Il pm Andrea Padalino indagato per quattro abusi d’ufficio

La Procura di Milano ha chiuso le indagini sull’ex pm di Torino, ora applicato ad Alessandria, Andrea Padalino. I colleghi milanesi – cui per competenza erano stati trasmessi gli atti – gli contestano quattro ipotesi di abuso d’ufficio. L’iscrizione nel registro degli indagati risale all’estate scorsa quando i pm Francesco Pelosi, Paolo Toso e Livia Locci spedirono le ottomila pagine dell’inchiesta sulla “cricca” ai colleghi di Milano perché facessero gli accertamenti su Padalino e su un vpo, Nando Brizzi, accusato di rivelazione di atti coperti da segreto.

Le accuse di abuso d’ufficio riguardano le firme apposte su alcuni documenti formali del suo ufficio giudiziario che avrebbero consentito assegnazioni irregolari di casi e fascicoli che hanno favorito la cosidetta “cricca” del Palazzo di Giustizia, su cui da mesi indaga Torino. Un gruppetto di persone – in sostanza – si sarebbero scambiati favori. L’appuntato dei Carabinieri Renato De Matteis avrebbe spesso segnalato il nome dell’avvocato Pierfranco Bertolino alle vittime di reati che si sarebbero sdebitati con favori: auto da carrozzieri e concessionari, operazioni chirurgiche da un medico oculista, interessamento per assunzioni da parte di un manager. L’indagine nasce da una fuga di notizie: nell’intercettazione in un procedimento della Dda, una persona riferisce a un’altra di aver saputo della presenza di alcune microspie e a dirglielo sarebbe stata una “talpa” in Procura. Chi sia non è noto, ma l’inchiesta si è allargata. Nello stesso periodo quattro carabinieri furono cacciati da Palazzo: contro di loro solo un procedimento disciplinare.

Alcuni degli atti dell’inchiesta sui quattro furono vistati dal sostituto procuratore Andrea Padalino, “consapevole o no” della situazione. Secondo i quotidiani torinesi, che ne scrissero mesi fa, il trasferimento di Padalino ad Alessandria sarebbe stato legato anche a questa vicenda.

Poliziotto uccide la moglie e poi si toglie la vita: sui social riempiva di cuoricini la donna

Ai post gioiosi ed inneggianti all’allegria pubblicati su Facebook dalla moglie nei giorni scorsi aveva risposto con un “like” a forma di cuore ed una frase che era una dichiarazione d’amore, quasi un accorato appello per salvare un matrimonio dal quale erano nate due bambine, di sei e sette anni: “Tu quando manchi – aveva scritto – manca qualcosa di bello”. Ed invece Simone Cosentino, 42 anni, assistente capo della Polizia di Stato in servizio alla sezione Volanti della Questura di Ragusa, la notte scorsa ha chiuso nel modo più tragico quel rapporto che negli ultimi tempi era entrato in crisi: con la pistola d’ordinanza ha freddato nel sonno la moglie, Alice Bredice, 33 anni, piemontese, e poi con la stessa arma si è tolto la vita. L’ispettore capo era in ferie da quattro giorni. Prima dell’omicidio-suicidio ha postato su Fb una frase che ora, alla luce di quanto successo, suona come un messaggio di addio: “Ti ho dedicato tutta la mia vita. Ti amo”. E solo l’ipotesi di poter essere lasciato era per lui inaccettabile.

In passato Simone Cosentino aveva prestato servizio nella Polizia Stradale a Susa, in Piemonte, dove aveva conosciuto la moglie. Circa sei anni addietro si era trasferito a Ragusa, dove aveva lavorato sempre nella Polizia Stradale. Dal 2016 era in servizio nella squadra Volanti della Questura iblea. Il dramma familiare si è consumato la notte scorsa nella casa di Marina di Ragusa, dove la coppia viveva insieme con le due figliolette. A dare l’allarme è stata una delle bambine, che ha chiamato la Polizia. Le indagini della squadra mobile di Ragusa sono coordinate dal sostituto procuratore Giulia Bisello. Fonti della Questura parlano di “frizioni” negli ultimi giorni tra marito e moglie, che però non lasciavano presagire un tragico epilogo. Alice Bredice, originaria di Sant’Ambrogio in Val di Susa, in Piemonte, era tornata da poco in Sicilia dopo aver trascorso le festività pasquali nel suo paese natale.

Trattativa, Ciancimino cerca di sfilarsi dal processo: “Confuso per l’ictus”. Il medico: “Sta bene”

Prima un accenno agli imputati, condannati in primo grado: “Non sono archetipi socio-criminologici, sono persone che saranno giudicate per ciò che hanno o non hanno fatto. Questo è l’impegno della corte”. Poi il richiamo a una metafora “non felice” dello storico Salvatore Lupo, che il presidente Pellino non cita, e cioè che la storia non si riscrive guardandola “dal buco della serratura del processo penale”: “Verità condivisibile quasi banale – dice il presidente scandendo le parole – anche se può accadere che la riscrittura di un pezzo di storia di un Paese possa essere un effetto inevitabile dei temi trattati e del lavoro di tutte le parti processuali che hanno concorso a scavare nei fatti”. Ma “se e quando questo effetto si verifichi non deve essere però cercato, perché lo scopo del processo d’appello è verificare la tenuta della decisione di primo grado sotto la lente di ingrandimento dei motivi d’appello”.

Torna in aula per l’appello il processo sulla Trattativa tra Stato e mafia, e si sposta nel palazzo di Giustizia, dove ieri i soli ufficiali Mario Mori e Giuseppe De Donno hanno partecipato, tra gli imputati, alla prima udienza, dedicata, come le successive tre (o quattro) alla relazione introduttiva iniziata dal presidente Angelo Pellino, e affidata per le udienze successive al giudice a latere Vittorio Anania.

Assente anche Massimo Ciancimino, colpito da un ictus durante la sua detenzione a Rebibbia: “Quando gli ho parlato della trattativa mi ha chiesto ‘che cosa è?’”, ha detto ai giornalisti il suo avvocato che ha chiesto alla Corte una perizia che ne attesti le condizioni di salute dopo che la relazione del medico del carcere lo ha indicato come lucido e in grado di partecipare alle udienze. Ciancimino in primo grado è stato condannato a 8 anni di reclusione.

Il giallo fa arrabbiare Capalbio: esposto e proteste per il restauro della chiesa

È successo tutto alla vigilia del venerdì di Pasqua: le impalcature della Pieve di San Nicola a Capalbio dovevano essere tolte per far passare la processione della via Crucis. E così è stato ma con una piccola sorpresa: al posto dell’intonaco decadente, del campanile in stile gotico-romanico e dell’antica facciata con le decorazioni a graffito del XVII secolo, i residenti del piccolo borgo maremmano hanno scoperto che la chiesa nel cuore di Capalbio erano diventati improvvisamente giallo senape. Un intervento che ha fatto esplodere la polemica tra residenti, turisti e lo stesso prete della parrocchia di San Nicola don Marcello Serio che ha espresso “molte perplessità” sulla nuova tinta gialla. Il restauro della chiesa, partito a febbraio, ha fatto sobbalzare anche il sindaco di Capalbio, Luigi Bellumori: “In questi due mesi non vedevamo niente perché la chiesa era completamente impacchettata dalle impalcature – racconta al Fatto Quotidiano – poi abbiamo fatto questa scoperta alla vigilia di Pasqua: il colore giallo lascia molto perplessi perché c’entra poco con gli altri edifici del centro storico di Capalbio. Sono dispiaciuto per quello che è successo ma è chiaro che i lavori non siano stati conformi al progetto originario”. La questione è diventata in poco tempo nazionale e ha richiamato l’attenzione del Mibact: dalla segreteria del ministro Alberto Bonisoli è arrivata la richiesta al Comune di ottenere tutti i verbali con cui sono stati organizzati i lavori di restauro. Tutto inizia nell’autunno del 2018 quando il parroco don Serio aveva fatto presente al sindaco e alla Soprintendenza di Siena, Arezzo e Grosseto l’esigenza di restaurare l’antico edificio che risale al XII secolo: proprio in quanto bene tutelato, l’autorizzazione e la supervisione dei lavori sarebbe spettata alla Soprintendenza. E così è stato: l’intervento di restauro è stato finanziato dalla chiesa grazie all’8 per mille e alle donazioni di alcuni residenti di Capalbio (la cifra non è chiara) e autorizzato a novembre 2018 dall’allora Soprintendente, Anna Di Bene, che lo scorso 21 febbraio era stata sospesa dal ministero dei beni Culturali per “gravi motivi di opportunità”: Di Bene infatti è sotto processo a Siena insieme al marito con l’accusa di abuso d’ufficio per un presunto abuso edilizio su una villa ad Ansedonia. Dopo l’autorizzazione dei lavori, la curia vescovile aveva presentato il progetto di restauro lo scorso 2 gennaio. Poi a febbraio sono partiti i lavori alla luce del sole: nei mesi scorsi i funzionari hanno effettuato almeno due sopralluoghi a Capalbio. Dopo le proteste di molti cittadini, il tema è diventato anche oggetto di campagna elettorale visto che nella Piccola Atene della Maremma si torna a votare tra un mese: il candidato della lista “Adesso per Capalbio”, Settimio Bianciardi, ha prima lanciato la petizione “Salviamo la chiesa di San Nicola” e poi presentato un esposto alla Prefettura di Grosseto e al ministero. Il Comune guidato dal sindaco uscente Bellumori intanto ha deciso di sospendere tutti i lavori fino al 7 maggio quando si terrà un sopralluogo congiunto con un funzionario della Soprintendenza, gli architetti che hanno seguito i lavori e un direttore generale del Mibact.

“2070: su Facebook più ‘morti’ che ‘vivi’, il social attira meno”

Entro 50 anni gli utenti morti su Facebook potrebbero superare quelli vivi. Il calcolo è frutto di una ricerca dell’Oxford Internet Institute sulla base di un ipotetico scenario: nel 2100 se il social network non attrarrà più iscritti e quindi non ci sarà un ricambio, almeno 1,4 miliardi di utenti saranno morti. E il 2070 sarebbe l’anno di non ritorno, quello in cui gli utenti morti su Facebook saranno più numerosi di quelli vivi. Attualmente la piattaforma fondata nel 2004 da Zuckerberg ha 2,2 miliardi di utenti e registra una disaffezione da parte dei più giovani ma non un calo vistoso.

Lo studio descrive anche un altro scenario, forse più in linea con la realtà, quello in cui gli utenti continueranno ad aumentare del 13% l’anno: in questo caso ci sarebbero 4,9 miliardi di utenti morti entro il 2100. Gli autori dello studio affermano che “il vero numero quasi certamente è a metà dei due scenari”.

La ricerca riporta all’attenzione l’importanza dell’eredità digitale. Proprio Facebook di recente ha reso noto che userà l’intelligenza artificiale per individuare i profili di persone che sono decedute, così da evitare – ad esempio – di notificare agli amici il giorno del compleanno di chi non c’è più.

Il sarto dei divi e le liti familiari. Un legal thriller in via Palestro

Uno stilista di successo. Un palazzo di prestigio a Milano su cui ha messo gli occhi John Elkann. Una spietata guerra in famiglia. Due grandi studi legali. Il trionfo e infine la caduta. Sono gli ingredienti della storia di Andrea Campagna, figlio di Gianni Campagna, uno degli ultimi sarti italiani noti in tutto il mondo, partito dalla sua Sicilia per conquistare Milano.

Era l’uomo che vestiva Gianni Agnelli ed Enrico Cuccia, Aristotele Onassis e Ranieri di Monaco, oltre ai divi, da Sophia Loren a Sharon Stone, da Gary Cooper a Pierce Brosnan. L’icona del suo successo era palazzo Bernasconi, all’angolo tra corso Venezia e via Palestro, a Milano, su cui campeggiava il marchio delle forbici aperte sormontate dalla C. È morto nel novembre 2017, a 74 anni. I suoi tre figli, Andrea, Angelo e Virginia, si sono combattuti in una guerra feroce per l’eredità. Ne è uscito sconfitto – “per ora”, dice – Andrea, l’unico che lavorava in azienda con il padre. “È ancora pendente un giudizio che potrebbe ribaltare la situazione”. Comunque sia, adesso la vuole raccontare lui, la storia di palazzo Bernasconi, un “trophy asset”, uno degli investimenti immobiliari di maggior prestigio a Milano, dunque in Italia.

“Il culmine del successo di mio padre è arrivato negli anni Novanta. Gianni Campagna vola tra Milano e gli Stati Uniti, veste i divi, è celebrato dalla stampa internazionale”. Compra l’azienda di Caraceni, il sarto che era stato il suo maestro, e a Milano issa le sue insegne su palazzo Bernasconi, 4 mila metri quadrati in cui pone il suo quartier generale.

Con la svolta del millennio, però, il vento gira. “Dopo l’attentato delle Torri gemelle il mercato Usa si chiude”, racconta Andrea. “La crisi si fa sentire pesantemente. Anche perché va molto male la fabbrica che avevamo aperto a Fidenza. In pochi anni, i conti vanno in rosso, il debito aumenta. Ma la situazione resta sotto controllo, perché ci salva il palazzo di via Palestro”.

Viene stipulato un contratto di leasing per 15,5 milioni di euro con il Banco popolare. Una parte del palazzo viene affittata (a Banca Rothschild e al grande studio legale americano Paul Hastings): “Con il ricavato degli affitti paghiamo il leasing della parte che continuiamo a occupare. Va tutto bene fino al 2007. Poi arriva la grande crisi”. Gli inquilini se ne vanno e così due piani del palazzo restano vuoti. Nel 2013 il leasing viene risolto e l’edificio è messo in vendita. “Si fa vivo il socio americano di mio padre, Rick Adams, un personaggio che prima non era mai intervenuto nella società. Ci fa due cause, gestite dal grande studio internazionale Dla Piper, rappresentato in Italia dall’avvocato Federico Sutti. Noi ci facciamo difendere dallo studio Erede Bonelli Pappalardo. La giudice che presiede il collegio, Elena Riva Crugnola, ci dà per due volte ragione”.

Ma intanto la situazione si complica. “Io avevo assunto il ruolo di amministratore delegato della società di famiglia e, viste le difficoltà, avevo cercato di fare tagli e di rendere rigorosa la gestione, anche in famiglia. Risultato: scontento mio fratello e mia sorella. Così succede che l’avvocato Angelo Bonetta, dello studio Erede Bonelli Pappalardo, alle mie spalle si accorda con mio fratello Angelo e mi scarica. Il loro piano è: vendere il palazzo. Il mio, invece, è: continuare l’attività dell’azienda. Mi tolgono la carica di amministratore e le quote della società. La giudice Riva Crugnola comincia a darmi torto. L’avvocato Sutti, che patrocinava il socio americano e che era sempre stato sconfitto in giudizio, intanto è passato a un altro grande studio internazionale, Dentons, il primo al mondo. Ed è proprio Dentons che assume il ruolo di advisor legale per la vendita di palazzo Bernasconi. Il compratore – per 35 milioni, una cifra che io giudico bassa – è la società Merope”.

Merope Asset Management è un club che riunisce più investitori, 18 family office italiani e stranieri, ed è guidato dal genovese Pietro Croce, che controlla il 70 per cento, affiancato da John Elkann (10 per cento attraverso la fiduciaria Fidersel) e dal numero uno di Credit Suisse in Italia, Federico Imbert (con un altro 10 per cento).

Andrea Campagna, sconfitto, continua a sperare che l’ultimo giudizio ancora pendente possa restituirgli le quote della società e capovolgere la sua sorte. Intanto protesta: “I grandi studi legali si sono accordati alle mie spalle per realizzare l’affare milionario della vendita. Poi mi stupisce un fatto: Merope è il nome della società acquirente, ma anche il terzo nome della giudice che prima mi ha dato ragione e poi torto: Elena Maria Merope Riva Crugnola”. Solo un caso curioso, in una storia decisa dai grandi studi legali che chiude per sempre le forbici di Campagna, il sarto dei divi.

 

L’immobile della discordia

Tra via Palestro e corso Venezia

Siciliano, nato nel 1943 a Roccalumera, vicino Taormina, da una famiglia di contadini, Gianni Campagna inizia prestissimo a fare il sarto in paese. Nel 1962 va a Milano in cerca di fortuna. La trova iniziando a lavorare nella sartoria di Domenico Caraceni. Presto si mette in proprio, apre un suo atelier. Poi pone la sua sede nel prestigioso Palazzo Bernasconi, tra via Palestro e corso Venezia. Lì vende abiti fatti a mano che diventano uno dei simboli del made in Italy nel mondo. Tra i suoi clienti Aristotele Onassis, Sophia Loren, Gianni Agnelli, Enrico Cuccia, Gary Cooper, il principe Ranieri, Sharon Stone, Pierce Brosnan e perfino i papi Wojtyla e Bergoglio. Gianni Campagna muore a Milano nel 2017 e la famiglia non riesce a restare unita a lungo. I debiti aumentano, i figli si dividono e si scontrano in una lunga guerra per l’eredità. Il bene più prezioso nelle loro mani resta Palazzo Bernasconi, un “trophy asset”, uno degli investimenti immobiliari di maggior prestigio a Milano, dunque in Italia. Viene conteso con la discesa in campo di grandi studi legali internazionali, tra cui Dentons, e alla fine viene venduto alla Merope Asset Management (Pietro Croce, John Elkann, Federico Imbert)

Cinque Terre, tutto esaurito: torna l’idea del “numero chiuso”

Si torna a parlare di “numero chiuso” per i visitatori delle Cinque Terre dopo il sovraffollamento di turisti che è stato registrato durante le ultime festività di Pasqua e del 25 aprile. In migliaia hanno invaso i borghi e per il 1° maggio la situazione potrebbe ripetersi. E se da un lato hanno contribuito a incrementare l’economia del territorio confermando la grande attrattiva del comprensorio, dall’altro hanno provocato preoccupazione per la congestione di vicoli e piazzette che quest’anno è apparsa maggiore rispetto al passato. Il sindaco di Riomaggiore, Patrizia Pecunia rinnova la richiesta di un confronto istituzionale per prendere “decisioni divenute ormai non più rimandabili: strategia turistica unitaria a livello nazionale, regolamentazione degli accessi tramite prenotazione preventiva – anche connessa alla Cinque Terre Card, priorità e tariffe agevolate per il turista che risiede”. Il presidente della Regione Giovanni Toti ha annunciato un incontro con sindaci e Parco “per programmare interventi che garantiscano al contempo la sicurezza delle persone e la possibilità per i turisti di visitare e godere appieno di un territorio tanto spettacolare quanto delicato”.

Ostia, sindrome Indiana Jones. Aree ‘vergini’ e pochi controlli

Concertone, pic-nic o avventura alla Indiana Jones? Se non vi sentite più così giovani, non siete da “fave e pecorino” e avete amato i film con Harrison Ford, un Primo Maggio a Ostia antica non ve lo toglie nessuno. Basta partire da Roma e seguire il Tevere fino alla “foce”. “Ostium”, appunto, quello che – alla fine del IV secolo a.C., appena caduta l’etrusca Veio – nacque come avamposto militare e si traformò nei secoli in una fondamentale colonia di Roma (fino all’abbandono nel IX secolo d.C.). Un’area di 84 ettari di terra – di cui almeno 15 mila metri quadri di affreschi e mosaici – non ancora scavata del tutto: e infatti basta lasciare i percorsi segnalati sulla mappa che si scoprono edifici dalla destinazione d’uso ignota nei quali sarebbe troppo facile strappare pezzi di mosaici o scrivere sulle pitture pompeiane. Tanto, oltre a non esserci indicazioni, a controllare non c’è nessuno.

Online si legge che “nei luoghi del sito archeologico sono offerti servizi con lo scopo di facilitare e migliorare la fruizione del patrimonio archeologico”. Peccato che, per esempio, molti dei pannelli che dovrebbero raccontare il sito sono illeggibili perché bruciati dal sole o addirittura inesistenti. “Abbiamo 112 pannelli dinamici in arrivo, in italiano e in inglese, che terranno conto delle diverse teorie degli studiosi – spiega la direttrice del Parco archeologico, Mariarosaria Barbera –. Purtroppo è difficile eseguire lavori ordinari con soldi straordinari”.

Nei giorni festivi, la fila per la biglietteria è già lunga intorno alle 10, anche perché allo sportello c’è un solo impiegato. “Abbiamo appena 122 dipendenti tra Ostia, Porto e Isola Sacra – prosegue la direttrice – e consideri che abbiamo anche la competenza in materia ambientale e paesaggistica. Ci sono mattine in cui siamo costretti ad aprire con appena 11/12 persone tra impianti, accesso e controllo”. Numerose sono le iniziative promosse da Barbera e dal suo staff: mostre, spettacoli estivi, iniziative per bambini, rievocazioni storiche, ecc. Eppure la sensazione che si ha è di un’area troppo grande per così poco personale. Non soltanto una volta varcati i tornelli. Esistono due siti sul Parco, uno che fa capo ai Beni culturali in cui le informazioni sono decisamente insufficienti e l’altro che nel nome rimanda soltanto ai biglietti (www.ostiaanticatickets.it). E anche da quest’ultimo, per esempio, è impossibile stampare una mappa e quindi interpretare durata e lunghezza dei cinque percorsi suggeriti. Se non si prenotano per tempo visite guidate, si possono facilmente rimediare guide abusive nel Decumano massimo. Ostia è la rappresentazione reale di come doveva svolgersi la vita in quei secoli. Nelle Terme di Nettuno, il primo grande complesso semi-visitabile una volta superata la Porta Romana, sono ancora presenti i mosaici pavimentali, ma ammirarli è impresa ardua: molti sono coperti. In altri i teloni sono stati strappati dal vento e dalle intemperie. “Li copriamo cinque mesi l’anno, per salvarli dalle piogge, e poi nei lunedì di bel tempo man mano tiriamo via tutto – spiega Barbera –. Il rischio vandali? I custodi sono 52 e abbiamo un impianto di sorveglianza perimetrale, ci stiamo attrezzando per le telecamere. Il problema non sono tanto i soldi che non arrivano (per questo proviamo a richiedere i finanziamenti straordinari). Il problema è che non si fanno concorsi: fino al 28 dicembre scorso, da 10 anni, Ostia non ha avuto un funzionario restauratore, oggi ne abbiamo due. C’è un solo geometra che va in pensione il primo agosto, mancano tecnici, restauratori, fotografi, assistenti di scavo, periti agronomi. Eppure ce la mettiamo tutta: almeno l’erba è tagliata”. Le “case decorate” sono accessibili solo su appuntamento, mentre i moderni laboratori all’ingresso del Piccolo Mercato sono in totale abbandono. Nel Parco esiste un solo blocco di servizi igienici, ma non importa: dopo la visita al Thermopolium, al Mulino di Silvano e al Capitolium, sulla via del ritorno non resta che passare oltre l’area inibita dai lavori e ammirare l’opus sectile policromo nei pressi della sede degli Augustali. “Siamo ottimisti – conclude la direttrice – almeno con le piogge quest’inverno Ostia non si è allagata”.

“Consigli” del giudice all’indagato Lucano: pratica in vista al Csm

La prima Commissione del Csm ha chiesto al Comitato di presidenza di aprire una pratica sul giudice della Corte di appello di Catanzaro Emilio Sirianni, che – secondo quanto ha scritto il Giornale – avrebbe dato consigli (come quello di non parlare al telefono) al sindaco di Riace (Reggio Calabria) Mimmo Lucano relativi all’inchiesta della Procura di Locri terminata con il rinvio a giudizio del primo cittadino e di altre 26 persone per associazione a delinquere, truffa, corruzione e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Secondo il quotidiano il magistrato è stato intercettato ripetutamente mentre parla o si scambia messaggi e mail con l’ex sindaco ed è stato messo sotto inchiesta per favoreggiamento dalla procura di Locri che alla fine ha chiesto di archiviare l’indagine. Ma nello stesso provvedimento la procura avrebbe definito il comportamento del collega, in base a quanto scrive il Giornale, “poco consono a una persona appartenente all’ordinamento giudiziario, la quale peraltro era consapevole di parlare con una persona indagata”.

Spot sul “corridoio” e multe a chi non accoglie

I corridoi umanitari sono una buona pratica, ma soltanto per pochi. L’arrivo dei 147 rifugiati all’aeroporto romano di Pratica di Mare ieri, poco prima delle 19, è stato accolto come un trionfo dal ministro degli Interni: “Visto? Porte spalancate a chi fugge dalla guerra. È così che si arriva in Italia, non con i barconi”, ha commentato Matteo Salvini, costretto a saltare la passerella mediatica per ‘sopravvenuti impegni’. In realtà i migranti (originari di Eritrea, Etiopia, Somalia, Sudan e Siria, ossia le nazionalità che hanno la possibilità di accedere allo status di rifugiato; per subsahariani, maghrebini e asiatici il percorso è molto più complesso) arrivati in Italia con un volo da Misurata non sono i primi e non saranno gli ultimi a godere di questa forma diretta di accoglienza coordinata dall’Alto Commissariato per i Rifugiati (Unhcr) in collaborazione con la nostra Ambasciata a Tripoli. Salvini, inoltre, mastica amaro dopo la strategica invasione di campo da parte del Movimento 5 Stelle proprio sul tema dei migranti.

I partner di governo della Lega presenteranno nei prossimi giorni una proposta per il rimpatrio di 500 mila migranti irregolari in Italia. La campagna elettorale per le Europee del 26 maggio prossimo è iniziata e la sfida tra M5S e Lega parte dalle cifre, dopo il ridimensionamento del numero di irregolari nel nostro Paese da parte del leader del Carroccio, da mezzo milione, appunto, a 90mila. Altro motivo di frizione, la proposta di Luigi Di Maio di fissare delle sanzioni per chi non accetta quote di richiedenti asilo nel proprio Paese. Viktor Orban, presidente ungherese e grande amico di Salvini, e gli altri del Gruppo di Visegràd (Polonia, Repubblica ceca e Slovacchia), non saranno certo felici. Tra le proposte dei Pentastellati, infine, proprio i Corridoi Umanitari. Un percorso utilizzato in molti crisi umanitarie, non ultima la Siria, grazie all’opera della Comunità di Sant’Egidio, la prima ad organizzare voli dal Libano per l’Italia che hanno consentito di dare una nuova speranza a centinaia di profughi.

In Libia l’Unhcr lavora all’interno dei Centri di detenzione gestiti dal ministero per il Contrasto all’Immigrazione Clandestina (Dcim) anche per selezionare soggetti ritenuti fragili in forma prioritaria. Lo faceva col governo precedente, quando il terminale per la Libia era Marco Minniti, e continua a farlo ora. Con risultati e mantenendo buoni rapporti col nostro Paese: “Quello di oggi (ieri, ndr) – ha affermato Federico Fossi dell’Unhcr – più che un corridoio umanitario tecnicamente è stata una evacuazione di emergenza, visti i tempi rapidi. Questo grazie alla collaborazione dell’Italia, sperando che altri paesi si comportino allo stesso modo”. Numeri alla mano, tuttavia, stiamo parlando di un sistema da considerare una sorta di palliativo. Nel 2018 i migranti trasferiti nel nostro Paese sono stati 415 su un totale di 1.900 portati via dalla Libia. Nulla a fronte di una stima che vuole un esercito di circa 700 mila disperati pronti a sfidare il mare e le motovedette libiche per arrivare sulle nostre coste. Discorso analogo va fatto per i Rimpatri Volontari, ennesima misura emergenziale di cui si occupa un’altra agenzia dell’Onu, l’Oim. Analoga la mission, evacuare migranti dall’inferno dei lager della Tripolitania, diverso il risultato: chi accetta di entrare nel programma non raggiunge la terra promessa, ma fa ritorno nel Paese d’origine, salvandosi la vita, condividendo tuttavia una sconfitta. I numeri, in questo caso, sono superiori ai Corridoi Umanitari, ma pur sempre insufficienti a coprire l’emergenza. Per la cronaca, i 147 migranti, 68 dei quali minori, sono stati accolti in strutture divise tra otto province italiane in Lazio, Abruzzo, Campania, Molise ed Emilia Romagna.