Lo stratega della comunicazione che fa volare i socialisti: lo chiamano il “drone”

La paura di una vittoria della destra grazie all’alleanza con gli estremisti di Vox; il richiamo dei socialisti al voto utile; per non parlare della congiuntura economica positiva che ha giocato un ruolo chiave nella percezione del governo Sánchez appena conclusosi. Tutto questo ha sicuramente portato alla vittoria i socialisti. Ma, a livello mediatico, le fortune del leader del Psoe portano il nome e il cognome del suo capo per la comunicazione: Ivan Redondo: 37 anni, ex stratega dei Popolari – fu lui l’artefice dell’elezione del primo presidente di destra della regione di Estremadura – Redondo pare sia stato soprannominato “il drone” per la sua capacità di volare più in alto dei baroni socialisti, gli stessi che già nel 2016 volevano azzoppare Pedro Sánchez. Forse anche per questo nel partito fino all’altroieri non sarebbe stato facile trovare qualcuno che ne parlasse bene.

L’ultima discussione del consigliere di Sánchez con i dirigenti storici risale alla formazione delle liste per le Europee e le regionali, a fine 2018. Qualcuno le ha definite un vero e proprio “casting”. Eppure è il suo il maquillage che ha portato Sánchez alla vittoria dopo due fallimenti: dalla prima foto social di Pedro “ufficiale gentiluomo” in aereo con gli occhiali da sole a specchio, fino all’effigie del presidente come murales sulla sede del partito dietro alle bandiere dei militanti. Più che una festa, una scenografia. È di Redondo finanche l’idea della mozione di sfiducia a Rajoy di giugno scorso, quando Sánchez riuscì ad abbattere i Popolari. Ivan l’aveva predetto in un articolo di analisi politica qualche mese prima: “L’unico modo per i socialisti di riguadagnare terreno è far cadere Rajoy con una mozione di sfiducia per i casi di corruzione”. Sua anche la decisione di andare a elezioni anticipate e non tirare a campare dopo la sconfitta al bilancio di febbraio. Il guru Redondo ha puntato tutto su Sánchez: “Non si può cambiare, ma se ne possono mettere in luce i pregi”, pare abbia detto accettando l’incarico di suo consigliere. Redondo ha scelto la data – ora più che mai strategica – del 28 aprile per il voto. Un traino per le Europee e le Amministrative del 26 maggio, oppure, in caso di sconfitta, in tempo utile per correggere il tiro. Finora è andato tutto come Ivan aveva previsto. E vedremo se chi lo vedeva lavorare tanto per un governo socialista alla Moncloa, per poi poter occupare il prestigioso posto di capo di Gabinetto ci aveva visto giusto. Ma perché questo accada, a Redondo manca un ultimo consiglio azzeccato al suo “cliente”: come e con chi formare il governo.

Vox irrompe a Las Cortes senza dimenticare Franco

Due avvocati, un dentista e un ex militare che non dimenticano il dittatore Francisco Franco; il vice della comunicazione che ha un debole per la strategia mediatica di Jair Bolsonaro e Donald Trump e Matteo Salvini su Twitter. Più qualche fuoriuscito locale dal Partito popolare. Sono questi alcuni dei 24 deputati di Vox chiamati “alla resistenza alla dittatura progressista” nel Parlamento spagnolo. Al Senato non ne è arrivato neanche uno. Tra i giuristi, spiccano per notorietà i due difensori di parte civica nel processo ai leader catalani accusati di ribellione, sedizione e malversazione di fondi, Javier Ortega Smith – anche candidato sindaco per Madrid alle elezioni di maggio – e Pedro Fernández Hernández. Dopo tre mesi di pulpito al Tribunale Supremo di Madrid, i due siederanno a Las Cortes. Accanto a loro anche: Ignacio Garrida Vaz de Concicao, dentista e portavoce del Comitato nazionale del partito. A Ignacio non sfugge mai di festeggiare il colpo di Stato di Franco ogni 18 luglio. L’anno scorso rinfrescò la memoria dei seguaci con un estratto dalla proclamazione del sollevamento franchista “ancora molto attuale”. Poi c’è Iván Espinosa de los Monteros, che si occupa di temi internazionali ed economici. La sua proposta per tagliare le spese dello Stato è abbattere le autonomie regionali. Alla faccia del dialogo. Tra le donne emerge il profilo di Lourdes Méndez Monasterio, avvocato, ex Pp critica nei confronti dell’aborto. Nota alle cronache per non essersi astenuta durante il voto della riforma di Rajoy sull’interruzione di gravidanza, si pensava fosse pro-aborto. Forse quella per lei era un riforma troppo lieve. Per la città di Toledo arriva alla Camera il vicesegretario della comunicazione di Vox, Manuel Mariscal. Il grande comunicatore non ama la stampa critica, composta “da scribacchini” che avrebbero nascosto per anni l’esistenza di Vox, come confessa nel suo documento di presentazione alle elezioni.

Per lui, 26 anni, sono sempre esistiti solo i social, ed è proprio grazie a un pc nella sede di Vox e un account Twitter da cui insultare i leader politici rivali, che è riuscito a fare arrivare Santiago Abascal al grande pubblico. E alla fine potersi prendere quella tanto sperata rivincita sul Partito popolare subito dopo gli scandali della corruzione che lo delusero al punto di lasciare il posto di consulente per la comunicazione. Un po’ come il suo leader, Abascal che vince dopo sei anni e torna in politica nel collegio di Madrid dopo aver abbandonato nel 2013 i Popolari di Esperanza Aguirre, allora presidente della Provincia – ora inquisita per gli scandali della capitale – e aver accusato Mariano Rajoy “di aver tradito i principi del partito” soprattutto sui temi dell’antiterrorismo. Ricomparve l’anno dopo per presentare la nascita del suo nuovo partito: Vox, con il quale ora entra in Parlamento.

Governo, ora Sánchez vuole ballare da solo

“Abbiamo la forza necessaria per formare un governo da soli”. E anche: “Non c’è fretta”. La prima dichiarazione è stata la sveglia mattutina agli spagnoli nella giornata post-elettorale di ieri, data dalla vicepresidente del governo uscente, Carmen Calvo. La seconda, della presidente del Psoe Cristina Narbona, è arrivata poco prima della direzione del partito nel pomeriggio, ed è servita a richiamare alla calma. I socialisti hanno vinto le elezioni di domenica con il 28,6% dei voti e 123 seggi su 350, quindi senza la maggioranza assoluta (176) in Parlamento. Motivo per cui sarebbe necessario che trovassero un alleato. Eppure pare che questo non accadrà. “Non c’è patto, ci sarà solo un governo monocolore”, è l’indicazione di Sánchez nonostante la mano tesa del leader della coalizione di sinistra, Unidas Podemos, Pablo Iglesias, che pur avendo perso 29 seggi rispetto alle scorse politiche, ne ha 42 “imprescindibili” per un governo di sinistra. Ma anche Iglesias, nella sede madrilena del partito, ha richiamato alla cautela: “Questa è una fase delicata, capirete che non tutto è mediatico”, ha chiarito ai giornalisti. Calma, sì, anche perché la data per la costituzione delle camere è il 21 maggio, ma prima che qualche patto, più o meno equilibrato, interno o esterno possa essere messo sul piatto bisognerà aspettare le Europee e le Amministrative del 26 maggio.

Ora è tempo di riflettere. Podemos dovrà pensare a cosa vuol dire aver perso le grandi città di Madrid e Barcellona, dove ha ottenuto rispettivamente solo 7 seggi contro gli 11 del Psoe e 6 contro i 9 dei socialisti. Non un buon pronostico per le comunali. Ma Podemos non è l’unico partito scosso. L’annuncio del governo socialista in solitaria ha lasciato senza parole anche il partito indipendentista catalano Esquerra Republicana che con 15 seggi nella sua prima vittoria ad elezioni nazionali, pensava di essere l’ago della bilancia. Soprattutto dopo aver visto retrocedere Junts por Catalunya che ha preso solo 7 seggi. Con l’aggravante che la Giunta per le elezioni, accogliendo il ricorso di Pp e Ciudadanos, ha deciso di invalidare la candidatura alle Europee del leader indipendentista Charles Puidgemont, in auto esilio, e degli altri due separatisti catalani Toni Comin e Clara Ponsatì. Il richiamo al dialogo da parte di Gabriele Rufian eletto deputato con Esquerra è destinato a restare lettera morta, anche perché rischierebbe soltanto di indebolire la posizione del leader del Psoe. “Chiediamo a Sánchez un tavolo di negoziati che metta insieme tutte le realtà della Catalogna – aveva dichiarato Rufian – siamo disposti al dialogo con la sinistra spagnola, anche con Podemos. E speriamo che Sánchez rispetti la volontà degli elettori che gli chiedono di dialogare con noi. A sostenere indirettamente invece la scelta solitaria di Sanchez è Albert Rivera. Il leader dei centristi di Ciudadanos, infatti, si è auto proclamato da via di Alcalà “il leader dell’opposizione, nonostante l’ottimo risultato”. I 57 seggi ottenuti dalla formazione arancione sembravano la salvezza per un governo Sánchez, che così sarebbe arrivato a 180 seggi, convenienti, nonostante l’opposizione dei militanti: “Con Rivera no”, hanno gridato in coro al presidente domenica sera alla festa socialista.

“Non possiamo governare con chi fa patti con gli indipendentisti, i nazionalisti e i separatisti”, ha chiuso invece il discorso in conferenza stampa Ines Arrimada, deputata arancione per la Catalogna. E a proposito di nazionalisti, al Psoe, nel caso pensasse a escludere solo i catalani, però, non basterebbero le formazioni regionali, i cosiddetti “altri” come Compromís (1), Partito Nazionalista Basco (6), Coalizione Canaria-Pnc (2) e Partido Regionalista di Cantabria (1). La somma così darebbe infatti 175, un seggio in meno della maggioranza assoluta.

Andare senza i catalani, tuttavia, significherebbe lasciarsi le mani libere sulla questione indipendentista. Ora che con il Senato a suo favore – il Psoe l’ha ripreso dai Popolari per la prima volta dal 1993 con 121 seggi su 208 più i 18 delle regioni a statuto speciale – per qualsiasi voto riguardante le autonomie, compreso il decreto 155 che rimette nelle mani del governo centrale quello delle comunità autonome, non subirebbe il veto dei popolari. Il Pp non ha più voce in capitolo neanche sui temi fondamentali, come conseguenza di quelle che sono state le elezioni peggiori degli ultimi otto anni. Casado – eletto da un anno a succedere a Mariano Rajoy dopo gli scandali e il crollo del governo – è riuscito a portare a casa solo 66 seggi. “Per ora il suo ruolo non è in discussione”, dicono dal partito, anche se hanno rimandato a oggi la direzione. Come se non bastasse, i popolari si sono sentiti intestare anche la responsabilità del fallimento della coalizione di destra sul modello andaluso di dicembre 2018. “La colpa è di altre formazioni se non siamo maggioranza in Parlamento”, è la teoria del leader di Vox Santiago Abascal. Per questi risultati sarebbe stato determinante, secondo gli analisti politici, il voto della generazione nata a cavallo della Transizione, tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80. Di questi, che oggi hanno più meno 44 anni e che sono il 51 per cento dell’elettorato, il 31 per cento è rappresentato da donne. Sono state loro a pesare più in percentuale sulla disfatta della destra e saranno loro, le donne, la maggioranza in Parlamento con 164 seggi, 26 più della scorsa legislatura. Il 46,8 per cento dell’intero emiciclo dove siederanno 186 uomini.

Bravo Darwin, è chiaro ora da chi discenda la scimmia

Charles Darwin aveva ragione: l’evoluzione delle specie si basa sull’adattamento all’ambiente. Forse però il grande naturalista non aveva previsto che la lotta per la sopravvivenza si scatena negli show televisivi. Pentolone ribollente di urla da stadio, voyeurismo da bancarella, prove fisiche non solo demenziali ma anche pericolose; a prima vista, parrebbe che non ci sia altro da aggiungere su Ciao Darwin (venerdì, Canale 5). Ma dacché Gabriele Marchetti è rovinato dai rulli del cosiddetto Genodrome e rischia la paralisi, capiamo che lo scopo del programma, come ha sempre detto Paolo Bonolis, sta nel delineare l’uomo del Terzo millennio. In particolare, la sottospecie del concorrente televisivo. L’epica del concorrente nasce con Mike Bongiorno, l’inventore dei “personaggi” dominatori dei giochi a quiz. Anche Corrado Mantoni segue quella strada: sono i tempi in cui tra i professionisti dell’intrattenimento e i dilettanti allo sbaraglio c’è un muro invalicabile. Ora i confini sono dissolti. Tutti fanno tutto senza essere nessuno, la carica dei blogger, degli youtuber, degli influencer e dei fuffologer ha rincarato la dose. I Google dal volto umano, se sopravvivono, non se li fila più nessuno, e l’evoluzionismo catodico ha prodotto il concorrente che nella fondamentale sfida “Juventini contro resto del mondo” rischia l’osso del collo. Letteralmente. Bravo Darwin, ci avevi visto giusto, anche se non fino in fondo. Ormai è evidente che la scimmia discende dall’uomo.

Mail Box

 

La Lega non capisce: governare è un atto collegiale

Il Fatto Quotidiano del 7 aprile ha riportato la frase: “Attenzione Matteo, i 5 stelle vogliono darci l’economia, ma è una polpetta avvelenata, rischieremmo il tracollo, meglio tenerci Tria”, firmato Giancarlo Giorgetti, leghista, sottosegretario di Palazzo Chigi, ossia chi dovrebbe rappresentare il governo nella sua interezza. Strana davvero la politica di questi tempi. Una volta si litigava per avere i ministeri e in particolare quello dell’economia, il più importante di tutti, ma oggi che l’economia è in stagnazione e il debito pubblico ha superato i duemila miliardi di euro, quella poltrona scotta e rischia di scontentare tutti. Se il ministro diventasse un uomo della Lega le difficoltà dell’economia si rifletterebbero nel campo leghista e allora addio a Salvini pigliatutto. Questo fatto andrebbe sottolineato, perché è facile da ministro dell’Interno dire dei no, chiudere i porti e passare per statista intransigente che ferma l’immigrazione clandestina, ma governare è un fatto collegiale e meriti e difficoltà dovrebbero essere giustamente attribuiti ad entrambe le parti. Attualmente assistiamo allo spettacolo di tutti i media, sondaggisti incorporati, che premiano con visibilità sproporzionata Salvini e la Lega, con il risultato evidente ce i rapporti di forza tra le due componenti del governo stabiliti dagli elettori (32,5% 5 stelle e 17% Lega) non vengono considerati, ma si va avanti come se i sondaggi fossero voti veri in una campagna elettorale permanente.

Paolo De Gregorio

 

Per cambiare il nostro Paese serve una rivoluzione culturale

Condivido pienamente l’articolo di Travaglio su “Il Codice per finta” e “Certezza della non-pena”. Spesso mi sono chiesto perché in Italia non possa esserci una Giustizia equa, ragionevole e rigorosa, fondata sulla certezza della pena e la natura di recupero durante la sua esecuzione. Ne ho, infine, compreso l’origine durante la presentazione di un libro che si intitola “Forse sei mafioso e non lo sai”. Spiega cosa vuol dire vivere in un ambiente dominato dalla mentalità mafiosa che è l’omertà e l’indifferenza. È una concezione lassista, fondata su una misericordia assoluta e quindi disumana, che crea la mentalità diffusa di un ambiente omertoso, dove tutto è possibile perché tutto verrà perdonato. Questa morale priva del senso di colpa e dell’etica della responsabilità è stata diffusa in Italia da un Cattolicesimo privo del senso dello Stato e del diritto, e da una sinistra morente e priva di valori, dunque ridotta ad anarcoliberismo. Il cattoanarchismo è l’estremismo delle anime belle, che fa il paio con l’opposto dei forcaioli, e confonde la Misericordia divina e ultraterrena con la giustizia umana, che deve salvaguardare la società dai criminali mediante equità e umanità. Per cambiare il nostro Paese serve una rivoluzione culturale, non solo politica e sociale.

Vincenzo Magi

 

Noi cittadini dovremmo continuare a pagare e subire?

Chi deve dare la patente di servizio pubblico a Radio Radicale? I politici, i cittadini o i giornalisti? L’incuria e lo spreco di denaro dei cittadini devono forse durare in eterno? Paragonare le convenzioni con le cliniche private, che servono a curare un bene essenziale quale la salute dei cittadini, con la convenzione di Radio Radicale, si commenta da sé: per assurdo, sarebbe anche un servizio pubblico (a mio parere molto più utile) quello di Wikipedia: dobbiamo darle i soldi pubblici? Radio Radicale non l’ho mai ascoltata e, quando ne ho bisogno, trovo tutto ciò che produce presso altre fonti. Paradossalmente, sarebbe più logico affermare che, poichè lo Stato sperpera il denaro dei cittadini in opere inutili e nella distribuzione di mance varia, tanto vale continuare a farlo nei confronti di Radio Radicale, così come anche di Avvenire e di altre testate! Ormai la grancassa mediatica si è attivata e noi cittadini dovremmo osservare e subire, tacendo, l’ulteriore spreco di denaro?

Oronzo Balestra

 

Come si misura il turbamento, caro presidente Mattarella?

Mattarella ha messo lo zampino sulla legittima difesa; ma che significa il “grave turbamento” e come si misura? Col termometro o il barometro, con la Scala Mercalli o la Richter? Se è a discrezione dei giudicanti, visto i precedenti ha creato un bel pasticcio, non c’è che dire!

Enzo Bernasconi

 

I nostri errori

Nel pezzo “Trattativa, l’appello: Dell’Utri chiama B. in aula” pubblicato domenica 29 aprile, per una svista abbiamo scritto che Silvio Berlusconi “non è mai stato sentito né in aula né in fase preliminare”: in realtà fu interrogato nel contesto dell’inchiesta sulla presunta estorsione di Dell’Utri ai suoi danni, dopo la scoperta di una dazione di 21 milioni di euro necessari per l’acquisto della sua villa di Como, 15 dei quali finirono pochi giorni dopo su un conto di Santo Domingo. Circostanza che alla luce della pronuncia della Cassazione che ha ritenuto Dell’Utri mediatore tra B. e la mafia indusse i pm a indagare su quel versamento nell’ambito dei rapporti emersi nell’inchiesta sulla trattativa Stato mafia. A sentirlo, nel settembre del 2012, furono il procuratore Francesco Messineo, e gli aggiunti Antonio Ingroia e Lia Sava. Dell’errore ci scusiamo con gli interessati e con i lettori.

Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza

Proposte. Per ridurre il debito pubblico possiamo pagare gli statali in Bot e Btp?

 

È possibile convertire (su base volontaria), gli stipendi degli statali in titoli pubblici? Il debito pubblico aumenterebbe così solo per il costo degli interessi, essendo gli stipendi già spesa corrente. Cos’è che non va in questo ragionamento?

Paola Susi

 

Gentile Paola, provo a spiegarle perché la sua proposta è assurda, se la conversione è volontaria, ma anche se la conversione fosse forzata. Partiamo dalla conversione volontaria. Diciamo che lo Stato paga al funzionario Tizio 1.000 euro al mese e gli offre la possibilità di riceverne una parte sotto forma di titoli di Stato. Tizio accetterà soltanto se ha un incentivo a farlo, cioè se la conversione è più conveniente che ricevere i 1.000 euro e poi chiedere alla sua banca di comprare lo stesso ammontare di titoli di Stato. Quindi, grazie alla soluzione da lei proposta, il governo si troverebbe a dover pagare i normali interessi sul debito più il costo dell’incentivo fiscale per spingere Tizio ad aderire. Questa operazione che lei suggerisce equivale a pagare più interessi sul debito ma offrendo questi titoli “rinforzati” soltanto ai dipendenti pubblici. Direi che è una opzione che possiamo tranquillamente scartare.

Diverso il ragionamento se si trattasse di una conversione obbligatoria. A parte il fatto che gli statali danno già una mano a sostenere il fardello del debito pubblico – la loro liquidazione non è pagata al momento della pensione ma spalmata su più anni, i loro contributi sono solo figurativi – c’è un altro aspetto da considerare. Poiché la solvibilità di uno Stato si misura soprattutto dalla sua capacità di onorare i debiti a più breve scadenza, annunciare di pagare un pezzo di stipendi tramite debito equivale a dire che lo Stato non è più in condizione neppure di erogare gli stipendi, figurarsi di rimborsare debiti a più lunga scadenza e a tassi più elevati. In pratica è una dichiarazione di bancarotta. Trovo quindi consigliabile scartare anche questa opzione. Se proprio vuole un intervento drastico, l’unico possibile è sui patrimoni: o i prelievi notturni sui conti correnti (una rapina legale ma pur sempre una rapina) o una seria riforma del catasto e una revisione dell’imposta sugli immobili, a cominciare dal ritorno dell’Imu sulla prima casa, tranne che per i più poveri. Ma scommetto che a lei queste due opzioni piacciono meno, soprattutto se ha una casa di proprietà.

Stefano Feltri

Lucia Borgonzoni, la leghista-artista votata al martirio

Chiamata a difendere venerdì scorso l’indifendibile, cioè Siri, Lucia Borgonzoni si è esposta a Otto e mezzo alla mitraglia come un San Sebastiano per nulla convinto delle proprie argomentazioni. “Siri ha portato avanti un emendamento che comunque era all’interno dei programmi sia del M5S, sia della Lega ed era nel contratto di governo sul tema delle rinnovabili”. Per nulla: glielo ha scritto Arata e i 5 Stelle l’han bloccato ogni volta che han potuto. “Ci fidiamo totalmente di Siri. Chi lo conosce sa che è una persona perbene e specchiata“. Mica tanto: ha patteggiato una condanna per bancarotta fraudolenta. Otto e mezzo, più che un programma, è non di rado una tomba di carriere mediatiche: chiedere per conferma, tra i tanti, alle Boschi & Castelli. La Borgonzoni non è certo al capolinea della sua parabola: tenendo conto dei sondaggi, con la Lega in gran spolvero avrà modo di divertirsi. Le vanno poi attribuiti due meriti. Il primo è aver reagito con giusto fastidio alla definizione, che la accompagna da sempre, di “Boschi della Lega”. “Questo non è un complimento”, ha risposto a Un giorno da pecora, “per me la Boschi è un po’ sciapa. Non rientra nei miei canoni di bellezza”. Come darle torto: se ci è lecito dissertare di erotismo e bellezza senza con ciò passar da sessisti, la Borgonzoni sta alla Boschi come Jimmy Page a Gianni Drudi. L’altro suo merito, e si è visto pure venerdì, è quello di non sottrarsi al confronto: laddove quasi tutti (anche nella Lega) scappano, la Borgonzoni va ovunque. Forse si sopravvaluta o forse è molto democratica, ma di questi tempi non è poco.

In un articolo di Italia Oggi, uscito nel 2016 pochi giorni prima del ballottaggio (perso) per divenire sindaco di Bologna, veniva descritta così: “Leghista sui generis, laureata all’Accademia delle Belle Arti con una tesi in Fenomenologia degli stili. Ha esposto i suoi quadri in varie mostre in Italia e come interior designer ha arredato locali pubblici. Il nonno materno era un partigiano comunista. Lei però ha detto che il 25 aprile non lo festeggerebbe neanche da sindaco”. Nello stesso articolo, una sua ex vicina di casa ricordava: “Averla come vicina nella mansarda sopra il mio appartamento è stato indimenticabile. Musica a tutto volume e viavai notturni da chiamare i vigili per il rumore, cani che lasciavano le loro deiezioni sul mio/nostro pianerottolo e che nessuno puliva. La signora inavvicinabile fino alla tarda mattinata, perché dormiva. Alla fine ho cambiato casa”. Lei: “Sono stata barista del Link, storico locale underground bolognese, e tutti sapevano che ero leghista. Non rinnego quel periodo, ma un tempo le persone che giravano dentro i centri sociali erano diverse. Nessuno mi ha mai proposto di andare a spaccare le vetrine, in quegli anni non mettevano la città sottosopra”. Consigliere provinciale, comunale e coordinatrice del Gruppo politico leghista femminile. Candidata sindaca in quella Bologna dove è nata nel ’76 (il padre architetto le augurò buona fortuna, dicendo però che non l’avrebbe votata mai). Quindi senatrice dal 2018. Da sempre leghista: “Avevo 12 anni e mia madre, che votava Lega lombarda, mi faceva trovare tutto il ‘merchandising’ su Alberto da Giussano. Mi ha fatto un lavaggio del cervello”. Ora è sottosegretario ai Beni culturali, ruolo nobilissimo che ha festeggiato così: “Leggo poco, l’ultimo l’ho letto tre anni fa”. Bello. Un po’ come chiedere al macellaio se la carne è buona, e lui: “Che ne so, io son vegano!”. Daje Lucia: contro tutto e contro tutti. A costo pure del martirio.

Legittima difesa, altra occasione persa dal colle

Tutto si poteva immaginare in questo strano Paese, eccetto che il capo dello Stato dettasse ai giudici indicazioni come interpretare una legge da lui promulgata. È avvenuto in occasione della firma della legge, fortemente voluta dalla Lega, che modifica la legittima difesa e che, sotto la spinta di una violenta retorica che fomenta paura e allarme sociale, vulnera i fondamentali principi giuridici ne cives ad arma ruant o ad arma veniant (“affinché i cittadini non corrano o vengano alle armi”) e cedant arma togae (“cedano le armi al diritto”).

Il presidente della Repubblica ha promulgato la legge ma, contestualmente, ha inviato un messaggio ai presidenti delle Camere e del Consiglio ove evidenzia criticità e raccomanda un’interpretazione fedele alla Costituzione. Oltre a errori e “irragionevolezze” sul rimborso di spese di giudizio e il risarcimento del danno, il punto essenziale del messaggio è: “La nuova normativa presuppone, in senso conforme alla Costituzione, una portata obiettiva del grave turbamento e che questo sia effettivamente determinato dalla concreta situazione in cui si manifestano”.

Il messaggio ha ottenuto il risultato di far esultare tutti: Salvini (“è un giorno bellissimo per l’Italia, la riforma della legittima difesa è legge dello Stato: la Lega ha mantenuto la promessa”), magistrati e avvocati. Il neo presidente dell’Anm, Grasso, parla di “ottimo richiamo all’esigenza di tassatività della formulazione delle norme giuridiche e ad applicare in modo oggettivo il ‘grave turbamento’”. L’ex procuratore di Milano, Bruti Liberati, dichiara a Repubblica che “il presidente, con quel che ha detto e con quel che non ha detto, ha indicato l’unica via di una interpretazione costituzionalmente corretta”.

In realtà, il messaggio del capo dello Stato non ha affatto “colpito al cuore la legittima difesa” (come scrive Repubblica) né “ha smontato di fatto l’impianto della norma” (come ritengono le Camere penali), poiché non compete a lui dare indicazioni ai magistrati sulla interpretazione della legge, tantomeno indicando requisiti (“portata oggettiva del grave turbamento”, “concreta situazione in cui si determina”) non previsti dal legislatore su cui basare “una interpretazione costituzionalmente corretta”. Il messaggio alle Camere rimarrà, come sempre, “lettera morta” perché il Parlamento non modificherà la legge appena approvata. E i giudici dovranno interpretarla inderogabilmente così come scritta dal legislatore, senza poter utilizzare criteri valutativi non indicati nella legge, né tanto meno quelli surrettiziamente indicati dal Colle, sempre che – come è auspicabile – non ritengano di rivolgersi alla Corte costituzionale. Peraltro, come osserva efficacemente Daniela Ranieri sul Fatto, non esiste certo una “misura standard internazionale dei turbamenti su cui i giudici dovranno valutare la proporzionalità della difesa”. Non è forse vero che il turbamento derivante dal trovarsi in una casa un ladro o un assassino varia da soggetto a soggetto secondo il diverso grado di emotività e di fragilità interiore di ciascuno?

Le criticità e perplessità di natura costituzionale, rilevate dal capo dello Stato, gli avrebbero consentito di attivare la procedura dell’art. 74 della Carta, rinviando alle Camere la legge con richiesta di nuova deliberazione, mettendo così il Parlamento di fronte alle sue responsabilità: modificare la legge nei termini indicati dal presidente o restituirla al mittente costringendolo alla firma. La verità è che il capo dello Stato ha perso anche stavolta – come già in sede di promulgazione del dl Sicurezza (che presentava profili di incostituzionalità) – l’occasione di rappresentare al Parlamento, e segnatamente alla Lega, partito del ministro di polizia, che esiste pur sempre una Autorità che può (nei limiti previsti dalla Costituzione) fermare leggi adottate sotto la spinta di strappi costituzionali e per fini pericolosamente propagandistici.

Manduria siamo noi. Davvero? Ma quanto?

Svegliarsi di soprassalto a Manduria guatati dagli occhi di una feroce e inspiegabile fantasima che alleggia nell’aria; accendere la televisione e ritrovare nello schermo una galleria di scorci urbani noti, familiari, lingue di asfalto crepacciato battute quotidianamente, la sbilenca listellatura di una tapparella dirupata dalle intemperie, uguale a mille altre a queste latitudini, più e più volte sfilata al tuo fianco senza la menoma contezza di quanto dolore rattenesse, di quale irreparabile dramma tenesse lontano dalla tua vista.

Svegliarsi di soprassalto a Manduria e scoprirsi parte inconsapevole di una trama rivoltante eppure efficacissima, scritta per te e per migliaia di tuoi conterranei da un demiurgo misterioso, implacabile, che non si perita di ricorrere all’effettaccio per ricordarci quanto siamo fragili, insignificanti e spregevoli noi esseri umani.

Svegliarsi di soprassalto a Manduria in un giorno quieto di mezza primavera, col sole che sboccia tra i tetti grondando tuorlo tra nuvole di cartavelina, e venire risucchiati di colpo dall’orrore che bussa e palpita a pochi metri dalla tua casa, lo stesso che capolina sull’uscio di continuo, a cicli regolari: è il battito e la sinestesia di un Male sempre all’erta, mai domo, destro a concimare il loglio del suo prato. Come con la piccola Sarah, a pochi chilometri dal tuo giardino, o con l’efferato delitto di Giuse Dimitri, artista massacrato quaggiù in una notte di tregenda di non troppo tempo fa, da demoni con la faccia d’angelo non tanto dissimili da quelli che hanno fatto strame di ogni futuro del povero Antonio Stano, pensionato, single, afflitto da qualche turba psichica e, in definitiva, uomo.

Pure, ancora: svegliarsi di soprassalto a Manduria avviluppati dal ronzio costante e fastidioso degli odiatori da tastiera e sorprendersi incolpevolmente (davvero? ma quanto?) marchiati delle più spregevoli etichette: omertosi, incuranti, indifferenti, sordi al dolore altrui, merde.

“I manduriani non potevano non sapere” è il riff che riverbera a nastro per ore, giorni, ere interminabili sulle moltitudini di bacheche digitali degli analisti di professione, ingrossandosi come un soffocante nembo velenoso.

“I vicini non potevano non sapere” è la cantafera che si rimpalla la popolazione della stordita e incolpevole (davvero? ma quanto?) cittadina messapica per sgravarsi di ogni colpa.

“I genitori non potevano non sapere” è il carme intonato dagli abitanti della strada in cui il sangue è stato versato e che hanno assistito all’ignobile stillicidio di violenza senza vedere (davvero? ma quanto?).

“Come facevamo noialtri a sapere?” è infine la dubitativa retorica con cui chi ha procreato quei demoni chiude il cerchio della discolpa, allogando sé stessi assieme a tutti gli altri in quella zona di auto-assoluzione per la quale alla fine è sempre l’altro, ciò che è fuori da noi, a doversi fare carico di ogni responsabilità.

E intanto, mentre una comunità intera si ritrova attonita a confrontarsi tra gli anneriti coriandoli di un funesto carnevale, il lutto generale si consuma srotolandosi tra consuete marce di solidarietà e fiaccolate tardive, discussioni da bar e indici puntati, riflessioni antropologiche in odore di talk-show e funerali appartati in fuga dai teleobiettivi. Su tutto, il perenne brusio di sottofondo che sfuma nell’abbacinamento collettivo: davvero siamo noi, davvero siamo questo?

Ma “dietro a ogni scemo c’è un villaggio”, diceva una canzone nota, e oggi più che mai quel villaggio non può essere semplicemente racchiuso nei pur problematici confini di una sperduta (davvero? ma quanto?) cittadina di una regione, la Puglia, che sembra sempre a un passo dall’affrancamento definitivo dai cliché di un Sud barbarico e arretrato, e che invece puntualmente progredisce verso il domani con ostinato passo da gambero: ora avanzando in una luce numinosa (il turismo, la cultura, la gastronomia), ora piombando nella pece più nera (la criminalità, i veleni dell’Ilva, lo sfruttamento dei nuovi schiavi nei campi di raccolta).

Mai come in queste ore bisognerebbe invece sforzarsi di immaginarsi tutti come un unico grande villaggio in cui, per paradosso, siamo tutti Antonio Stano (davvero? ma quanto?), un popolo variamente disagiato, tenuto in scacco nelle nostre magioni da aguzzini dal volto angelicato, mostri che qualche volta, specchiandoci di sfuggita, rischieremmo di guardare dritti negli occhi.

 

A dieci anni si lancia nel vuoto: ricoverato in gravi condizioni

È caduto dalla mansarda della sua abitazione a Battipaglia (Salerno) in un tentativo di suicidio. È l’ipotesi riferita da fonti investigative in merito al bimbo di 10 anni precipitato giù. Alla base del gesto, secondo gli investigatori, ci sarebbero motivi scolastici ma non legati a fenomeni di bullismo. Il piccolo, che frequenta la quinta elementare di un istituto di Battipaglia, è ora ricoverato all’ospedale Santobono di Napoli, in gravi condizioni. Il dramma è accaduto poco prima che il bimbo andasse a scuola. Una volta arrivato nel portone con la madre (il piccolo è orfano di padre), con la scusa di aver dimenticato qualcosa in casa si è fatto dare le chiavi e, una volta solo, si è lanciato nel vuoto dalla sua cameretta, precipitando da circa dieci metri. Il piccolo paziente è ricoverato in prognosi riservata nel reparto di Rianimazione dell’ospedale napoletano; gli esami effettuati nella mattinata di oggi hanno evidenziato la presenza di diverse fratture in diverse parti del corpo”. Così l’azienda ospedaliera Santobono-Pausilipon: “Proprio a causa della complessità del quadro e della gravità delle ferite riportate, al momento non è possibile indicare tempi e modalità di evoluzione delle condizioni di salute del bambino”.