto del fisco predone che “mette le mani nelle tasche dei cittadini”) e non come l’adempimento di un obbligo di solidarietà: “Pagare le tasse significa fare il proprio dovere, versare la quota di iscrizione per vivere negli Stati Uniti. Se ci iscriviamo a un club o a un circolo qualsiasi paghiamo una quota di iscrizione. Perché? Perché non siamo stati noi a costruire la piscina. E dobbiamo pagarne la manutenzione. Non abbiamo costruito noi il campo da baseball. E qualcuno deve pulirlo. Forse non usiamo il campo da squash, ma comunque dobbiamo pagare la nostra parte. Altrimenti nessuno farà la manutenzione e il circolo andrà in rovina. Quelli che evadono le tasse, come le società che si trasferiscono alle Bermude, non pagano quello che devono al loro Paese. Chi paga le tasse è un patriota. Chi le evade e manda in rovina il suo paese è un traditore”.

Il fatto che, nel discorso pubblico, prevalga una metafora anziché un’altra, un sistema metaforico piuttosto che un altro, ha conseguenze tanto concrete quanto, ancora, poco comprese. Per capire chi vincerà o chi perderà una competizione politica è necessario – anche se certo non sufficiente – verificare quale dei contendenti è munito dell’armamentario metaforico più adeguato e penetrante.

I progressisti in generale e quelli italiani in particolare non hanno purtroppo – salvo rare eccezioni – la capacità di costruire metafore convincenti e solidamente etiche, come nell’esempio di Lakoff. Nel discorso politico della sinistra italiana sono invece numerosi gli esempi di metafore mal fatte, inefficaci o addirittura controproducenti e, insomma, di inviti fallimentari a non pensare all’elefante.

La comunicazione dei progressisti è normalmente fiacca e perdente perché – per una sorta di pregiudizio ideologico – essi rifiutano di accettare e dunque di praticare alcuni dei concetti che pensatori come Lakoff hanno proposto con grande vigore. Il più importante di tutti è per me il seguente: la verità – da sola – non ci renderà liberi. Dire la verità sul potere non basta. Bisogna inquadrare ogni verità secondo la propria prospettiva, con il proprio linguaggio, con le proprie metafore. È l’unico modo per sconfiggere l’elefante proposto dalla propaganda dei populismi e dei fascismi più o meno mascherati.

Ci vogliono metafore ben fatte, ci vuole un linguaggio di mots-matière – parole concrete – come diceva Simenon. Tutto l’opposto dell’attuale comunicazione dei progressisti, impantanati in discorsi astratti, gergali, incomprensibili.

La sfida per le forze del progresso, in questo periodo complicato, è difficile e implica la capacità (che è anche una tecnica, e va appresa) di sconfiggere le manipolazioni dicendo la verità con efficacia evocativa e dunque persuasiva. Se vi interessa la cosa pubblica, se volete contribuire – anche solo come cittadini consapevoli – a una politica della solidarietà e dei ponti invece che del rancore e dei muri (non ho bisogno di ricordarvi, adesso, che si tratta di metafore), leggete Lakoff, anzi studiatelo e poi mettete in pratica i suoi insegnamenti. Fatelo presto: non c’è tanto tempo a disposizione.

Il nuovo imperatore e l’era dell’armonia

Ogni volta che in Giappone si insedia un nuovo Imperatore si apre una nuova era, che corrisponde al periodo in cui effettivamente il “sovrano celeste” eserciterà il suo potere, oggi simbolico e rappresentativo ma comunque in grado di tenere unito il popolo, di ridare linfa al suo orgoglio. A noi, gente d’occidente, ormai capace di fare solo fascine da ardere con le tradizioni, può sembrare un fatto anacronistico ma che nel Paese dalle 6852 isole è ancora sostanza vitale, incentivo, speranza, futuro, linea guida. Talmente importante che l’imperatore verrà identificato con il nome della sua stessa era. Hirohito, per esempio, che regnò dal 1921 al 1989 – un periodo infinito – e ultimo a essere riconosciuto come “l’incarnazione della divinità”, era chiamato l’Imperatore Showa (pace illuminata); il suo successore, oltre che suo primogenito, Akihito, è stato l’Imperatore Heisei (pace raggiunta). Molti dei 125 imperatori giapponesi che fino ad oggi si sono succeduti hanno regnato fino alla loro morte. Akihito, nato nel dicembre del 1933 e il primo ad essere spogliato delle prerogative divine, ha capito che non era utile, per il suo Paese, rimanere sul trono fino al giorno estremo. Così a 85 anni, con un cerimoniale denso di rituali ripetuti in diversi santuari imperiali, ha “informato” gli antenati della sua abdicazione – il 30 aprile di quest’anno – e dell’ascesa al trono del suo primo figlio, il principe ereditario Naruhito, che salirà al “Trono del crisantemo”, fiore simbolo della famiglia imperiale, l’1 maggio.

Il nuovo imperatore – studi ad Oxford, musicista, scrittore, ambientalista e attivo praticante di sport nella natura come la corsa, l’alpinismo e il trekking – inaugurerà così l’era Reiwa, ovvero ordine e armonia. Una accoppiata che vuole essere una specie di richiamo verso l’unità spirituale del popolo giapponese, come ha avuto modo di ricordare anche il premier Shinzō Abe. Senza pace, cooperazione e armonia non c’è successo né scoperta di se stessi. Con questa nuova era il Giappone vuole rimettere l’uomo al centro del suo universo, fatto di famiglia, natura, rispetto, solidarietà. Sarà un sentimento duraturo? I giapponesi sperano, anzi, credono di sì. Perché il nuovo imperatore è uno che vive tra la gente comune (pur con i privilegi del casato) fin dagli anni dell’università. Da sempre Naruhito asserisce pubblicamente che un imperatore deve scendere dal trono, essere vicino al popolo e condividere i suoi problemi e i suoi pensieri. Una vicinanza che Naruhito ha più volte dimostrato anche nella pratica sportiva. Qualche escursionista conserva come una reliquia i selfie fatti con il futuro imperatore incontrato per caso sui sentieri di montagna, altri lo ricordano anni fa mentre correva in un parco di Tokyo accompagnando in allenamento una atleta paralimpica che poi vinse una medaglia d’argento alla Paralimpiadi di Rio 2016 e che punta al successo ai Giochi del prossimo anno, che si disputeranno proprio a Tokyo, all’insegna, guarda caso, dell’ordine e dell’armonia. La corsa per i giapponesi è una attività molto sentita e spesso sfiora la pratica religiosa. L’Ekiden, per esempio, è stata definita una vera ossessione e, più di una gara riservata principalmente agli studenti universitari, si tratta di un autentico rito. La prova, variabile da poche migliaia di metri a oltre 200 chilometri, si affronta in staffetta. Il testimone che gli atleti si passano uno con l’altro è costituito da una striscia di tessuto. Quel che conta non è tanto il risultato ma l’armonia che durante la competizione regna in ogni singola squadra, il mutuo soccorso, la solidarietà.

“Aperti all’alleanza, ma i socialisti hanno sempre due facce”

“La palla sta a Sanchez, è lui che deve decidere cosa fare, se andare da solo al governo o fare un patto con qualcuno”. Joan Capdevila, classe 1965, già due volte deputato di Esquerra Republicana, pronto a insediarsi per la terza a Las Cortes e uomo di fiducia del leader in carcere, Oriol Junqueras, è soddisfatto del risultato del suo partito.

Esquerra Republicana ha vinto per la prima volta le elezioni nazionali, ottenendo 15 seggi.

Ci hanno ripagato per le buone politiche che abbiamo messo in campo.

Il processo ai leader indipendentisti non c’entra?

Certo, il nostro leader, Oriol Juqueras è in prigione e i catalani con il loro voto hanno voluto sostenerlo. Ciò che succede al Tribunale Supremo ha influito.

Il partito di Puigdemont, Junts por Catalunya invece ha preso solo 7 seggi. Perché secondo lei?

In realtà non è andato male quanto si temeva. Diciamo che noi abbiamo confermato il massimo che ci davano i sondaggi, loro il minimo. Ma in fondo hanno resistito, e siamo contenti che sommati abbiamo 22 seggi in Parlamento.

La fuga di Puigdemont può aver influito negativamente sul voto?

No, non credo. Penso che non ci sia molta differenza tra il carcere e l’esilio forzato. Entrambe le situazioni hanno come conseguenza una grande sofferenza.

Che pensa dell’estromissione dalle Europee di Puigdemont e gli altri leader?

È deprecabile. Stranamente coincide con il nostro risultato positivo alle elezioni. Il giorno dopo aver superato una grande prova democratica, arriva una notizia negativa che azzoppa il dialogo e crede di sgonfiare l’indipendentismo come un sufflé.

E l’idea del Psoe di formare
da solo il governo?

Il Psoe ha due facce: è quello che accoglie la nave Aquarius con i migranti a Valencia, e quello che impedisce ad una nave che salva migranti qualche mese dopo di uscire dal porto. C’è un Psoe che è d’accordo per la grande industria e con le banche per stringere un patto con Ciudadanos, e uno che vota con Podemos.

Se i socialisti non si alleano con voi, cosa farete?

Noi siamo una forza progressista, voteremo tutte le leggi che non siano contrarie a questa politica. Anche se ancora non posso dire quale sarà la nostra linea nella prossima legislatura.

E le condizioni in caso di alleanza?

Chiediamo un dialogo aperto e senza limiti per parlare di tutto e pacificamente.

Avrete più forza ora nel Parlamento. Come pensate di usarlo per i temi dell’indipendenza?

Ricorderemo a ogni occasione la repressione che subiscono i nostri leader.

Chiederete l’indulto?

Solo Oriol Junqueras e gli altri leader in carcere potrebbero, ma non lo faranno. Sarebbe come ammettere di avere delle colpe.

Il Psoe ha la maggioranza per la prima volta in Senato. Questo influirà anche sul passaggio di leggi come il 155 che commissaria la Catalogna, ad esempio.

Il risultato è positivo, ma ricordiamoci che anche i socialisti hanno votato per il 155 con Mariano Rajoy. Sull’indipendenza, poi, l’unica soluzione passa per la riforma della Costituzione; ci sarebbe bisogno di una maggioranza qualificata. Visto che questa non c’è, noi continuiamo a chiedere il referendum perché possa decidere il popolo.

Il Padrino e quell’offerta che non si può rifiutare: “Leali sempre, traditori mai”

Il suo nome è Vladimiro Padrino, e come l’omonimo personaggio descritto da Mario Puzo nel suo romanzo The Godfather, col gesto di una mano può decidere se un avversario merita di morire, o di sopravvivere. Di più. Padrino può decidere del destino di una nazione, il Venezuela, perchè è il generale più vicino al governo di Maduro, tanto da essere stato nominato ministro della Difesa. Padrino, in questo caso, non è un capo mafia, ma un “ufficiale e gentiluomo”: almeno per i sostenitori del governo. Diversamente la pensano, probabilmente, nella schiera dell’opposizione. Ieri, non appena è iniziata la rivolta a Caracas contro il regime, il generale ha fatto subito intendere le sue intenzioni: ha detto che il golpe “insignificante” è stato respinto e ha minacciato di aprire il fuoco contro i manifestanti: “Se dovremo usare le armi, le useremo” e “tutti i morti che ci saranno” ricadranno sulle spalle di Guaidó e dei suoi sostenitori. Da Padrino dipende la tenuta del Venezuela di Maduro, e il generale non sembra avere dubbi sullo schieramento. Chi ha seguito la sua carriera non si stupisce: “10.890 patrioti, bolivariani, socialisti, anti-imperialisti, rivoluzionari, addestrati e equipaggiati per assumere il sacro dovere di difendere la Nazione sono presenti nella strada di Los Próceres”. Questa fu la sua dichiarazione il 5 luglio 2012, il giorno in cui furono celebrati 201 anni dell’indipendenza del Venezuela, lo stesso in cui Hugo Chávez lo nominò secondo comandante dell’esercito: il primo era lo stesso Chavez. Da allora, i soldati guidati da Padrino si sono sempre dichiarati “chavistas” e “anti-imperialisti”.

La fedeltà a Chavez, Padrino l’aveva dimostrata sul campo: nell’aprile 2002 fu lui a guidare uno dei commando per neutralizzare il colpo di stato che aveva messo fuori combattimento il presidente per 48 ore. Quando Chavez ha passato il testimone, il generale ha regalato la sua fedeltà a Maduro, tenendo anche i rapporti con gli alleati cubani e recandosi spesso all’Avana per incontrare i Castro. A suo favore gioca anche l’integrità (almeno, sino a prova contraria): l’ufficiale è fra i pochi della Fuerza Armada Nacional Bolivariana a non essere stato inserito dagli americani nella lista nera, quella dei militari accusati dalla giustizia degli Stati Uniti, ai tempi della presidenza di Barak Obama, di traffico di droga e riciclaggio di denaro; anzi, Padrino ha cercato di trovare un punto d’incontro fra i vari gruppi di potere nell’esercito e ripulire il nome della Fanb.

Con la crisi economica, Maduro ha chiesto a Padrino di occuparsi anche delle emergenze come distribuzione di cibo: è quella che il presidente ha chiamato “guerra economica”: ma Padrino si trova meglio in quella che conosce bene, e che prevede le armi anche per le strade di Caracas. “Tutte le unità riferiscono normalità nelle sedi e basi militari” ha scritto ieri sul suo profilo Twitter e senza fare allusioni dirette allo stato della situazione all’esterno della base aerea La Carlota, nell’est di Caracas ha definito “una canagliata” il sollevamento di Guaidó, degli “pseudo dirigenti” dell’opposizione e dei militari che lo accompagnano. Alcuni di questi ultimi, ha detto Padrino “sono stati ingannati, come era avvenuto in occasione dell’operazione per i falsi aiuti umanitari”; infine, ha definito i soldati passati con il leader dell’opposizione Juan Guaidó: “Sono dei codardi. Noi Resteremo fermi in difesa dell’ordine costituzionale e della pace della Repubblica, assistiti come siamo da legge, ragione e storia. Leali sempre, traditori mai”. Parola di Padrino.

Arlacchi: “Caracas è una città tranquilla, Maduro è più forte”

Pino Arlacchi, ex vicesegretario generale delle Nazioni Unite, soggiorna in un albergo del centro della Capitale. Non è lontano da piazza Altamira in cui si è concentrato Guaidó con i suoi sostenitori. “In realtà è un luogo simbolo della destra estrema dei guarimbas, le squadre dei bulli dei quartieri alti che assaltano i cortei popolari picchiando, bruciando e sparando”.

Dalla sua osservazione privilegiata Arlacchi assicura che a Caracas non si è verificato nessun golpe, nessuna insurrezione e che la città è tranquilla. “Forse possiamo parlare di un tentativo di provocare la reazione del governo Maduro per offrire un pretesto agli Stati Uniti, ma niente più di questo”.

Il suo racconto, raccolto intorno alle 14 locali, è netto: “I fatti importanti si sono svolti dalle 3 alle 5 del mattino quando Guaidó si presenta in piazza con Lopez, uno dei capi dei partiti di opposizione accusato di banda armata per aver guidato i guarimbas. Lopez era agli arresti domiciliari, prosegue l’ex deputato europeo, che occorre dire sono molto blandi nonostante a infliggerglieli sia stata quella che viene definita una “feroce dittatura”. Guaidó e Lopez si sono così presentati insieme a un gruppo molto piccolo di militari in assetto di guerra e con due autoblindo dietro le spalle. Solo che non è successo nulla e alle 8.30 era tutto finito. Nessun sollevamento né nell’esercito né nella popolazione. Nessun altro atto di nessun tipo. Il mini-golpe è stato invece trasformato in una manifestazione verso il palazzo di Miraflores, quello del governo, ma i manifestanti non sono arrivati nemmeno a un chilometro dall’edificio”.

Mentre parliamo, siti e tv di tutto il mondo danno conto di manifestazioni attaccate da autoblindo della polizia regolare, ma Arlacchi sorride: “Personalmente ho attraversato la città senza incontrare alcun ostacolo tranne due posti di blocco. Alle 13 era tutto finito. Il capo delle forze armate ha dichiarato il sostegno totale al presidente in carica”. Quindi cosa è accaduto veramente, quali sono le intenzioni di Guaidó, chiediamo: “Guaidó ha pensato di innescare una reazione forte del governo di Maduro per poter scatenare l’intervento americano. Solo che ha manifestato una chiara debolezza e i soldati non lo hanno seguito. In città non c’è nessuna atmosfera di tensione e in definitiva se il tentativo era quello di stimolare una reazione del governo, questa non si è verificata”. A questo punto, osserva l’esperto di questioni internazionali, in Venezuela per un’attività legata alla lotta alle mafie, la palla può davvero passare al governo in carica. “Il golpe fallito, a mio giudizio, ha rafforzato moltissimo Maduro mostrando la solidità del suo rapporto con l’esercito e l’inesistenza di una insurrezione popolare. Credo che Maduro potrà fare un’apertura verso l’opposizione che non si riconosce pianamente in Guaidó, accettando le proposte di dialogo e di organizzazione di nuove elezioni che vengono dal Vaticano, dall’Italia e da alcuni paesi dell’America latina. Ma anche dalla Ue, come mi sembra di vedere dalle dichiarazioni della portavoce Ue. Maduro esce illeso e rafforzato dall’episodio”.

Per quanto riguarda la popolazione, poi, pur trovandosi in presenza di una crisi “gravissima”, Arlacchi nega che ci sia una situazione drammatica: “Caracas è una città tranquilla, ci sono generi alimentari, non ci sono persone che muoiono dalla fame. Certo, c’è una gravissima crisi economica e sociale che è determinata dalle sanzioni economiche americane che tagliano le medicine. Il rapporto Sachs spiega molto bene che negli ultimi due anni a seguito delle sanzioni sono morte 40 mila persone in più soprattutto per la mancanza di medicine come l’insulina o i farmaci anti-Hiv. Il governo ha i soldi per comprare ma le banche internazionali si rifiutano di processare le transazioni. L’arma delle sanzioni può essere molto pericolosa”. Anche sugli scontri in piazza il sociologo invita a essere più sobri nei commenti: “La Guardia nazionale del Venezuela per dettato costituzionale non può portare armi in manifestazioni pubbliche né usarle. La polizia nazionale ha le armi ma può utilizzare solo proiettili di gomma. Sono i gruppi armati delle opposizioni che utilizzano le armi per uccidere. E in genere il bilancio di morti è a svantaggio della polizia”. Infine la richiesta all’Unione europea e agli Stati occidentali di “ritirare qualsiasi sostegno a Guaidó. Uno che utilizza così disinvoltamente la minaccia di golpe non può avere alcuna credibilità. Del resto si pensi che in Catalogna gli indipendentisti sono in galera senza aver compiuto nessun atto di violenza, mentre Guaidó si autoproclama presidente, promuove scontri di piazza e gira libero tranquillamente. Chi è davvero l’interlocutore più credibile?”.

Guaidó punge il governo ma la rivolta può attendere

L’ultima notizia ieri sera l’ha data l’agenzia Reuters: Erik Prince, fondatore dell’agenzia di sicurezza Blackwater – oggi Academi – ha predisposto un piano per schierare 5000 mercenari a fianco di Juan Guaidò e rovesciare Nicolas Maduro. Ma l’annuncio sembra più auto promozionale che concreto. La crisi venezuelana che ieri sembrava giunta a una svolta ha causato 37 feriti e 11 arresti, ma non la caduta del regime di Maduro.

Ieri il presidente dell’Assemblea nazionale, nonché autoproclamato capo dello Stato ad interim, Juan Guaidó, prima di dare il via alla “grande marcia dell’Operazione libertà” per le strade di Caracas ha lanciato un messaggio video alla nazione accompagnato da Leopoldo López, uno storico leader dell’opposizione appena liberato dagli arresti domiciliari da un gruppo di soldati passati dalla parte dell’opposizione. In un video Guaidó mostra anche il momento in cui stringe la mano a un militare. È la prima volta che succede dall’inizio del confronto e Guaidó ha assicurato di avere dalla sua parte un consistente gruppo di militari anche nel resto del paese, non solo nella capitale.

La frattura all’interno delle forze armate, qualora si confermi vera e consistente, potrebbe condurre a una tappa finale violenta con uno scontro aperto tra militari fedeli a Maduro e quelli passati con l’opposizione. A Maracay, i militari pro Guaidò, avrebbero arrestato il generale Carlos Armas Lopez, presidente della Cavim, l’azienda pubblica che controlla e gestisce gli armamenti e le dotazioni delle forze armate.

La Guardia Nacional del Venezuela, fedele a Maduro, secondo alcuni media, avrebbe già reagito facendo uso di pallottole vere, oltre ai lacrimogeni, contro i civili e i militari pro Guaidò davanti alla base militare La Carlota fuori Caracas.

Guaidò in questa occasione si è spinto a esortare la popolazione civile a scendere in strada per chiedere la “cessazione definitiva dell’usurpazione fino alla riconquista della libertà”. Il giovane leader ha sottolineato che “l’esercito è con la gente, la fine dell’usurpazione è iniziata”. Nel video pubblicato sui social network si fa anche “grande appello ai dipendenti pubblici” per “recuperare la sovranità nazionale”.

A metà pomeriggio migliaia di persone sono riuscite a raggiungere il corteo nonostante il ministero dei trasporti avesse dato ordine di bloccare i trasporti pubblici in tutta Caracas.

La risposta di Maduro è stata infatti tombale circa un possibile dialogo o una propria volontaria uscita di scena pacifica: “Si tratta di un golpe”, ha dichiarato. Il suo governo gli ha fatto eco, aggiungendo che il Venezuela ha respinto un “golpe di ampiezza mediocre”, “piccolo” e “insignificante”. Lo ha detto in televisione il ministro venezuelano della Difesa, Vladimiro Padrino, sostenendo che il governo ha “risposto immediatamente”. Almeno l’80% dei soldati coinvolti, ha affermato, sono stati “ingannati” e si sono ritirati su ordine dei loro comandanti.

La notizia ha raggiunto subito le cancellerie di tutto il mondo. Gli Stati Uniti sostengono ovviamente la mossa di Guaidó, mentre il presidente russo Vladimir Putin non solo ha ribadito il suo sostegno a Maduro ma ha anche riunito il consiglio di sicurezza russo.

Da ricordare che almeno 100 militari russi si trovano a Caracas, probabilmente per tutelare Maduro e una sua via di fuga. Il presidente della Bolivia, Evo Morales, ha condannato il tentativo di Guaidò. La Colombia, a favore di Guaidò, ha chiesto una riunione di emergenza del Gruppo di Lima, organizzazione di 12 paesi nata per reagire alla crisi in Venezuela. L’Unione europea nel suo complesso è tornata a chiedere una soluzione pacifica.

Da notare la posizione del primo ministro socialista spagnolo Pedro Sanchez, fresco di riconferma alla Moneda. Pur continuando a ritenere Guaidò capo dello Stato ad interim ha detto che Madrid “non appoggerà un colpo di Stato in Venezuela per evitare spargimento di sangue”. In serata il Dipartimento di Stato Usa ha lanciato un’allerta per tutti i cittadini americani invitandoli a non recarsi in Venezuela, dove tra le altre cose. rischiano anche la detenzione. Il consigliere per la sicurezza nazionale Usa, John Bolton, ha ribadito la posizione della Casa Bianca: non si tratta di un colpo di stato ma di un tentativo di Juan Guaidó, come presidente legittimo, di prendere il controllo del Paese.

Dl Crescita pubblicato in Gazzetta, via agli aiuti ai risparmiatori

Sconti per le imprese, incentivi all’immobiliare, tutela del made in Italy, ma anche Alitalia, gli indennizzi ai risparmiatori traditi, nuovi finanziamenti ai Comuni. A quasi un mese dalla prima approvazione, il decreto Crescita è stato firmato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella ed entrerà in vigore il giorno dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Dopo il duro scontro tra Lega e Movimento 5 Stelle, concentrato soprattutto sul Salva Roma, alcune norme sono state riviste o sono scomparse, come i correttivi ai Pir, mentre spuntano piccole novità. Si va da un credito d’imposta del 30% per le spese sostenute dalle Pmi per partecipare a fiere all’estero (da quelle per l’affitto degli spazi espositivi agli allestimenti, con un tetto a 60 mila euro), a 50 milioni in tre anni stanziati per gli interventi legati all’iniziativa Mission Innnovation, che punta a raddoppiare la quota pubblica di investimenti sulle energie pulite, e “per gli impegni assunti nell’ambito della Proposta di Piano Nazionale integrato Energia Clima”.

Ecco l’ultima paranoia: il fantasma di Draghi e del governo tecnico

“Mario Draghi può dare un grande contributo, se ne ha voglia, non farà il pensionato, suppongo”. Sono bastate queste parole del ministro dell’Economia Giovanni Tria, nella sua intervista di ieri al Fatto, per allarmare parecchi parlamentari dentro la maggioranza: sta arrivando un governo tecnico guidato dal presidente della Bce?

La coincidenza delle date evoca suggestioni: il mandato dell’ex governatore della Banca d’Italia oggi a Francoforte scade a ottobre, giusto quando il governo Conte (se sopravvissuto alle elezioni europee) dovrà affrontare una complicata legge di Bilancio che già allarma i mercati. A questo si aggiunge la voce che circola da giorni secondo la quale Sergio Mattarella sarebbe pronto a nominare Draghi senatore a vita, come fece Giorgio Napolitano nel 2011 con Mario Monti, poco prima di affidargli un esecutivo di emergenza. Certo, il fatto che la voce sia stata diffusa da Luigi Bisignani, collaboratore del Tempo, ma anche protagonista di mille vicende assai opache e sotto processo a Milano per corruzione internazionale nella vicenda Eni-Nigeria, dovrebbe già essere sufficiente a screditare la teoria. Ma anche il contesto è diverso: già nell’estate 2011 il nome di Monti circolava per un governo tecnico, a novembre Napolitano lo nomina senatore a vita come mossa preliminare a far convergere i partiti sul suo nome e per evitare di esporlo senza protezione a un tentativo così complesso, nel pieno di una turbolenza finanziaria. Monti, inoltre, era presidente della Bocconi ma da tempo lontano dalle istituzioni (aveva fatto il Commissario europeo fino al 2004). Draghi invece è in piena attività, difficilmente Mattarella tenterebbe una prova di forza così spericolata come imporre dall’alto un senatore a vita appena uscito dalla Bce. E il ricordo del fallimento con Carlo Cottarelli è fresco: il presidente del Consiglio tecnico indicato da Mattarella per rompere lo stallo politico del maggio 2018 e rassicurare i mercati, in Parlamento avrebbe preso zero voti. Esporre allo stesso rischio una figura di prestigio come Draghi, magari nel pieno di una turbolenza finanziaria, sarebbe un suicidio.

C’è poi un altro aspetto delicato: per tutta la durata del suo mandato alla Bce, ma soprattutto nella fase finale, i partiti più euroscettici della Germania hanno sempre cercato di individuare nelle scelte della Bce un qualche trattamento di favore verso l’Italia (proprio mentre i critici italiani di Draghi cercavano invece prove di discriminazioni anti-italiane). Finora l’assedio, legittimato dalle posizioni scettiche su ogni politica espansiva da parte della Bundesbank di Jens Weidmann, non ha prodotto risultati. Ma se Draghi passasse subito alla politica attiva nel suo Paese di origine, gli attacchi dal Nord Europa non mancherebbero.

Pur godendo di una reputazione internazionale senza pari – è l’uomo che ha salvato l’euro – le opzioni per Draghi non sono moltissime. Ha avuto un ruolo troppo importante nella storia finanziaria recente per immaginare un suo passaggio al settore privato: Jean Claude Trichet, suo predecessore, si è concesso quasi subito una poltrona nel cda di Eads, il colosso degli Airbus. Ben Bernanke, dopo aver evitato il collasso dell’economia americana da presidente della Federal Reserve, ha aspettato un anno per diventare consulente dell’hedge fund Citadel e del fondo di investimento Pimco. Idem Timothy Geithner, già a capo della Fed di New York e poi Segretario al Tesoro negli anni dell’Amministrazione Obama che dopo dodici mesi di pausa si è insediato alla guida di una società di private equity, Warburg Pincus. Ma Geithner è di un’altra generazione, ha solo 57 anni, non stupisce che voglia inventarsi un’altra carriera. Il limite di età per guidare il Fondo monetario internazionale è 65 anni, Draghi non è interessato e, comunque, di anni ne ha 72. La stessa età di Carlo Azeglio Ciampi, uno dei suoi maestri, quando lasciò la Banca d’Italia per diventare prima presidente del Consiglio, poi ministro, poi capo dello Stato.

Per Draghi, però, almeno nell’immediato è più probabile immaginare un dopo-Bce più tradizionale: un periodo di decantazione in qualche grande università americana (nel 2011 Lorenzo Bini Smaghi, lasciato il board della Bce, andò ad Harvard), magari un libro di memorie e riflessioni sull’economia globale sul modello di Alan Greenspan che pubblicò The age of turbolence nel 2007 (un attimo prima che arrivasse il conto delle sue politiche troppo espansionistiche da presidente della Fed). L’unica certezza, a oggi, è che Draghi non ha alcuna voglia di tuffarsi nello scontro politico italiano a duellare con Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Ogni cosa a suo tempo. Forse.

 

Pil, sta tornando un po’ di crescita: addio recessione

Buone notizie sulla crescita, ma da maneggiare con prudenza: il dato preliminare dell’Istat sul primo trimestre 2019 indica una crescita dello 0,2 per cento. Questo significa che l’Italia è fuori dalla recessione (due trimestri di crescita negativa), come già alcuni dati parziali nelle scorse settimane avevano lasciato intendere. Lo stimolo alla crescita arriva dalle esportazioni, mentre la situazione nazionale resta critica: la domanda interna, incluse le scorte, continua a spingere il Pil al ribasso, anche se i consumi e gli investimenti sono in leggera ripresa.

La produzione industriale è in ripresa, l’indice di riferimento è tornato ai livelli di agosto 2018, ma “il rimbalzo è probabilmente dovuto alla necessità di ricostituire le scorte dopo che si erano significative ridotte nella seconda metà dell’anno per effetto dell’incertezza”, osserva Loredana Maria Federico di Unicredit. Tra giugno e dicembre 2018 prima l’incertezza politica sul governo, poi le tensioni finanziarie sui mercati nella fase della legge di Bilancio hanno avuto un impatto sia sulle decisioni delle imprese che sui costi di finanziamento. E sempre secondo Unicredit la ripresa dell’export, in un contesto di domanda mondiale debole, potrebbe essere dovuta soltanto all’aumento delle scorte in Gran Bretagna, dove le imprese si stanno preparando al caos, più che a un miglioramento delle prospettive.

A temperare l’ottimismo c’è poi sempre il confronto con il resto della zona euro: nel primo trimestre la crescita è stata sopra le attese, +0,4 per cento. E questo conferma che, purtroppo, l’Italia quando cresce, cresce meno degli altri e quando recede, recede più rapidamente. Le reazioni della politica, e del governo, si concentrano però soprattutto sui dati (provvisori) dell’Istat sul mercato del lavoro a marzo: la stima degli occupati è in crescita rispetto a febbraio (+0,3%, pari a +60 mila unità). Esulta soprattutto il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio: “Possiamo festeggiare il Primo Maggio con un dato positivo”.

Secondo il governo, l’Istat conferma che la stretta sui contratti a tempo determinato del decreto Dignità ha prodotto i risultati sperati: a marzo, rispetto a febbraio, aumentano i dipendenti con contratti stabili (+44 mila), salgono gli indipendenti (+14 mila), mentre risultano stabili i dipendenti a termine. Gli scettici in questi mesi hanno sempre ricordato che nel fare il bilancio del decreto Dignità bisogna considerare il boom dei contratti a tempo determinato tra 2015 e 2016 che, presto o tardi, avrebbero dovuto imporre alle imprese la scelta se confermare dipendenti già collaudati o lasciarli a casa.

Di sicuro, almeno per un giorno, il governo trova spunti di ottimismo nei dati sull’economia dopo un semestre quasi tutto negativo.

Sky & C. e lo spot gratis a Sorgenia

“Sorgenia è dovuta ripartire da una situazione difficile”, ammette con eccessivo pessimismo l’immarcescibile Chicco Testa, presidente della società elettrica che dalle mani (e dai debiti) della famiglia De Benedetti è passata alle banche. Troppo pessimismo perché davanti a sé, per una conferenza stampa di presentazione di uno spot e non di una innovativa centrale elettrica, ha decine di giornalisti e di telecamere, tutti pronti a diffondere una pubblicità gratuita, a confezionare servizi per il telegiornali (come SkyTg24) o di agenzie (come Ansa e Adnk) o di quotidiani (come il Messaggero) senza spiegare agli spettatori e ai lettori che si tratta di propaganda e non di informazione. Per suscitare l’interesse dei giornalisti, pronti a ingannare chissà se consapevolmente il proprio pubblico pagante, è bastato un video di trenta secondi con protagonista l’atleta paralimpica Bebe Vio e la struttura all’Eur chiamata “nuvola” dell’architetto Fuksas. L’amministratore delegato Gianfilippo Mancini ha rassicurato sul debito: al 31 dicembre erano 633 milioni di euro e però non sono più un problema. Anche perché, questo non l’ha detto, la pubblicità è gratis.