L’ultima lite sulle nomine di Bankitalia: Conte verso il sì, i gialloverdi perplessi

Mentre il giornale va in stampa, il Consiglio dei ministri non è ancora terminato. A quanto risulta al Fatto, però, la partita delle nomine ai vertici di Banca d’Italia, che si trascina da un paio di mesi, dovrebbe trovare una conclusione: il premier Giuseppe Conte ha portato al tavolo di Lega e 5 Stelle i 4 nomi proposti dal Direttorio di Palazzo Koch e si appresta a mandare il relativo decreto al Quirinale per la firma. I recalcitranti partiti di maggioranza si limiteranno, pare, ad annotare loro perplessità a verbale.

Riassumendo, e nonostante il percorso non proprio liscio, la spunta il partito del Colle, uno dei tre contraenti del patto di governo insieme a Lega e 5 Stelle: il governo dà il via libera alle nomine congelate fin da febbraio, quando arrivò la proposta di confermare nel Direttorio Luigi Federico Signorini, fedelissimo del governatore non proprio gradito ai gialloverdi.

Lo sgarbo – che portò a una lite con urla tra il ministro dell’Economia Tria e Luigi Di Maio – si fece scontro frontale a marzo, quando le dimissioni del direttore generale di Palazzo Koch, Salvatore Rossi, innescarono un effetto domino: Visco e soci indicarono come nuovo dg Fabio Panetta e come vice direttori l’ex Ragioniere generale Daniele Franco e la manager Alessandra Perrazzelli. L’ultimo nome – vicino al Pd lombardo ed ex dirigente del settore privato (Barclay’s) – è parsa quasi una provocazione: nuovo stallo e pressioni sempre più forti di Sergio Mattarella perché si chiudesse la partita. La data limite è il 9 maggio: dal giorno dopo è esecutivo l’addio di Rossi e il Direttorio non potrebbe più funzionare, come l’Ivass – che controlla le assicurazioni – presieduta per legge proprio dal direttore generale di Bankitalia.

Alla fine, il problema è stato risolto grazie alla complessa procedura di nomina. Funziona così: Bankitalia propone; il decreto è del presidente della Repubblica, ma su proposta del presidente del Consiglio e del Tesoro “sentito” il Consiglio dei ministri. Insomma, in questa vicenda il parere di chi non sia Conte o Tria conta, ma non è vincolante.

E qui bisognerà ricordare che il centro di questa vicenda non ha mai riguardato (solo) le poltrone, ma un complesso gioco di rapporti di potere e anche il giudizio sul recente passato. Questo c’è dietro alle quattro nomine ai vertici di Banca d’Italia congelate dall’esecutivo e arrivate ieri sera in Consiglio dei ministri. C’è il direttorio di Palazzo Koch – custode geloso della sua “indipendenza” interpretata nel senso più ampio possibile – e c’è il Quirinale, sempre schierato a difesa della banca centrale. Entrambi avrebbero preteso che Palazzo Chigi si limitasse a dire sì alle proposte arrivate dal Direttorio: tesi condivisa, all’interno dello stesso governo, proprio dal ministro Tria e, con qualche tentennamento, del premier Conte. I due partiti che esprimono il governo, però, non erano dello stesso parere: secondo Lega e M5S – con gradi diversi di intensità per i due partiti e per i loro singoli esponenti – confermato Ignazio Visco da Paolo Gentiloni, serviva almeno un segnale di “discontinuità” col recente passato.

Messa così sembra una formula vuota, in realtà allude all’atteggiamento avuto dall’establishment italiano nelle crisi bancarie e rispetto alla regolazione europea in materia: Lega e M5S accusano i precedenti governi, e Bankitalia che li guidò in quella partita, di eccessiva timidezza nella difesa del sistema del credito, terremotato con la scelta prima di dire sì alla direttiva europea Brrd che vieta gli aiuti di Stato, poi con le contestate riforme delle popolari e del credito cooperativo e infine, ciliegina sulla torta, dal mezzo bail-in praticato (in anticipo sugli obblighi Ue) su Popolare Etruria e le altre tre piccole banche nel novembre 2015 che uccise il settore in Borsa (-60%). Nella notte, però, dovrebbero aver prevalso le ragioni della continuità istituzionale: Visco ha il suo nuovo direttorio.

Conflitto d’interessi, entro due settimane il testo alla Camera

Il caso Siri-Arata ha dato la sveglia al M5S per un’accelerazione sul disegno di legge che riguarda la materia più incandescente dai tempi della discesa in campo di Silvio Berlusconi: il conflitto di interessi. Al massimo nel giro di due settimane ci sarà un testo che verrà calendarizzato in Commissione Affari costituzionali della Camera. Ieri, c’è stata una riunione dei parlamentari interessati anche con il ministro per i rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro, che nella passata legislatura è stato il firmatario di un ddl sul tema come Fabiana Dadone. Sarà un testo – a quanto risulta al Fatto – che ha come obiettivo quello di prevenire tutti i profili di conflitti di interesse: le incompatibilità per i parlamentari, i consiglieri regionali, per chi governa città metropolitane e per chi ricopre incarichi di governo.

Se ci fosse già stata la legge che i 5 Stelle stanno mettendo a punto, Paolo Arata, imprenditore nel capo energetico, attorno a cui gira il caso del sottosegretario Armando Siri, non avrebbe neppure potuto essere proposto da Matteo Salvini a presidente dell’Autorità per l’energia. E lo stesso Siri – che ha patteggiato una pena di 18 mesi per bancarotta fraudolenta – non sarebbe diventato sottosegretario alle Infrastrutture e magari non avrebbe potuto fare pressioni (a prescindere dalla presunta corruzione da 30mila euro che gli contestano i pm di Roma) per far approvare un emendamento pro-Arata.

Che il Movimento volesse accelerare sul conflitto di interessi, anche in vista delle Europee, s’era capito già domenica, quando Luigi Di Maio ha parlato delle cinque priorità: acqua pubblica, salario minimo, nomine della sanità, riduzione dei parlamentari (si vota alla Camera dal 7 maggio) e, appunto, conflitto di interessi. C’è un punto tecnico, in particolare, su cui lavorano i parlamentari interessati: come congegnare il cosiddetto blind trust, cioè le modalità di cessione delle attività per chi ha incarichi di governo, e vogliono essere sicuri che non ci siano scappatoie. Quel che è certo, a sentire deputati e senatori grillini della prima commissione, è che ritengono “del tutto insoddisfacente” quello che il Pd inserì nella legge proposta (e naufragata in Senato) nella scorsa legislatura. Ora al governo, i 5 Stelle promettono “una vera legge sul conflitto d’interessi”.

La capogruppo in Affari costituzionali, Anna Macina, non parla del testo in costruzione, ma spiega: “La ratio della legge è quella di agire preventivamente. Sarà una specie di filtro che impedirà di contaminare le istituzioni. Sono almeno vent’anni che il Paese aspetta una vera legge sul conflitto d’interessi. Ora la faremo noi e spiegheremo ai cittadini cosa significa: vogliamo che le persone nelle istituzioni lavorino solo per l’interesse pubblico”.

La Lega però – che governa molte Regioni con Forza Italia e in casa ha il bubbone Siri/Arata – certo non spianerà la strada a questa legge. Macina ostenta ottimismo: “La Lega sarà d’accordo, non ho dubbi: c’è tutto un capitolo del contratto di governo dedicato a questo”. Insomma, arriva una nuova sfida M5S contro Lega. La domanda è: Di Maio cercherà un’intesa sul punto col Pd per costringere l’alleato? Nessuno ci crede. Il capo grillino ha già spiegato che i voti dem sarebbero al massimo aggiuntivi (per “redimersi”) e pure dall’altro lato lo stop all’apertura di Graziano Delrio è netto: Nicola Zingaretti parla di “tempesta in un bicchier d’acqua”, Maria Elena Boschi s’indigna alla sola idea di un dialogo con i “giustizialisti”. Ma, come fu per il referendum propositivo, i deputati M5S cercano punti di contatto sul conflitto di interessi proprio coi colleghi del Pd.

Salvini dice no al premier: Siri ancora non si dimette

Lo stallo ora assomiglia a una palude, gialloverde. Perché il sottosegretario che tiene appeso un governo non si è dimesso, visto che Matteo Salvini non gli ha ordinato di farlo. Anche se glielo ha chiesto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, in un incontro lunedì sera, una maratona di ore a Palazzo Chigi. E anche se Conte ha formulato l’identica richiesta a Salvini ieri, su un volo da Roma per Tunisi.

Ma il leghista Armando Siri, sottosegretario alle Infrastrutture indagato per corruzione, è ancora lì. Del suo destino non si è parlato nel Consiglio dei ministri di ieri sera, dove è stata tregua armata. Anche se la sua posizione è sempre più fragile in un governo che pare una polveriera, ostaggio di contraddizioni e differenze. E non basta l’attivismo del premier, pressato da giorni dal Movimento con un’insistenza che non ha gradito. Perché Conte il mediatore cerca sempre un punto di equilibrio. Anche con il Salvini che tiene il punto per mostrarsi forte, ma che medita sul costo della difesa ad oltranza. E in mezzo a veleni e calcoli rimane la distanza tra i due vicepremier, che ormai confina con la questione personale. E il caso Siri è il punto di evidenza della faglia.

Ed è in questo clima che Conte fa la sua mossa, lunedì sera, senza dirlo (quasi) a nessuno. Neanche il suo staff sa dell’incontro con Siri, in cui il premier chiede al sottosegretario quello che il Movimento invoca da giorni, le dimissioni. “Una volta accertata la tua estraneità ai fatti potrai rientrare nel governo, ma ora serve un tuo passo indietro” gli dice in sostanza il presidente del Consiglio. Ma il sottosegretario resiste, ribadisce la sua innocenza, e fornisce lunghe spiegazioni all’avvocato Conte. “Non lo ha affatto convinto”, giurano dal Movimento. E comunque dopo ore di colloquio Siri non fa il passo di lato, e si aggrappa al suo leader: “Mi dimetto solo se me lo chiede Salvini”. E non servono le insistenze di Conte: “Armando, non mi costringere a intervenire in prima persona, a esigere pubblicamente le dimissioni”. E magari a fare di più, ossia a proporre al Consiglio dei ministri la rimozione del sottosegretario. Passo tecnicamente possibile ma politicamente sanguinoso, anche perché servirebbe il placet finale del Quirinale. Nell’attesa, Salvini si irrita parecchio per il tentativo di Conte, come mostra sull’aereo che porta lui e il premier a Tunisi per un vertice bilaterale. Tutti i presenti notano quanto il ministro dell’Interno sia tirato nei confronti del premier. Ma Conte lo prende ugualmente da parte, e con parole felpate gli chiede le dimissioni di Siri. Invoca responsabilità, il presidente. Però il capo della Lega “fa resistenza” dicono fonti della maggioranza, non cede. Anche se è in difficoltà, perché il muro per un indagato per corruzione, in una vicenda in cui compare anche la parola mafia, rischia di costargli a meno di un mese dalle europee. E infatti i 5Stelle soffiano: “Diversi parlamentari sono arrabbiati, anche perché vedono Siri come un corpo estraneo”. Vero o falso che sia, Di Maio decide di non affondare, in ossequio alla linea della moral suasion di Conte. Anzi, usa toni mielosi: “Con il ministro dell’Interno stiamo facendo un grande lavoro di squadra su migranti e lavoro”. Però Salvini non si sposta su Siri. E Conte prende tempo, per non passare da sconfitto: “Ho annunciato quali sono i principi e il percorso che sto seguendo, chiedo di pazientare fino alla fine di questi percorso. Sono disponibile a indire anche una conferenza stampa quando la decisione diverrà adottata”.

E visto che c’è, lancia un messaggio, innanzitutto al M5S: “Per quanto abbia maniche larghe, la mia giacca non si lascia tirare più di tanto”. E Di Maio giura: “Pazientare? Mi fido del presidente Conte”. Ma l’aria resta quella, da stracci. Con i tre protagonisti che a Tunisi si ignorano, almeno in pubblico. Salvini va a visitare il museo del Bardo per deporre una corona di fiori per le vittime dell’attentato del 2015, mentre Di Maio e Conte partecipano al Forum economico. In serata i tre ritornano a Roma per il cdm, con il capo del M5S che rientra da solo con un volo di linea.

E in tanti si aspettano una resa dei conti su Siri. Ma non succede nulla. Mentre il premier, giurano, resta fiducioso. “Siri capirà che deve dimettersi” ripete in privato. Anche se da Chigi ufficiosamente dicono che il premier “non ha ancora deciso”, per provare a dissimulare lo stallo, che fa palude.

Franza e Spagna

Afuria di guardarci l’ombelico e attendere l’Apocalisse (che pare un’altra volta rimandata, dopo i dati di ieri su Pil e occupazione), rischiamo di perdere di vista ciò che accade attorno a noi. In Spagna vince il centrosinistra tradizionale ed europeista, il Psoe (anche se non ha i numeri per governare da solo), perché fa o promette l’opposto delle politiche del suo omologo italiano e dell’austerità europea: patrimoniale dell’1% sulle rendite oltre 10 milioni, aumento dell’Irpef locale per i più ricchi (+2% per redditi superiori ai 13 mila euro e +4% per gli over 300 mila), Tobin tax dello 0,2% sulle transazioni finanziarie delle imprese sopra il miliardo di capitale, “tassa digitale” per le multinazionali del web, aumenti alle pensioni e al salario minimo (lì ne hanno uno) da 735 a 900 euro al mese, misure per le fasce più deboli come i bonus sulla bolletta dell’elettricità, impegno a demolire la controriforma del lavoro del 2012 (il Jobs Act spagnolo, realizzato però dal centrodestra, non dal centrosinistra), riduzione delle tasse universitarie, lotta all’evasione, politiche per la casa e per l’ambiente, incentivi alle auto elettriche e alle energie rinnovabili, aumento del 6,7% dei fondi per la ricerca. Il tutto coperto con gli aumenti di imposte ai ricchi, con la lotta all’evasione e lo sforamento del deficit concordato da Rajoy con l’Ue per il 2019 (non più 1,3%, ma 1,8%).

In Francia, per sopravvivere alla morsa piazze-Le Pen (di nuovo prima nei sondaggi), l’idolo degli europeisti acritici Emmanuel Macron arriva a dichiarare che quelle dei Gilet gialli sono “giuste rivendicazioni” e lui ha sbagliato a “sottovalutarle”. E si impegna ad allargare la democrazia diretta, a introdurre una quota proporzionale del 20% nell’Assemblea nazionale, a varare un piano ecologico partecipato, a non alzare l’età pensionabile (oggi a 62 anni), a indicizzare le pensioni sotto i 2 mila euro netti all’inflazione, a garantire un reddito universale ai poveri, a ridurre le tasse sul ceto medio e perfino a riformare drasticamente l’Ena, la scuola di amministrazione ritenuta troppo elitaria. Nel nostro povero Paese, chiunque osi dire o fare cose del genere viene bollato come “grillino” o “comunista” o “populista”, “nemico delle imprese”, “del Pil” e della “crescita”, anche se l’unico grande Paese europeo che cresce – la Spagna – lo fa esattamente con quella ricetta: lotta alle diseguaglianze, redistribuzione della ricchezza, aiuti alle classi sociali sterminate dalla crisi finanziaria, dal ceto medio ai precari, dai vecchi ai nuovi poveri. Una ricetta molto più simile al contratto giallo-verde che alle “riforme” montiane e renziane.

Per sconfiggere l’ondata di destra nazionalista che i poveretti chiamano fascismo o populismo o sovranismo, si fa così. Eppure, incredibilmente, il fu partito della sinistra detto Pd continua a biascicare fumisterie e ambiguità, candidando tutto e il contrario di tutto (da Pisapia a Calenda, e per fortuna Mimmo Lucano ha rifiutato, altrimenti ci sarebbe anche lui nell’Armata Brancaleone), a pasticciare con Miccichè (Miccichè!) in Sicilia e a inseguire un macronismo ormai sconfessato pure da Macron. L’unico dibattito che anima questi onanisti del nulla è il sì o no ai 5Stelle: i quali non esisterebbero proprio, se chi doveva fare la sinistra in questi ultimi vent’anni avesse fatto la sinistra, mentre la destra faceva benissimo la destra. E, ora che esistono, sono gli alleati naturali di una sinistra che faccia finalmente la sinistra. Certo, Pd e M5S se ne son dette e fatte di tutti i colori. I 5Stelle nel 2013 rifiutarono l’appoggio esterno a Bersani, poi il Pd rifiutò l’offerta di Grillo di votare Rodotà al Quirinale per poi governare insieme (preferirono B. e il Napolitano bis) e l’anno scorso respinse il contratto di governo proposto da Di Maio per salire sull’Aventino e godersi i pop corn, il rutto libero e la resistibile ascesa di Salvini. E ora continuano a rinfacciarsi i rispettivi errori come i bambini dell’asilo.

Avrebbero potuto farlo anche Pedro Sánchez, premier del Psoe, e Pablo Iglesias, leader di Podemos. Ancora nel marzo 2016, quando Sánchez gli chiese di appoggiare un governo coi centristi di Ciudadanos, Iglesias gli diede del “servo delle oligarchie e dei poteri forti” e lo iscrisse d’ufficio “ai consigli di amministrazione, al traffico di influenze e alle élite finanziarie”, sfidandolo a “togliere dal nome del partito la S e la O” (di “socialista” e “operaio”). L’altro replicò definendo Podemos “l’àncora di salvezza del Partito popolare”. Infatti Iglesias votò col Pp contro il governo Sánchez e rispedì la Spagna alle urne. Che produssero un nuovo governo Rajoy, grazie all’astensione decisiva del Psoe. Ma non impedirono il riavvicinamento fra le due sinistre nel 2018, col governo Sánchez appoggiato dall’esterno da Podemos, protagonista della “legge di Bilancio più di sinistra della storia”. I due la chiamarono “Manovra per uno Stato sociale”, con un preambolo simile a un manifesto politico: “I cittadini e le cittadine di questo Paese hanno visto crescere in questi anni le disuguaglianze, la povertà e la precarietà, mentre si riducevano gli investimenti nel Welfare… La maggioranza degli spagnoli si è impoverita mentre si privilegiava una minoranza: con la scusa della crisi si è portata avanti un’austerità a oltranza, esclusivamente sulla riduzione del debito pubblico”. La manovra fu bocciata dai catalani, che fecero cadere il governo. Ma ora viene premiata dagli elettori. E di lì ripartirà Sánchez con l’appoggio esterno o interno di Podemos. Chissà se qualcuno, nel Pd, se n’è accorto. Invece di litigare pro o contro l’alleanza col M5S, basta guardarsi intorno. Domandarsi che cosa vuol essere e deve fare oggi un centrosinistra. E darsi una risposta. Se sarà quella giusta, le alleanze verranno da sole.

Orville Peck, chi ha detto che i cowboy sono machi?

Non sappiamo se l’idea del personaggio che il misterioso songwriter Orville Peck ha deciso di interpretare gli sia stata ispirata da I segreti di Brokeback mountain. Il film ambientato nelle zone rurali e montuose di un’America, dove si narra la passione amorosa tra due cowboy. Sta di fatto che con Peck, lo stereotipo del cowboy macho, sembra oramai compromesso. Del resto, dice, “da dove credete che vengano gli artisti queer che popolano i locali di New York, se non dalle badland centroamericane?”. E, nascondendosi dietro un nom de plume, un cappello da vecchio west e una maschera in latex nera dalle lunghe frange che gli coprono il volto, Orville Peck ottiene quell’anonimato che gli dà la licenza di scrivere e cantare, con tutta onestà, le vicende di un moderno cowboy queer. Da pochi giorni è uscito il suo bel disco d’esordio Pony, composto da 12 brani in cui lo shoegaze si fonde a melodie country. Storie di amori e disamori, e una voce da crooner che è un misto fra Roy Orbison, Johnny Cash e Midge Ure.

Salta Woodstock, ma in Italia l’estate suona ovunque

Zaino in spalla, sacco a pelo e autostop. In tanti avevano già rotto il salvadanaio, sognando la nuova estate di Woodstock. L’unica preoccupazione sembrava la pioggia, come 50 anni fa. Ma d’improvviso, il colpo di scena. Uno dei due eventi celebrativi, quello organizzato dall’impresario storico Michael Lang all’autodromo di Watkins Glen subito dopo Ferragosto, è stato annullato malgrado un consistente cast da tempo annunciato con vecchi e giovani leoni del rock e del pop, da Robert Plant agli Imagine Dragons, con Killers, Imagine Dragons e Jay-Z, per finire con Miley Cyrus o John Fogerty fino a Santana. L’immarcescibile Carlos dovrebbe comunque essere, salvo contrordini, uno dei protagonisti dell’altro appuntamento, messo su da Live Nations a Bethel Woods, il sito originario di Woodstock, in un cartellone retrò con Ringo Starr, Doobie Brothers, Edgar Winter. Ma la trama potrebbe cambiare ancora: Pace, Amore & Musica & Dollaroni ballano dietro una battaglia senza esclusione di colpi tra corazzate manageriali.

I gerontofili in America in quelle settimane dovranno anche monitorare il calendario aggiornato del tour dei Rolling Stones, che dovrebbe partire in luglio dopo lo stop forzato per l’operazione al cuore di Mick Jagger. Che si sta godendo la convalescenza mentre Ron Wood e Keith Richards, in vacanza ai Caraibi, gli intasano il cellulare con clippini di canzoncine sceme alla “guarisci presto che abbiamo da fare”.

E in Italia? Nel suo giro d’addio arriverà un’altra eroina degli anni ruggenti. Joan Baez sarà al Flowers Festival di Collegno il19 luglio, mentre molto attesa è la data unica (17 giugno a Milano) del malconcio ma mai domo Phil Collins. Commiati dal palco? Ultima chiamata pure per i Kiss, il 2 luglio all’Ippodromo meneghino. Vai con le pantere grigie: Elton John passerà due volte nella penisola: il 30 maggio a Verona e il 7 luglio a Lucca. Per non dire di Sting, che però da noi è di casa, o dei concerti di Mark Knopfler. Troppo old fashioned? Si scende un filino d’età con il Firenze Rocks (13-16 giugno), tra Tool, Dream Theater, Ed Sheeran (atteso subito dopo a San Siro e all’Olimpico), Editors, Eddie Vedder, Smashing Pumpkins, Snow Patrol e i Cure, incanutiti beniamini dark. E se volete fare un’abbuffata di Festival, dal 27 giugno al 19 luglio c’è il Bologna Sonic Park con Slipknot, Greta Van Fleet, Weezer, Salmo, J-Ax in versione Articolo 31. Occhio al Comacchio Beach Fest, che il 7 giugno propone Anastacia e un altro nome top secret in esclusiva e l’8 il format “La meglio gioventù” con miniset di Gazzelle, Carone & Dear Jack, La Rua, Yuman, Fulminacci, e altre grosse sorprese. E che dire della portentosa edizione di Umbria Jazz (12-21 luglio)? Proposte da lustrarsi gli occhi, dai King Crimson (anche loro alle prese con il cinquantenario) a Thom Yorke, da George Benson a Paolo Conte continuando con Diana Krall, Lauryn Hill, o il set speciale Alex Britti-Max Gazzè-Manu Katchè, senza dimenticare il passaggio a Perugia di Nick Mason: stanco di sperare in una reunion dei Pink Floyd, il batterista sta portando in giro (sei le date italiane) il repertorio dei primi album con un gruppo, gli A Saucerful of Secrets, in cui ha ingaggiato anche Gary Kemp degli Spandau Ballet. Rock da stadio? Ce ne sarà: la grandeur psycho-techno-rock dei Muse il 12 e 13 luglio a Milano e il 20 a Roma. A quel punto l’Olimpico avrà già incoronato il suo nuovo piccolo re del cantautorato, Ultimo: il concerto del 4 sarà ricco di ospiti, certa la presenza di Venditti. Romani? Francesco De Gregori ripartirà con orchestra e Gnu Quartet da Caracalla a giugno, dove Ennio Morricone si insedierà per quattro concerti definitivi dopo un doppio passaggio a Verona e prima di Mantova e Lucca. Calcutta, consolidato vate indie, farà ambo tra Capannelle (26 giugno) e Milano (25), ma nell’ultimo scampolo d’estate, il 7 settembre, i fasti imperiali saranno concessi ai The Giornalisti al Circo Massimo.

Tutti i big nostrani macineranno chilometri: se Laura Pausini e Biagio Antonacci si sosterranno a vicenda nei megaimpianti, Jovanotti porterà in lungo e in largo il suo Beach Party costiero e pure ad alta quota, a Plan De Corones. Ma non sarebbe estate senza la solita, sfiancante sfida a distanza tra Liga e Vasco. Il primo farà il suo personale giro d’Italia a metà giugno, partendo da Bari e arrivando a Roma in nove tappe. Il signor Rossi, dopo un prologo il 23 maggio a Lignano, occuperà militarmente San Siro per otto concerti dal primo giugno, poi sposterà le masserizie in nave per sbarcare il 18 e 19 a Cagliari. La guerra continua.

Olanda e Van Nistelrooy, “storia” senza palmarès

Pubblichiamo alcune pagine del nuovo libro scritto da Massimo Fini e Giancarlo Padovan “Storia reazionaria del calcio”, pubblicato da Marsilio.

Il calcio moderno nasce con la “grande Olanda” dei Neeskens e dei Cruijff. È il “calcio totale”. Che però ha poco a che vedere con quello di oggi perché se da una parte ne è un perfezionamento dall’altra ne ha svuotato lo spirito libertario: con quell’ossessivo andar su e giù degli “esterni”, le squadre raggruppate in un fazzoletto, i ruoli precisi, predeterminati, regolati, e guai a sgarrare. Il “calcio totale” portava in sé, e in un certo senso a compimento, quel bisogno di libertà che negli anni precedenti aveva attraversato, in modi diversi, l’intera Europa. (…) Gli “orange” giocavano senza schemi fissi, ma dove li portava l’estro del momento. Spesso si vedeva il portiere, Jongbloed, un pazzo, nel cerchio di centrocampo. (…) L’Olanda degli anni Settanta non vinse nulla, così come era capitato alla “grande Ungheria” di Ferenc Puskas (508 gol in 521 partite, uno score che nessun Ronaldo o Messi potrà mai uguagliare) la sola Nazionale del dopoguerra che le sta a pari.

Se la repressione nel sangue della “rivolta ungherese” spazzò via la grande Ungheria e con essa la Honved che avevo visto giocare a San Siro nei primi anni Cinquanta, nemmeno l’Olanda fu fortunata, ma per altri motivi. Dovette giocare le due finali del 1974 e del 1978 in casa del Paese organizzatore, la Germania e l’Argentina. Soprattutto la partita con “la celeste” fu uno scandalo. (…) A conferma che non è sempre il palmarès a fare la grandezza di una squadra (vedi La dura legge del gol di Max Pezzali). E nemmeno di un giocatore. Ruud van Nistelrooy non ha mai vinto una Champions perché gli è toccato giocare in un Madrid dove, oltre a lui, c’erano solo Sergio Ramos e il portiere Iker Casillas. A centrocampo c’era Gago, figuriamoci. (…) Van Nistelrooy dunque non ha mai vinto la Champions ma in questa competizione nel rapporto gol segnati/partite giocate, 60 su 81, nei tempi recenti è terzo dietro solo a Ronaldo e Messi (…) E si sa che ciò che differenzia un asso da un ottimo attaccante, tipo Ibrahimovic o Higuain, non è il numero dei gol segnati ma quelli decisivi realizzati nelle grandi competizioni. (…)

Proprio in Champions, mi pare contro la Juve, ma posso sbagliare, ho visto fare a Van Nistelrooy, quando giocava per il Manchester United, quello che secondo me è uno dei più spettacolari gol di tutti i tempi, migliore anche di quello famosissimo di van Basten contro la Russia. Ruud è faccia alla porta, un poco fuori dall’area. Gli arriva un lancio da dietro di quaranta metri. Si volta un attimo, la frazione di un attimo, per controllare la traiettoria, si fa scavalcare dal pallone, lo aggancia col collo del piede destro e senza soluzione di continuità lo scaraventa nell’angolo alto della porta alla sinistra del portiere. Perché dico che questo gol è migliore di quello di Van Basten? Perché è più difficile. A Van Basten il passaggio arriva in diagonale e quindi può vederlo, Ruud no perché è dritto per dritto. Su Van Nistelrooy, Van Basten, quando era allenatore della Nazionale olandese, fu autore di uno scempio che ancor oggi grida vendetta al cielo. Nei Mondiali del 2006 l’Olanda si giocava il passaggio nel girone col Portogallo. Van Basten non aveva schierato Ruud, colpevole, secondo lui, di aver segnato un solo gol nelle due partite precedenti. Al suo posto aveva messo Kuijt, che è un ottimo giocatore di fascia e di movimento, molto generoso, ma non è un centravanti. E infatti col Portogallo che stava vincendo 1 a 0 si era mangiato un gol solo davanti alla porta. A venti minuti dalla fine Van Basten annunciò il cambio. Tutti si aspettavano Van Nistelrooy. E invece chi fece entrare quel delinquente di Van Basten che di Van Nistelrooy era geloso temendo che lo superasse in popolarità? Vennegoor of Hesselink. Dico Vennegoor of Hesselink il centravanti di una squadra scalcinata come il Celtic e di cui non si saprà più nulla. (…)

A Manchester quando la palla arrivava a Van Nistelrooy i tifosi dello United cominciavano a scandire ritmicamente “Ruud, Ruud, Ruud” perché sapevano che il gol era nell’aria. Ma l’asso olandese non era solo un grandissimo bomber. Sapeva giocare. Anche quando era in una posizione da cui poteva tentare il tiro se vedeva un compagno meglio piazzato gli passava la palla. Lo faceva anche col giovanissimo Cristiano Ronaldo. Mi ricordo un delizioso “scavino” con cui, scavalcando il difensore, mette il futuro CR7 solo davanti al portiere. Invece Ronaldo, narciso cronico, non gliela dava mai. E una volta Ruud, che è un uomo mite, si incazzò e gli diede un gran cazzotto sul muso dicendogli: “E adesso vai a piangere dal tuo papà portoghese” (intendeva il viceallenatore dello United). Nel 2006 Van Nistelrooy passò al Real. (…) Alla prima di quel campionato Van Nistelrooy chiese a Capello, noto “sergente di ferro”, di essere esentato perché sua moglie stava per partorire il loro primo figlio. (…) Sorprendentemente, Capello, che pur vuole dai suoi una dedizione totale e non sopporta divagazione alcuna, acconsentì. Il caso volle che la moglie partorisse prima del previsto. Ruud si precipitò, trafelato, al campo d’allenamento la mattina della partita. Capello lo guardò negli occhi e disse: “Tu oggi giochi”. E cominciò l’epopea di Van Nistelrooy al Real.

Ex Ilva, la denuncia Usb: “Onda di acciaio incandescente”

“Durante il turno di notte di domenica 28 aprile, alle ore 3.30, nel reparto colata continua 1 dello stabilimento ArcelorMittal di Taranto si è verificato un grave incidente che ha posto a serio rischio la vita dei lavoratori”: è quanto denuncia Francesco Rizzo, coordinatore provinciale Usb, aggiungendo che “durante la fase di colata un’onda di acciaio incandescente ha investito tutta la linea coprendo il coperchio della lingottiera, per fortuna gli operatori in quel momento erano nel pulpitino ma solo qualche minuto prima effettuavano il cambio tubo (come da programma). Gli operatori prima dell’onda di acciaio hanno sentito un forte boato e hanno potuto mettersi in salvo”. Secondo il sindacalista si è sfiorata una tragedia “che poteva coinvolgere diversi lavoratori in maniera irreparabile. Questa tipologia di evento incidentale si è verificata diverse volte anche in passato, ogni volta i lavoratori escono incolumi per pura fortuna ed ogni volta puntualmente denunciamo l’accaduto. Ancora più grave – attacca Rizzo – è il fatto che questa mattina i responsabili dello stabilimento hanno ordinato la ripartenza della linea senza aver compreso cosa è realmente successo e che cosa ha causato l’esplosione”.

Ilva, lo scontro sulle emissioni Perché si litiga ancora sui dati

Come sempre, quando si lotta lo si fa senza sconti. Così, nella già incandescente atmosfera di Taranto e alla vigilia del concerto del primo maggio, è diventato virale un video che mostra le contestazioni rivolte al vicepremier Luigi Di Maio nel giorno dell’insediamento del tavolo istituzionale permanente per la città. A parlare è Alessandro Marescotti, punto di riferimento di Peacelink nonché blogger del Fatto Quotidiano, che smentisce una dichiarazione del ministro rilasciata a settembre 2018 (“Abbiamo installato tecnologie a Taranto che riducono del 20% le emissioni nocive”), riferisce i dati sulle emissioni, ne sottolinea l’aumento. Il vicepremier non replica ai numeri, ma risponde a quasi tutti i movimenti che sono intervenuti. E in parte a Marescotti: “Non è stato ancora installato il filtro? Vero – dice – perché non è ancora previsto dal cronoprogramma (degli interventi di Arcelor Mittal, ndr). Ma lo abbiamo velocizzato: prima era previsto per il 2023, noi lo abbiamo anticipato”. Sulle emissioni, ha invece risposto il ministro dell’Ambiente Sergio Costa, a cui Marescotti ieri ha rivolto una lettera aperta ribadendo quanto già riferito a Di Maio. Ma qual è la verità? L’Ilva inquina più di prima? La risposta non è così semplice.

L’aria. Si parte dai dati: da un lato ci sono i monitoraggi di Peacelink che, sulla base dei dati Arpa e Ispra sembrano mostrare un aumento dell’inquinamento nell’area attorno all’Ilva, dall’altro ci sono i rilievi del ministero dell’Ambiente che invece non rilevano informazioni allarmanti sulla qualità dell’aria, in relazione ai limiti di legge. In pratica, Peacelink tiene conto dei dati sulla qualità dell’aria rilevata delle centraline a terra, mentre il ministero, Ispra e Arpa considerano prima di tutto le emissioni dai camini dell’Ilva. I due dati non sono però direttamente collegati. Se le emissioni dall’Ilva diminuiscono, non è detto che automaticamente migliori la qualità dell’aria. E viceversa. Come per lo smog, la qualità dell’aria dipende anche da altri fattori come le condizioni climatiche, le precipitazioni o altre fonti inquinanti. Inoltre, c’è una differente percezione del dato: per gli ambientalisti contano le variazioni percentuali, per le istituzioni conta se queste sono entro i limiti di legge. Anche il raffronto è diverso: ministero, Ispra e Arpa confrontano dati e medie di lunga durata (per esempio di un anno sul precedente), mentre i comitati fanno confronti su tempi più brevi. Ovviamente nel secondo caso pesano di più le variabili esterne (tanto che l’Ispra già a febbraio aveva osservato come si trattasse di una pratica scientificamente poco ortodossa). Ci sono poi due diverse reti di monitoraggio: una interna all’Ilva, cui i cittadini non hanno accesso, e una esterna che invece monitora l’aria che respirano i tarantini. Due tipi di dati diversi non confrontabili.

La diossina. C’è poi una terza rete, quella dei cosiddetti “deposimetri” che rilevano le polveri che si depositano. Ed è su uno di questi dispositivi che l’Arpa Puglia ha rilevato, nell’ultimo monitoraggio, valori di diossine sopra il limite consentito per alcuni mesi (oggi tornati nella norma) e di cui si dovrà verificare la causa. Nel resto dei rilievi, i dati sono corretti o meglio conformi alla legge.

La tecnologia. Marescotti ha contestato inoltre a Di Maio la dichiarazione di settembre, quella sulle tecnologie per la riduzione del 20% delle emissioni. La scelta dei tempi verbali in effetti non è stata felice, perché sembrava davvero parlasse di una installazione appena avvenuta. In realtà il sistema di filtraggio che c’è al momento all’Ilva (filtri elettrostatici) risale a circa 15 anni fa e permette di avere emissioni che sono ad un livello medio in una forchetta europea di minimi e massimi consentiti. Sono però stati innovati, nel 2012, con l’introduzione di un campionamento e di un monitoraggio continui della diossina che esce dai camini e con una tecnologia che prevede l’abbattimento con urea, ovvero iniezioni di una sostanza che abbatte ulteriormente la diossina. Da dove arriva la percentuale di cui parla di Di Maio? Dall’obbligo che ha Arcelor Mittal di inserire i “filtri a manica” che assicurano emissioni minime e che saranno realizzati entro il 2021. Solo a quel punto si raggiungerà l’abbattimento del 20 per cento. Per realizzarli, il gruppo dovrà pagare circa 200 milioni e prevedere una struttura molto ampia, lo spazio di due palazzi, per la quale ha dovuto chiedere speciali permessi per costruire.

 

Il confronto

Marescotti – Di Maio – Costa

“Il ministro Di Maio ha dichiarato in un video dell’8 settembre scorso, che erano state installate tecnologie a Taranto che riducono del 20% le emissioni nocive. Quelle tecnologie non sono mai state installate. I dati delle centraline Ispra e Arpa parlano chiaro”. Alessandro Marescotti, presidente di Peacelink, una delle 23 associazioni convocate il 24 aprile dal vice premier Luigi Di Maio a Taranto per la riunione del Tavolo permanente del Contratto istituzionale di sviluppo (Cis) ha incalzato il ministro del Lavoro sull’Ilva, ricordando la dichiarazione e citando i numeri sull’inquinamento a Taranto. In poche ore, il video è circolato online ed è diventato virale. Sui numeri ha replicato il ministro dell’Ambiente Costa, a cui Marescotti ha poi indirizzato una lettera aperta mentre dai Cinque Stelle è arrivata l’accusa di non aver mostrato la replica di Di Maio, che invece c’è stata seppure alla fine di tutti gli interventi

Riappare al Baghdadi, ma non è più Califfo

Cinque anni fa era il “Califfo” dell’Isil (Islamic State of Iraq and the Levant) e vantava la nascita di uno “Stato” islamico nato arraffando con le armi e spargendo sangue parte della Siria e dell’Iraq. La chiamata alle armi di Abu Bakr al Baghdadi era avvenuta nel 2014, nella moschea di Mosul.

Cinque anni dopo, il ricercato per cui gli americani promettono 25 milioni di dollari è più vecchio, e invece che un sermone in un luogo sacro, sciorina teorie di vendette seduto a terra. Questo, almeno, sostiene il Site, il sito che si è costruito una fama nel seguire – e rilanciare sul web – le pubblicazioni dell’estremismo islamico. Non tutti gli accreditano bontà di informazioni, ma tant’è, ieri Site con un video di 18 secondi ha fatto diventare al Baghdadi di nuovo una star. Secondo l’intelligence irachena, al Baghdadi si muove con un piccolo gruppo di fedelissimi, tra cui uno dei suoi figli, transitando dalla provincia irachena di Al-Anbar a quelle siriane di Homs e Deir Ezzor. Può uno degli estremisti più pericolosi del pianeta muoversi a piacimento in una regione a tratti desertica? A fine marzo l’ambasciatore James Jeffrey , inviato speciale Usa nella guerra contro l’Isis, ha dichiarato che il nascondiglio del leader dello Stato Islamico, rimane sconosciuto, ma ha ribadito che la cattura di al-Baghdadi è “una priorità per Washington” nonostante il ritiro dalla Siria ordinato da Donald Trump. Di certo al Baghdadi ha fatto un discorsetto che sembra studiato a tavolino per far capire al mondo che sebbene sia un fuggiasco, segue le cose del mondo e dietro i peggiori misfatti ci sono sempre i suoi, i fedeli dell’Isis. Così, secondo Rita Katz, responsabile di Site, il Califfo elogia gli attentatori dello Sri Lanka parlando di “vendetta per Baghuz – l’ultima battaglia in cui l’Isis è stato estirpato dalla Siria – e chiede di intensificare gli attacchi contro “la Francia; ”i crociati”, poi parla di geopolitica, con i leader cacciati o deposti in Algeria e Sudan; si tratta di Abdelaziz Bouteflika, che ha lasciato il potere lo scorso 2 aprile e Omar al-Bashir, deposto dai militari l’11 aprile. Inoltre, il capo dell’Isis chiede al comandante dell’Isis nell’Africa subsahariana, al-Sahrawi, di “intensificare gli attacchi” in Mali e Burkina Faso “contro la Francia e i suoi alleati” e si compiace del “giuramento di fedeltà dei suoi seguaci in Burkina Faso e in Mali”. Anche questo è un riferimento attuale: nel maggio 2018 il Dipartimento di Stato Usa ha inserito il gruppo Isis-Gs, lo ‘Stato Islamico del Grande Sahara’, e il suo leader, al-Sahrawi, nella lista di organizzazioni del terrore. Al-Sahrawi si è legato all’Isis nel maggio 2015, il suo gruppo faceva prima parte della galassia di al Qaeda. Al Sahrawì è un nome di battaglia: sarebbe nato a El Aaiun, nel Sahara occidentale, e avrebbe studiato in Algeria.